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Samir Amin

Oltre il capitalismo senile

 

 

Capitolo II

Gli strumenti d'analisi e d'azione

 

 

 

Il marxismo e il keynesismo storici

 

Non deve stupire il fatto che le figure di Marx e Keynes abbiano dominato la riflessione sociale della maggior parte del:XX secolo. La formulazione di progetti societari (nel senso pieno del termine) che fornissero un quadro di riferimento alle strategie di sviluppo realizzate rappresentava una preoccupazione generale, inaugurata ad Est dalla rivoluzione russa e che in Occidente imponeva il welfare state della socialdemocrazia, come risposta al "pericolo comunista" favorito nel Sud dalle vittorie dei movimenti di liberazione nazionale. Bisognava dunque disporre di strumenti teorici adatti all'analisi del sistema su cui veniva esercitata la critica sociale da parte dei diversi gruppi (comunisti, socialdemocratici, populisti nazionalisti). Partendo dall'analisi, era necessario mobilitare questa strumentazione teorica per formulare strategie di sviluppo adeguate (cioè coerenti con gli scopi dei progetti societari in questione) ed efficaci (come sono state per un certo periodo, come nella storia succede nel migliore dei casi). Marx e Keynes fornivano questi strumenti.

 

Marx ha gettato le basi di una critica radicale del capitalismo. Nel senso che ha messo in evidenza i caratteri specifici essenziali che lo distinguono dai sistemi sociali precedenti, condizione necessaria per comprenderne la dinamica peculiare, la capacità di superare le contraddizioni che lo attraversano.

Non che queste contraddizioni si riducano progressivamente, poiché, al contrario, nella misura in cui il sistema capitalistico si sviluppa, queste aumentano di ampiezza e di violenza. Tanto che il capitalismo apparirebbe una tappa della storia dell'umanità in grado di mettere  in pericolo l'esistenza della specie stessa. Esso deve essere superato e in qualche modo lo sarà. Non tornerò qui sulla mia lettura di Marx riguardo a tali questioni fondamentali. Mi limito a ricordare due dimensioni che mi sembrano essenziali per la comprensione delle sfide contemporanee.

La prima riguarda la scoperta marxiana dell'alienazione mercantile come forma specifica, e del tutto nuova, che regola la riproduzione della società nel suo insieme (e non soltanto la riproduzione del suo sistema economico). Questa specificità spiega a sua volta perché nel capitalismo l'economia si erga a "scienza", ovvero perché le leggi che ne regolano il movimento s'impongono alle società moderne (e agli esseri umani che le costituiscono) "come leggi naturali". In altre parole, si tratta della cancellazione dalla coscienza sociale del fatto che queste leggi siano il prodotto non di una natura trans-storica (quella che definirebbe "l'essere umano' di fronte alla sfida della "rarità"), ma di una natura storica particolare (dei rapporti sociali specifici propri del capitalismo). Tale è secondo me la definizione di Marx di "economicismo", caratteristica tipica del capitalismo.

La seconda dimensione riguarda il movimento di questa società di cui Marx mette in evidenza l'instabilità immanente: la riproduzione del suo sistema economico non tende mai alla realizzazione di un equilibrio generale come che sia, ma si sposta di squilibrio in squilibrio, in modo imprevedibile. Di questa dinamica si può rendere conto a posteriori; essa non può mai essere definita in anticipo. La "concorrenza" fra i capitali, la cui parcellizzazione definisce il capitalismo, elude la possibilità di giungere a un equilibrio generale e rende illusoria ogni analisi fondata su una pretesa tendenza in quel senso.

Il capitalismo è sinonimo di instabilità permanente. L'articolazione fra le logiche prodotte da questa concorrenza di capitali e quelle che si esplicano attraverso l'evoluzione dei rapporti sociali di forza (fra i capitalisti, fra questi e le classi dominate e sfruttate, fra gli stati che compongono il capitalismo come sistema mondiale) spiega a posteriori il movimento del sistema che si sposta da uno squilibrio all'altro. In questo senso il capitalismo non esiste al di fuori della lotta di classe, del conflitto fra stati, della politica. L'idea che esista una logica economica (che la scienza economica permetterebbe di scoprire) che regoli lo sviluppo del capitalismo, è un'illusione. Non esiste alcuna teoria del capitalismo distinta dalla sua storia.Teoria e storia sono indissolubili, come lo sono economia e politica. Ho indicato queste due dimensioni della critica radicale di Marx perché sono esattamente le due dimensioni della realtà che il pensiero borghese ignora.

Questo pensiero è di fatto economicista fin dalle sue origini, all'epoca dell'illuminismo. La "Ragione" che invoca attribuisce al sistema capitalistico, che prende il posto dell'Ancien regime, una legittimità trans-storica e ne fa "la fine della storia". Successivamente, questa originaria alienazione economicista si è accentuata, proprio nel tentativo di rispondere a Marx. L'economia pura, a partire da Valras, esprime l'irrigidimento economicista del pensiero sociale borghese. All'analisi del funzionamento reale del capitalismo viene sostituito il mito del mercato autoregolatore che, per sua logica interna, tenderebbe alla realizzazione di un equilibrio generale. L'instabilità non è più concepita come fenomeno immanente a questa logica, ma come prodotto dell'imperfezione dei mercati reali. L'economia diventa così un discorso che non si preoccupa più di conoscere la realtà; la sua unica funzione è quella di legittimare il capitalismo attribuendogli qualità intrinseche che non può avere. L'economia pura diventa la teoria di un mondo immaginario.

Su questo piano fondamentale la critica radicale di Marx resta, a mio parere, insuperata e insuperabile finché il sistema sociale resterà fondato sui rapporti sociali che defIniscono il capitalismo. Al contrario, le analisi che riguardano le contraddizioni del sistema avrebbero meritato uno sviluppo alla luce dell'evoluzione storica, proprio secondo il metodo preconizzato da Marx, che non dissocia mai la teoria dalla storia. E' dunque necessario uscire dal campo dell'economia politica del modo di produzione capitalistico per entrare in quello, più ampio, del materialismo storico.

Bisogna cioè considerare il capitalismo nella sua dimensione di realtà mondiale, e non ridurlo al modo di produzione capitalistico esteso su tutto il pianeta. In altri termini, bisogna articolare le contraddizioni sociali caratteristiche di ciascun elemento del sistema mondiale (i centri, le periferie) e dei loro rapporti reciproci, uscendo dalle forche caudine di una visione eurocentrica della storia e dell'espansione capitalistica.

Marx aveva avviato questo tipo di riflessioni, con tutta la ricchezza e la finezza di pensiero che gli si conosce. Proprio tali riflessioni liberano Marx dall'accusa di aver condiviso con il suo tempo l'eurocentrismo sistematico caratteristico del pensiero borghese; anche se le esitazioni di questi primi sviluppi del materialismo storico permettono di riconoscere in alcuni casi il persistere dell'influenza dell'eurocentrismo in questione.

Purtroppo, dopo Marx, queste riflessioni non sono state sviluppate. Al contrario, il marxismo storico costituitosi nel movimento operaio europeo dell'Internazionale, dalla fine del XIX secolo al 1914, le ha abbandonate e ha adottato una vulgata eurocentrica che assimila l'espansione mondiale del capitalismo all'universalizzazione del modo di produzione capitalistico. Questa semplificazione elimina dal campo d'analisi il fenomeno più gigantesco che caratterizza fm dalle origini la globalizzazione reale del capitale: la polarizzazione immanente, cioè la contraddizione crescente fra centri e periferie. Le prime forme del marxismo storico trasformano  questo aspetto in dottrina di legittimazione del social-imperialismo.

Le tesi di Bill Warren e della New Left Review britannica si inquadrano in questa tradizione, molto forte in Inghiltena, di penetrazione dell'ideologia dell'imperialismo nel movimento operaio.

La tesi di Marx, dedotta dalla sua scoperta fondamentale che faceva del capitalismo una fase storica e non la fine della storia, ovvero la necessità oggettiva del suo superamento con la costruzione del comunismo, merita a sua volta una precisazione. La mia lettura di Marx non è quella di un teorico del determinismo storico. Le contraddizioni tipiche di ogni sistema sociale devono venire superate in qualche modo, e questo rivela il carattere storico del sistema in questione. Ma possono essere superate secondo modalità diverse, il che a sua volta atttibuisce al sistema successivo caratteristiche propie. Il comunismo appare allora come una delle soluzioni possibili alle contraddizioni proprie del capitalismo. Possibile poiché l'accumulazione capitalistica ne crea le basi materiali sviluppando prodigiosamente le forze produttive  in termini reali e, ancora di più, potenziali. Oggi questa possibilità dovrebbe apparire con più evidenza rispetto all'epoca di Marx. Beninteso, per comunismo bisogna intendere un progetto definibile solo in termini ampi e negativi ("il contrario del capitalismo"), cioè come progetto di liberazione dall'alienazione economicista, tipica del capitalismo, e di uguaglianza fra gli esseri umani (resa possibile dallo sviluppo delle forze produttive).

Spingersi oltre, definire positivamente le strutture e i meccanismi, significa ricadere in quell'utopia che Marx giustamente criticava, perché significa non considerare la  costruzione del comunismo attraverso il movimento della società. Questa  costruzione può avvenire solo in tempi lunghi che non possono esser ridotti da un volontarismo dirigistico. Se non altro perché, fra l'altro, la  realizzazione di tale processo su scala mondiale richiede l'annullamento della gigantesca polarizzazione della ricchezza creata dal capitalismo. Se inoltre si definisce lo sviluppo come progetto sociale che realizza l'annullamento della polarizzazione capitalistica, si può immaginare che si tratti di una sfida che coinvolge una buona parte del XXI secolo, se non oltre.

Il comunismo è dunque una possibilità. Ma non è l'unica. L'autodistruzione della società umana, con il continuo aggravarsi dell'alienazione mercantile, il declino (e non lo sviluppo) della democrazia, l'accentuarsi (e non il ridursi) delle diseguaglianze sociali su scala locale e su scala mondiale, non è impossibile. La mia lettura di Marx e la tesi che ne ho dedotto della "sotto determinazione" nella storia (come autonomia delle logiche delle diverse istanze che costituiscono la realtà sociale) sottolineano la diversità degli sbocchi possibili. La scelta di un'alternativa auspicabile, il comunismo, non esclude l'azione strategica deliberata per condurre le logiche particolari a convergere progressivamente nel senso di questa costruzione. La presuppone, in un certo senso. Dunque la storia del XX secolo si è trovata di fronte a questa sfida: l'inizio di una rivoluzione che si propone la costruzione del comunismo su scala mondiale a partire dalle periferie del sistema (la Russia, poi la Cina). Fenomeni che erano tutti prevedibili, o avrebbero dovuto esserlo e confermano ciò che Marx aveva detto o ciò di cui aveva cominciato a sviluppare l'analisi. Ma sono tutti fenomeni per i quali il marxismo storico non aveva preparato gli spiriti.

La contraddizione fra centri e periferie rappresenta di fatto la contraddizione principale nel sistema capitalistico mondiale realmente esistente. Sottolineo "contraddizione principale", poiché la contraddizione fondamentale è quella che oppone il capitale al lavoro, il cui rapporto definisce il modo di produzione capitalistico che domina il complesso del sistema. Ma ogni contraddizione fondamentale si manifesta attraverso contraddizioni principali che costituiscono la forma concreta della sua manifestazione. La mia tesi è che la polarizzazione su scala mondiale rappresenta la manifestazione permanente più violenta della storia dell'espansione del capitalismo. Ne risulta, e lo si può constatare, che i tentativi più radicali di mettere in discussione l'ordine capitalistico si sono sviluppati finora sulla base d'imponenti movimenti sociali sorti nelle periferie del sistema (la rivoluzione russa e quella cinese). Eliminati dal marxismo storico precedente il 1914, i problemi posti da questa dimensione dominante della realtà del capitalismo hanno aperto un capitolo nuovo nello sviluppo del marxismo storico.

Le rivoluzioni radicali del XX secolo, fatte in nome del socialismo e sotto la bandiera del marxismo (o più esattamente del marxismo-leninismo, forma storica del primo) hanno dovuto affrontare due compiti: "recuperare" in qualche modo, con uno sviluppo accelerato delle forze produttive, partendo da un'eredità di capitalismo periferico vittima della polarizzazione, e "fare altro" (ciò che si è chiamato la costruzione del socialismo). Dopo la seconda guerra mondiale, i poteri sorti dai movimenti di liberazione nazionale nelle periferie del sistema hanno dovuto affrontare compiti della stessa natura, anche se la preoccupazione di "fare altro" è stata notevolmente attenuata dalla natura dei blocchi sociali dominanti. Due compiti in ogni caso difficili da conciliare, anche se la sfida reale era e resta appunto la sua realizzazione. Nei fatti, e senza tornare qui all'analisi del loro sviluppo, si è progressivamente inventato un sistema che ha dato il suo contenuto al marxismo storico di questa seconda tappa. Questo sistema si è progressivamente ridotto all'abolizione della proprietà privata del capitale e della terra (abolendo così una delle caratteristiche  principali del capitalismo) e all'attuazione dei mezzi per uno sviluppo accelerato delle forze produttive che tale abolizione permetteva. 

La pianificazione centralizzata, che riassume essenzialmente questi mezzi, poteva già mettere in atto, con un certo grado di efficacia, il concetto di equilibrio generale. Un concetto che, paradossalmente, non ha alcun senso per l'analisi del capitalismo, ma in questo contesto diventa invece pratico, reale e utile. Tuttavia, a mio parere, l'efficacia dello strumento è sempre stata soltanto relativa, giacché, come ricordavo in precedenza, lo sviluppo del sistema reale non è il prodotto di "leggi economiche oggettive", dominate in questo caso mediante la proprietà pubblica dei mezzi di produzione, ma deriva dall'articolazione fra le esigenze messe in evidenza da queste leggi e gli interventi delle forze sociali in risposta alle sfide poste da tali leggi.

Il sistema in questione era fondato su una notevole riduzione teorica che assimilava l'abolizione della proprietà privata all'istituzione della proprietà sociale, dimenticando che questa non può essere altro che il prodotto progressivo di una liberazione dei cittadini che diventano i padroni reali del sistema; cittadini che esplicitano ad ogni livello, da quello locale minimo a quello dello stato, capacità di gestione, di scelta, di decisioni perfettamente e autenticamente libere. Necessariamente, la gestione del sistema da parte di una partito-stato unico, legittimato dalla sua origine in quanto avanguardia, annullava le capacità inventive utili alla costruzione del comunismo. Questo degrado ha fatto evolvere il sistema in questione in una direzione che ha svuotato la democrazia (una presenza, talvolta molto importante, nel momento rivoluzionario di questa storia) di ogni contenuto reale e ha fatto perdere la legittimità originaria alle forme dispotiche ("burocratiche" o "tecnocratiche" sono termini che esprimono qui solo una approssimazione parziale del fenomeno) del potere che alimentava. In questo senso credo che l'evoluzione in questione

non abbia permesso un reale progresso nella liberazione dall'alienazione economicista necessaria per avanzare giùstificativamente in direzione del comunismo. Ho allora definito quello che si costruiva allora come un "capitalismo senza capitalisti". Il marxismo storico era diventato l'ideologia che legittimava questa costruzione (e in particolare la pianificazione centralizzata che la faceva avanzare) e nient'altro.

I risultati materiali di questa tappa, una pagina che la storia oggi ha già voltato, non sono di certo trascurabili. Sono al contrario considerevoli, rispetto a quelli ottenuti in tutte le società della periferia rimaste nell'orbita del capitalismo "classico". Sul piano dei risultati educativi e sanitari, o di una diminuzione delle ineguaglianze, il confronto non lascia dubbi: si considerino la Cina e l'India, Cuba e l'America Latina, la Jugoslavia di Tito e quella fra le due guerre, l'Urss e l'antico impero zarista; è sufficiente considerare i risultati ottenuti da quei regimi a confronto con le successive devastazioni della "restaurazione del capitalismo" (preferisco definire il processo di accelerazione dell'evoluzione dei sistemi in questione con la formula di "capitalismo senza capitalisti", anziché quella classica di "capitalismo con capitalisti").

E' in questo modo che la figura di Marx, negli abiti del marxismo storico qui accennato  ha dominato la storia delle società dette socialiste del XX secolo e  in forma attenuata  quella dei gruppi più avanzati dei movimenti di liberazione nazionale delle altre periferie.

Le crescenti difficoltà con le quali si è confrontata questa forma di marxismo storico, prodotte dal venir meno dell'efficacia dei mezzi di sviluppo  che essa permetteva di mobilitare e dall'erosione della sua legittimità, si trovano all'origine dell'avanzata del marxismo critico che ha fatto breccia nei movimenti più radicali delle periferie negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, e su cui ho già espresso altrove la mia opinione a proposito della vocazione asiatica e africana del marxismo.

 

Nei centri del capitale, anziché quella di Marx, ha dominato la figura di Keynes, almeno per una parte della seconda metà del XX secolo. Keynes non si è mai proposto di esercitare una critica globale al capitalismo. Le questioni relative alla natura storica o trans-storica del capitalismo o l'alienazione economicistica non lo hanno mai minimamente

interessato, e neppure la polarizzazione su scala globale. Da perfetto britannico che non conosce altra filosofia che quella rigorosamente emprista, la sua unica preoccupazione era quella di gestite il sistema nel quale viveva, nel miglior modo possibile. Questa preoccupazione lo ha condotto ad esercitare una severa critica alla versione liberale del capitalismo.

Questa versione si è sempre espressa nella stesso modo estremistico. La sua dogmatica, giacché non si tratta di altro,  è fondata sul teorema centrale della teoria del capitalismo immaginario: i mercati sarebbero in grado di auto regolarsi e la loro azione in contesti di massima libertà a loro favore (cioè il massimo di deregolamentazione) dovrebbe produrre quel famoso equilibrio generale. Si tratta praticamente del nucleo essenziale dell'ideologia borghese volgare, espressa ingenuamente nei discorsi degli imprenditori con la solita litania già ben nota: ridurre i costi, compresi i salari, e i diritti sociali, aumentare la produttività per essere più competitivi, rafforzare le posizioni di rendita monopolistica con ogni mezzo (comprese le più aperte violazioni di ogni regola di  fair play), pagare meno tasse possibili; tutto in vista della massimizzazione dei profitti immediati. Bisognava dimostrare che l'attuazione unilaterale di queste "regole" avrebbe prodotto "l'optimum sociale". L'economia pura, cioè la teoria di un mondo immaginario che non ha nulla a che vedere con il capitalismo storico realmente esistente, ha la funzione di dimostrarlo.

Che ci riesca solo a costo della violazione delle regole più elementari dell'uso della logica scientifica non ha alcuna importanza, dato che la sua funzione legittimante è di tipo religioso integralista.

Il capitalismo è sempre liberale quando può, cioè quando i rapporti di forza sociali non lo obbligano ad adattarsi ad esigenze diverse da quelle che si esprimono nella ricerca del massimo profitto immediato e individuale. Questo accade nella storia, come nel momento attuale. Ma non dura mai a lungo, perché il capitalismo non produce affatto ciò che pretende di realizzare; al contrario, rinchiude la società reale in una crisi di accumulazione.

Keynes aveva visto e capito l'assurdità del discorso liberale dominante. La sua dimostrazione che i mercati abbandonati a loro stessi non sono In grado di auto regolarsi, ma tendono a esplodere è, da questo punto di vista, fondamentale e corretta. Per questo, Keynes parte dalla semplice osservazione di buon senso che l'operatore sul mercato fonda le sue decisioni sulle previsioni di ciò che faranno gli altri, partner e concorrenti, e non certo su pretese tendenze oggettive. Perciò il mercato è sinonimo di instabilità e non rivelatore tendenziale di qualche equilibrio. Per questa ragione tutti gli sforzi dell'economia pura dopo Keynes tenderanno a introdurre le previsioni nelle logiche degli attori economici.

Questi sforzi si riveleranno assolutamente vani e incapaci di dimostrare che, malgrado le inevitabili e disgraziate previsioni, il mercato tende comunque all'equilibrio. Ma ancora una volta il fallimento scientifico dell'economia pura non ha alcuna importanza, le idee vere o false che siano, s'impongono in base ai rapporti di forza in cui si esprimono gli interessi sociali considerati nel mondo del capitalismo reale.

Keynes si rivolge allora alle questioni poste dalla gestione di un sistema che egli riconosce instabile per natura. Le ipotesi che introduce a questo punto, riguardanti da una parte la preferenza per la liquidità e dall'altra l'efficacia marginale del capitale che egli fa dipendere ampiamente dal temperamento degli imprenditori e dall'atmosfera in cui sono immersi, gli permettono di dare un'apparenza di rigore scientifico alle sue argomentazioni.

Un modo molto elegante, ma privo di solidità, di dire che il sistema è instabile per sua natura. Le indicazioni che se ne potrebbero dedurre si riveleranno tuttavia valide, anche se la loro efficacia  incontestabile in certe circostanze sociali trova altrove le sue ragioni di essere.

Si evidenzia dunque il motivo per il quale la critica di Keynes, formulata negli anni Venti e Trenta in risposta ai deplorevoli risultati della gestione liberale del tempo, non abbia avuto alcuna risonanza alla sua epoca. Quando invece i rapporti sociali si troveranno modificati a favore dei lavoratori, in via embrionale a partire dal New Deal di Roosvelt e dal Fronte Popolare francese, più massicciamente dopo la sconfitta del fascismo nel 1945, ci saranno le condizioni sociali appropriate per attuare la politica che si poteva dedurre da una certa lettura di Keynes. Si passerà allora da Keynes al keynesismo storico.

Quest'ultimo si riduce praticamente a due tipi di misure, che implicano l'accettazione del principio della regolazione dei mercati e dell'intervento dello stato a questo scopo. Il primo tipo di misure tende a stabilire una concordanza fra l'evoluzione dei salari reali (della massa salariale) e quella della produttività.

Questa concordanza si può ottenere o per via di negoziazioni, se i sindacati sono sufficientemente convinti e potenti per imporlo, o con l'intervento dello stato, o con entrambi i metodi. E' tuttavia importante riconoscere che questo principio non ha nulla a che vedere con quelli del "mercato"; si tratta di un principio di pianificazione socialista, la cui attuazione  è resa possibile in una parte del mondo capitalista (cioè all'interno di società che continuano a rispettare il principio della proprietà privata) grazie a particolari rapporti sociali che ne impongono la legittimità. Se questo principio sia stato effettivamente attuato in modo "neutro" ed equivalente da tutti i partner principali del sistema del dopoguerra, dal 1945 al 1980, o se invece le fluttuazioni del rapporto fra evoluzione dei salari ed evoluzione della produttività in funzione delle lotte sociali locali abbiano modificato le condizioni della concorrenza sui mercati mondiali, costituisce un problema interessante sul quale peraltro non è necessario dilungarci in questa sede.

Il secondo tipo di misure riguarda la gestione della domanda globale. Una certa lettura di Keynes poteva far capire perché questa sia a volte insufficiente (costringendo il sistema a un regime di sottoccupazione) e talvolta invece eccedente e accompagnata dall'inflazione. Se ne deduce facilmente che lo stato, manovrando la spesa pubblica o la leva fiscale o agendo sul sistema bancario e sulle condizioni di offerta del credito può gestire convenientemente questa domanda globale. Ma non è necessario ricorrere a Keynes per sapere che la domanda globale non si stabilisce spontaneamente al livello necessario per massirnizzare l'occupazione e la produzione senza dar luogo a slitta menti inflazionistici. Nella mia lettura di Marx, che condivido con Sweezy,  la tendenza fondamentale prodotta dal rapporto sociale favorevole al capitale si traduce in una domanda globale sempre tendenzialmente insufficiente, giacché il sistema non riesce da sé a portare il livello dei salari al punto di dinamismo necessario per la riproduzione allargata. Bisogna allora trovare altri mezzi per assorbire le eccedenze. Questi mezzi possono essere socialmente utili in settori come l'istruzione e la sanità o i servizi di protezione sociale o utili per sostenere l'allargamento dei mercati e dei profitti, come fInanziare infrastrutture adeguate o effettuare spese belliche. Qui è interessante notare che, malgrado il rifiuto assoluto di Keynes da parte degli economisti puri della nostra epoca, la gestione della domanda globale da parte dello stato Settanta) verso le periferie del sistema. Qui le pratiche del populismo nazionale, versione povera del sovietismo, susciteranno un'esplosione assai vivace di critica del capitalismo reale. Al centro di questa critica si ritrova la presa di coscienza della polarizzazione prodotta dall'espansione mondiale del capitale, sottostimata se non assolutamente e semplicemente ignorata per un secolo e mezzo. Questa critica sia del capitalismo reale, sia del pensiero sociale che ne legittima l'espansione, sia dell'impianto socialista teorico e pratico è all'origine di un ingresso folgorante della periferia nel pensiero moderno. Si tratta di una critica ricca e multiforme che non è riducibile alla cosiddetta "teoria della dipendenza", giacché questo pensiero riapre i dibattiti di fondo che riguardano il socialismo e la transizione, nonché il marxismo e il materialismo storico come strumenti di superamento dei limiti dell'eurocentrismo che dominano il pensiero moderno. Ispirata certo in un determinato momento dalla fioritura maoista, questa critica si eserciterà anche nei confronti del sovietismo e del nuovo globalismo che si annuncia all'orizzonte.

 

Era evidente il conflitto fra le esigenze di uno sviluppo che avesse un senso per i popoli interessati, e le timide proposte dell'alleato sovietico, avanzate sotto la terminologia negativa e perciò stesso strana e insufficiente di "via non capitalista".

A questo proposito non posso far altro che rinviare a ciò che ho affermato nel mio "Itinerario intellettuale" [Samir Amin, Il sistema mondiale del secondo Novecento, un itineraro intellettuale, Edizioni Punto Rosso, 1997].

Successivamente, quando il capitalismo si è dispiegato nel quadro della nostra crisi di fin de sicle il contributo di analisi critica proveniente dalle periferie del sistema, che non è certo trascurabile pur essendo normalmente trascurata nella maggior parte delle opere di origine "occidentale", ha dimostrato una volta ancora che la condizione del rinnovamento di una critica che sia all'altezza delle nuove sfide (e in particolare della sfida dello sviluppo nel mondo di domani) è che questa critica sia autenticamente universalista, cioè libera da ogni traccia di eurocentrismo.

Ho forse formulato ciò che potrebbe e dovrebbe essere un marxismo del XXI secolo, arricchito dalla lettura critica della sua storia (i marxismi storici del XX secolo) e in grado di assimilare in modo critico il senso e la portata di ciò che di nuovo è stato prodotto dal dispiegarsi del capitalismo. Bisognerà dunque tentare di identificare gli elementi di un dibattito serio su questo ritorno e nel merito farò delle proposte in seguito.

In mancanza di ciò, beninteso, la critica si chiuderà nella nostalgia del passato e nella formulazione di un remake, sia esso leninismo, stalinismo, maoismo o trotzkismo storici. Non potrà uscirne nulla di efficace all'altezza delle sfide reali di oggi. Resterà allora del tutto libera la strada per il ritorno dell'utopia liberale reazionaria e per fughe in avanti di natura diversa, ma ugualmente vane.

La democrazia, strumento necessario della lotta sociale e politica socializzazione attraverso il mercato o la democrazia? La democrazia è la condizione assoluta dello sviluppo. Bisogna però spiegare perché e a quali condizioni, dal momento che solo da poco questa idea è accettata in modo apparentemente generale. Non molto tempo fa il dogma dominante, a est e a ovest come a sud, considerava la democrazia come un "lusso" che poteva realizzarsi solo dopo che lo "sviluppo" aveva risolto i problemi materiali della società. Tale era la dottrina ufficiale condivisa dagli ambienti dirigenti del mondo capitalistico (il che permetteva agli Stati Uniti di giustificare il sostegno che prestavano alle

dittature militari in America Latina, o agli europei di giustificare il loro appoggio ai regimi autocratici in Africa), degli stati del terzo mondo teoria latino americana del "desarrollismo" lo esprimeva con chiarezza e i partiti unici non erano certo appannaggio esclusivo degli stati socialisti) e del sistema sovietico.

Poi, da un giorno all'altro, la tesi viene completamente rovesciata. La preoccupazione della democrazia è diventata oggetto del discorso ufficiale quotidiano di tutti o quasi, il rilascio del certificato di pratica democratica, in quanto dovuto, diventa una delle "condizioni" per continuare ad avere l'aiuto delle grandi democrazie ricche ecc. Retorica di una credibilità più che dubbia, quando è noto fino a che punto, nella pratica, il principio del "due pesi e due misure" applicato con perfetto cinismo tradisca la priorità reale di altri scopi inconfessati, con la mobilitazione di tutti i mezzi di manipolazione pura e semplice.

Democrazia è un concetto moderno, nel senso che esso è la definizione stessa della modernità se, come propongo, con essa s'intende l'adozione del principio che gli esseri umani sono responsabili individualmente e collettivamente (cioè le società) della loro storia. Per poter formulare questo concetto, bisognava liberarsi dalle alienazioni tipiche delle forme di potere anteriori al capitalismo, che fossero religiose, etniche o rivestite di altre forme "tradizionali", cioè concepite come dati permanenti e transstorici. Queste espressioni della modernità e dell'esigenza democratica che essa implica risalgono all'epoca dell'Illuminismo. La modernità in questione è nata con il capitalismo, e la democrazia che ha prodotto è come il resto limitata, al pari del capitalismo stesso. Nelle sue forme storiche borghesi, fossero anche le sole conosciute e praticate fino ad oggi, essa non costituisce che una tappa. Né la modernità né la democrazia  sono giunte al termine del loro potenziale sviluppo. Per questa ragione preferisco parlare di democratizzazione, insistendo sull'aspetto dinamico di un processo sempre incompiuto, piuttosto che di democrazia, rafforzando l'illusione di poterne dare una formula definitiva.

Il pensiero sociale borghese fin dalle sue origini, cioè dall'Illuminismo, è fondato sulla separazione dei diversi ambiti della vita sociale, fra cui quelli della sua gestione economica e della gestione politica, e sull'adozione di principi specifici e diversi che sarebbero espressione di particolari esigenze della "Ragione" in ognuno di questi ambiti.

Con questo spirito, la democrazia sarebbe il principio ragionevole della buona gestione politica. Giacché gli uomini (allora non si parlava mai delle donne) o più esattamente alcuni di essi (sufficientemente ricchi e istruiti) sono dotati di ragione, devono avere la responsabilità di fare le leggi sotto le quali vogliono vivere, e scegliere (con le elezioni) i responsabili della loro applicazione. La vita economica invece è gestita secondo altri principi ugualmente concepiti come espressione delle esigenze della "Ragione" (sinonimo di "natura umana"): la proprietà privata, il diritto d'impresa, la concorrenza dei mercati. Si riconosce dunque una serie di principi che per loro natura non hanno nulla a che vedere con quelli della democrazia. Ancor meno poi se si pensa che questa implica l'eguaglianza,

degli uomini e delle donne beninteso, di tutti, dei proprietari e di quelli che non lo sono (facendo notare qui che la proprietà privata esiste solo se è esclusiva, cioè se esistono dei non-proprietari).

La separazione delle istanze economiche da quelle politiche introduce la questione della convergenza o della divergenza del prodotto delle logiche specifiche che le reggono. Il postulato sul quale poggia il discorso oggi dominante, eretto a verità tanto evidente da non ammettere discussione, afferma la convergenza dei due termini. Democrazia e mercato si pretende, si generano mutua mente, la democrazia esige il mercato e viceversa. Nulla di più sbagliato, viste le smentite della storia reale. I teorici dell'Illuminismo erano più seri dei nostri volgari contemporanei e si erano posti la doppia questione delle cause e delle condizioni di tale convergenza. La risposta alla prima questione era quella ispirata dal concetto.di "ragione", denominatore comune dei modi di gestione preconizzati in vari luoghi. Se dunque gli uomini sono dotati di ragione, i risultati delle loro scelte politiche non possono che confortare quelli che il mercato produce da parte sua. A condizione, evidentemente, che l'esercizio dei diritti democratici sia riservato solo agli esseri dotati di ragione, cioè alcuni uomini, escludendo le donne (si sa che sono dei soggetti sentimentali sordi alla ragione), gli schiavi, i poveri e quelli sprovvisti di tutto (i proletari) che obbediscono solo ai loro istinti. La democrazia può essere solo di censo, riservata a chi è contemporaneamente cittadino e imprenditore. Si capisce allora che le loro scelte elettorali siano probabilmente sempre, o quasi, conformi al loro interesse di capitalisti. Ma improvvisamente la politica perde la sua autonomia in questa convergenza, per non dire subordinazione, rispetto all'economia. L'alienazione economicista funziona qui pienamente per nascondere questo annullamento dell'autonomia della politica. L'ulteriore estensione dei diritti democratici ad altri che non siano i cittadini-imprenditori non è stata un prodotto spontaneo dello sviluppo capitalistico, né espressione di una sua esigenza. Al contrario, tale estensione è stata conquistata a poco a poco dalle vittime del sistema, dalla classe operaia, e più tardi dalle donne: essa è il prodotto di lotte contro il sistema, dato che questa estensione doveva per forza rivelare il contrasto potenziale fra la volontà della maggioranza, cioè evidentemente quelli che dal sistema sono sfruttati, espressa mediante il voto democratico, e la sorte che il mercato gli riserva. Il sistema rischiava di diventare instabile, perfmo esplosivo. Come minimo esiste il rischio, e anche la possibilità, che il mercato in questione debba subordinarsi all'espressione di interessi sociali che non sono convergenti con la priorità data dall'economia alla massima redditività del capitale. In altri termini, esiste il rischio per gli uni (il capitale) e la possibilità per gli altri (i lavoratori-cittadini) di una regolazione del mercato con mezzi estranei al dispiegarsi della sua logicaunilaterale più stretta. E' possibile, è successo, in determinate condizioni, come nello stato sociale del dopoguerra.

Ma questa non è l'unica possibilità di celare la divergenza tra democrazia e mercato. Se la congiuntura prodotta da una storia concreta è diventata tale da rendere impotente il movimento di critica sociale, ormai frantumato, e da far apparire priva di alternative l'ideologia dominante, allora la democrazia può venir svuotata di tutto il suo contenuto critico e potenzialmente pericoloso per il mercato. La pratica democratica diventa allora ciò che ho definito una "democrazia a bassa intensità". Si può votare liberamente, come si vuole: bianco, azzurro, verde, rosa o rosso. In ogni caso ciò non produrrà alcun effetto, dato che la sorte di tutti è decisa altrove, fuori dall'aula parlamentare, sul mercato. La subordinazione della democrazia al mercato (e non la loro convergenza) trova il suo riflesso nel linguaggio politico. L'alternanza (cambiare "gli uomini di paglia" per continuare a fare la stessa cosa) ha sostituito l'alternativa (fare altro).

Oggi siamo a questo punto. Si tratta di una crisi pericolosa perché l'erosione della credibilità e della legittimità delle procedure democratiche può portare a contraccolpi più violenti in direzione della sua pura e semplice abolizione, sostituendovi l'illusorio consenso fondato sulla religione o per esempio sullo sciovinismo etnico. Nelle periferie del sistema la democrazia è impotente perché, subordinata alle esigenze brute di un capitalismo selvaggio, diventa una tragica farsa, una "democrazia di paccottiglia"  ( Mobutu sostituito da duecento partiti mobutisti!).

La democrazia è un concetto universalista che non ammette eccezioni a questa virtù che le è necessaria. Il discorso dominante, anche quello delle forze che si collocano soggettivamente "a sinistra", ne fornisce un'interpretazione frammentaria che arriva a negare l'unità del genere umano per parlare invece di "generi", "comunità", "gruppi culturali" ecc. Torneremo su queste questioni relative alle identità culturali in stretta relazione con la crisi contemporanea dello stato e della democrazia.

Si scenderà ancora di uno scalino se si arriva a considerare il discorso alla moda battezzato con lo strano nome di buona governance. Non si tratta d'altro che di un miscuglio di metodi di gestione amministrativa esposti in disordine dopo aver preso la precauzione di eludere i problemi autentici riguardanti il potere politico, sociale ed economico. Espressione ingenua di pii desideri che vanno dall'eliminazione della corruzione al miglioramento della funzionalità di questo o quel servizio. Frottole espresse nello stile inimitabile del management americano, con tutta la stupidità che lo distingue. Lasciamo quindi questi discorsi ai dotti "esperti" della Banca mondiale.....

 

Se quindi non esiste convergenza, "naturale" men che meno, fra mercato e democrazia, se ne può dedurre che lo sviluppo, inteso nel senso banale.di sinonimo di crescita economica accelerata associata a una espansione dei mercati (e non c'è stata ancora alcuna esperienza di sviluppo di tipo diverso), non sia compatibile con l'esercizio di una democrazia minimamente avanzata? Non mancano certo i fatti che sembrano convalidare questa tesi: i "successi" della Corea del Sud, di Taiwan, del Brasile della dittatura militare,

dei populismi nazionalistici nella loro fase ascendente non sono derivati da sistemi particolarmente rispettosi della democrazia. In precedenza, la Germania e il Giappone nella loro fase di recupero erano certamente meno democratici dei loro concorrenti britannici e francesi. Le esperienze socialiste moderne, assai poco democratiche, in alcune circostanze hanno fatto registrare tassi di crescita notevoli. Ma in senso contrario si potrebbe osservare che l'Italia democratica del dopoguerra si è modernizzata con una rapidità e un'ampiezza che il fascismo non era riuscito a realizzare, malgrado tutte le sue vanterie, e l'Europa occidentale con la sua democrazia sociale avanzata (lo stato sociale del dopoguerra) ha conosciuto il più prodigioso periodo di sviluppo della sua storia. Si potrebbe rafforzare il paragone a vantaggio della democrazia ricordando le innumerevoli dittature che sono riuscite a generare solo stagnazione, se non devastanti involuzioni.

Sarà allora possibile adottare una posizione di riserbo relativistico, rifiutando di stabilire un rapporto fra sviluppo e democrazia, e affermando che la loro concordanza o discordanza dipende da specifiche condizioni concrete? Questo atteggiamento risulta accettabile se ci si limita a una definizione "banale" di sviluppo, identificandolo con una crescita accelerata interna al sistema. Ma non lo è più se si ammette la seconda dellenostre tre tesi centrali segnalata all'inizio di questo saggio, cioè che il capitalismo globalizzato è polarizzante per sua natura e perciò lo sviluppo è un concetto critico, che necessita di essere parte della costruzione di una società alternativa, post-capitalistica. Questo processo non può essere altro che il prodotto della volontà e dell'azione progressiva dei popoli. Esiste una definizione di democrazia, diversa da quella implicita in questa volontà e in questa azione? In tal senso la democrazi a diventa a pieno titolo la condizione dello sviluppo. Ma si tratta di un'affermazione che non ha nulla a che vedere con ciò che il discorso dominante dice in

proposito. La nostra affermazione significa di fatto che non esiste socialismo (se si vuole defmire così un'alternativa post-capitalistica migliore) senza democrazia, ma anche che il progresso. della democratizzazione esige l'impegno sulla via della trasformazione socialista.

 

 L'alienazione mercantile porta a privilegiare la libertà su tutti gli altri valori umani. Quella dell'individuo in generale, certo, ma in particolare quella dell'imprenditore capitalista di cui essa libera l'energia e moltiplica il potere economico. Ma esistono anche altri valori, fra l'altro quello dell'uguaglianza. Questa non deriva direttamente dalle esigenze del capitalismo, salvo nella sua dimensione più immediata, quella dell'uguaglianza  (parziale) dei diritti che da una parte permettono il fiorire della libertà d'impresa e dall'altra condannano il lavoratore liberato a sottoporsi  allo status di salariato venditore di una forza lavoro diventata anch'essa  merce. A un livello più elevato il valore dell'uguaglianza entra in conflitto con quello di libertà. Nella storia dell'Europa, almeno di una parte se non di tutto il continente, e in quella francese in particolare, i due valori vengono proclamati sullo stesso piano, come nel motto della Repubblica francese. Non è un caso. L'origine di questa dualità conflittuale è a sua volta piuttosto complessa. Vi è senza dubbio (nel caso della Rivoluzione francese questo mi sembra particolarmente evidente) l'incisività delle lotte delle classi popolari, che cercano di rendersi autonome rispetto alle ambizioni della borghesia. Questa contraddizione viene espressa in maniera chiara e aperta da quei montagnardi che pensano (giustamente) che il "liberismo economico" la libertà nel senso americano e pieno del termine) sia nemico della democrazia (se questa deve avere qualche significato per le classi popolari).

Oserei spiegare perciò, a partire da queste osservazioni, una delle differenze ancora visibili fra la società e la cultura americana da una parte e quelle dell'Europa dall'altra. Il funzionamento e gli interessi del capitale dominante negli Stati Uniti e in Europa non sono probabilmente molto diversi come a volte si suggerisce (alludo alla nota opposizione fra "capitalismo anglosassone" e "capitalismo renano"). La saldatura dei loro   interessi spiega senza dubbio la solidità della Triade (Stati Uniti, Europa, Giappone). Ma i giudizi della società, i progetti societari che occupano gli spiriti, anche in maniera implicita, sono abbastanza diversi. Negli Stati Uniti il valore della libertà occupa da solo la scena, senza che ciò costituisca un problema. In Europa questa è incessantemente controbilanciata da un attaccamento al valore dell'uguaglianza, con la quale deve fare i conti.

La società americana disprezza l'eguaglianza. L'estrema diseguaglianza non solo è tollerata, ma è apprezzata come simbolo del "successo" cui la libertà avvia. Ma la libertà senza uguaglianza è una cosa selvaggia. La violenza in tutte le forme che questa ideologia unilaterale produce non è frutto del caso e non rappresenta in alcuna maniera un motivo di radicalizzazione, al contrario. La cultura dominante nelle società europee aveva finora combinato con minore squilibrio i valori di libertà ed uguaglianza; questa combinazione costituiva d'altra parte il fondamento del compromesso storico della socialdemocrazia.

Disgraziatamente però l'evoluzione dell'Europa contemporanea tende ad avvicinare la società e la cultura di questo continente a quelle degli Stati Uniti, erette a modello e divenute oggetto di un'invadente ammirazione assai poco critica.

 

Il sistema presidenziale inventato dalla rivoluzione americana contribuisce a spostare il dibattito politico, a indebolirlo sostituendo alla scelta di idee, di programmi, quella di individui, anche se si ritiene che "incarnino" quelle idee-programmi. Inoltre la polarizzazione della scelta su due individui, quasi fatale, accentua ulteriormente la ricerca da parte di ognuno dei due di un consenso quanto più possibile ampio (la battaglia per guadagnarsi il centro degli indecisi, dei meno politicizzati), a scapito della radicalizzazione. Insomma, equivale a incentivare il conservatorismo.

Questo sistema presidenziale è stato esportato dagli Stati Uniti in tutta l'America Latina senza difficoltà. Ha poi conquistato l'Africa e una buona parte dell'Asia per ragioni analoghe, legate al carattere limitato delle liberazioni nazionali dei tempi moderni. Oggi sta conquistando l'Europa, dove peraltro aveva lasciato solo un ricordo detestabile fra i democratici, essendo stato associato al populismo bonapartista. La Francia ha purtroppo iniziato il movimento, con la creazione della Repubblica gollista, che non ha rappresentato un passo avanti nella conquista della democrazia, ma un arretramento nel quale la società francese sembra trovarsi bene: le argomentazioni basate sulla "instabilità dei governi" nei regimi parlamentari erano puramente opportunistiche.

Il sistema presidenziale favorisce inoltre la cristallizzazione di coalizioni aventi interessi diversi, idealmente in due, allineate dietro i concorrenti "presidenziabili", a scapito della formazione di autentici partiti politici (fra cui i partiti socialisti) potenziali portatori di progetti societari veramente alternativi. Anche qui il caso degli Stati Uniti è eloquente. Non ci sono due partiti, repubblicano e democratico. Julius Nyerere diceva, non senza senso dell'humour, che si trattava di due "partiti unici". Bella definizione per una democrazia a bassa intensità. Evidentemente compresa come tale dalle classi popolari degli Stati Uniti che, com'è noto, non votano perché sanno bene, e hanno ragione, che non serve a niente. Le altre tendenze dell'evoluzione contemporanea dell'istituzionalizzazione della democrazia nei paesi "occidentali" non sono meno negative, a mio parere, e per questo sono destinate a rafforzare il conservatorismo. La "decentralizzazione" per esempio, associata alla moltiplicazione delle istanze affidate a poteri locali eletti, premia il rafforzamento dei poteri dei notabili locali e incentiva lo spirito "comunitario". Si sa che anche in Francia i poteri delle nuove regioni si sono rivelati sempre o quasi sempre più a destra di quelli espressi su scala nazionale. Non è un caso. Nel contesto europeo il principio della decentralizzazione ha lo scopo confessato di "infrangere le nazioni" a favore delle regioni, capaci in misura diversa di inserirsi direttamente nel sistema economico dell'Unione, senza preoccuparsi dei possibili effetti di aggravamento delle ineguaglianze che questa strategia implica (l'unità nazionale è già minacciata in Spagna e in Italia).

Era la scelta della Jugoslavia del dopo Tito, salutata a suo tempo con favore dal G7 e dalla Banca mondiale. Si sa che cosa ha provocato. L'assenza di una burocrazia permanente, che Marx ed Engels giudicavano un vantaggio rispetto al solido radicamento delle eredità burocratiche in Europa, diventa il mezzo con cui il potere politico conservatore affida l'esecuzione dei suoi programmi a clientele passeggere prive di responsabilità, reclutate direttamente nell'ambiente degli affari (e quindi insieme giudici e parti in causa). E' realmente un vantaggio? E, qualunque cosa si voglia dire della "Enarchia"7 in Francia, pur se una buona parte delle critiche è certamente accettabile, l'idea di una burocrazia reclutata in maniera autenticamente democratica non è migliore (o meno peggiore) in attesa del momento in cui si realizzi (forse) l'ideale lontano di una società che possa fare a meno delle burocrazie? La critica irriflessa della "burocrazia", che fa parte dell'air du temps, ispira direttamente le campagne sistematiche condotte contro l'idea stessa di servizio pubblico, al quale si vuole sostituire il servizio privato del mercato. Uno sguardo oggettivo sul mondo reale dimostra che il servizio pubblico (che si fa passare

per "burocratizzato") non è così inefficiente come si proclama, com'è dimostrato perfettamente dal confronto fra Stati Uniti ed Europa in materia di sanità. Inoltre in una democrazia il servizio pubblico è almeno potenzialmente suscettibile di trasparenza. Il servizio del mercato, protetto dal segreto sugli "affari privati", è per definizione opaco.

Sostituire al servizio pubblico (cioè alla socializzazione mediante la democrazia) il servizio privato (cioè la socializzazione mediante il mercato) equivale ad adoperarsi per consolidare il consenso con cui politica ed economia sono accettate come parti costitutive di due settori rigorosamente separati. E questo consenso è precisamente ciò che distrugge ogni potenziale di radicalizzazione della democrazia.

La giustizia "indipendente" e la sua estrema conseguenza logica, il principio dell'elezione del giudice, hanno dimostrato come potevano a loro volta favorire il radicamento dei pregiudizi, sempre conservatori, ma anche reazionari, e non favorire la radicalizzazione, ma al contrario ostacolada. Il modello sta per essere imitato altrove (in Francia, per esempio) con risultati immediati che mi astengo dal commentare.

 

La tesi fondamentale del pensiero sociale borghese, la convergenza "naturale" fra democrazia e mercato, portava in sé fin dall'inizio la minaccia della deriva a cui siamo arrivati. Giacché essa suppone una società riconciliata con se stessa, priva di conflitti, come la propongono certe interpretazioni dette post-moderniste. La convergenza diventa un dogma, un soggetto sul quale non ci si pone più alcuna questione. Siamo allora in presenza non più di un tentativo di comprendere scientificamente la politica nel mondo reale, bensì di una teoria della politica immaginaria.

Questa si accompagna, nel suo ambito tipico, con la "economia pura", che non è la teoria del capitalismo realmente esistente, ma quella di un'economia immaginaria. Da quando è stato rimesso in discussione il postulato della "ragione" come è stato formulato dall'Illuminismo, da quando si è misurata la relatività storica delle logiche sociali, non è più

possibile accettare la "vulgata propagata oggi sulla convergenza fra capitalismo e democrazia.

La contraddizione fra individuo e collettività, immanente ad ogni società a tutti i livelli della sua realtà, nei sistemi sociali precedenti veniva superata negando il primo termine, cioè con l'addomesticamento dell'individuo da parte della società. L'individuo diventa allora riconoscibile solo attraverso il suo status, nella famiglia, nel clan, nella società.

Nell'ideologia del mondo moderno (capitalistico) i termini della negazione sono rovesciati: la modernità si afferma con i diritti dell'individuo, magari anche contro la società. Questo rovesciamento è la condizione preliminare di una liberazione, in qualche modo il suo inizio, giacché libera contemporaneamente un potenziale di permanente aggressività nelle relazioni fra individui. L'ideologia capitalistica, con la sua etica ambigua, ne esprime la realtà: viva la concorrenza, vinca il più forte. Gli effetti devastanti di questaideologia sono spesso limitati dalla coesistenza di altri principi etici, in larghissima parte di origine religiosa, o ereditati da forme sociali precedenti. Se questi freni cedono, l'ideologia unilaterale dei diritti degli individui può produrre solo l'orrore. Il lettore avrà compreso rapidamente l'analogia fra il funzionamento del rapporto fra liberalismo utopico e gestione pragmatica nel capitalismo storico e quello del rapporto fra ideologia socialista e gestione reale nella società sovietica. L'ideologia socialista in questione è quella del bolscevismo che, seguendo la socialdemocrazia europea precedente al 1914, non rimette in discussione la convergenza "naturale" delle logiche delle diverse istanze della vita sociale e dà un "senso alla storia" in una facile interpretazione lineare del suo corso "necessario". Era questa indubbiamente una lettura del marxismo storico, ma non era l'unica lettura possibile di Marx (in ogni caso, non è la mia). Qui la convergenza si esprime nella stessa maniera: la gestione dell'economia per mezzo del Piano (che si sostituisce al mercato) produce evidentemente, in questa visione dogmatizzata, la risposta adeguata ai bisogni; la democrazia può solo confortare le decisioni del Piano, opporvisi è irrazionale. Ma anche qui il socialismo immaginario si scontra con le esigenze della gestione del socialismo realmente esistente, che deve affrontare problemi seri e reali, come lo sviluppo delle forze produttive per riuscire a "recuperare". Il potere vi provvede con pratiche ciniche, inconfessabili e inconfessate. Il totalitarismo è comune ai due sistemi e si esprime nello stesso modo: con la menzogna sistematica. Se le sue manifestazioni sono state più violente in Urss, è perché il ritardo nello sviluppo, che doveva essere recuperato, pesava con  estrema gravezza, mentre il progresso dell'Occidente concede alle sue società dei morbidi guanciali su cui può riposare (da qui il suo totalitarismo spesso morbido, come nel consumismo dei periodi di crescita facile).

Abbandonare la tesi della convergenza, della "sovradeterminazione", accettare il conflitto delle logiche delle istanze, cioè della sotto determinazione è la condizione non solo di un'interpretazione della storia che concilia potenzialmente teoria e realtà, ma anche dell'invenzione di strategie che permettano di dare all'azione un'efficacia reale, cioè di permettere il progresso sociale in tutte le sue dimensioni. Nella storia la socializzazione, intesa come conciliazione fra individuo e società, ha rivestito forme successive derivanti da logiche proprie e diverse. Nelle società che precedono il capitalismo era fondata sull'adesione, consensuale o forzata, a credenze religiose comuni, come alla fedeltà personale alle dinastie signorili e reali. Nel mondo moderno la socializzazione si fonda sull'espansione del rapporti capitalistici mercantili che si impadroniscono gradualmente di tutti gli aspetti della vita sociale e se non sopprimono quanto meno dominano largamente tutte le altre forme di solidarietà (nazionale, familiare, comunitaria). Questa forma di socializzazione "attraverso il mercato" ha permesso un'accelerazione prodigiosa dello sviluppo delleforze produttive, ma ne ha anche aggravato il carattere distruttivo. Essa tende a ridurre gli esseri umani allo status di gente, senz'altra identità che non sia quella di consumatori passivi sul piano economico e di spettatori, altrettanto passivi, (e ormai  neanche più cittadini) sul piano politico. La democrazia, che in queste condizioni può essere solo embrionale, può e deve  diventare fondamento di una socializzazione del tutto diversa.

Una socializzazione in grado di restituire all'essere umano totale la sua piena responsabilità nella gestione di tutto l'insieme degli aspetti della vita sociale,economica e politica. Se il socialismo, termine con cui definiremo questa prospettiva, non è concepibile senza democrazia, la democratizzazione implica a sua volta che il suo conflitto con la logica capitalistica ne inquadri il progresso in una prospettiva socialista. Ancora una volta, nessun socialismo senza democrazia; e nessun progresso democratico al di fuori della prospettiva socialista.