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Progetto
“Sostegno al contesto.”
Area Creativa
Creatività
ed educativa territoriale 1. Agio e disagio L’adolescenza è una fase evolutiva di
cui spesso si mettono in evidenza i disagi, le condotte devianti,
l’imprevedibilità, l’insofferenza. Spesso agli occhi degli adulti, i\le
ragazzi\e rappresentano una sorta di “mutanti” (definizione comprensibile se
leggete ogni tanto qualche fumetto): una sorta di problema da contenere e verso
il quale elaborare strategie in cui
le nuove e le vecchie agenzie educative (scuola,
famiglia e ultimamente privato sociale) rincorrono senza comprenderli
linguaggi giovanili che cambiano velocemente e continuamente.
L’insicurezza del mondo adulto verso le identità palesate dai propri giovani,
si aggiunge alla lista dei fattori generanti le paure della moderna metropoli. Si
pone eccessiva attenzione verso i
casi più eclatanti di difficoltà o di devianza
“conclamata” dei giovani e degli adolescenti, ignorando nei fatti i
comportamenti, i linguaggi, i sogni, i conflitti e le problematiche della
quotidianità adolescenziale, fatta non necessariamente di disagio, ma di
modalità espressive e relazionali non contemplate nè accettate dal mondo
adulto, e che non trovano modalità e strumenti per esprimersi. Gli adolescenti
usano un linguaggio e pongono delle esigenze da un punto di vista che
spesso gli adulti (insegnanti, genitori, operatori ecc.) non possono
comprendere. Piuttosto che parlare con insistenza di disagio giovanile,
paventando l’adolescenza come patologia da curare, occorrerebbe ripensare la
concezione e la rappresentazione che si ha dell’adolescenza, promuovere
l'espressione di un angolo visuale delle ragazze e dei ragazzi, ridefinire le
prassi e gli strumenti “educativi” secondo modalità che permettano
ai ragazzi di valorizzare la propria autonomia, la propria capacità creativa e
che stimolino la reale partecipazione ai processi di trasformazione
che li coinvolgono. La
tradizionale cultura dell’”intervento sociale”
che attraversa trasversalmente i Servizi, il privato sociale, la scuola,
parte dal pregiudizio di chi pensa di aver capito l’altro, i suoi bisogni i
suoi sogni, il territorio che abita, a volte senza averlo mai attraversato,
abitato, producendo una serie di interventi, che pur partendo dalle migliori
intenzioni, da metodologie all’avanguardia (spesso enunciate e\o applicate
aprioristicamente: la moda della rete, dell’intervento dal basso, ecc.)
risultano divenire l’ennesimo contenitore vuoto, un intervento “per” i
giovani a cui i giovani spesso sono assolutamente indifferenti perché privati
di alcuna influenza (di potere e quindi di interesse) sul percorso e sui
contenuti dell’intervento “educativo”. Tale modello vuole ignorare che non
esiste reale partecipazione (e quindi interesse), se non esiste libertà di
progettare. Non c’è libertà di progettare se non c’è condivisione di
comunicazione, di linguaggi, accesso ai percorsi decisionali e al sapere tecnico
(come si fa per poter fare). Invece di stimolare partecipazione la si inibisce,
riducendola a indifferenza per tutto ciò che gli adulti propongono come
“percorso educativo”. Accanto
a servizi destinati a una particolare utenza, con
lo scopo di intervenire sul disagio, possono sorgere “progetti di
sviluppo” dove i ragazzi\e stessi si configurano come
attori principali del progetto, un modello basato sulla partecipazione,
che si nutre di flessibilità, indeterminatezza, incertezza, modificazioni in
itinere; modelli che prevedono la maggior attenzione all’aggregazione
informale, alle reti sociali, al tam tam tra gruppi di affinità,
richiedendo agli operatori un ruolo meramente di facilitatore della
comunicazione, di esplorazione delle possibili connessioni tra soggetti e
gruppi, prevedendo un ruolo strategico dei servizi pubblici, come sostenitori,
potenziatori, delle risorse, incoraggiando il superamento di percorsi statici di
schemi organizzativi aprioristici. Queste le considerazioni da cui
e’partita l’esperienza dell’area creativa di “Sostegno al contesto”.
L’equipe di lavoro, in
conseguenza di fallimenti,
parziali vittorie, intuizioni, ha cercato di trovare un approccio pragmatico ed orientato
al coinvolgimento diretto dei giovani, offrendo ai ragazzi e ragazze la possibilità di
appropriarsi di strumenti con i quali esprimere le proprie modalità e i propri
linguaggi, senza essere necessariamente veicolati dal mondo adulto.
Una
prassi che orientandosi sull’educativa territoriale, partendo da una concezione del mondo giovanile non come oggetto di
intervento ma come risorsa da sostenere a partire dai bisogni che
esprime, dalla capacità di autorganizzarsi per farvi fronte, dall’esigenza di
comunicare, dai linguaggi che usa, si è concentrata nei luoghi e sul territorio
abitato dai ragazzi, in una modalità che ha cercato nei ragazzi\e il partner potenziale per avviare percorsi,
cercando di estendere il coinvolgimento alle comunità territoriali ed
all'amministrazione pubblica e scolastica, La riflessione sul pianeta giovanile,
sulle sue modalità di
comunicazione, su come sostenerlo nel riappropriarsi di strumenti altrimenti non
alla sua portata, è stata alla
base di un intervento che ha mirato non solo e non tanto alla
prevenzione del disagio ma al protagonismo dei ragazzi\e, così
come sono e come si rappresentano, senza avere ambizioni “educative”,
laddove l’educazione è concepita come attrazione dei ragazzi nella sfera
etica e comportamentale degli adulti. Si può lavorare con i ragazzi senza
dover indurre loro a mutare il
proprio linguaggio ed espressività, e stimolando l’uso creativo e
l’autogestione degli strumenti
(il video, la musica lo sport, il teatro ecc.) come modus per riconnettere la
comunicazione e l’interazione con il contesto sociale di appartenenza,
influenzando e modificando le rappresentazioni e le percezioni che il mondo
adulto ha della realtà giovanile. L’agire insieme per far fronte ad un problema,
cercare soluzioni condivise, può
creare un vissuto emotivo e quindi una appartenenza rassicurante e non legata
alla paura e alla chiusura. In questo senso l’operatore di strada può
stimolare attraverso il “fare insieme”, processi di condivisione di vissuti
emotivi, di qualità dello scambio. Esperienze di questo tipo lasciano dei
racconti, una memoria, la condivisione di un mito, appartenenze vissute
piacevolmente (l’essere accomunati dall’agio piuttosto che dalla paura o dal
disagio). Si
è cercato in questo percorso di: ·
evitare
di concepire i ragazzi come utenti di un servizio o veicolo per la visibilità
del progetto (più ragazzi aggreghiamo più il progetto “produce”) ·
Evitare
di concepire gli strumenti quali le unità di strada, i laboratori e le attività
creative in genere come
strumento per “agganciare” i ragazzi\e attraendoli in contesti chiusi
ed autoreferenziali isolati dalla realtà del territorio ·
Rimettere
in discussione (a volte abbandonandoli) obiettivi e strumenti condividendoli con
i ragazzi, imparare (essere “educati”) da loro per capire la direzione da
percorrere insieme. Se serve essere pronti a ripartire da zero, imparando l’
umiltà di assumere come nuove priorità i bisogni con cui si viene in contatto, ·
Resistere
alla tentazione di sostituirsi ai ragazzi,
sostenendoli piuttosto che
intervenendo per “salvarli” o risolvere per loro. In
questo modo il Progetto\area creativa ha potuto produrre anche discreti
risultati quantitativi, consapevoli che il percorso è stato costellato da
alcune luci e da tante ombre, fallimenti, incomprensioni riguardanti spesso il
rapporto con le agenzie educative, il privato sociale, ancora una volta gli
“interessi di parte” del mondo adulto. 2. Progettare “per” o “con” (darsi degli
obiettivi e saperli abbandonare) "L'umanità
diventa umana quando inventa la debolezza - la quale è fortemente
positiva" (Serres). Sostegno\area
creativa ha scelto consapevolmente di non darsi un'identità troppo forte,
un’eccessiva visibilità progettuale. Di fronte ai fallimenti iniziali
(difficoltà ad “agganciare” i ragazzi sulla strada, difficoltà a far
vivere i laboratori) si è dovuti ricorrere a una necessaria elasticità,
teorica, pratica, ci si è dovuti liberare dall’ansia di apparire, di
determinare passaggi. Si è cercato di aprire il progetto
ai bisogni manifestati dai ragazzi nelle occasioni di contatto (presenza
in strada, videobox, ecc.), andare in crisi di identità di fronte alla
difformità delle nostre aspettative nei confronti del reale, di fronte al quale
ci si è dovuti “indebolire”
per recepire dai ragazzi linguaggi, bisogni risorse, in breve “nuovo
sapere”. Siamo strati costretti, dalla nostra sede vuota, dai laboratori poco
frequentati, ad abbandonare il luogo chiuso e rassicurante, andando nei luoghi
frequentati, nelle piazze, nelle scuole, lavorando prima coi ragazzi, in seguito
nella comunità del quartiere, affrontando conflitti e non\comunicazione,
mediando tra le generazioni. Laboratori itineranti per tutto il municipio, brevi
stages, stimolando curiosità, interesse, prendendo contatti, rimettendo in
comunicazione ragazzi di diverse comitive, di diversi quartieri…costruendo così
una rete fatta di tanti nodi e di nessun centro. La sede ha continuato ad essere
vuota o poco frequentata, ma a questo punto non interessava più a nessuno, la
ricchezza era fuori di lì. L’operatore, in questo caso è stato un “soggetto
debole”, permeabile, che ha fatto di questa permeabilità la sua risorsa,
indispensabile per essere contemporaneamente sia soggetto esterno (un adulto),
sia soggetto partecipe empaticamente. Un atteggiamento che ha visto
l’operatore farsi ponte della comunicazione tra i ragazzi e tra
questi e gli adulti. Tale
modello è la risultante
della reciproca contaminazione tra il “fuori”, l’operatore, i contenuti di
cui è portatore, e il “dentro”, le modalità espressive, i linguaggi e i
bisogni propri dei gruppi giovanili con cui si viene a contatto. Il riconoscimento da parte dei ragazzi dell’operatore e del
suo ruolo ha rappresentato una parziale ma significativa modificazione della
comunicazione preesistente tra una figura adulta e i ragazzi. Questo
riconoscimento da parte loro, inserisce l’operatore nella “storia”, nel
vissuto gruppale, ha modificato dall’interno (e non imposto) il flusso, lo
stile il modo della comunicazione.
Esplorare e
comunicare con il mondo degli adolescenti,
attraversare le sue dinamiche, i suoi conflitti, i
luoghi abitati per la socialità, è stata la premessa per iniziare un
lavoro che avesse un senso per i ragazzi\e e non fosse da loro vissuto come
un’intrusione\imposizione degli adulti. Tale lavoro poi, spesso non sarebbe
sufficiente se non si operasse in relazione ai bisogni espressi dai ragazzi,
costruendo insieme un percorso
comune, verificandolo dentro i
processi reali. I
ragazzi sono motivati alla partecipazione, se sviluppano senso di proprietà riguardo i percorsi possibili,
si sentono competenti, sentono di avere potere. Il progetto è partito da
una serie di domande , che cosa serve, quale supporto si può fornire ai
ragazzi, come poter fare in modo che i soggetti si possano sentire responsabili,
capaci e in possesso del potere necessario per intraprendere azioni? Come
utilizzare la creatività, la fantasia, il sogno, il tempo libero, per produrre
cambiamenti? La risposta a queste domande appare indispensabile per lo sviluppo
di qualsiasi percorso che non voglia rimanere indifferente alla realtà
giovanile che vorrebbe coinvolgere. Le
soggettività, le potenzialità dei ragazzi,
non si sviluppano secondo noi costruendo luoghi chiusi di sfogo e di
contenimento, ma creando sulla strada, nei luoghi abitati spontaneamente, nelle
scuole, le condizioni e percorsi che rendano agevole ed accogliente la
partecipazione e l’espressione, che sostengano e stimolino il “fare”,
favorendo così un apprendistato educativo
basato sulla fiducia nella possibilità di arricchirsi reciprocamente in
un rapporto tra diversi, in cui il compito dell’operatore è quello di
coprogettare, sostenere e accompagnare esperienze che consentano ai ragazzi di
“formarsi” nei loro rapporti reciproci e nella possibilità di comunicare a
partire dal proprio linguaggio. Il futuro di questi embrioni ancor fragili di
esperienze, necessita di una
comunicazione positiva e meno sporadica con le istituzioni scolastiche e con i
servizi preposti alle politiche giovanili, come necessaria premessa per
sostenere i percorsi nel tempo, a fornire quadri di riferimento. Tale concetto di partecipazione, consiste nel
coinvolgere le agenzie educative (scuole, istituzioni, associazionismo ecc.), in
una reale e concreta comunicazione con le attività che vedono
protagonisti i ragazzi, in un
ottica in cui occorre
non concepire i giovani come “utenti” da far accedere a servizi
o per i quali “organizzare qualcosa ”, ma per rimodellare le
rispettive identità. Una riscrittura in itinere delle attività realmente
partecipata ed informata, in cui l’attivazione delle competenze e dei vissuti
dei ragazzi può generare soluzioni non ancora elaborate dal sapere codificato
di istituzioni o di “esperti”. In realtà la comunità, il territorio, i gruppi
giovanili, i loro genitori, sono il contesto che influenza ed è influenzato dal
lavoro sociale, il quartiere è un luogo dove esistono risorse e non solo
problemi, dove si generano risposte potenziali o concrete, spesso informali e
non rilevate, e non solo richieste di assistenza e di protezione sociale. Si evidenzia qui l’esigenza di una cultura che
parta dalla rimessa in comunicazione dei soggetti e delle potenzialità
di giovani ed adulti, come elemento di valore intorno al quale costruire reti
sociali. Percorsi in cui la “rete” è un attore sociale che sviluppa se
stesso e diventa essa stessa comunità, legame persistente nel tempo, non
vincolante, piccolo gruppo dinamico che “solidarizza evolutivamente” grazie
alla condivisione delle esperienze, e
che nel processo di autocostruzione sviluppa competenze concrete, apprendimento,
prestazione, aiuto tra i componenti. Spesso
istituzioni, associazioni, operatori sociali, educatori, in breve gli “adulti
esperti”, tendono ad azioni di coinvolgimento dei ragazzi\e su propri
interessi, azioni, attività, linguaggi che ritengono opportuni ed importanti
per un processo educativo. Tale processo si sostanzia nel tentativo di far
entrare “i giovani” nella propria sfera di influenza attraverso un’idea,
una proposta. Tale processo si caratterizza spesso in alcune costanti: ·
Spesso il
processo di coinvolgimento parte dalla volontà di attrarre i ragazzi\e nel
proprio campo di di influenza. Accade che appena questi vengano “agganciati”
venga indicata loro una direzione da prendere, una prescrizione di comportamento
che dà alle persone coinvolte la sensazione di perdita di potere che ne
determina l’allontanamento. ·
A volte, gli operatori partono
dall’organizzazione di eventi, di feste, con l’intenzione di essere utili
per la popolazione giovanile. L’organizzazione di catene di eventi hanno il
risultato di alimentare un rito fatto di effimero consumo e di riprodurre
l’effetto delega. Se il coinvolgimento non produce l’effetto di una reale
partecipazione delle persone, passa il messaggio che qualcuno debba sempre coinvolgere gli altri, che i ragazzi\e
siano privi di interessi e che qualcuno debba crearlo. Si
percepisce la comunità giovanile come contenitore vuoto che
paradossalmente non si riempie mai, perché in realtà si finisce per riprodurre
l’effetto delega che si intendeva combattere. ·
Si ha
fretta di responsabilizzare i
ragazzi “agganciati” disegnando astrattamente modelli di interazione
eccessivamente rigidi e strutturati che spesso si infrangono di fronte alla
realtà, cercando di adattare la realtà all’idea preconcetta di come i
ragazzi dovrebbero, nell’ottica dell’operatore, organizzarsi. La
preoccupazione maggiore diviene quindi quella di controllare ciò che avviene,
piuttosto che mobilitare le energie esistenti e spesso non visibili
immediatamente. L’equivoco nasce dal pensare di agire per qualcuno in sua
assenza. Per
tutti questi motivi diviene fuorviante una definizione dei bisogni in base alla
percezione soggettiva dell’operatore, che interpreta spesso in base alla sua
formazione, alle sue esperienze, alle sue aspettative. Per ovviare a questo
rischio occorre lavorare a condizioni in cui i ragazzi\e possano esprimersi e a
definire i bisogni che vivono come importanti. In questo modo gli si riconosce
il potere decisionale, in modo tale che il desiderio di poter cambiare
venga vissuto come una necessità e non come qualcosa rispondente ad aspettative
del mondo adulto. Nella
nostra esperienza, si è passati dalla frustrazione delle aspettative degli
operatori ad un processo di ridefinizione del metodo adottato, passando dal
“lavoro per attirare le persone in modo che si responsabilizzino” al lavoro
“ per scoprire a quali condizioni le persone possono e vogliono partecipare,
dove il coinvolgimento assume significato e
permette ai ragazzi di riconoscersi protagonisti della soddisfazione dei
propri bisogni. Nel
caso dell’esperienza fatta durante le attività creative si è cercato di
lavorare alla 1)
definizione dei bisogni attraverso il “mezzo” ludico, esperienze
creative il cui contenuto si adatta e risponde ai bisogni e ai linguaggi (media
autogestiti, occasioni di attività collettive, sportive e di altro tipo) 2)
comunicazione o all’influenzamento reciproco,
decisionalità, senso del poter fare, consapevolezza della possibilità
di realizzare aspettative 3)
condivisione di un percorso tra operatori e ragazzi e ri (co)
progettazione delle attività, in prospettiva della autogestione di queste 4)
rapporti di
rete a partire dalle attività concrete presenti sul territorio (e non dalle
esigenze di visibilità delle strutture) rimessa
in comunicazione delle esperienze (al livello degli operatori), e il confronto
tra vissuti diversi (a livello dei ragazzi\e). Su queste basi sono nati momenti
di interazione a livello di Municipio e successivamente cittadino (rete
Educazione , Territorio, Cittadinanza) 4. Perche l’area creativa all’interno di
“Sostegno al contesto” Il sentirsi parte di un gruppo è dovuto a un vissuto
emotivo o simbolico più che a un
legame concreto. Attraverso attività ludiche e simboliche (l’evento, la
festa, la condivisione di una esperienza positiva), il legame emotivo o vissuto
può essere stimolato ad agire attraverso la relazione creativa, ricreando
appartenenze di gruppo fondate sulla cooperazione e il cambiamento sulla
creazione di “valore comune”. Il linguaggio e l’occasione del gioco, ricreano uno
spazio e un tempo in cui esistono regole diverse da quelle quotidiane. La festa
di piazza, una partita di calcio, il momento della condivisione creativa,
possono essere recepiti come quel contesto, quello spazio\tempo propri del
gioco, in cui le regole del quotidiano sono temporaneamente sospese, non valgono
più, un tempo e un luogo in cui altri linguaggi (i linguaggi artistici, la
pittura, la danza, la musica, la teatralità ) creano piacere, vicinanza e
condivisione, sono veicoli per la relazione umana, al di là delle separazioni
del mondo “reale” fatto di conflitti, di non comunicazione e di bisogni
insoddisfatti Il piacere del gioco, della festa, del momento
creativo proprio sia del laboratorio strutturato che del libero uso dello
strumento artistico o tecnologico, o dell’evento musicale o sportivo, lo star
insieme e il convivere in uno spazio\tempo, offrono una vasta possibilità per
poter comunicare, trasferire, aggregare, stimolare la solidarietà fra gli
esseri umani. Favorisce e modula la presa di contatto con le proprie emozioni e
le emozioni “dell’altro” nella sua essenza di essere umano, contribuendo a
creare codici di comunicazione condivisibile. Il
processo avviato dall’area creativa, si è proposto come modello di
comunicazione e relazione tra vari spezzoni giovanili del territorio municipale,
provenienti da contesti e vissuti diversi, stimolando l’attivazione del
singolo o del gruppo, stimolando una relazione improntata alla collaborazione
con i propri coetanei, con il proprio territorio e col resto della popolazione. Si
è cercato di uscire da un modello di “intervento” sui ragazzi
strutturato e circoscritto al contesto di un apposito spazio (centro di
aggregazione giovanile) cercando di comprendere, attraversando i vari quartieri,
le scuole, i luoghi di aggregazione spontanea, le modalità possibili di
espressione dei bisogni e della comunicazione spontanea, usando l’attività
creativa come espediente momentaneo del “fare insieme” per entrare in
comunicazione, offrire l’occasione per esprimere bisogni, immaginare sviluppi
possibili, rimettere in comunicazione energie e risorse. Questa nuova visione
dei processi ha fatto si che l’operatore
non fosse percepito come il tramite di un servizio, l’ultimo espediente
educativo di un mondo degli adulti che fa di tutto per condurre
i ragazzi verso modelli di comportamento, ma semplicemente come colui che
mette a disposizione gli strumenti (la videocamera, il calcio, un computer) per
poter liberamente agire, creare, comunicare.
·
L’attività
creativa, non è il fine, non pretende di soddisfare bisogni, ma è il mezzo per farli
emergere ·
E’
contemporaneamente un processo educativo alla (co)progettazione sui bisogni che
nell’attività emergono ·
E’ un
mezzo per intraprendere azioni per la rimessa in comunicazione, la gestione dei
problemi e il cambiamento ·
Conoscenza
dei bisogni ·
Apprendimento;
dal fare insieme si apprende il senso del poter fare. ·
Cambiamento,
si creano le condizioni per utilizzare le proprie risorse e aspirazioni per Non
è questo un processo di “diagnosi” delle capacità e aspirazioni dei
singoli e dei gruppi basata sulla
separatezza tra “operatori e “utenti”, tra medico e paziente, con compiti
diversi e definiti a priori. I ragazzi non sono un soggetto passivo, né
l’operatore è una realtà separata. La conoscenza di una comunità giovanile,
comporta un’ azione di valutazione, di comportamenti, di condizioni di modalità
di esistenza, di relazioni, che rimandano ad una cultura giovanile, con le sue
norme e la sua storia che l’operatore non è in grado di giudicare. L’attenzione è stata posta sul processo
attraverso cui si “costruisce insieme” e sul ruolo che nel percorso
è svolto dagli stessi ragazzi, che sono gli unici che possono
leggittimare l’agire
dell’operatore. Attraverso questo processo la comunità giovanile può essere
in grado di leggersi, in un processo in cui la lettura dell’ operatore diviene
solo un fattore di una lettura
dinamica e plurale. 5.
Dalla rete delle attività creative del V Municipio alle equipe trasversali a
territori e progetti Su
queste basi, è stato avviato un confronto tra alcune delle esperienze
creative delle associazioni\progetti operanti
nel territorio della V Municipio; gli operatori delle diverse strutture
si sono confrontate su vari aspetti problematici delle rispettive esperienze,
sui tratti comuni e sulle possibili interazioni, in un campo, quello delle
attività creative, in cui ognuno ha sviluppato una sua particolare competenza e
attitudine, ma che vede anche vaste possibilità di sviluppo di sinergie. Da
questa prima fase è nato il tentativo di mettere
in comunicazione sia le varie attività ed esperienze creative esistenti sul
territorio Municipale, che i ragazzi che vi partecipavano. Attraverso tale confronto è emersa la necessità di
avviare trasversalmente alle strutture e agli opertori (a livello municipale e
successivamente a livello cittadino) una riflessione comune e una
coprogettazione di interventi che investissero, rendendo protagonisti i
ragazzi\e, i rispettivi ambiti e contesti quotidiani: i laboratori che
frequentano, i luoghi di aggregazione spontanea, gli ambiti che condividono con
gli adulti (la scuola, gli spazi urbani) con cui spesso esiste una difficile
comunicazione. Questo confronto ha sviluppato a livello locale e
cittadino una serie di attività creative in rete (o gruppi di lavoro) in
relazione alla gestione di percorsi, scambi di esperienze, organizzazione di
tornei di calcetto intermunicipale, laboratori creativi in comune.
Successivamente tale contaminazione a più livelli ha prodotto la
rete cittadina “ETC”, attraverso momenti di incontro cittadino
(Convegno “educazione territorio e cittadinanza” presso la scuola media
Leonori in XIII Municipio) e nazionale (Seminario “passione e intelligenza”,
Novembre, Verona). Sono state complessivamente coinvolti i progetti 285 di
sei Municipi, i progetti di Mediazione sociale, scuole, associazioni
sindacali, singoli operatori sociali e insegnanti, trenta associazioni del
privato sociale a livello nazionale. Il dibattito è proseguito in un magma di
scambi tra territori, gruppi trasversali di lavoro, confronto coi ragazzi sui
territori e tra i ragazzi dei vari territori, costruzione di un sito comune e di
un confronto telematico (www.minoriarischio.it,
dove per minori a rischio si intende non tanto i ragazzi ma proprio le
esperienze di educativa territoriale che nel panorama culturale Italiano e
romano in particolare sono appunto una minoranza a rischio..) Ci
si è interrogati sul senso che le
attività proposte avessero per i giovani che le frequentavano, ma soprattutto
per coloro che NON le frequentavano, come arrivasse loro la comunicazione (o
come NON arrivasse), quale uso del tempo libero i ragazzi facessero e
soprattutto quanto le attività proposte li coinvolgessero realmente. Da qui il
processo di costruzione di un convegno atipico quale “Adesso parliamo noi”,
un momento che si sforza di nascere dentro un processo di costruzione e
continuare in futuro come tale, avendo nella trasversalità il suo motore. All’interno di questo processo che parte da gruppi
di lavoro, dal lavoro territoriale, da momenti di confronto continuo che oggi
potremmo definire potenziali Equipe Trasversali di Lavoro (trasversali
alle strutture del privato sociale, ai vari progetti 285, ai vari territori
delle periferie romane), sono stati messi in comunicazione e si sono incontrati
i ragazzi e i genitori di tanti quartieri romani, Quartaccio, Ottavia,
Montemario, Pietralata, Tufello, Rebibbia, Tiburtina, ecc. L’ obiettivo ancora
da raggiungere ma di cui si stà lavorando
è quello di creare, non
solo e non tanto una rete di operatori e di attività tesa al confronto sui
metodi adottati, ma reti territoriali e transterritoriali tese alla rimessa in
comunicazione dei ragazzi, alla restituzione della parola e della legittimità
di decidere e di progettare a partire dall’autogestione da parte loro di
alcune attività, alla creazione di canali di comunicazione mediale (giornali,
siti internet, videotape, produzioni musicali) trasversali ai singoli territori,
strutture, gruppi. In
particolare si stà lavorando a un
momento di messa in comunicazione
delle varie esperienze creative e dei tanti giornali di quartiere esistenti, uno
spazio a disposizione e gestito dai ragazzi dei vari territori e delle scuole,
uno strumento non solo cartaceo ma che può tramite la rete telematica
essere a disposizione di chiunque, un “giornale dei giornali di
quartiere” il cui scopo sia la rimessa in comunicazione orizzontale di
gruppi redazionali o di singoli , uno strumento autoprodotto
e autodistribuito nei luoghi di abituale frequentazione. Un esperimento
che mira a rappresentare un occasione di espressione dei bisogni e dal quale far
partire una reale progettazione partecipata di ulteriori esperienze
creative. E’ essenziale ribadire che questo non sarà “il corriere dei
piccoli”, i cui contenuti sono filtrati da adulti e operatori, ma quello che
ci si scriverà sarà proprio
quello che i ragazzi esprimono così come sono. 6. Perché l’educativa di strada è una risorsa da
sostenere (e fa bene alla salute…dei territori e delle generazioni adulte) Le
varie attività di educativa territoriale, ci parlano della necessità di
processi che, a partire dai giovani, si rivolgono all’intera comunità,
comunicano con gli adulti e gli anziani, coinvolgono le donne come elementi
attivi e propositivi. Occorre un approccio nuovo al territorio urbano, un
approccio che ci consenta “a partire dalla strada” e dalle comunità
giovanili e a partire dai bisogni che si esprimono nei territori, di poter
lavorare all’interno delle comunità
di quartiere, di poter di nuovo agire sul senso di appartenenza e sulla
convivenza. I
progetti di “Educativa territoriale”, spesso hanno lavorato “oltre” il
semplice intervento su un target di popolazione (in questo caso
l’adolescenza), prendendo in considerazione il territorio nella sua interezza
e complessità, lavorando realmente in rete con l’associazionismo
locale, le scuole. Spesso l’incontro con altre metodologie ed esperienze (ad
esempio la Mediazione Sociale, l’arteterapia, i tradizionali modelli di
intervento dei comitati di quartiere, alcuni direttori didattici e insegnanti)
ha rappresentato un’esperienza di reciproco arricchimento e contaminazione,
facendo crescere il senso di responsabilità individuale e sociale nei confronti
del degrado ambientale, della qualità della vita nei quartieri, individuando
nella comunità territoriale il luogo e i soggetti privilegiati per ricostruire
momenti di socialità, di mediazione e di gestione del territorio. All’interno di questo percorso si è
potuto verificare l’importanza del ruolo dei giovani all’interno delle
dinamiche comunitarie e territoriali e come divenga necessario
l’integrazione di interventi che vedono protagonisti i giovani con le
istituzioni scolastiche, con azioni riguardanti la mediazione dei conflitti e la
riqualificazione del territorio e del verde, per promuovere e sostenere una
cultura e delle prassi che vedano anche i giovani protagonisti insieme a tutti
gli altri attori coinvolti in relazione alle politiche di sviluppo delle comunità Ci
riferiamo alla necessità di una attenzione diversa, in primo luogo delle
Amministrazioni, ad una metodologia che concepisca la prevenzione del disagio
giovanile come non separabile da un lavoro più generale sulle comunità
giovanili e il contesto sociale di appartenenza dei giovani, un’ottica
dove venga restituita centralità ai bisogni e alle problematiche, partendo
dall’adolescente come parametro di una delle possibili letture del territorio,
attraverso l’inclusione dei linguaggi dei ragazzi\e nella molteplicità dei
linguaggi che modellano l’ambiente di vita, ristabilendo la
comunicazione tra le varie generazioni, capendo le modalità adatte alla
ricostruzione del tessuto sociale. L’esperienza
sin qui realizzata ci mostra anche che il degrado urbano potrebbe essere
affrontato puntando all’attivazione e valorizzazione delle capacità critiche,
comunicative e relazionali dei bambini e degli adolescenti,
dal loro bisogno di “stare insieme”, del loro bisogno di “fare cose
giocando”. Si
è “giocato” a recuperare e
mantenere in vita i luoghi della convivenza sociale, piazze e spazi verdi
mettendo in relazione positiva identità personali, sociali, generazionali ed
etniche, inventando e strappando al degrado e all’abbandono luoghi pubblici e
collettivi, oggi abitati e partecipati perchè nati e progettati dalle categorie
sociali e generazionali che abitualmente li abitano. L’approccio sperimentale scelto da
molti degli operatori sui territori è partito dalle aggregazioni giovanili, informali attribuendole il ruolo
di reale attore del mutamento, cercando insieme ai ragazzi e alle ragazze, la
possibilità di apportare mutamenti al proprio ambiente quotidiano rompendo una
tradizione di vandalismo bei confronti dell’arredo urbano e degli spazi
pubblici, ricercando la mediazione tra le esigenze dei ragazzi\e e quelle degli
adulti rispetto all’uso dello spazio. Le aggregazioni spontanee di giovani,
“le comitive” e le loro modalità di uso dello spazio urbano, testimoniano
il bisogno di condivisione di un territorio e di stili di vita, un sentirsi
parte di un insieme. I giovani usano strade, parchi e piazze per le loro
esigenze di socialità, ma senza percepire quegli spazi come risorsa, come
possibilità di crescita, anzi spesso, proprio lo spazio urbano, diviene luogo
di conflitto e oggetto di vandalismo. Il
marcato innalzamento del vandalismo in spazi pubblici, nei confronti
dell’arredo urbano e delle scuole sono testimonianza del non riconoscimento
come propri i luoghi in cui si vive quotidianamente. Tale dato contraddice
contemporaneamente la forte tendenza delle aggregazioni giovanili spontanee
all’abitare il territorio durante il tempo libero, al riempire di significato
le piazze e gli spazi comuni. Favorire
le condizioni in cui i ragazzi\e possano esprimersi con consapevolezza sulle
scelte e sui cambiamenti dell'assetto urbano, sull'organizzazione della vita
sociale, sulle strategie ambientali è divenuto in molti casi uno degli
obiettivi delle esperienze di incontro reciproca contaminazione tra operatori e
progetti che utilizzano l’approccio rappresentato dal lavoro di comunità,
dall’educativa territoriale, dalla mediazione sociale. In alcuni casi, tali
esperienze hanno trovato a livello
operativo, sul territorio, il modo di integrarsi, coinvolgendo i gruppi di
adolescenti, ristabilendo la comunicazione
con la popolazione adulta,
rendendo vissuti ed abitati luoghi prima percepiti degradati ed insicuri,
cercando di capire le modalità adatte alla ricostruzione del tessuto sociale,
agendo per il potenziamento delle risorse umane dei quartieri e il recupero di
appartenenze in contesti in cui l’assenza di identità è una delle principali
fonti di isolamento sociale, di devianza e di insicurezza tra la popolazione. Valorizzare
l'originalità della prospettiva "a misura di adolescente" ,
come parametro di una delle possibili letture del territorio, attraverso
l’inclusione dei suoi linguaggi, dei suoi bisogni e comportamenti
nella molteplicità dei linguaggi che modellano l’ambiente di vita,
restituendo ai ragazzi un ruolo, che vada oltre la percezione di potenziale
problematicità e di disturbo che il mondo adulto costruisce. Questa
è stata l’esperienza “a partire dalla strada” (ma anche dalle scuole, o
da qualsiasi altro “punto di aggregazione” dei ragazzi) fatta dagli
operatori di “Sostegno al Contesto”. Ma
è (con le dovute differenze dovute alla diverse storie degli operatori,
dei ragazzi, del territorio e delle comunità) la stessa esperienza di tante
esperienze di educativa territoriale, dei progetti di Mediazione Sociale, di
molti insegnanti e scuole operanti in molti quartieri della periferia romana.
E’ l’esperienza di Quartaccio, di Ottavia, di S.Basilio, dei maestri di
strada napoletani o degli operatori dei vicoli di Genova. Si
investono risorse nella ristrutturazione di parchi e punti verdi, di piazze e di
spazi pubblici di questa città, si parla spesso di lavoro di rete, di
progettazione partecipata. Ma rete e progettazione partecipata spesso
coinvolgono reti già formalizzate, associazioni già consolidate. Le persone
sono altrove, i ragazzi sono altrove. Assistono ai cambiamenti, a una
Partecipazione (con la maiuscola) che ha tempi e modi che non li incontra mai (o
quasi mai). Occorre
un modo diverso, una partecipazione con la minuscola, che si nutre di informalità,
che parte dai ragazzi\e e dalle comunità del territorio, dalle persone in carne
ed ossa. Occorre costruire sui territori processi globali, fatti di presenze
leggere e disposte a mutare come il territorio richiede, operatori che divengano
meticci (in parte operatori in parte divenuti interni e vicini alla comunità),
che sappiano ascoltare, restituire, coprogettare, coinvolgere. E
occorre la stessa umiltà, sensibilità e capacità di ascolto da parte degli
amministratori. L’ascolto necessita di tempo e pazienza, perché il tempo
dev’essere quello del territorio, il tempo di divenire consapevole delle
potenzialità creative che racchiude. Occorre comunicazione, nel territorio e
tra gli amministratori. Occorrono “piani di sviluppo sociale” che
accompagnino i piani di recupero urbanistico e del verde. Che prevedano
un lavoro sulla mediazione dei conflitti nella comunità integrati con
interventi più specifici di educativa territoriale e che prevedano una ruolo
della scuola nei confronti del territorio. E
per fare questo occorrono operatori formati al lavoro nella comunità,
che sappiano lavorare sui conflitti, che sappiano leggere e tirar fuori
potenzialità. Occorre un privato sociale, che non persegua il solo interesse di
parte ma che comprendano la “convenienza” di praticare e non di enunciare
soltanto, il lavoro di rete sul territorio. Occorre
una scuola che sappia ascoltare, che faciliti passaggi burocratici, che metta
gli insegnanti che vogliano comunicare e attivarsi col territorio in grado di
imparare e lavorare, occorrono scuole che si pongano alla pari coi tanti attori
sociali, cittadini e ragazzi\e coinvolti nel processo, che si percepiscano parte
della comunità e non come istituzione separata e autoreferenziale. Occorrerebbe
interazione tra i vari Assessorati e (possibilmente) i Municipi in relazione
allo specifico territorio. Allora
avremo un percorso sociale davvero
partecipato, avremo parchi strade e piazze coprogettate e abitate e curate dalle
persone e dai ragazzi\e, avremo non solo progetti 285, centri di aggregazione,
scuole, progetti di mediazione, progetti di recupero urbano ecc., ma una serie
di attori che condividono, ognuno partendo dal suo specifico, un’ obiettivo
comune: la costruzione di una comunità territoriale basata sul bisogno di
benessere e di agio, sulla creazione di valore. Fantascienza?
Forse! Dopotutto occorre vedere qualche buon film di fantascienza o leggere
qualche fumetto ogni tanto, per capire dove stanno andando le più seguite (dai
ragazzi) agenzie formative del momento (i media appunto), ma questo è un altro
discorso. Fantascienza……oppure
la nostra Passione e Intelligenza. |