Pino Blasone

5. Critica del fondamentalismo

 

L'originale e l'originario

Nei capitoli precedenti si è cercato di mostrare come la nostalgia dell'originario, il mito di un ritorno alle origini e le possibili strumentalizzazioni politiche, siano elementi ricorrenti in più culture: dalla cristiana all'ebraica, perfino a quella laica, la quale si fa convenzionalmente coincidere con la civiltà moderna. Altrettanto convenzionalmente, al fenomeno si attribuisce la definizione "fondamentalismo". Non di rado, a quest'ultima viene associata la definizione "integralismo". Benché non necessariamente i due fenomeni convergano, intuibilmente è più facile che ciò accada in periodi di crisi particolarmente acuta. Ed è opinione diffusa che la cultura arabo-islamica stia attraversando uno di tali periodi. Qui di seguito, si vaglieranno indicazioni ed elementi utili a un esame della questione.

Volendo, si può far iniziare il pensiero moderno del mondo islamico da una memorabile disputa che oppose Jamal al-Din al-Afghani -- nato presumibilmente in Afganistan, vicino a Kabul, nel 1839 -- al francese Joseph Ernest Renan. Questi aveva discusso nel 1852 a Parigi la tesi di dottorato Averroès et l'Averroïsme. Ivi si rivalutava il pensiero del celebre arabo andaluso. Nello stesso tempo, si svalutava la cultura islamica a lui successiva, avviata verso la stagnazione e la decadenza. Cioè quanto gli stessi musulmani, per la verità, definiscono in arabo taqlîd, inerte tradizionalismo. Ultimo dei grandi filosofi islamici medioevali, interpreti dell'aristotelismo e del platonismo greci, Averroè/Ibn Rushd avrebbe introdotto nella storia del pensiero la distinzione tra fede religiosa e indagine razionale. Essa sarebbe stata alla base dello sviluppo della scienza e del laicismo moderni.

Tuttavia, un indirizzo del genere sarebbe stato respinto per motivi religiosi proprio nel nativo Oriente. Basti pensare alla "Incoerenza dell'incoerenza" (Destructio destructionis, in traduzione latina) dello stesso Ibn Rushd, replica all'"Incoerenza dei filosofi" (in arabo, Tahâfut al-falâsifa) del teologo persiano Al-Ghazali, che aveva avversato la filosofia ellenizzante di Al-Kindi, di Al-Farabi, di Avicenna/Ibn Sina. E' da annotare che perfino un acuto filosofo della storia, come il tunisino Ibn Khaldun, si uniformerà al giudizio negativo in omaggio al realismo empirico e all'ortodossia religiosa. Quasi solo il pensiero di Avicenna seguiterà a godere di un credito nella speculazione mistica e filosofica, soprattutto nell'oriente islamico.

Viceversa, la lezione di Averroè sarebbe stata accolta dalla civiltà occidentale, favorendone il Rinascimento. In altri termini, condizionando in positivo la visione del mondo nonché della società politica. Ciononostante, anche da noi l'averroismo avrebbe incontrato forti resistenze, specie in ambienti ecclesiastici. Una delle prove più note ne è De unitate intellectus contra Averroistas di Tommaso d'Aquino, requisitoria contro i seguaci europei delle idee di Averroè, o delle deleterie conseguenze che essi ne avrebbero tratto. Ci vorrà del tempo, prima che la sua postuma effigie potesse risalire dall'anti-inferno dantesco fino alle Stanze Vaticane, dipinta da Raffaello nella Scuola d'Atene.

Tale, in sintesi, lo schema di Renan, destinato a duraturo successo fra gli orientalisti. Almeno, tra quelli che non erano rimasti affascinati dai Parerga e paralipomena di Arthur Schopenhauer, là dove si esalta la gnosi islamica -- e di frequente ascendente neoplatonico -- cosiddetta del sufismo. Altro è stabilire fino a che punto la lettura di Averroè data da Renan non fosse strumentale. Circa l'aristotelismo del pensatore andaluso, ci si può rapportare a un giudizio di Abdallah Laroui, in L'idéologie arabe contemporaine: "Nel passato gli arabi hanno avuto un Aristotele a loro misura, diverso da quello dei greci". In misura analoga, gli europei si sono ricavati un Averroè discrepante da quello arabo. A un suo recupero all'attualità, è improntato un pensiero arabo recente. Esponente di rilievo, Muhammad ´Abid al-Jabiri in Marocco, nella trilogia Critica della ragione araba.

Una distinzione fra "ragione araba" e "ragione islamica" era stata in effetti suggerita da Averroè, nel "Trattato del discorso decisivo ed esposizione dell'accordo tra legge religiosa e filosofia". Le due concezioni erano ivi complementari, pur spianando la via a una interpretazione non letteralistica né formalistica del dettato religioso: "Là dove la conclusione tratta da una dimostrazione contrasti col significato apparente della sacra scrittura, ciò consente una interpretazione allegorica secondo le regole di tale metodo in arabo". Una moderna lettura estensiva di questo passo e del suo contesto sarà data dal siriano Farah Antun, in un saggio su Ibn Rushd e la sua filosofia. Nasce qui quel travagliato rapporto dialettico fra arabismo e islamismo, che ha informato tanta parte della cultura araba del secolo scorso.

La preoccupazione generale di Averroé era stata di evitare conflitti fra religiosità e razionalità. Nel senso stesso dell'esigenza di un nuovo uso dell'allegoria nell'esegesi dei testi religiosi, e nella scia dell'averroismo europeo, si pronuncerà ben più tardi Galileo Galilei in una famosa lettera a Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613. Alieno da ogni successiva riduzione dualistica del suo pensiero, il pensatore andaluso insiste tuttavia sull'accordo interpretativo da stabilire fra allegoria e analogia con altri passi espliciti della scrittura coranica. Soprattutto, egli aggiunge un particolare riferimento al veicolo linguistico e all'ambiente culturale, cui non sfugge una peculiarità dell'immaginazione araba:

Interpretazione allegorica è l'estensione del significato di un'espressione dal significato reale a uno metaforico. Né si tralascino le convenzioni metaforiche dell'arabo, quale il chiamare una certa cosa col nome di un'altra che le somigli, o che esprima una causa o conseguenza o concomitanza di essa…

A queste osservazioni sull'immaginazione araba nel Discorso decisivo di Averroè, si possono ben accostare quelle reperibili in Il regime del solitario del suo precursore andaluso Avempace/Ibn Bajja. Ivi si attribuisce a tale facoltà un carattere evocativo e nostalgico del passato, ancor più forte di ogni virtù creatrice rivolta al futuro: "Gli arabi attribuiscono alla memoria proprietà che non le sono riconosciute dalla maggioranza degli altri popoli. […] Essi pensano che la memoria è la permanenza del ricordato. […] Il piangere per le case abbandonate o il rattristarsi per le vestigia che qualcuno ha lasciato fanno parte di questo genere di forme, e parte cospicua della poesia degli arabi, così come dei racconti e delle storie, è costruita su questi calchi".

Può lasciare comunque perplessi il dover risalire a un pensiero medioevale, per poi riferirsi a situazioni a noi contemporanee. Un esempio attuale è il film Le destin (Al-masîr) del regista egiziano Youssef Chahine, uscito in Egitto e in Francia nel 1997, non senza suscitare polemiche e censure in patria. La ricostruzione cinematografica della vita di Averroè vi è filtrata da una interpretazione, avversa non solo all'ostracismo religioso subito dal filosofo nell'ultima parte della sua esistenza. Tale critica è chiaramente estesa al fondamentalismo e all'integralismo nel mondo islamico odierno, alle loro pretese di inibire le conquiste dei diritti civili e della libertà di pensiero. Si ribadisce inoltre che quest'ultima non è un'istanza estranea alla cultura araba. Essa è viceversa ricorrente.

Si tenga peraltro presente, quello che per gli occidentali è tardo Medioevo corrisponde all'incirca all'età classica della civiltà araba. La scansione del tempo storico è una convenzione culturale soggettiva. La nozione di Medioevo, frequente adozione di comodo a fini comparativi, può per altri anche suonare straniante o impositiva. In secondo luogo, si tratta di intendersi sulla portata del concetto di contemporaneità. In merito, giova ricordare ciò che il marocchino ´Allal al-Fassi scriveva nel 1952 in "La mia autocritica" (Al-naqd al-dhâtî). Tanto più, quanto nel seguente paradosso è riscontrabile un atteggiamento fondamentalistico non necessariamente congiunto con uno integralistico:

…contrariamente a quello che era il pensiero dominante nei pensatori del XIX secolo, non c'è un progresso ineluttabile. Chiamiamolo dunque evoluzione, il movimento della vita può avvenire sia in avanti sia all'indietro. […] Un errore commesso dalla gente sta nel confondere il contemporaneo con la contemporaneità, ciò che è contemporaneo con quanto si verifica in epoca contemporanea. E' invece possibile che nella nostra epoca non vi sia niente che dimostri uno "spirito contemporaneo", mentre sia di essenza contemporanea qualcosa sviluppatosi nella storia medioevale o anche in un'epoca primitiva.

Malgrado trascorsi vicini all'integralismo, a un pensatore quale Al-Jabiri possono oggi essere accostati Hasan Hanafi e Nasr Hamid Abu Zayd in Egitto. Con altri intellettuali laici se non laicisti, essi sono stati soggetti a persecuzioni o a intimidazioni per le loro idee. Che cosa ha reso il pensiero di un Abu Zayd inviso ai fanatici? Probabilmente, proprio l'azzardo di sostituire alla "ragione araba" la nozione di "ragione islamica", in ciò preceduto dall'algerino Muhammad Arkun. La denotazione epistemologica assume una connotazione ermeneutica, più estesa e complessa. Già per il fatto di porsi essa viene accusata dagli addetti (´ulamâ`) come un'ingerenza religiosa o un attentato al proprio ruolo, benché quest'ultimo nella società musulmana non sia codificato né in linea di principio separato, come nella tradizione ecclesiastica cristiana in particolare cattolica:

Se l'Islam aveva ben accolto e assimilato l'eredità precedente sottomettendola ai suoi approcci e tecniche, con efficacia i musulmani di ieri sono riusciti a far proprio il retaggio culturale delle altre nazioni e civiltà, trasformandolo in parte integrante della ragione islamica. Nondimeno la "ragione islamica" di cui si parla, va sottolineato, non è un sistema di pensiero unico e omogeneo come certi lasciano credere. E' un insieme di sistemi riflessivi differenti per concezione e per progetto, rispecchiando il pluralismo sociale, etnico e culturale, strutturale delle società viventi nell'area geografica e culturale dell'Islam.

E' in ogni caso da rimarcare il collocarsi dell'averroismo storico a un crocevia: fra Oriente e Occidente, tra antichità e modernità. Da qui, il suo prestarsi a più letture funzionali. In fondo, nella vocazione a migrare da una cultura all'altra, da un linguaggio all'altro, si realizza e verifica l'universalità della filosofia. Ciò fa parte della capacità dialettica, che la distingue dalla filologia e dalle altre scienze esaltate da Renan. Ma è anche quanto a loro dovrebbe collegarla, in un rapporto di assiduo confronto. In merito alle stesse, un discutibile presupposto renderà possibile la discussione di Afghani con Renan. Sorprendentemente, esso è espresso dal primo dei due: "Sono gli uomini a doversi rapportare alla scienza, non la scienza agli uomini".

Di fronte a un sapere postulato come neutrale, non ci sarebbero Oriente o Occidente che contino. Né sarebbe indispensabile appellarsi ad "Aristotele o Galileo", per chi nutrisse scrupoli connessi con la propria tradizione. Sarebbe sufficiente tener presente l'obiettivo della verità, osservava Afghani in una Lezione su insegnamento e apprendimento, in esplicita polemica con gli ´ulamâ` del suo tempo. Le cose ovviamente si complicano, se vengono coinvolte religione e metafisica, a fianco della politica e dell'economia. Il pensiero critico dovrebbe svolgere un ruolo di chiarimento e di mediazione. Ma, non di rado, la ricerca di una via originale si tinge di originario. E questo, si sa, esige di essere interpretato. I suoi travestimenti possono dar luogo a travisamenti, specie quando lo si forzi a coincidere con l'autentico, l'univoco e intangibile.

Rispetto all'epoca di Afghani, la mentalità musulmana media è certo cambiata, per quanto concerne l'acqisizione delle scienze moderne. Specie le tecniche sono state viste quali fonti di successo economico, sostegno del potere politico e militare. Molte attese circa la loro effettiva utilità sono andate però deluse. In uno studio di taglio sociologico su Fondamentalismo islamico. L'Islam politico, Agostino Spataro riporta che la maggioranza degli aderenti a movimenti integralisti sarebbe formata da giovani in possesso di un'istruzione superiore scientifica o tecnica, posti di fronte all'alternativa disoccupazione o emigrazione.

Tale frustrazione sociale può scaricarsi sia contro i governi locali laicisti sia contro quelli occidentali, ritenuti complici o responsabili della situazione. Essa è facile esca per un ripiegamento di tipo identitario, in ambito nazionalistico-religioso. Quanto all'atteggiamento assunto dal pensiero critico, da Afghani fino a tempi recenti, il suo imbarazzo e la sua ambivalenza probabilmente non potrebbero essere meglio sintetizzati che nell'appunto a esso mosso non da un pensatore di professione, bensì dall'autore di una Introduction à la poétique arabe, il poeta siriano ´Ali Ahmad Sa´id "Adonis":

…i pensatori arabi, condizionati dal trauma occidentale, hanno affrontato la modernità in quanto realizzazione tecnologica e culturale. Dopo di che, hanno studiato i mezzi che avrebbero consentito loro di adottare tale realizzazione, salvaguardando allo stesso tempo un'identità intellettuale distinta. Questo ci ricorda il tentativo di alcuni antichi filosofi arabi di conciliare religione araba e ragione greca, e spiega perché la modernità, in seno alla società araba, è rimasta un prodotto di importazione, un corpo estraneo. […] Gli Arabi non hanno adottato l'atteggiamento intellettuale razionale che ha dato vita alla modernità occidentale, ne hanno piuttosto adottato la realizzazione stessa, realizzazione che emana da un atteggiamento opposto alla struttura tradizionalista del pensiero arabo, tuttora dominante.

 

Modernismo e fatalismo

Almeno in apparenza, la posizione di Renan era un passo avanti rispetto a quella di Denis Diderot nelle Lettres à Sophie Volland (nella lettera del 30 ottobre 1759, si bollava l'Islam come "nemico della ragione", misconoscendo pur l'importanza di una filosofia araba). Era però un passo indietro rispetto alla considerazione in cui erano stati tenuti il pensiero e la scienza arabe nel Medioevo, ad esempio presso il filosofo inglese Adelardo di Bath. Per questi, esse rappresentavano un richiamo all'autonomia della ragione contro l'imperante ossequio verso l'autorità nel campo del sapere. Ancora nel 1708, l´arabista inglese Simon Ockley tradurrà l'opera dell'arabo medioevale Abubacer/Ibn Tufayl col titolo The Improvement of Human Reason. Pressoché il contrario, di quanto sosterrà Renan.

Sta di fatto che la sua tesi di fondo sarà da lui ripresa in un discorso al Collège de France, pronunciato il 23 febbraio 1862, De la part des peuples sémitiques dans l'histoire de la civilisation. Non esente in realtà da anticipazioni razzistiche, questa retorica apologia del primato europeo si pone alla base del moderno antisemitismo "laico", non meno di quello antiebraico di Voltaire qui illustrato nei capitoli precedenti. Essa così si chiudeva: "Signori, l'avvenire compete all'Europa e solo a essa. L'Europa conquisterà il mondo e vi espanderà la sua religione, che è diritto, libertà e rispetto per gli uomini. In tale credo c'è qualcosa di divino, in seno all'umanità. In ogni settore, il progresso dei popoli indo-europei consisterà nell'allontanarsi quanto più possibile dallo spirito semitico".

Dai tempi di Adelardo di Bath la scena era assai mutata, e anche l'ottica in cui inquadrare la questione. Ma neanche troppo, da quando Pierre Bayle nel Dictionaire historique et critique aveva ridefinito l'immagine europea dell'Islam, o il "tollerante" Voltaire aveva composto la tragedia Le fanatisme ou Mahomet le prophète. Bersaglio principale di Renan diventa l'Islam "reale" a lui contemporaneo, additato come regno di fanatismo e di terrore. Ciò, al punto da lasciarsi andare ad appelli e previsioni avventate, a dichiarazioni alternative nella forma e contraddittorie nella sostanza:

Condizione oggi essenziale perché la civiltà europea possa espandersi è la distruzione della cosa semitica per eccellenza, il potere teocratico dell'islamismo, e di conseguenza la distruzione dell'islamismo. Infatti l'islamismo non può sussistere se non in quanto religione ufficiale. Quando lo si ridurrà allo stato di religione libera e individuale, esso perirà. […] In politica, noi concilieremo due cose che i popoli semitici hanno sempre ignorato: la libertà e la forte organizzazione dello Stato.

Una più meditata e mirata conferenza, tenuta all'Università della Sorbona su L'islamisme et la science, sarà pubblicata dal parigino Le Journal des Débats il 29 marzo 1883. Nella visione positivistica di Renan, un risvolto politico interessante è il rilievo dato alla progressiva divisione fra poteri temporale e spirituale nella storia europea, connotazione presumibilmente carente nei governi di impronta teocratica succedutisi nel mondo islamico. Nella sua replica sullo stesso Journal des Débats in data 18 maggio 1883, Afghani comincia con l'adottare una tattica difensiva, incentrata sull'oggetto specifico della conferenza recente di Renan:

Ammesso che la religione islamica sia di ostacolo allo sviluppo delle scienze, chi può affermare che ciò non verrà meno un giorno? Su questo punto, come quella islamica si differenzierebbe dalle altre? Ciascuna a suo modo, tutte le religioni sono intolleranti. La religione cristiana, intendo la società che ne segue ispirazioni e precetti ed è conformata a sua immagine, è emersa dalla prima fase cui ho alluso. Da allora libera e indipendente, sembra avanzare rapidamente sulla via del progresso e della scienza, mentre quella musulmana non si è ancora liberata dalla tutela della religione.

Subito dopo, l'orizzonte del discorso si amplia, giungendo a coinvolgere l'intero campo di azione delle rispettive culture, in un ordine di successione storica che scandisce il cammino complessivo della civiltà umana. Un quadro, il quale permane, almeno formalmente, religioso:

Eppure, preso atto che la religione cristiana ha preceduto di secoli quella musulmana sulla scena del mondo, non posso disperare che la comunità di Maometto riesca un giorno a recidere i suoi vincoli e a procedere risoluta sul sentiero della civiltà alla maniera della società occidentale… No, non posso ammettere che questa speranza sia negata all'Islam.

Il polemista non si limita a considerare scienze e tecniche, le quali pure avevano occupato un posto rilevante nella cultura araba medioevale, né a ribadire che esse erano state assunte dalla civiltà europea rinascimentale e sviluppate durante l'illuminismo. Un tacito accordo di Afghani con Renan, circa una superiore "religione del progresso", non è tuttavia credibile. Neanche la probabile condivisione di simpatie massoniche lo giustificherebbe.

A partire dallo spunto polemico e nell'ambito dell'evoluzione del proprio pensiero, il primo concluderà col negare che il razionalismo fosse estrinseco alla civiltà islamica, prima e dopo Averroè/Ibn Rushd. "Di tutte le religioni," protesta Jamal al-Din, rivolgendosi altresì ai propri correligionari, "l'Islam è quasi la sola a biasimare chi crede senza prove e a rimproverare chi segue una qualsiasi opinione senza certezza… Ogni qual volta l'Islam parla, lo fa alla ragione… I testi sacri proclamano che la felicità consiste nel giusto uso della ragione". Afghani tornerà quindi sul tema iniziale, affermando contro l'oscurantismo religioso: "Chi vieti scienza e conoscenza, credendo di difendere la religione islamica, ne è in realtà nemico".

Evidente, l'eco di quanto proclamato da Averroè nel suo Discorso decisivo: "La legge religiosa invita a osservare l'esistente e a ricercarne la conoscenza tramite ragione; ciò è manifesto in più versetti coranici". A differenza però del pensatore di Cordova, Afghani non approfondisce per esteso il problema di quale sia il corretto uso della ragione e il tenore delle prove da ritenere valide. Egli preferisce ripiegare sulla vecchia condanna della filosofia greca e dei suoi rielaboratori islamici. Un altro argomento importante lo ricollega ad Averroè, il quale vi aveva dedicato un capitolo dell'opera citata sul nesso tra religione e filosofia. In disaccordo con Al-Ghazali, le sue conclusioni pur equilibrate avevano anticipato quelle cui perverrà Erasmo da Rotterdam, in contrasto con Martin Lutero.

In un intero scritto -- in arabo, Al-qadâ' wa al-qadar, "Il decreto e il destino" --, Afghani chiarisce che lo scetticismo dei musulmani verso il libero arbitrio (ikhtiyar) non merita la fama di fatalismo (jabr) loro attribuita. Esso è un preconcetto che gli occidentali si sarebbero fatti dei musulmani o che questi avrebbero finito col farsi di sé, di fronte all'insorgere della modernità in Europa e alla sua assunzione di un carattere invasivo altrove. Non molto diversamente che per i cristiani protestanti, se non altro per reazione la credenza in una divina predestinazione può promuovere una vita attiva, tesa a provare a se stessi e agli altri la riuscita personale o collettiva tramite l'esercizio a oltranza della libertà di scelta. E' da annotare che osservazioni del genere, applicate alla civiltà occidentale, saranno sviluppate da Max Weber in Etica protestante e spirito del capitalismo.

Tutto ciò non toglie che lo storico Abdallah Laroui, commentando il pensiero di Afghani in Islam et modernité, sosterrà che "l'Islam sembra aver stabilito, ai suoi inizi, certi valori i quali la società cristiana dell'Occidente ha finito col realizzare". E lo stesso ´Ali Ahmad Sa´id "Adonis", nel saggio citato Introduction à la poétique arabe, dal suo particolare punto di vista ha finito col formulare il seguente paradosso: "E` la modernità occidentale ad averci fatto scoprire la nostra propria modernità, più antica, al di là del nostro sistema politico e culturale, basato su un modello occidentale".

Con "sistema politico e culturale", si allude qui a una certa eredità forzosa del colonialismo. Sia l'atteggiamento di Laroui sia quello di Adonis sono altri esempi attuali di un fondamentalismo dialettico, che ha ben poco da spartire con l'esclusivismo integralistico. Semmai, da parte loro si contesta che la modernità sia privilegio di una singola cultura, anziché frutto di un concorso di apporti soggettivi e di circostanze oggettive. A ben vedere, un tale integralismo della modernità -- il "modello occidentale" -- avrebbe finito col metterne in crisi il concetto stesso o col minarne la credibilità, in quanto fase necessaria di confluenza o stadio neutrale di sviluppo nella storia delle civiltà. A fianco di un integralismo della modernità, sussiste una sua peculiare forma di fatalismo.

Secondo Mohammed Chaouki Zine in un articolo intitolato L`Islam et l`Occident: les enjeux du sens et les aléas de la puissance, la situazione è soggetta a degenerare a causa di una deformazione, da cui sarebbe affetto in particolare l'Occidente. La propria crisi viene proiettata sull'immagine dell'altro. Il tentativo di vincerne la resistenza a coincidere con la propria immagine provoca l'impulso a infrangere uno specchio, così carico di negatività. Quanto questa tentazione possa farsi reciproca, innescando una catena di azioni e reazioni contrarie, lo attesta la cronaca oltre alla storia dei rapporti fra culture. Fuori del mito greco che lo rappresenta, l'amore di Narciso è sempre sul punto di mutarsi in odio. Gli esiti sono ugualmente fatali.

Nella misura in cui per fatalismo si intenda non tanto rassegnazione a una fatalità estranea, quanto la pretesa che la propria visione del mondo sia un destino comune a ogni altra cultura, narcisismo e fatalismo sono facce di una sola medaglia. Esse sono forme di irrigidimento nella percezione di sé, e di offuscamento di quella dell'altro. Il narcisismo culturale, insiste altrove il filosofo algerino, non risparmia il pensiero, e il linguaggio in cui esso viene concepito ed espresso. E' l'occasione, per tornare sulle mai dimenticate accuse di Renan verso la civiltà arabo-islamica, e per rivendicare a quest'ultima una sua originalità non necessariamente avvertita come originaria:

Ernest Renan parla di carattere analitico, anziché sintetico, della ragione islamica. Essa non può produrre un Logos, ovvero un'intelligenza, così potente e fertile come il genio greco. Secondo lui, questa ragione è condizionata dalle strutture del sacro, che impediscono di pensare in modo critico e razionale. […] Ma Renan trascura la cosa principale: la dicotomia fra categorie del pensiero e del linguaggio. Ci sono certo alleanze celate e profonde tra pensiero e linguaggio. […] Tuttavia, un dislivello impercettibile impedisce una piena corrispondenza o una coincidenza latente. Effettivamente, le categorie del pensiero greco trovarono sistematizzazione ed esito nel genio della lingua araba. Eppure, l'"inquadramento" di questa lingua ha fatto sì che il Logos greco fosse assunto ed elaborato diversamente che nella lingua originale.

Anche presso il filosofo egiziano Hasan Hanafi, autore fra l'altro di un'originale Introduzione all'occidentalismo, la critica della percezione della cultura arabo-islamica da parte di Renan è di rito. Nel suo contributo The Meaning of Cultural Conflict al convegno internazionale "Dialogue serving Intercultural and Inter-religious Communication" (Strasburgo, 7-9 ottobre 2002), essa assume anzi toni caricaturali. Il risentimento qui trasparente non è disgiunto dall'amara ironia di chi nello specchio della coscienza altrui veda tradita, ridicolizzata o demonizzata, la propria immagine collettiva. Il riflesso che egli vi scorge è una parodia fenomenica, fatta di stereotipi frammentari e generalizzanti:

A partire da Renan e da Léon Gautier, l'Islam è una delle religioni semitiche etichettata come irrazionale, illogica, mitologizzante, superstiziosa e magica. Essa è simbolizzata dal tappeto volante, da Aladino e la lampada magica, dalle Mille e una notte. Tutt'al più, i musulmani sono portatori di conoscenza. Al contrario, l'Occidente è ariano, nazionale, scientifico e creatore di conoscenza. Questo immaginario è alla radice e sottende l'attuale dicotomia tra Islam e Occidente, fra il Terrore e l'Illuminismo.

Riformismo e integralismo

Nel suo discorso originato dalla disputa con Joseph Ernest Renan, Jamal al-Din al-Afghani si era rifatto a una problematica già dibattuta dalla minoritaria scuola araba medioevale mu'tazilita, nell'ambito di una "teologia razionale". A maggior ragione, la sua teoria non comportava un'adesione acritica dello scrittore militante afghano all'eurocentrismo adottato da Renan (e, poi, ripreso da Max Weber in veste estemporanea di orientalista). Né, tanto meno, alla logica allora trionfante del capitalismo occidentale nella sua fase colonialistica e imperialistica.

A fianco dell'embrionale intuizione di un "socialismo islamico" -- Ishtirâkiyyat al-Islâm è il titolo di un testo assai posteriore del siriano Mustafa al-Siba'i --, dottrina basata sull'individuazione di precetti di giustizia sociale ed economica nel dettato coranico, Afghani si impegna ciononostante in un'opera di "Confutazione dei materialisti". Essa parte da una contestazione del materialismo greco di Democrito e di Epicuro, per giungere a confutare i materialisti contemporanei all'autore, fossero di indirizzo positivistico e di ispirazione liberistica, fossero essi di altro orientamento.

Tanto accadeva, ben prima che il marxismo si affermasse in parte d'Europa e fuori dei suoi confini. Intanto, poteva accadere che il darwinismo sociale venisse addotto a spiegazione pseudo-scientifica di ingiustizie o violazioni nei rapporti internazionali. Secondo Afghani e i suo simpatizzanti -- ´Abdu, in particolare --, il tutto richiedeva la riapertura di un processo di ijtihâd. Cioè una nuova "interpretazione" dei precetti islamici, non più fissata una volta per sempre, ma fattasi indifferibile alla luce dei mutamenti in atto e della loro incalzante portata. La religiosità torna a realizzarsi nel divenire storico, inteso quale destino in costruzione e non come mera fatalità.

Sul piano politico, Afghani si fa fautore di un ideale pan-islamico (ittihâd al-Islâm), che andasse al di là del califfato turco ormai in crisi e che fosse in grado di contrastare l'aggressività del colonialismo occidentale in espansione. La nazione islamica estesa (umma, comunità dei fedeli) non avrebbe dovuto porsi in conflitto con le insorgenti identità dei patriottismi locali (watan, patria), bensì armonizzarsi con essi ed equilibrarne gli interessi in uno spirito di fratellanza. La polemica verso l'esterno si fa appello a un risveglio culturale e politico, a una riforma sociale ed economica, diretto all'interno del mondo islamico. Una sua rinascita (nahda), pronta a raccogliere la sfida lanciata dalla modernità senza che esso fosse costretto a rinnegare le proprie basi o a rinunciare alla sua identità.

In Europa, la "Riforma" protestante era sorta all'insegna di un ritorno ai fondamenti della fede cristiana. Ciò spiega la ricorrente ambiguità, tra riformismo e fondamentalismo, che caratterizza la lettura del termine arabo, il quale designa la tendenza di pensiero inaugurata da Afghani: salafiyya. Stando alla connotazione di ancestralità del significato, sebbene sia altro il vocabolo usuale per "fondamenti" (usûl), la traduzione "fondamentalismo" è più aderente. Tra i seguaci del movimento, l'egiziano Muhammad ´Abdu sarà stretto collaboratore di Afghani al Cairo e a Parigi. Insieme, vi pubblicheranno la rivista Al-´urwa al-wuthqâ ("Il saldo vincolo", espressione coranica). Egli si avvicinerà sempre più a posizioni liberali, salvo una machiavellica accondiscendenza verso la transizione di un dispotismo illuminato, per lui auspicabile e utile alla liberazione dal giogo coloniale.

Non ultimo, insieme all'allievo Mustafa ´Abd al-Raziq, il merito di ´Abdu di aver caldeggiato la reintroduzione dell'insegnamento della filosofia negli studi superiori nel mondo arabo. In qualche misura il suo "Trattato sull'Unità" divina (Risâlat al-tawhîd, Il Cairo 1897) e lo scritto giovanile Risâlat al-wâridât ("Trattato delle ispirazioni" mistiche, Il Cairo 1874), influenzato da Afghani, segnano una riconciliazione tra riflessione filosofica, teologia e gnosi mistica. Rashid Rida gli attribuisce un inedito analogo, intitolato Risâla fî wahdat al-wujûd. E l'espressione wahdat al-wujûd, "unicità dell'esistenza", rimanda facilmente al neoplatonismo islamizzato del medioevale Ibn ´Arabi, non meno di Averroè autore scomodo dal punto di vista dell'ortodossia di stretta osservanza.

Dall'evoluzionismo del libanese cristiano Shibli Shumayyil alla riflessione in persiano e in urdu dell'indiano Muhammad Iqbal -- non esente da influssi nicciani --, dall'esistenzialismo dell'egiziano ´Abd al-Rahman Badawi al personalismo del marocchino Muhammad ´Aziz Lahbabi o dell'egizio-libanese René Abachi, si era aperta una fertile stagione. I nomi qui scelti sono puramente indicativi e certo insufficienti a illustrarne lo sviluppo e la varietà di indirizzi. Ma l'importante è che, per un periodo abbastanza lungo, il pensiero riacquisterà attualità se non piena originalità e universalità, senza che esso fosse sempre o quanto meno forzosamente subordinato al credo religioso di appartenenza.

Le idee del siriano Muhammad Rashid Rida, già prossimo a ´Abdu, subiranno invece un'involuzione verso l'integralismo, specie dopo la caduta del califfato ottomano in seguito alla Prima Guerra Mondiale. Lo sconcerto suscitato dall'evento nel mondo islamico è stato spesso sottovalutato dagli osservatori occidentali. In tale ottica Rida giungerà da un lato a riporre speranze nel wahhabismo sa'udita affermatosi in Arabia, dall'altro a mostrare comprensione per la rivoluzione bolscevica russa, pur condannandone l'ateismo ideologico. Inoltre, egli contrappose il pan-islamismo al nazionalismo pan-arabo di tendenza laica, che iniziava a riscuotere simpatie concorrenziali nel Vicino Oriente.

In materia prettamente religiosa, la tradizione mistica del sufismo venne da lui bollata come superstiziosa o implicante un atteggiamento passivo nei confronti della realtà circostante. Condanna sommaria o eccessiva, almeno a prestare ascolto allo slancio evoluzionistico del sûfî persiano ´Aziz al-Din Nasafi, già nel secolo XIII: "Nel mondo dell'esistenza tutte le cose sono in viaggio verso un fine. Anche l'uomo sta compiendo questo viaggio. Ma suo scopo è la maturità. Suo fine, la libertà" (in Tanzîl al-arwâh, "La discesa degli spiriti"). Chi pensi alle teorie del cristiano Teilhard de Chardin o dell'induista Aurobindo Ghosh nel '900, non mancherà magari di rilevare qualche precoce affinità.

 

Storicismo e anti-storicismo

Fatto sta che, intorno alla rivista Al-manâr ("Il faro") diretta al Cairo da Rashid Rida, si formò anche l'estremismo sovente reazionario e settario dei futuri Fratelli Musulmani. Almeno in parte, gli esiti contrastanti erano stati favoriti dal messaggio di Afghani. Il suo programma di riforma (islâh, o tajdîd) verrà infatti sovente divulgato o recepito come utopico ritorno a una vagheggiata purezza delle origini, garanzia oggi come ieri di rinnovo degli splendori della civiltà islamica, in maniera provvidenzialistica e passibile di un'applicazione meccanica. Le sue aspirazioni a una forma di governo democratico, monarchico costituzionale e parlamentare, vennero spesso ignorate o avversate.

Oltre ad apprezzamenti, non mancarono incomprensioni nei paesi in cui si esplicò la sua instancabile azione: Iran, India, Turchia, Egitto, Europa. Afghani, il quale aveva lasciato l'Afganistan fin dal 1869, morì nel 1897 a Istanbul in una condizione di libertà vigilata. Apertura mentale e generosità di intenti gli valsero in compenso la stima del contestato Renan, durante il citato soggiorno da esule a Parigi. Iperbolica ammissione di parziale consenso, lo studioso francese gli riconobbe di aver ereditato lo spirito "redivivo" dei diletti Avicenna e Averroè.

Sarà piuttosto un discepolo adottivo di Renan proveniente dalla minoranza cristiana siriana, il su citato Farah Antun, a far rivivere nella cultura politica araba contemporanea l'intuizione averroistica di una distinzione tra sfera religiosa e ambito secolare, quale presupposto o requisito attendibile del concetto di tolleranza e di una prospettiva di dialogo inter-confessionale. La cruciale controversia fra Renan e Afghani avrà così un seguito significativo sulle riviste arabe Al-jâmi'ah e Al-manâr all'inizio del '900, ad opera dei rispettivi seguaci Farah Antun e Muhammad ´Abdu.

Il primo dei due svilupperà il suo pensiero sia nel saggio dedicato a "Ibn Rushd e la sua filosofia" (Ibn Rushd wa falsafatu-hu), sia nello scritto utopico "La nuova Gerusalemme" ('Ûrshalîm al-jadîda). "Islam e Cristianesimo, nei confronti del sapere e della cultura": è questa invece la traduzione del titolo degli articoli qui pertinenti di ´Abdu, raccolti in volume nel 1902. Di lui va pure ricordata la difesa pluralistica delle minoranze, nonché il corollario di un monito purtroppo sempre attuale, affinché "il rancore verso una data persona non diventi un pretesto per attaccare una minoranza, una comunità o una religione…".

E' altrettanto vero di esponenti della corrente salafiyya, quali ´Ali ´Abd al-Raziq allievo di ´Abdu e il siriano ´Abd al-Rahman al-Kawakibi, che adottarono nelle loro opere una visuale progressista e laicizzante. Essi procedettero a una revisione dei principi ereditati dall'Islam storico attenta a non alterare il senso della dottrina originale. Accusati di ipocrisia i governanti che confondevano religione e politica, mirando "al dominio sulle masse con lo schermo della religione", Kawakibi optò per l'autonomia del fattore religioso dal potere politico. Coerente col rispetto per le libertà individuali, di lui si registra un commento dello scritto Sulla tirannide di Vittorio Alfieri.

Rivisitando criticamente i fondamenti o le fonti del potere politico e religioso, ´Ali ´Abd al-Raziq si spinse a dichiarare compatibile con l'Islam la separazione fra Stato e religione, elogiando altresì quei lontani precursori che "si erano innamorati della scienza e della filosofia greche". Altro allievo egiziano di ´Abdu, Qasim Amin si occupò di questioni sociali, riguardo in particolare all'istruzione femminile e alla promozione della condizione della donna, riconoscendo che ella era penalizzata da una mentalità restrittiva e conservatrice.

In un convegno presso l'IPALMO a Firenze nel 1972, sul tema "L'incontro tra cultura araba e cultura dell'Europa mediterranea nell'epoca contemporanea", il marocchino Abdallah Laroui si richiamava ancora ad Afghani nonché a Iqbal e perfino a Ibn ´Arabi. Razionalista convinto, nondimeno egli giudicava paradossale che si seguitasse a imputare alla cultura araba la sua a-storicità, mentre gli intellettuali europei cominciavano a dubitare della razionalità del loro stesso storicismo. Gli echi della crisi del pensiero occidentale venivano così recepiti, in un diverso contesto.

Nella stessa occasione e muovendo da suggestioni heideggeriane, Antoine Makdici notava con amarezza che la modernità, "nel momento in cui unifica (i mercati, i blocchi, le grandi formazioni nazionali…), provoca in profondità e in ogni direzione grandi fratture […] e taglia la storia in due tronconi, quella moderna e l'altra. In altre parole, essa è a compartimenti stagni". Questa storicità traumatica non sarà una forma di a-storicità a sua volta, nella misura in cui la prima si conferma con l'esigenza di configurare la seconda in quanto tale? Come uscire dal circolo vizioso?

Tanto più, l'intellettuale siriano avvertiva come proficuo e impellente il dialogo tra le diverse culture. Alludendo a una tragica ricorrenza nel Vicino Oriente, dal canto suo il saggista e letterato marocchino Mohammed Berrada obiettava che, "con una guerra in corso, solo chi ha coraggio e audacia di essere a livello della storia può porre i problemi con la necessaria obiettività e gravità". Già in un saggio del 1963, intitolato Filosofia dell'angoscia, il siriano Muta' Safadi aveva tuttavia sostenuto che l'intellettuale arabo è doppiamente vittima. In lui, le sensazioni di essere uno spaesato in patria e un "sorvegliato" speciale si sommano all'ansia esistenziale e a un'angoscia della crisi.

L'impatto con una modernità d'importazione fa sì che la crisi di valori e di credenze non sia maturata come in Occidente, ma che potenzi la propria carica traumatica. Miscela esplosiva, questa può essere repressa o incanalata contro obiettivi diversivi e perfino auto-lesionistici. Il fallimento politico della nahda ossia "Rinascita" era del resto dovuto a una mancata riforma radicale della società, ai postumi del colonialismo, a una conflittualità endemica e alla discrepanza tra nazione e Stati. Né va trascurata quella fra potenziale economico e soddisfazione dei bisogni elementari della popolazione. In tali condizioni, è difficile che una nozione di progresso storico trovi effettivo riscontro. Più logico, che esse siano le premesse per una confluenza tra fondamentalismo e integralismo.

Un giudizio anche più severo e aggiornato è stato espresso da Hasan Hanafi, in un articolo in inglese intitolato Development from without - Development from within? Esso ripercorre l'evoluzione della problematica, dal dibattito su sottosviluppo e Terzo Mondo negli anni Sessanta fino alle pressioni culturali esercitate dal processo di globalizzazione mediatica, economica e politica. La visuale del resto si amplia, dal mondo arabo abbracciando l'intero oriente islamico:

Per reazione, crebbe il conservatorismo. Il fondamentalismo è divenuto lo spirito dei tempi. Un processo distorto di ritorno verso sé, a riaffermare la propria identità, è sato causato dalla spinta verso un tipo di sviluppo estraneo e alienante. Gestito da burocrati senza ampia partecipazione di massa, tutto ciò proviene dall'esterno, non emerge dall'interno. […] Di per sé la globalizzazione è egemonica, monolitica, oppressiva. Lo scontro fra culture prepara il terreno per la globalizzazione. Mascherando il conflitto di interessi con lo scontro fra culture, essa detta quanto l'Occidente ha sempre praticato oppure no.

Lo storicismo rielaborato da Hanafi evoca consapevolmente la contraddizione fra centro e periferia del mondo, o tra "città e campagna", tematica già enucleata dalla sinistra terzomondista e marxista. Nemmeno è pensabile un'effetiva globalizzazione economica e politica, senza internazionalizzazione dei rapporti culturali. Ma, perché lo "scontro fra culture" -- l'espressione è polemicamente ripresa dal titolo di un noto saggio del politologo statunitense Samuel P. Huntington -- si muti in confronto e dialogo, è prioritario che quest'ultimo avvenga su un piano paritario, nel mutuo riconoscimento e rispetto delle soggettività in campo.

La via indicata da Hanafi è realistica, attribuendo giusto peso ai fattori religiosi i quali hanno ripreso il sopravvento su quelli ideologici nel mondo contemporaneo. Prendendo atto del mutamento fenomenico, non ci si pone però fino in fondo il problema se ciò abbia rappresentato un regresso o meno. Fin dagli anni '30 e '50, nei saggi La coscienza nazionale e Noi e la Storia, il siriano Qustantin Zurayq aveva invitato a distinguere fra autentico spirito religioso e deleteria solidarietà settaria, nonché a un equilibrio tra corretta storicizzazione e rivivificazione del proprio passato in funzione del presente e dell'avvenire. Dall'evasione dalla storia o dalla sua distorsione alla fuga dalla realtà, il passo viceversa è breve. E' quanto sottolineato da Muhammad ´Abid al-Jabiri, in Arab-Islamic Philosophy: A Contemporary Critique: "La lettura della tradizione data dal fondamentalismo è a-storica; può fornirne un solo tipo di comprensione. Quest'ultima è bloccata all'interno della tradizione stessa. E' assorbita da una tradizione, che non riesce a sua volta a includere. Si tratta di una tradizione, destinata a ripetersi".

Massimo Campanini ha studiato da tempo il fenomeno dell'Islam politico (Islam e politica è il titolo di un suo recente saggio), ivi incluso un pensiero come quello di Nasafi, formatosi a contatto con l'integralismo radicale dei Fratelli Musulmani e da esso emancipatosi in maniera non indolore. Nell'intervista Islam e Occidente: tra accettazione e rifiuto radicale, è interessante notare come lo studioso italiano sia portato a porre in relazione il fondamentalismo con gli effetti di deculturazione e perfino di deleuziana "deterritorializzazione", provocati dall'odierna globalizzazione:

Per quanto riguarda il rapporto con la globalizzazione, se vogliamo porre la questione in relazione con la dimensione dell'Impero evocata dal libro di Michael Hardt e Toni Negri dobbiamo chiederci: questo neofondamentalismo è un frutto dell'Impero o è una reazione all'Impero? Da un certo punto di vista, se hanno ragione Hardt e Negri a costruire questa figura dell'Impero, si può dire paradossalmente che il neofondamentalismo è il frutto dell'Impero, cioè non è una forma aliena a questa struttura imperiale ma è una forma prodotta e alimentata da essa. Se questo è vero, il neofondamentalismo serve all'Impero e quest'ultimo ha bisogno che esso non scompaia, pur combattendolo aspramente.

 

Tautologia e differenza

Sempre in un intervento al convegno citato dell'IPALMO, il filosofo Muhammad ´Aziz Lahbabi riesaminava il vecchio discorso inaugurale di Renan al Collège de France. Il primo si adoperava a focalizzare e a smontare l'accusa più inisidiosa ivi contenuta, rivolta alle religioni e culture semitiche in blocco. Quella, cioè, di essere esse affette da un'ossessione tautologica, dal culto per la ripetizione concettuale, da una fobìa per ogni differenza o mutamento. Ciò avrebbe reso lo spirito semitico "anti-filosofico per natura e anti-scientifico". Tutt'al più, teo-ontologico.

Renan aveva infatti incalzato, nei termini seguenti: "E' la paurosa semplicità dello spirito semitico che restringe l'intelletto umano e lo chiude a ogni idea delicata, a ogni sentimento raffinato, a ogni ricerca razionale, e lo pone di fronte all'eterna tautologia: Dio è Dio". Evidente benché approssimativa, l'allusione alla formula coranica "Non c'è dio se non Iddio" o all'equivalente biblica "Iddio è l'eterno e non vi è altri che lui". Allâh o Elohîm che lo si appelli, in due lingue e culture le quali restano, nonostante tutto, intimamente collegate.

Passando allo specifico dell'Islam ("al presente, lo spirito semitico è rappresentato soprattutto dall'Islam"), anche nella su citata conferenza all'Università della Sorbona il giudizio di Renan risulta viscerale: "E' l'unione indistinguibile di spirituale e temporale, il regno del dogma, la catena più pesante che l'umanità abbia portato. I primi secoli della civiltà nata dalla predicazione di Maometto conobbero un certo splendore, poiché l'islamismo non era ancora in grado di ostacolare la scienza. In seguito, il movimento scientifico fu soffocato".

In nome di quale ideale egli polemizzasse, Renan aveva spiegato in quel condensato di "filosofia positiva", che chiude la dissertazione De la part des peuples sémitiques dans l'histoire de la civilisation: "Al posto dell'assoluto scolastico, alla filosofia noi chiederemo di schiudere spiragli sul sistema generale dell'universo. In tutto e per tutto, noi ricercheremo le sfumature, la finezza anziché il dogmatismo, il relativo invece che l'assoluto". Forse l'autore della Vie de Jésus non si accorse di stare scivolando in un nuovo tipo di dogmatismo, lasciando ben poco spazio alla diversità culturale e al relativismo delle credenze. Ma non poteva ignorare il rischio di indignare i credenti di ogni fede.

Ironia della sorte, il suo corso al Collège de France era stato soppresso con un pretesto religioso, nel cuore d'Europa. Il suo attacco all'islamismo può suonare indiretta protesta contro l'integralismo cattolico. Un giudizio icastico e alquanto tendenzioso, espresso su Averroè in L'islamisme et la science, chiarisce come la sua polemica avesse per oggetto l'oscurantismo religioso in generale più che una singola fede. Nella scia di un certo illuminismo francese e specialmente di Voltaire, la vocazione all'oscurantismo veniva peraltro ricondotta a una radice semitica comune alle religioni monoteistiche:

Attribuire all'Islam il merito di aver prodotto Averroè e tanti altri pensatori illustri, i quali trascorsero metà della vita in prigione, costretti a nascondersi o caduti in disgrazia, i cui libri furono bruciati e i cui scritti vennero quasi cancellati dall'autorità teologica, sarebbe come voler ascrivere all'Inquisizione le scoperte di Galileo, e l'intero sviluppo scientifico che essa non fu in grado di impedire.

Il parallelo qui stabilito non tiene nel debito conto la religiosità di Averroè e di Galileo. Né si capisce bene perché l'irrazionalismo islamico dovesse essere ritenuto un prodotto dello "spirito semitico", a maggior titolo del razionalismo dei filosofi e scienziati arabi. Pur riconoscendo a essi piena dignità e validità, Renan sostiene che il loro pensiero fiorì non grazie all'Islam bensì nonostante esso. Fatto sta che, se egli si accanisce in particolare contro la religione musulmana, non è solo per una forma trasversale e prudente di risentimento nei confronti della cristiana ecclesiastica. In quella stessa mentalità, si sarebbero conservate e rafforzate le riserve medioevali verso ogni curiositas profana:

Ciò che distingue i musulmani è l'avversione per la scienza. E' la convinzione che la ricerca sia inutile, frivola se non addirittura empia. Avversione per la scienza della natura, perché questa sarebbe una sorta di concorrenza nei confronti di Dio. Per la scienza storica, perché essa, applicandosi ai tempi anteriori all'Islam, può al limite ravvivare alcuni degli antichi errori.

A ogni modo, nella concezione complessiva di Renan traspare una "tautologia" della ragione scientifica, assunta quale assoluto immanente. Riassorbita nel quadro del progresso civile, egli pure ammise la spinta dell'uomo a trascendere se stesso: "La storia dimostra questa verità: nella natura umana, un istinto trascendente la spinge verso uno scopo superiore". In un suo saggio sull'Orientalismo, il palestinese Edward W. Said annota che l'adesione di Renan alla filologia in quanto "scienza laica" coincise col suo distacco dal cristianesimo. Non senza un residuo di integralismo.

Al di là delle posizioni particolari e dei ruoli di volta in volta rivestiti, a ben vedere un filo sottile collega l'antica controversia, che aveva opposto Averroè ad Al-Ghazali, a quella moderna fra Renan e Afghani o alla susseguente tra Farah Antun e Muhammad ´Abdu. A tal punto, che sembra trattarsi di una sola antinomia, gravida di conseguenze prevaricanti personalità e intenzioni degli stessi attori. Incrinatura fra due visioni del mondo, essa è destinata a riproporsi in momenti di crisi storica, acuita da contraddizioni a carattere etico-politico o da stridenti interessi economici. In ciascuno di questi momenti, viene messa in gioco la stessa libertà di ricerca e di pensiero.

Gli studi specialistici possono riattivare l'attenzione e la tensione verso l'altro da sè, far sì che le differenze esistenti non siano recepite come semplice difetto o puro degrado, atteggiamento cui facilmente indulgono i mezzi di comunicazione di massa. Quanto all'indagine filosofica, purché si accantoni la pretesa di una sua tradizione esclusiva, essa può contribuire a chiarire concettualmente l'alterità, scongiurando che questa non degeneri in alienità reciproca. Vale a dire, come si è già accennato, in sterile e rischioso irrigidimento delle soggettività culturali in campo.

La messa a fuoco di matrici più o meno condivise e scontate, quali la filosofia ellenizzante e il monoteismo semitico, risulta nel nostro caso una base di partenza utile a riscoprire un'alterità storicamente affine. O, magari, una comune identità di fondo, che questo piaccia o no. Se non altro, dalla lezione del sufismo islamico dovrebbe però potersi ricavare un "senso intimo". Che il riconoscimento di una tendenziale "unicità dell'esistenza" passi non tanto per la reductio ad unum unilaterale dei teologi -- pur competenti, quali a suo tempo Al-Ghazali o il suo corrispettivo cristiano Tommaso d'Aquino --, quanto attraverso l'accettazione e al limite l'esaltazione delle differenze.

Esse rimandano alla misura incolmabile della "differenza ontologica", così come la pienezza dell'Essere traspare in miriadi di forme (di più, il mistico Nasafi lo paragonava all'inchiostro con cui sono scritte le lettere dell'alfabeto). O come la convergenza di una pluralità di vie concorre a definire la meta. Un tawhîd peraltro dinamico, quale già intuito dalla gnosi arabo-iraniana di ascendenza avicenniana, viene oggi riproposto in termini aggiornati e con energia da un pensatore di orientamento fenomenologico come Hasan Hanafi. Sul piano dell'ente, il termine arabo tawhîd allude all'unità divina. Se riferito all'esistente, esso esprime la tensione verso l'unità essenziale delle forme dell'esistenza, caratteristica della religiosità e della cultura islamiche.

Senza voler risalire alla matrice neoplatonica, non è poi che nel pensiero europeo moderno difettino suggestioni del genere. Spesso, queste sono però considerate con sufficienza o con diffidenza. Per esempio, si confronti con l'"idealismo magico" del poeta romantico Novalis: "La regola della natura è un'infinita varietà nelle forme, un'unità nel principio che tutto abbraccia". Si presume che il pericolo in cui incorre una cultura, la quale si astragga da tale modello naturale, sia un'esistenza svuotata di ogni vitale essenza. O, anche, l'immobilismo dell'entropia. Allo stato attuale, per la verità né le società occidentali né quelle orientali paiono sottrarsi a tali eccessi opposti, ciascuna per il suo verso.

Almeno nelle sue punte più avanzate, o semplicemente più attente e imparziali, è dal pensiero arabo che proviene un invito a riequilibrare le due tendenze. Nello stesso tempo si mette in guardia dall'insidia del configurarsi di un nuovo assoluto, di un sistema di valori non meno statico e impositivo di altri, benché esibito sotto mentite spoglie. E' il caso di un intervento del filosofo su citato Muta' Safadi, intitolato La pensée contemporaine dans tous ses états. Esso è stato pronunciato il 2 ottobre 1998 al convegno Journées d`étude euro-arabes sul tema Tout est-il relatif?, organizzato a Casablanca dalla "Fondation du Roi Abdul Aziz Al Saoud pour les Études islamiques et les Sciences humaines":

Noi pensiamo le credenze attraverso sentimenti e valori, risultato in verità della storia del dogma. D'altra parte, il prevalere della cultura dei relativismi non sempre libera i suoi adepti da un relativismo, presupposto a sua volta in quanto nuovo assoluto. L'esperienza occidentale stessa ha dimostrato che il relativismo in campo scientifico non implica necessariamente la negazione della soggettività. In realtà, queste sfide del relativismo assoluto e delle credenze totalitarie non sono che convenzioni normative. Esse devono essere ripensate dal pensiero, che le ha prodotte accidentalmente o cui vengono attribuite.

 

 

Differenza nella ripetizione

Nella sua Introduction à la poétique arabe, Adonis critica la cultura araba tradizionale nel suo rapporto con la storia moderna e contemporanea, poiché congenitamente inadatta a cogliere le differenze profonde che essa instaura. In quanto tale, essa non sarebbe stata neppure capace di proporre un suo progetto valido di modernità, che sia esso opposto o complementare a quello imposto dalla civiltà occidentale. Viceversa, il poeta siriano ritiene l'operazione non solo possibile ma auspicabile:

Tale medoto affida al pensiero il compito di spiegare e insegnare, anziché quello di dedurre nuove verità. La complessità di questa pratica deriva dal fatto che noi viviamo in un'epoca in cui tale metodo, e la cultura da esso derivata, appaiono -- malgrado tutti i cambiamenti avvenuti in quattordici secoli -- simili a un teatro in cui la storia si ripeterebbe, ma con un'unica finalità: l'attualizzazione dell'antico, e, di conseguenza, l'annullamento di tutto quello che vi si oppone, intellettualmente e culturalmente.

Qualche argomento va tuttavia speso a favore della ripetizione. O, al contrario, a sfavore di quei casi estremi, in cui la stessa può assumere toni ossessivi e caratteri deliranti. Essa non coincide necessariamente con la tautologia né con la riproduzione seriale, prerogativa semmai delle società industriali. Perfino la reiterazione di un ritornello può avere valore rassicurante o di ausilio mnemonico, quando non sia assillo di propaganda o strumento per qualche campagna pubblicitaria. La tematica è stata svolta a fondo nelle opere del filosofo francese Gilles Deleuze, da Differénce et répétition a De la ritournelle, capitolo di Mille Plateaux. Ma, forse, più immediato e qui pertinente risulta il poeta italiano Giuseppe Ungaretti, nella raccolta di prose Il deserto e dopo:

Ció che mi ha commosso, ció che avevo giá colto della poesia araba, che ha lasciato una traccia e senza nemmeno che lo volessi, e lo sapessi, nella mia poesia, non é di colore. Non credo che la poesia araba sia una poesia di colore. E' poesia di musica, non di colore. Quel vociare piano che torna, e torna e torna, nel canto arabo, mi colpiva. Nell´accompagnamento di un morto, quella sorta di sostanza monotona che si differenzia quasi insensibilmente per quarti di tono, quel borbottio lento, quella scoperta di quanto potesse una persona commuoversi a un discorso dissimulato. In quel salmodiare s´insediava il valore d´Essenza, e ne divenivo quasi inconsapelvomente consapevole.

Nelle culture orientali, spesso la ripetizione è sottrazione all'oblìo, spunto per la meditazione, variazione su tema non priva di inventiva. In L'autore e i suoi doppi. Saggio sulla cultura araba classica, il critico marocchino Abdelfattah Kilito dedica un capitolo all'Elogio della ripetizione. Egli cita l'esordio di una famosa ode pre-islamica: "I poeti hanno lasciato ancora qualcosa da dire?". E' un espediente del poeta, per scusarsi di ripetere luoghi comuni della vita nel deserto. Subito dopo si passa a cantare proprio quegli argomenti, che tanto spiaceranno al Petrarca in una lettera sulla poesia araba. Ma il beduino 'Antara lo fa in maniera tale, da chiudere un'epoca e annunciarne un'altra, ormai "classica". E' bastato quel dubbio iniziale a innovare il senso del discorso, permeandolo di nostalgia.

Nel recente romanzo Il gioco dell'oblìo di Mohammed Berrada, al motivo della variazione nella ripetizione si ricollega un'astrazione della memoria atavica e genetica. Attraverso essa, "i corpi si sovrappongono e rinascono. Come potremmo vivere, senza custodire in noi la molteplicità dei corpi?". A maggior ragione, è possibile riflettere o credere, senza serbare e confrontare dentro di sé la molteplicità delle tradizioni? Può ben darsi che, come suggerisce Kilito, quella che sembra una connotazione sia una denotazione della cultura araba. La stessa, dell'eroina Shahrazad nelle Mille e una notte, allegoria dell'insopprimibile varietà delle forme e della sfida che essa può condurre contro l'ingiustizia e la morte. Una cultura della differenza nella ripetizione, là dove la civiltà occidentale è andata sviluppando una vocazione alla divaricazione -- a volte, alla prevaricazione -- della differenza.

Così come altrove, il pensiero critico -- non di rado, auto-critico -- ha attraversato non solo la filosofia e la critica letteraria, bensì anche la letteratura contemporanea del mondo arabo. Nel romanzo La civilisation, ma Mère!… del marocchino francofono Driss Chraibi, risalente al 1972, l'impatto con la modernità era declinato al femminile, dato il sesso della protagonista. "Sai perché la nostra civiltà islamica dopo tanta gloria è passata in coda al mondo intero?": tale, il quesito formulato al termine della vicenda. La singolare risposta è coerente con l'assunto iniziale della narrazione:

Alla base di tutte le società c'è la comunità. E il nocciolo della comunità è la famiglia. Se nel seno di questa la donna è prigioniera e in più velata, sequestrata, come l'abbiamo tenuta noi per secoli, se lei non ha nessun'apertura sul mondo esterno, nessun ruolo attivo, la società nel suo insieme fatalmente ne risente, si rinchiude in se stessa, non ha più niente da apportare a se stessa né al resto del mondo. Tale società non può quindi progredire.

In un altro romanzo steso nel 1977, Sitt Marie-Rose, la libanese Etel Adnan affronta in termini drammatici il problema dell'integralismo religioso e politico. Tuttavia, poiché la storia è ambientata durante l'allora recente guerra civile in Libano, l'autrice di estrazione cristiana non si limita a contemplare quello islamico. Né a mettere sotto accusa il fattore religioso. In un "Oriente allo stesso tempo nomade e immobile", ella addebita parte della colpa della situazione al lascito latente di una mentalità tribale: "Dopo diecimila anni, in questa parte del mondo siamo rimasti tribali, tribali, tribali". Solo in seguito si passa a stigmatizzare il fanatismo in sé, tramite l'attribuzione di quest'allucinata dichiarazione ad una delle fazioni cristiane in lotta:

Abbiamo posto questa guerra non sotto il segno del politico, ma sotto quello del divino. Nessuno, in questo secolo in cui viviamo, si è battuto con tante sante medaglie sul petto, la Vergine sul fucile, il Crocefisso sul carro armato, il nome di Dio sulle labbra e la visione del cielo negli occhi, come fanno i nostri giovani. E' un esercito di santi in marcia, il quale paga con la vita i peccati di un'umanità che non cessa di crocefiggere il Cristo.

In effetti, la guerra civile di quegli anni in Libano finì di infrangere un sogno coltivato da non pochi cristiani dell'oriente arabo, quali George Antonius, Michel ´Aflaq o Qustantin Zurayq, eredi di Shibli Shumayyil e di Farah Antun. Un arabismo laico, in grado di riunire in forma moderna le membra sparse dell'ex califfato musulmano. Redatto nel 1956 in piena "guerra fredda" tra paesi capitalisti e comunisti, guidati rispettivamente da U.S.A. e U.R.S.S., uno scritto a sfondo politico di Mikha'il Nu'ayma si intitolava Al di là di Mosca e di Washington. Che cosa potesse collocarsi oltre quelle realtà egemoni e ideologie contrapposte, nelle speranze del poeta e narratore libanese, si deduce da un passo dell'autobiografia intitolata Settanta, allusiva all'età dell'autore all'epoca della sua composizione:

Se gli arabi facessero della loro vasta terra un'oasi di salvezza, di reciproca intesa, di fratellanza, entro il deserto delle cupidigie, degli odi, dei terrori in cui brancola il mondo odierno! Se sorgessero tra loro dei capi di lungimiranza e intelligenza tale, da avviarli per quella via!

Erano i tempi, in cui la precaria confederazione tra Egitto e Siria lasciava intravedere una possibilità di realizzazione dell'obiettivo. Ma quale sostrato profondo potesse giustificare l'ingenuità della prospettiva traspare, ancora una volta, in una testimonianza di tenore letterario più che politico. Né è un caso, in una tradizione culturale in cui la poesia -- i pretesti per includerla nel mirino degli integralisti hanno avuto scarso successo -- mostra un mordente propositivo o oppositivo, e gode di una considerazione di autonomia, sovente maggiori di quanto sia concesso al pensiero. Sempre nella Introduction à la poétique arabe, Adonis si è sforzato di illuminare quel remoto sottofondo a noi comune, di quando in quando riaffiorante dall'inconscio collettivo:

Secondo la tradizione mediterranea, la vita è un vasto campo per la conoscenza umana. Questo campo fertile contiene tutti i germi del progresso: così come li vediamo espressi nell'epopea di Gilgamesh e nell'Odissea di Omero (ma Sindbad è davvero altro dal Gilgamesh sumerico o da un Ulisse greco affabulato in arabo?). [...] Ora, i poeti arabi contemporanei vogliono restaurare questa vita dello spirito e della libertà, e continuare nel senso in cui i loro predecessori si erano impegnati con profonda lucidità. Essi vogliono superare questa spartizione fra culture, per cui il patrimonio arabo sarebbe considerato una realtà conchiusa. [...] Essi la considerano piuttosto come manifestazione parziale di una civiltà globale, che è nata prima della poesia araba. Questa civiltà è quella che sorse nell'Oriente mediterraneo.

Va da sé che di quell'Oriente fu parte integrante la civiltà ellenica, ancor prima che la sua cruciale eredità fosse diversamente sviluppata nella sostanza, rivendicata o ripudiata nella forma. Il tentativo di Adonis è stato condiviso da altri poeti simbolisti della sua generazione, dal libanese Khalil Hawi all'iracheno Badr Shakir al-Sayyab al palestinese Jabra Ibrahim Jabra. Esso risponde al desiderio di risalire a una dimensione, in cui non vi sia motivo o bisogno di distinguere fra "ragione araba" o "ragione islamica" e "ragione occidentale". Tanto meno, tra "spirito semitico" e "indo-europeo", per dirla con Renan. Antefatto forse mitico, ma in cui Gerusalemme, Roma e Baghdad, possano in qualche misura riconoscersi. In confronto, può suonare stonata perfino la criptica ironia di un gioco di parole su "integralismo" e "fondamentalismo", formulato anni fa da un nostro insigne arabista:

Padronissimi quei taluni di porre al centro della storia del mondo la Mecca o Baghdàd […]; noi ci manteniamo fedeli all'asse di Atene e Roma, considerando la vicenda arabo-musulmana, al cui studio abbiamo consacrato la vita, come una preziosa, validissima integrazione, un complemento ineliminabile di quell'altro itinerario dell'anima, che pur rimane per noi il fondamentale.

E' il caso di sfatare un ultimo possibile equivoco. Sia pure indirettamente, in politica non è tanto la "ragione araba" a essersi rifatta a una matrice ellenica, quanto la così definita "ragione islamica". Da La città virtuosa di Al-Farabi alle Episole dei Fratelli della Purezza, alla parafrasi-commento di Averroè della Repubblica di Platone, nel pensiero arabo prevalse un modello. La "città virtuosa" non è che una repubblica platonica, convertita all'Islam. Al posto del governo dei filosofi, la guida di un imâm ispirato e di una gerarchia di sapienti dovrebbe garantirvi l'interpretazione della legge coranica, promuovere felicità terrena e salvezza futura. Per loro stessa natura, gli ambienti shî'iti sono stati meglio predisposti alla ricezione di tale utopia. Essa, che in Al-Farabi aveva attinto un notevole grado di complessità, ha finito con l'influenzare teoria e prassi dell'integralismo islamico nel suo complesso.

Ancor prima del rassegnato realismo di Ibn Khaldun, all'utopismo comunitario di Al-Farabi si era opposto l'individualismo ascetico dell'andaluso Ibn Tufayl. Il suo romanzo filosofico Hayy Ibn Yaqzân, tradotto assai più tardi in latino come Philosophus autodidactus, non mancherà di giungere a esercitare un ascendente sull'illuminismo europeo. Attraverso una griglia concettuale aristotelica, esso ci mostra l'altra faccia dell'anima araba, attendibilmente rimasta più vicina allo spirito inquieto di una sensibilità nomade. Il protagonista della metafora di Ibn Tufayl, così come la figura del saggio delineata dal suo precursore Avempace/Ibn Bajja in Il regime del solitario, è un perenne straniero in una società imperfetta o corrotta. Egli è semmai cittadino di una irrealizzabile comunità secondo natura, dove il contatto con l'"Essere necessario" renda non strettamente necessari teologi e giuristi.

Più complessa e anche opinabile appare la rivisitazione critica della filosofia araba classica, operata da Muhammad ´Abid al-Jabiri nella sua trilogia sulla "ragione araba", e sintetizzata in

Non sussistono, comunque, una "ragione islamica" o una "ragione araba" integrali. Così, non esiste un pensiero unico, identificabile o meno con la "ragione occidentale". Per la verità, non sussiste un pensiero identificabile con la ragione tout court. In tal caso avremmo un integralismo della ragione, i cui fondamenti e caratteri tornerebbero a essere oggetto di contesa in base alla propria tradizione o convinzione. I concetto stessi di razionalità si sono prodotti storicamente e culturalmente. D'altro canto, la tesi di un relativismo assoluto favorirebbe l'incomunicabilità tra culture, o accrediterebbe un criterio assai discutibile di validità funzionale. Una ragione effettiva non può che essere dialettica, anzitutto nel senso etimologico del termine, scaturendo dal dialogo, dall'ascolto e dalla critica reciproci.

Appunto in tal senso, va inteso l'appello di un filosofo arabo contemporaneo fra i più aperti e aggiornati, sensibile all'esigenza di un ripensamento sia della tradizione sia della modernità in una chiave di superamento e di sintesi di entrambe. Forse eccessivamente fiducioso se non ottimistico alla luce degli sviluppi politici internazionali immediatamente successivi, il passo seguente è desunto da Le discours des fins ultimes. Les conquêtes de la mondialisation et les impasses de l`identité del libanese ´Ali Harb. Il testo è stato tradotto in francese nel 2000, dall'algerino Mohammed Chaouki Zine:

E' certo possibile un ritorno al passato quale origine predestinante o archetipo da imitare, ma solo in quanto sclerotica auto-esclusione. Sorte del fondamentalismo è di operare in una sorta di chiusura dogmatica e regressiva, di terrorismo mentale e di sradicamento, siano quei fondamenti tradizionali oppure moderni. L'accesso all'era dell'informazione planetaria non significa affatto prendere la mondializzazione per ideale archetipico o modello precostituito, né per una promozione edenica. Si tratta di accostarsi a essa piuttosto come possibilità e opportunità, come spazio aperto di un ampio orizzonte.

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