La preghiera è mettersi alla presenza di Dio

La preghiera ci fa vedere l’uomo in ginocchio, nell’attitudine del più profondo rispetto, del riconoscimento della sua piccolezza davanti alla santità e grandezza infinita del Signore. Ma al tempo stesso innalza l’uomo al di sopra di tutto il creato, fino a giungere alla presenza di Dio. Nella preghiera si esprime tutto il desiderio di giungere ad incontrare il Dio tre volte Santo faccia a faccia, mettendosi alla sua presenza, dimostrando di credere che non stiamo parlando da soli, ma nella profonda consapevolezza che egli è lì, ci ascolta e che noi, se ci mettiamo nelle dovute disposizioni, possiamo ascoltare la sua voce che parla al nostro cuore. Perciò il primo atteggiamento della preghiera è un porsi dinanzi al Signore, senza fare e dire nulla, semplicemente stare lì e avvertire la presenza di Dio. La preghiera esige la mia totale presenza davanti a Dio in modo tale che egli possa prendere possesso di me. Ed egli lo vuole; questo è il punto fondamentale della preghiera. E questo permetterà a ciascuno di noi di fare la stessa esperienza che fece Mosè con Dio sul monte Oreb. Tale esperienza costituisce uno degli episodi più impressionanti della Sacra Scrittura: alla vista del roveto che ardeva senza consumarsi, Mosè fu preso dalla curiosità. Ma Dio gli disse: "Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!" (Es 3,5). Come Mosè, anche l’orante deve avere questa consapevolezza; quella, cioè, di essere alla presenza del Signore. La mente umana, però, è per sua natura irrequieta come il vento, in continuo movimento dal passato al futuro, dai ricordi alle immagini, dalle immagini ai progetti, a volte con logica, ma quasi sempre senza logica. È incapace di stare fissa anche per pochi secondi su un oggetto. Invece, tutto in noi deve tacere. Trovarsi alla presenza di Dio dovrebbe far nascere nell’orante un grande senso di stupore: "L’uomo si ‘stupisce’ quando s’imbatte in un fenomeno che fino ad allora non gli era mai capitato, che gli risulta inconsueto, strano e nuovo, di cui non può che chiedersi il significato e la provenienza. Ma di fronte alla realtà cristiana, lo stupore non è un fatto passeggero. L’esistenza del cristiano non è mai dispensata dallo stupore" (L. Bouis, I presupposti della preghiera cristiana, in "Concilium" 9(1972), 73). L’orante si stupisce proprio come un bimbo dinanzi ad un fiore... e, come questo, non trova parole di ammirazione. Allora, proprio "nello stupore il cristiano apre la sua anima a Dio...". Così scrive Isacco di Ninive, padre della Chiesa del VII secolo, afferma: "Quando nella preghiera ti metti davanti a Dio, il tuo pensiero diventi semplice come quello di un bimbo che non sa parlare; non pronunciare davanti a Dio parole sapienti; avvicinati a lui con pensiero ingenuo..." (in La filocalia, 267,117). Possiamo sentire riecheggiare le parole di Gesù: "Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, clic hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto..." (Lc 10,21). Questo indipendentemente da tutto ciò che possiamo sentire o non sentire sensibilmente: dai nostri meriti, dalla nostra preparazione, dalla nostra capacità o meno di formulare bei pensieri e qualsiasi nostra situazione interiore. Dio è là, proprio accanto a noi, ci guarda e ci ama. Egli è là, non perché siamo meritevoli della sua presenza o perché siamo buoni e belli, ma perché l’ha promesso (cf. Mt 6,6), ed egli è un Dio fedele. È implicito che bisogna mettere in pratica la fede, ricevuta in dono nel battesimo; credere cioè che, ancor prima di mettersi alla sua presenza, egli è già là, perché è lui che ci invita ad incontrarlo; egli che è nostro Padre ci attende e, molto più di quanto noi stessi facciamo, cerca di entrare in comunione con noi.

La preghiera è innanzitutto un lasciarsi permeare dalla divina presenza. Ricordiamo la risposta di quel contadino a cui il Santo Curato d’Ars, Jean Viannen, gli chiese cosa facesse da solo seduto in chiesa: "Io guardo lui e lui guarda me". Allora il Santo Curato d’Ars coniugò l’espressione sintetica, ma profondissima: "Pregare è un lasciarsi guardare da Dio". Volendo usare un’immagine, si potrebbe dire che, come ci si espone al sole per abbronzarsi - e per raggiungere questo scopo sappiamo che bisogna stare immobili, fermi e pazienti aspettando che i raggi ci raggiungano e producano il loro effetto - così nella preghiera dobbiamo esporci al "sole di giustizia" che è Dio e dargli la possibilità di raggiungerci. Il passo che dobbiamo fare è semplicemente stare lì, guardando a Dio con amore e ammirazione.

"L’essenziale della preghiera non sta nel molto pensare, ma nel molto amare" (Teresa D’Avila, Castello interiore, 1,7). Charles De Focauld ripete lo stesso concetto quando definisce la preghiera principalmente come: "Un guardare Dio, amandolo" (Lettera a Mine de Bondy, 7 aprile 1890, in Y. Congar, Credo nello Spirito Santo, Queriniana, Brescia 1982, VoI. Il, 127). "Questo semplice sguardo è il dono di rimanere in Dio in preghiera. È preghiera di poche o nessuna parola, è un amare, un desiderare con nostalgia [...] rimanendo in lui, respirando in lui" (R. Faricy, Colui clic prega, Ancora, Milano 19802, 223). Primo avvio della preghiera è l’atteggiamento di un cuore che tace. Credo che la difficoltà prima della preghiera non è quella di non sapere che cosa chiedere, ma di non riuscire a tacere davvero per poter ascoltare e ricevere. Pertanto, se il primo atteggiamento della preghiera è un porsi dinanzi, una "statio", dovremmo concludere che la cosa più importante importante è l’ascolto, come per Samuele: "Parla, o Signore, il tuo servo ti ascolta" (1Sam 3,9). Allora il Signore rivelerà i suoi profondi segreti: "Non lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole" (1Sam 3,19). Il filosofo Sòren Kierkegaard, nel suo Diario, ha scritto: "Pregare non vuol dire ascoltarsi mentre si parla; pregare significa invece mettersi e stare in silenzio, aspettando, finché l’orante non ode Dio" (S. Kierkegaard, Diario, VII, A 50; cf. J. Stemmetz, Preghiera, in "Dizionario di Pastorale", a cura di Rahner-Goffi, Queriniana, Brescia, 234).

Per mettersi alla presenza di Dio, l’orante si può aiutare servendosi anche di oggetti come una croce, una candela oppure un‘icona... Noi abbiamo bisogno di segni sensibili: per questo "il Verbo si fece carne" (Gv 1,14), ed avremmo grandemente torto a disprezzare queste cose e a non utilizzare questi oggetti se ci aiutano all’incontro con Dio. Quando la preghiera diventa difficile, infatti, uno sguardo posato su un’icona o sulla fiamma di una candela può rimetterci alla presenza del Signore. Oggi più che mai, in Occidente come in Oriente, le icone stanno assumendo una notevole importanza. Si avverte soprattutto la necessità di riuscire a mettersi alla presenza di Dio, non importa il mezzo. Questo sarà utile nella misura in cui riuscirà a farci raggiungere il fine per cui viene utilizzato.