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Perchè la sinistra
non ha capito
Una sinistra che, malgrado la sua tradizionale
attenzione alle forze produttive e alla composizione sociale, non ha capito
nulla di cosa stava succedendo con la fine del fordismo e la globalizzazione.
Una risposta sempre verticistica e “politica”. 24 milioni di persone vivono
d’impresa, la maggior parte al Nord. La risposta semplicistica della destra.
Il conflitto fra flussi e luoghi, il nodo fondamentale. Intervista a Aldo Bonomi.
Aldo
Bonomi, sociologo e ricercatore, vive a Milano.
Il
tema di cui vorremmo parlare è sinistra e questione settentrionale…
Intanto, credo vada fatta una considerazione desolante.
La questione settentrionale rimanda in primo luogo al cambiamento strutturale
delle forze produttive e della composizione sociale, entrambe profondamente
mutate, dagli anni ‘90 in avanti, dalla globalizzazione. Ebbene, la sinistra
aveva tutti gli strumenti culturali, metodologici, addirittura di tradizione,
per interpretare il cambiamento. Pensiamo alla scuola di pensiero dei Quaderni
rossi, a Torino, che fu capace di leggere i grandi cambiamenti, di individuare
nell’operaio massa fordista il cuore di una nuova composizione sociale.
Sarebbe stato “facile”, nella misura in cui si applicava quel metodo, capire
quello che stava succedendo, invece nulla, non ha capito nulla. Come è
possibile che coloro che sapevano tutto della fabbrica, della catena di
montaggio, del rapporto fabbrica–territorio (sto parlando dei grandi temi che
sono arrivati a compimento negli anni ‘70, ’80), a un certo punto si siano
trovati completamente spiazzati di fronte al nuovo cambiamento?
Questo è il primo, grande interrogativo, e devo dire
che non ho mai visto tracce di ripresa. Anzi.
C’è infine un terzo effetto, oltre alla
destrutturazione delle precedenti forme produttive e al mutamento della
composizione sociale, ovvero il fatto che le persone non si riconoscono più in
ciò che gli era abituale ed è forse questa la questione più delicata, dove la
sinistra “va più in palla”, perché è più un effetto antropologico, che
infatti si può interpretare con la teoria di Ernesto de Martino
dell’apocalisse culturale.
Ma come spieghi concretamente questa incomprensione?
In primo luogo perché invece di guardare in basso, si
è guardato in alto. E questo ormai avviene da molto tempo. La sinistra ha fatto
della questione settentrionale una pura questione politica. Siccome quello che
stava avvenendo al Nord veniva quotato al mercato della politica dal leghismo e
poi dal berlusconismo, la sinistra ne ha fatto una pura questione di scontro
politico–ideologico, attestandosi su una linea di conservazione, di
conservazione innanzitutto della “forma dello Stato”, messa in discussione
in maniera tumultuosa, disordinata, dal leghismo e dal berlusconismo e, ancor più
grave, di attaccamento a “una dimensione di classe” ormai sopravanzata da
quelle dell’individuo e della comunità.
Si aggiunga infine che in tutto questo si è inserita
pure la transizione verso l’Unione europea, sostenuta fortemente dalla
sinistra, ma con una battaglia tutta verticistica, e forse possiamo cominciare a
capire perché in alcuni territori la sinistra sia al 10–20%, cioè quasi
scomparsa.
Un’apocalisse politica, oltre che culturale…
Io continuo a dire che era facile capire, forse perché
ho sempre studiato partendo dal punto di vista della composizione sociale.
Negli anni ‘90 cosa è successo? In primo luogo la
crisi profonda che ha investito quel po’ di grandi imprese che noi avevamo.
Alcuni grandi gruppi fordisti non riescono a reggere l’urto della
globalizzazione, della competizione internazionale. Si smantella l’Iri... Sono
grandi cambiamenti che hanno come epicentro alcuni territori: Genova, Torino,
Porto Marghera, non a caso luoghi emblematici dell’operaismo italiano, in cui
si è formata la cultura della sinistra.
Il secondo grande processo è quello che disarticola i
distretti produttivi, la cosiddetta “terza Italia”, che perde il vantaggio
competitivo della svalutazione e del costo del lavoro, i vantaggi, cioè, su cui
era cresciuto parte del capitalismo italiano. Io ricordo che la prima volta che
ho sentito parlare di globalizzazione, ci tengo sempre a dirlo, non fu a una
riunione di no-global, ma a Pistoia, nel 1989, a un incontro della
Confartigianato, in cui un gruppo di artigiani del tessile dissero che erano
sotto stress per la globalizzazione. Era iniziata la competizione, sul costo del
lavoro innanzitutto, dei paesi dell’Est. Ed erano stressati per questo, non
per una questione ideologica.
Quindi oltre ai grandi gruppi, entra in crisi il
modello produttivo dell’economia diffusa, del capitalismo molecolare.
Tutto questo cosa produce sulla composizione sociale?
Produce tre soggetti sociali che io ho chiamato gli orfani del fordismo, gli
stressati e gli spaesati.
I primi: allora una delle mie prime ricerche, che venne
commentata dalla Rossanda, che ne discusse anche con Gad Lerner, fu quella sulla
paura operaia. Non gli operai che facevano paura, ma gli operai che avevano
paura. Ricordo che nell’83, uno degli operai che frequentavano le 150 ore
disse: “Siamo come nei campi di concentramento, non abbiamo più soggettività”.
Gli stressati erano quei padroncini inseriti dentro i
distretti produttivi che, non avendo più come fattore competitivo il basso
costo del lavoro e la svalutazione, andavano in crisi a migliaia.
Solo che mentre degli orfani del fordismo ce ne
occupavamo tutti, “facevano questione” culturale -gli operai della Fiat,
l’aumento dei suicidi fra i cassaintegrati- di quello che avveniva nel mondo
degli stressati non se ne occupava nessuno. Alla fine degli anni ‘80, primi
anni ‘90, erano tantissime le imprese che fallivano, interi cicli produttivi
andavano in crisi, le banche chiudevano i fidi e ovviamente intere famiglie che
avevano tirato su il capannone attaccato alla villetta andavano sul lastrico.
Infine gli spaesati, quelli che, letteralmente,
cominciavano a rimanere senza paese. Questi abitavano non tanto nel cuore delle
aree urbane, o pedemontane, dove c’era il modello produttivo degli stressati,
ma nelle vallate alpine, nelle periferie o nei piccoli paesi, che cambiavano
completamente. Quello che veniva meno era la dimensione del paese, anche nei
paesi arrivava la ipermodernità, che poi non voleva dire altro che arrivava il
tossicodipendente, chiudevano i negozi di prossimità, aprivano gli ipermercati,
chiudevano i circoli Acli.
Di tutto questo noi, allora, ce ne occupammo? Ci
occupammo della “rivoluzione” che stava succedendo? Non ce ne occupammo. La
politica era già dentro un meccanismo di autoreferenzialità. La politica era
tutta distratta in battaglie di vertice. Basta ricordare cosa succedeva negli
anni ’90: a sinistra un contenzioso epocale tra i socialisti e i comunisti,
con tutto il resto che veniva avanti, la caduta del muro di Berlino e quant’altro...
rimasero tutti presi dalla loro crisi, senza mai chiedersi se la propria non
fosse parte di una crisi che attraversava nel profondo la società.
La destra, in qualche modo, a quelli che tu chiami
gli spaesati, gli stressati, e gli orfani del fordismo, una risposta l’ha
data…
Negli anni ‘90 è vero che tutti questi ceti si
trovarono di fronte a una sola proposta: il populismo. Si disse loro: “Tu,
orfano del fordismo, sei rimasto senza appartenenza di classe; tu, stressato,
sei rimasto senza più appartenenza di individualismo proprietario; tu,
spaesato, sei rimasto senza paese. Beh, la risposta è nell’identità di
territorio”. Non le pluri-identità complesse, ma quella più facile, più
disponibile, l’identità di territorio. L’intuizione politica del leghismo
fu questa, capire che, entrando in crisi le appartenenze, cominciavano a pesare
le identità. E di riscoprire la propria “identità territoriale” l’hanno
proposto all’operaio. E quanto ha perso la sinistra nei quartieri operai?
Tantissimo. Allora su questo feci ricerche per la Cgil, con Terzi. Racconto
sempre un aneddoto: quando facemmo la prima ricerca col sindacato sui temi della
paura operaia e della Lega, ricordo che in un convegno a Milano, in cui
presentammo i risultati, c’erano De Rita, Goria, Del Turco e D’Alema. Ora,
mentre Goria e De Rita capivano la gravità di quello che stava succedendo, Del
Turco, allora segretario aggiunto della Cgil, se ne uscì con un giudizio
sprezzante e liquidatorio: “Ma perché vi siete occupati di questi quattro
imbecilli che non sanno neanche parlare in italiano?”. Ci rendiamo conto qual
era l’atteggiamento aristocratico, elitario, l’autonomia del politico, tutta
autoreferenziale, con cui venivano affrontati questi temi? Riccardo Terzi e
altri avevano capito i fenomeni e se ne erano occupati, però poi non si
sfondava sul piano della politica. D’Alema reinterpretò queste cose solo sul
“patto delle sardine”: mettersi d’accordo con Bossi per battere Berlusconi,
ma anche questo in un quadro politico del tutto autoreferenziale e
disinteressato ai processi sociali.
E agli stressati cosa disse la Lega? Disse una cosa
molto semplice, che il problema non era innovare l’impresa, il prodotto e i
processi dell’impresa per reggere la sfida della globalizzazione, ma che la
colpa era di “Roma ladrona” e delle tasse. E agli spaesati: “Dobbiamo
difendere la nostra comunità dagli stranieri che arrivano”. Erano risposte
che hanno colpito l’immaginario.
Quale risposta abbiamo dato noi? Sarebbe stato
necessario per la sinistra riscoprire una parte della sua “storia”, una
storia purtroppo sconfitta e dimenticata durante il 900, in cui la parola
comunità aveva un senso. Ma la sinistra che aveva vinto, presa totalmente dalla
logica capitale–lavoro e lo Stato in mezzo per redistribuire, aveva perso per
strada ogni discorso comunitario, che restava patrimonio di correnti minoritarie
come l’anarchismo, o di esperienze che partivano dalla comunità locale, dal
soggetto, dall’individuo, praticando forme di autogoverno, di democrazia
diretta, di mutualismo.
L’Emilia Romagna forse è stato il posto in cui la
sinistra s’è posta il problema di fare “comunità”. Si parlò allora del
“problema di afferrare Proteo”. Non sono sicuro, ma credo che sia stato
proprio Togliatti a scrivere un pezzo su “Rinascita”, negli anni ‘60, in
cui, riferendosi al modello reggiano che veniva avanti, il modello delle
fabbrichette, degli operai che si facevano imprenditori, eccetera, disse: “Ma
noi dobbiamo afferrare Proteo”, cioè fare un patto con questa nuova
composizione sociale.
Qui il problema era lo stesso: rispetto alla
composizione sociale degli stressati, bisognava porsi di nuovo il problema di
come riafferrare Proteo. Non si è fatto. Anzi: tutti quelli che erano stressati
venivano dipinti come bastardi, evasori fiscali, eccetera. E dire che quando
incontravo i piccoli imprenditori, quelli classici, col capannone e la villetta,
e chiedevo: “Ma scusa, tu cosa sei?”, “Io sono un padrone”; e poi: “Ma
di chi è il capannone?”, “Ah no, il capannone ce l’ho in leasing dal mio
fornitore”, che poteva essere Benetton, “Ma chi ti dà le merci?”, “Le
merci me le dà sempre Benetton, che mi dà anche i colori, i tempi, i
ritmi...”. Cioè, lui doveva essere il padrone, il proprietario dei mezzi di
produzione, ma non aveva niente, era semplicemente un prestatore d’opera, a
rischio di proletarizzazione. Voglio dire che c’era una saldatura fra
padroncini e operai che vivevano la stessa logica dell’impresa da mandare
avanti. Noi, su questo, non abbiamo lavorato. A questi tre ceti non abbiamo dato
nessuna risposta, e così sono stati quotati al mercato della politica dal
leghismo, prima, e dal berlusconismo dopo. Il primo esaltando l’identità di
territorio, il secondo additando come nemici la tassazione, la statualità,
lacci, lacciuoli e quant’altro.
Poi, però, ci si è accorti dei limiti delle
proposte della destra…
Negli anni 90 ci preoccupava la minaccia di secessione,
ma i soggetti sociali sono più intelligenti e disincantati di quanto si pensi,
e il patto fra questi tre soggetti e il leghismo e il berlusconismo è durato lo
spazio di un mattino, dopodiché tutti quanti sono tornati alle loro attività
per rimettersi sotto sforzo e cambiare. E così in questi 15 anni il paese è
profondamente cambiato. Abbiamo alcune, poche grandi imprese, tra cui ad
esempio, la Fiat, completamente ristrutturate, fabbriche più snelle e allo
stesso tempo più internazionalizzate e globali. Abbiamo un po’ di grandi
imprese, soprattutto dei servizi, del capitalismo delle reti, come Eni, grandi
banche, Telecom, e quel che rimane dell’Iri, Finmeccanica, Fincantieri. Ma poi
abbiamo 6000 imprese medie, tutte globalizzate e internazionalizzate. Infine
300.000 gruppi di piccole imprese che si sono ristrutturate e 6.000.000 di
capitalisti molecolari. Sono numeri Unioncamere e Mediobanca, non di Bonomi e De
Rita. E siccome però dietro gli otto milioni ci sta spesso una struttura
familiare, questi numeri si possono moltiplicare per lo meno per tre, e fa 24
milioni. Quindi la prima cosa che emerge è che noi abbiamo 24 milioni di
cittadini che vivono di impresa. Poi che siano capitalisti personali,
capitalisti molecolari, precari, medie imprese strutturate, grandi gruppi,
grandi consulenti o partite Iva, d’accordo, sappiamo tutti che è un mare
magnum, però sono 24 milioni che hanno attraversato la transizione, diventando
imprenditori di se stessi, capitalisti individuali, eccetera, facendo, cioè, i
conti con il capitalismo.
Ovviamente questi 24 milioni sono concentrati nel Nord
del paese.
Ma restano invisibili a una cultura della sinistra
rimasta confinata in un ridotto in cui si rappresenta solo l’operaio normato,
salariato a vita e garantito, il dipendente pubblico e il pensionato. Questo è
il dramma.
Non solo. Ma quando questo paese si è messo sotto
sforzo in questi 15 anni per uscire da una transizione epocale, anche feroce,
per riuscire a ristrutturarsi; quando il modello produttivo e la composizione
sociale sono cambiati, ma in meglio, non in peggio, la sinistra non è riuscita
a far di meglio che sviluppare una insana teoria, elitaria, da oligarchia, del
declino. Invece di accompagnare questi soggetti, gli orfani del fordismo, gli
stressati, gli spaesati, al cambiamento epocale che stava avvenendo, la sinistra
ha cominciato a dire che, secondo i grandi parametri della globalizzazione -che
la sinistra ha fatto propria in maniera neutra- questo era un paese totalmente
declinante.
Quindi, dopo quella che tu chiami la transizione,
che tipo di capitalismo abbiamo in Italia?
Noi siamo un capitalismo di territorio. Siamo partiti
da una situazione in cui c’erano gli 8000 comuni, i distretti produttivi,
tendenzialmente ci siamo ristrutturati in una quindicina di piattaforme
produttive. Cosa è successo? Quello che era orizzontale è stato verticalizzato
dal sistema delle medie imprese, che hanno fatto sistema del territorio. Quindi
tu hai enormi piattaforme produttive, specie di enormi fabbriche a cielo aperto.
Ad esempio sull’asse Torino-Ivrea, certamente la leadership è la Fiat, però
poi hai tutto l’indotto dell’auto che si è ristrutturato per andare nel
mondo. Queste piattaforme potremmo elencarle: la piattaforma produttiva che va
da Cuneo ad Alessandria, con la Ferrero e tante medie imprese innovative; le
piattaforme della logistica compreso il porto di Genova; la pedemontana
lombarda, che io chiamo la “città infinita”, che va da Varese fino a
Brescia; la pedemontana veneta; tutta la via Emilia e tutta la città adriatica.
Ho citato solo le enormi piattaforme produttive del Nord. Fermiamoci qui, non
andiamo giù, perché poi, per fortuna, questo modello è andato avanti, perché
c’è anche l’asse Bari – Matera, l’enorme piattaforma produttiva di
Roma, ma restiamo sulla questione settentrionale.
Questo enorme distretto produttivo si è ristrutturato
e noi competiamo nella globalizzazione partendo dai sistemi territoriali, non
competiamo più solo partendo dal numero delle grandi imprese. Infatti se vai a
vedere le tabelle, in quella della competizione tra imprese, quelle italiane non
sono mai ai primi posti; invece nella tabella della competizione tra i sistemi
territoriali (ed è un modello applicato da soggetti che non ci vogliono bene,
la Datar è del governo francese) le piattaforme produttive italiane sono sempre
ai primi posti nella competizione internazionale.
Allora, se noi prendiamo come epifenomeno la
piattaforma produttiva lombarda, la “città infinita”: hai mezzo milione di
imprese, fra capitalisti molecolari, medie imprese o grandi imprese
transnazionali, Ibm, Microsoft, eccetera; con due milioni di addetti. Apro una
parentesi: se qualcuno ha nostalgia della classe operaia e dei grandi numeri,
eccoli qua. Non è che siano scomparsi, non è che non ci siano più, solo che
non sono più concentrati in un unico luogo, come nel fordismo. Noi, noi
sinistra dico, con quei due milioni di addetti, non abbiamo rapporti. Ma non
solo, vado oltre: in quella piattaforma produttiva, hai il maggior numero di
agenzie del lavoro interinale in Italia, il maggio numero di sportelli bancari,
il maggior numero di università decentrate, il maggior numero di centri
commerciali e il maggior numero di sale cinematografiche... E’ cambiato tutto.
Ma anche se vai in quella della città adriatica, certo
hai il turismo, ma non hai più solo il turismo, c’è la Ferretti, Technogym,
Scm di Rimini, leader delle macchine del legno a livello mondiale. Medie imprese
leader, questa è la cifra. Medie imprese che sono leader nel mondo e che
trainano tutto il sistema territoriale.
Qual è il problema? Che in queste piattaforme
produttive, per competere nella globalizzazione, diventano strategici i beni
competitivi territoriali, cioè le autostrade, i porti, gli aeroporti, gli
interporti, le università, eccetera. C’è un problema di richiesta di
modernizzazione, di infrastrutture, che la politica non dà. Primo grande
contenzioso: e qui, per l’ennesima volta, non abbiamo capito nulla. Capisco
che allora potevi anche essere spiazzato, ma dopo 15 anni, vuoi ricominciare a
capire? La prima domanda che ti fanno è una domanda di modernizzazione, di
sistema, inevitabile, rispetto alla quale la sinistra deve avere una posizione.
Secondo grande dato: per reggere queste enormi
piattaforme produttive, che sono ancora piattaforme produttive manifatturiere,
abbiamo bisogno di forza lavoro ed ecco che sono arrivati migliaia di immigrati,
che non pongono problemi dentro le mura dell’impresa, perché dal punto di
vista lavoristico li abbiamo inclusi tutti, solo che è iniziata una seconda
fase, i problemi sono tutti fuori. E quindi il tema dell’immigrazione, che
significa una visione della società dell’immigrazione, diventa strategico.
Gli altri ce l’hanno. Gli altri dicono “tutto bene dentro l’impresa,
bastardi fuori dalle mura dell’impresa”, che non è una posizione
accettabile, ed è strategicamente debolissima, però populisticamente funziona.
Allora devi avere una visione. Devi prendere atto che ormai, in queste
piattaforme produttive, siamo una società multietnica, in questi 15 anni lo
siamo diventati e quindi devi avere una posizione.
Terzo e ultimo punto: in queste enormi piattaforme
produttive è cresciuta una nuova composizione sociale. Soggetti che fanno
consulenza alle imprese, partite Iva, giovani, eccetera. Oltre agli operai, fra
i due milioni di addetti ci sono nuovi soggetti della creatività, della
consulenza, rispetto ai quali devi avere una visione di futuro. Le abbiamo
queste visioni?
Veramente vien da pensare che la catastrofe della
sinistra al Nord fosse del tutto prevedibile…
Certo, alcuni politici che erano ai bordi del vulcano,
come Chiamparino a Torino e Cacciari nel Nord-est, hanno capito cosa succedeva,
ma vox clamans in deserto… Non sono stati ascoltati.
E’ come se la sinistra, con il meglio della sua
cultura socialdemocratica, avesse preso il “palazzo d’inverno” quando
ormai era cambiato tutto. Lo ripeto: la sinistra ha interpretato il cambiamento
nello schema classico del 900: conflitto fra capitale, lavoro e lo Stato in
mezzo che redistribuisce. Ma dal ‘90 in avanti è cambiata la forma del
capitale, la forma del lavoro e inevitabilmente è andata in crisi la forma
della statualità, non ultimo per via dell’Unione Europea. Quindi litigare
tutti sul tesoretto, come se ci fosse ancora una potenzialità statuale di
redistribuire, e quindi un modello, anche di concertazione, da rispettare, non
è certo il modo migliore per raccogliere le sfide che il cambiamento avvenuto
ci pone davanti.
Per concludere, qual è secondo te il punto nodale
attorno a cui costruire una prospettiva e una politica?
Il vero problema è il conflitto fra i flussi e i
luoghi. Cosa vuol dire? Ci sono dei grandi flussi che sono entrati nei luoghi,
li hanno disarticolati e cambiati, dal punto di vista produttivo, della
composizione sociale, dell’apocalisse culturale. Sono i flussi delle
transnazionali, dell’immigrazione, della finanza, dei corridoi come la Tav,
della logistica, delle Internet Company. Pensiamo a quanto questi cinque flussi
hanno cambiato il nostro vivere. I flussi hanno mutato completamente i luoghi.
Oggi ciò che si chiede alla politica -che è più che
mai necessaria al contrario di ciò che qualcuno potrebbe pensare- è di
mettersi in mezzo fra i flussi e i luoghi, prendere i luoghi, accompagnarli ad
agganciarsi ai flussi e tornare indietro. Certo, ci sono visioni meramente
competitive che dicono: “Perché questo luogo sia agganciato ai flussi c’è
bisogno dell’autostrada, dell’aeroporto, dell’università…”.
Attualmente la logica è puramente competitiva, però
dentro questa logica c’è anche tutto un ragionamento sul nuovo welfare, sulla
coesione sociale. Perché sappiamo tutti che se un luogo è agganciato ai flussi
vive, se è fuori dai flussi, è desertificato. Basta guardare la mappa del
mondo: i luoghi che non sono “agganciati” hanno come unico destino fame,
miseria, guerre civili, povertà. Noi siamo privilegiati da questo punto di
vista, dato che siamo qui a ragionare sulle nuove forme della politica, che si
chiamino contenitori come il Pd o la sinistra europea.
Di nuovo, serve una politica che si metta in mezzo tra
i flussi e i luoghi, con una capacità di accompagnare i luoghi nei flussi e
contaminarli, questo è il vero punto nodale. E non è una teoria sballata,
perché se vai a vedere i grandi punti critici, sono tutti conflitti classici
fra flussi e luoghi.
Ne cito solo tre, a Nord: la Tav, una comunità locale,
che si sente attraversata da un flusso, e che si mette di traverso. Il flusso,
dico io, probabilmente è necessario per le piattaforme produttive, ma il vero
problema è che tu non lo risolvi se non negozi, se non accompagni il luogo, se
non spieghi, se non hai appunto una cultura dell’accompagnamento, che si
confronta con la cultura dei luoghi, che a volte esprimono resistenza, a volte
domandano l’ipermodernizzazione. Secondo esempio: Vicenza, lì c’è anche
l’implicazione pace, mondo, eccetera. Un enorme flusso, in questo caso è una
caserma, che atterra in un luogo, e quelli si incazzano. Sono due cose su cui il
governo ha rischiato di cadere, perché non ha cultura per l’accompagnamento.
La cultura di Berlusconi e gli altri è il liberismo,
quello che conta sono i flussi, ma siccome io non sono un teorico dei flussi...
Il terzo è Opera, dove un’intera comunità si mette intorno a 70 rom, e
brucia i campi nomadi: attenzione, c’è qualcosa di malato che sta venendo
avanti, nel conflitto fra flussi e luoghi, e se non governiamo questi conflitti,
abbiamo già visto: le comunità, i luoghi, si fanno maledetti, e se tu non ti
metti in mezzo, producono rancore, sangue, suolo. O ancora la stessa cosa coi
cinesi.
Questi sono tre esempi di bisogno di una politica che
sappia mettersi in mezzo stare tra flussi e luoghi, riconoscendo forme di
democrazia diretta, di valorizzazione della comunità locale, di federalismo,
eccetera. Per fare questo, però, bisogna costruire forme partito che abbiano
radicamento nei luoghi, nei territori, nelle piattaforme. Quindi, come vedi, non
stiamo parlando di federalismo fiscale o di redistribuzione delle risorse, ma di
rappresentare i luoghi e di rapportarsi con i flussi, perché i flussi sono il
nostro destino, però dobbiamo seguirli accompagnando i luoghi.
Tu ultimamente parli molto di neo-borghesia…
Partendo dal Nord, ho cominciato a ragionare non più
solo sui piani bassi della composizione sociale, ma anche su quelli alti del
capitale. Anche perché penso che il conflitto fra flussi e luoghi lo vediamo
oggi esprimersi innanzitutto nel conflitto fra capitalismo manifatturiero e
capitalismo delle reti. Le piattaforme produttive, infatti, per agganciarsi ai
flussi hanno bisogno di rapportarsi con i nuovi padroni delle reti, che sono le
banche, le multiutility, le autostrade, la logistica, le università, il
terziario, eccetera. Il luogo, per andare nel mondo, ha bisogno di essere
accompagnato dai sistemi bancari, deve produrre conoscenza e quindi ha bisogno
dell’università, ha bisogno di logistica per le proprie merci, eccetera.
Dentro il capitalismo delle reti viene avanti una nuova borghesia globale
completamente deresponsabilizzata rispetto ai luoghi. Allora il problema è
capire se è possibile che questa neo-borghesia cominci a trainare e a
responsabilizzarsi rispetto ai luoghi. Quindi la vera grande questione è se la
nuova classe dirigente sarà adeguata ai tempi della globalizzazione.
Se ho capito, stai parlando di una “obbligazione
sociale” adeguata ai tempi…
Sì, si tratta di ragionare su come dentro questi
processi, soprattutto dentro il capitalismo delle reti, si riproducano elementi
di responsabilità. Io e Cacciari abbiamo scritto: “La proprietà obbliga”.
Quando Falck, a Sesto San Giovanni, fece le acciaierie, sappiamo tutti che là
dentro c’erano lacrime, sangue, sfruttamento. Però il capitalismo dei Falck,
la borghesia del 900, aveva anche l’interesse a costruire le case per gli
operai, quindi il fordismo produceva una qualche forma di “presa di
coscienza”. Adesso, invece, la neoborghesia dei flussi, che non è più quella
territorializzata del fordismo, va responsabilizzata rispetto al territorio in
un modo nuovo.
Sì, si tratta di sviluppare un nuovo senso di
obbligazione sociale. E anche questo è un compito che dovrebbe proporsi la
politica.
UNA
CITTÀ n. 150 - settimo/2007 http://www.unacitta.it/index.html
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