Capitolo Primo

 

PER UNA TEOLOGIA DELLA PREGHIERA

 

I Padri della Chiesa hanno scritto moltissimo sulla preghiera e di essa si sono date molte definizioni. In questa sede non si ha la pretesa di darne altre, ma ci si limiterà a tirare fuori dallo scrigno "cose nuove e cose antiche" (Mt 13,52). Un rischio potrebbe essere quello di ripetere pedissequamente cose già dette dai Padri, dai teologi, dai mistici, dai moralisti e dai biblisti. Si cercherà quindi di essere sintetici. La preghiera è il momento fondamentale e l’espressione privilegiata del nostro rapporto con Dio. E’ il luogo dove è possibile per l’uomo incontrare il suo Signore, ed è condizione necessaria per questo incontro! "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18,20). Ancora, la preghiera è strumento indispensabile per la vita spirituale di ogni credente, e può essere definita come il respiro dell’anima in Dio. Da questa definizione comprendiamo subito la funzione vitale della preghiera. Chi non respirare, e chi respira poco - stentatamente, saltuariamente -intisichisce; soltanto respirando bene, profondamente e continuamente, si ha una vita degna di questo nome. Il card. Michele Pellegrino afferma: "Un mondo senza preghiera è una camera a gas, poiché manca l’ossigeno; non si può che rimanere asfissiati. Pregare è respirare. Perché io respiro? Perché altrimenti morirei; lo stesso vale per la preghiera" (M. Pellegrino, Pregare o agire?, Elle Dici, Leumann (Torino) 1973,21).

Come una buona capacità respiratoria è necessaria per il sano funzionamento di tutti gli organi del corpo, soprattutto se si vogliono ottenere elevate prestazione atletiche, cosi una forte volontà di preghiera lo è per l’anima. Ecco il motivo del nostro fallimento nella vita spirituale, della nostra debolezza, del nostro ricadere continuamente nelle stesse colpe; se andassimo alla radice di tutto ciò, troveremo proprio una mancanza di preghiera. Giovanni Paolo II, parlando della necessità della preghiera, nell’udienza generale del 9 settembre 1992, ha fatto notare che "il cristiano sa che la preghiera gli è necessaria come il respiro e, una volta gustata la dolcezza del colloquio intimo con Dio, non esita ad immergersi in esso con fiducioso abbandono..." (Udienza generale del 9 settembre 1992, in Insegnamenti di Giovanni Paolo Il, XV, L.E.V., 1992, voI. II).

Giovanni Crisostomo afferma: "Nulla è più potente della preghiera, nulla le si può paragonare" (Giovanni Crisostomo, Contra Anomoeos, VII, PG 48, 766). Sant’Alfonso Maria De’ Liguori, dottore e moralista della Chiesa, oltre che missionario nell’Italia del ‘700, tutte le volte che saliva su un pulpito ribatteva, come un ritornello, su questo tema: "Chi prega, certamente si salva; chi non prega certamente si danna" (Del gran mezzo della preghiera, in Catechismo della Chiesa Cattolica, 2774). E aggiungiamo che chi prega bene, e continuamente, si santifica, giunge veramente a quell’unione con Dio che già in terra è preludio a quella che sarà in paradiso. Pregare è raccogliersi in se stessi e inabissare la propria anima nell’infinito che è Dio. Quando si prega, si entra in maniera più consapevole in relazione con Dio e quindi in comunione con le divine persone che già vivono in noi. "Il cristiano non prega un Dio, il cristiano prega in Dio. Il cristiano non sta davanti a Dio come uno straniero. Il cristiano, quando prega, entra nel mistero stesso di Dio. Si lascia avvolgere dal mistero della Trinità Santa" (B. Forte, Aspetti teologici della preghiera, in Riboldi-Martini-Forte, Signore insegnaci a pregare. Interventi sulla lectio divina, Paolìne, Milano 1988, 19. cf. B. Forte., Nella memoria del Salvatore, Paoline, Roma 1992, 255).

Possiamo asserire che, quando il cristiano prega, ritorna alla sua origine. È fondamentale per ogni uomo conoscere le proprie radici; senza di esse saremmo persone senza volto e prive di identità. Ognuno di noi infatti è alla ricerca di una patria, di un porto dove approdare. Pertanto la preghiera può essere definita come un ritorno a questa "patria": alle nostre origini. Dio è la nostra origine, la nostra patria. Quando preghiamo, siamo in Dio come un bimbo nel grembo di sua madre. "In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" (At 17,28a). Il filosofo esistenzialista Martin Heidegger definisce l’uomo "un essere per la morte"; credo, invece, che sia "un essere in tensione per (verso) la patria". L’uomo è in un cammino esodale, in tensione quindi verso la vera patria che "non è di questo mondo" (cf. Gv 17,14); "egli è concittadino dei santi" (cf. Ef 2,19). "la sua patria è nei cieli" (cf. Fil 3,20). La Lettera a Diogneto (prima metà del IL secolo), testimonia che questa concezione era già diffusa agli albori del Cristianesimo: "I cristiani sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo"(A Diogneto, V, 8-9, in I Padri Apostolici, Città Nuova, Roma 1989, 356).

Agostino, con una sola frase, esprime magnificamente questa realtà: "Hai fatto il nostro cuore per te, ed inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te" (Confessioni, 1,1: edizione a cura di A. Landi, Paoline, Milano 19874, 33). Perciò possiamo affermare che ogni volta che l’uomo prega, in un certo senso, ritorna alla sua origine; realizza inoltre il ritorno della creatura esiliata verso il seno del suo Creatore, il ritorno di Adamo nel paradiso. La preghiera, per sua natura, rappresenta un ritorno a Dio, e quindi vera conversione. Dio, che un tempo aveva privato Adamo della sua presenza, ora lo chiama senza sosta, "tutto il giorno"; a entrare di nuovo alla sua presenza e a restare con lui. L’uomo ha in sé il desiderio ditale ritorno, basti pensare a figure epiche come quella di Ulisse ed il suo drammatico pellegrinare verso la sua patria, Itaca. Dante lo pone nell’inferno proprio come simbolo della continua ricerca da parte della sola intelligenza.

Il ritorno del cristiano però non è senza speranza perché andiamo verso "un nuovo cielo e una terra nuova" (Ap 21,1). Ci attende una continua novità: la terra promessa. Il tempo dello stupore non finisce mai. "Verso questa ‘patria trinitaria’ è in marcia l’uomo sulla terra e il popolo di Dio nella storia: essa è la meta più grande (...), essa è l’oltre, che ricorda agli uomini la loro condizione di pellegrini nell’amore, ‘in via et patria’, e li stimola ad essere perenni viandanti..." (B. Forte, Trinità come storia, Paoline, Roma l9884, 210).

Nella preghiera, l’uomo si scopre, di fronte alla santità di Dio, "povero e pellegrino" e fa l’esperienza del profeta Isaia: "Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti" (Is 6,5). Jurgen Moltmann, uno dei più grandi teologi evangelici dei nostri tempi, ha un’espressione che sintetizza l’esperienza di Isaia: "Gli uomini si distinguono gli uni dagli altri nel possesso ma sono tutti solidali nella povertà" (in Il "Dio crocifisso". Il problema moderno di Dio e la storia trinitaria di Dio, in Concilium 6 (1972), 36). Il denominatore comune è la povertà. Pellegrino appunto perché in esodo, in tensione verso la patria.

La preghiera è inoltre come un poliedro che possiamo osservare da più angolature. Vediamone qualcuna: e dono gratuito di Dio; è mettersi alla sua presenza; è un dialogo con Dio; è giungere a incontrarlo.