Pino Blasone
4. Politiche della soggettività
"Amor proprio" e "amore di sé"
Beninteso, qui si tratta dell'auspicabile pedadogia di una soggettività aperta, preparata a vagliare e ad accogliere le istanze di altri soggetti senza ingiustificate diffidenze e con "spirito di tolleranza". Né una dichiarazione di intenti né una formulazione del genere sono tuttavia sufficienti, in assenza di adeguate verifiche teoriche e storiche. Una mentalità tollerante comporta innanzitutto il rigetto della tentazione di relegare la soggettività altrui nel campo della pura oggettività; in secondo luogo, il superamento di un errore che l'ontologia ha ereditato in ultima istanza dalla metafisica platonico-aristotelica e dal neoplatonismo.
Esso è l'astrazione di un essere concepito come separato, arroccato in uno stato aprioristico di occultamento, e l'illusione che questo trovi un'apertura negli enti anziché nell'esistente e nel suo divenire. Quando quegli enti del tutto ipotetici non collimano con gli esistenti con cui veniamo a competere, insorge un'intolleranza verso la loro diversità o presunta degradazione, rispetto ai modelli che abbiamo in mente e che impongono una loro mediazione. Se proprio non si può evitare di disquisire sulla "differenza ontologica" tra essere ed enti, meglio sarebbe che venga ripristinata la dinamica fra l'"identico" e l'"altro", nella forma in cui essa traspare nel Sofista platonico.
L'esigenza di aggiornare lo stesso concetto di tolleranza, quale modernamente teorizzato da Locke e da Voltaire, è stata fatta presente in una serie di saggi di Ermanno Bencivenga, raccolti sotto il titolo pregnante Oltre la tolleranza. Per una proposta politica esigente. Come espediente provocatorio, ivi l'autore ricorre al paradosso di negare una sostanza stabile alla soggettività: "Il soggetto non ha un'essenza perché è la ribellione contro ogni essenza, contro la nozione stessa di essenza". Più avanti l'autore chiarisce meglio, abbozzando una vera e propria dialettica della soggettività. Una dialettica negativa, ivi incluse reminiscenze hegeliane e marxiane. Ma anche l'invito a una soggettività nonostante il soggetto, nella scia del "divenire molteplice" di Deleuze:
…il soggetto è molti, diverso da se stesso; il suo programma è volgere identità e coerenza nel proprio opposto, asservirle a una differenza più ricca e complessa, usare la loro affermazione per sviluppare la sua negazione, per mostrarla in atto. […] La sua è un'essenza multipla. […] Identità è precisamente il suo essere diverso. Si potrebbe perfino arrivare al punto di vedere nella dialogicità dell'io un explanans per la nozione cartesiana di sostanza pensante. Pensiero è dialogo, si potrebbe dire, è contrasto e alternativa, e la res cogitans ne è fonte inesauribile.
La critica o "decostruzione" della soggettività non è certo un'operazione nuova, nel pensiero contemporaneo. Vi hanno contribuito tanto la filosofia, quanto la psicoanalisi. La prima, agganciando la soggettività alla variabile mobile della "differenza ontologica" (con una valenza sociale attuale, alcuni si compiacciono di parlare di "soggetti nomadi", sulla scorta della riflessione deleuziana). La seconda, sia attraverso la dissociazione tra coscienza e inconscio, sia promuovendo il soggetto a veicolo di contenuti trasgressivi.
Ma pertinente risulta qui l'accostamento della soggettività alla tolleranza, o, peggio, all'intolleranza. Nella nostra era, così spesso si è assistito all'insorgere o al rafforzarsi di una soggettività a discapito di altre, che è facile vedere nella sua costituzione la tendenza all'assoggettamento o alla riduzione all'oggettività di altri soggetti. In fin dei conti, eccessi quali stermini di massa, "pulizie etniche", purghe politiche o epurazioni genetiche, sono stati conseguenti a tali processi di oggettivazione altrui, con intuibili effetti retroattivi.
Sempre in via provocatoria e giocando con l'ambiguità dei termini del linguaggio acquisito, si potrebbe perfino contrapporre alla "miseria del soggetto", alla sua instabilità e inaffidabilità, l'oggettività sia pure dialogica della "sostanza pensante": quasi che essa non sia, per definizione, costitutiva del soggetto. In Tra passato e futuro, capitolo su La tradizione e l'età moderna, Hannah Arendt ha riconosciuto alla dialettica hegeliana almeno il merito di aver operato un tentativo "di gettare un ponte sull'abisso scavato da Cartesio tra l'uomo, la res cogitans, e il mondo, la res extensa, tra conoscenza e realtà, tra il pensare e l'essere". In buona parte, la storia delle critiche e dei dubbi sulla riuscita di tale tentativo è la storia della filosofia contemporanea.
Oppure, le cose stanno ben altrimenti. I soggetti non si enucleano dalla pretesa dialogicità inbata nella res cogitans, bensì da un sostrato irrazionale: una sorta di inconscio indifferenziato, ben rappresentato nell'Es freudiano e semmai prossimo all'anonimato della res extensa cartesiana. Ciò è il risultato dinamico di una spinoziana "geometria" delle passioni, e avviene a esclusione di altri possibili soggetti. Pertanto, essi tutti portano in sé il germe dell'intolleranza. Questa prende nuova forma, sebbene ancora involontaria, nel momento stesso in cui quelli si dispongono alla "tolleranza" verso altri soggetti divenuti loro estranei, quando -- nella migliore delle ipotesi -- siano cessate la curiosità o la meraviglia suscitate dalle differenze instauratesi.
D'altronde, l'ambiguità del termine "tollerare" nelle nostre lingue è fin troppo evidente. Un caso abbastanza clamoroso è quello, storicamente illuminato, di Voltaire. Campione del moderno ideale di tolleranza, egli insiste tuttavia sulle virtù della passione dell'"amor proprio", in un'ottica liberale e liberistica da noi ormai risaputa:
E' impossibile che una società possa formarsi e sussistere senza egoismo, come sarebbe impensabile fare figli senza concupiscenza, pensare a nutrirsi senza appetito, ecc. E' l'amore di se stessi che aiuta l'amore per gli altri; siamo utili al genere umano proprio tramite i nostri mutui bisogni; questo è il fondamento di ogni commercio; questo è l'eterno legame tra gli uomini. Senza di esso non si sarebbe inventata un'arte né si sarebbe formata una società di dieci persone. E' questo egoismo che ogni animale ha ricevuto dalla natura, che ci insegna a rispettare quello degli altri. La legge dirige questo amor proprio e la religione lo perfeziona.
Tratto dalle Lettres philosophiques o Lettres anglaises del 1733-1734, il passo appena citato è in esplicita polemica con un opposto punto di vista espresso a suo tempo nelle Pensées di Pascal. La divergente valutazione dell'"amor proprio" sarà peraltro uno dei particolari rilevanti, che distinguono il pensiero di Voltaire da quello di Jean-Jacques Rousseau. Per quest'ultimo, un amor proprio senza un senso di "pietà" -- o, meglio, di empatia -- priva della chiave interpretativa, che consente di accedere alla comprensione di altri soggetti. Partito nel Discours sur l'inégalité da una critica del pensiero politico di Hobbes, in una nota al testo Rousseau ricorre a una distinzione un po' sbrigativa e conciliante tra l'amour-propre et l'amour de soi-même:
Occorre non confondere l'amor proprio e l'amore di sé: due passioni assai differenti, per natura e per effetti. L'amore di sé è un sentimento naturale, che porta ogni animale a badare alla propria conservazione. Diretto nell'uomo dalla ragione e modificato dalla pietà, esso produce l'umanità e la virtù. L'amor proprio non è che un sentimento relativo, artificioso e nato nella società, il quale porta ciascun individuo a fare più caso a sé che a ogni altro. Esso ispira agli uomini tutti i mali che si arrecano l'uno all'altro, ed è in verità la fonte del senso dell'onore.
Il moderato ottimismo dell'autore di Candide non è paragonabile col pessimismo del Leviatano di Hobbes. Un limite attendibile del pensiero volterriano resta tuttavia la sfiducia in una capacità di immedesimazione negli altri, che preluda all'instaurazione di rapporti sociali spontanei e autentici. Perché quest'impedimento sia operante, non c'è davvero bisogno di un orgoglio personale o di un senso dell'onore smodati, al punto da generare guasti immediati e vistosi. Ma il fatto è che François-Marie Arouet detto Voltaire intende salvaguardare quelli che, per lui, sono valori individualistici e competitivi della nuova società borghese capitalistica. Nel Traité de metaphysique del 1734, egli torna sull'argomento, con lo stile divulgativo e caustico a lui congeniale:
Queste passioni, l'abuso delle quali fa in verità tanto male, sono la causa principale dell'ordine che vediamo oggi sulla terra. […] Ben presto si distinsero gli uomini in due classi: la prima, degli uomini divini che sacrificano il loro amor di sé per il bene pubblico; la seconda, dei miserabili che amano solo se stessi: tutti volevano e vogliono ancora essere assegnati alla prima classe sebbene tutti, nel fondo della loro anima, appartengano alla seconda. […] L'amore di sé e tutte le sue ramificazioni sono necessarie all'uomo come il sangue che gli scorre nelle vene; chi gliele vuole togliere perché sarebbero pericolose somiglia a uno che dissanguasse un uomo per evitargli un colpo apoplettico.
Alterità e alienità
Con probabile allusione al dialogo del Sofista, sotto la voce Âme del Dictionnaire philosophique Voltaire ricorda che l'"anima del pensiero" è, "secondo il divino Platone, un composto dell'identico e dell'altro". Da quest'essenza dialettica o facoltà dinamica, dipende altresì la sussistenza di un io ovvero l'"identità della stessa persona". Essa è esclusivamente un'"anima pensante", aggiunge il filosofo illuminista. Se non uno spirito, un nous, per definirla con i greci antichi. Mortale o immortale che la si figuri, dotata per giunta di amor proprio come la pensa Voltaire o più di pietà come la sente Rousseau, essa ha poco a che spartire con l'organico o col corporeo. Nell'apprezzabile ansia di prendere le distanze dal sensismo e dal meccanicismo settecenteschi, "non volendo", Voltaire anticipa qualche premessa dell'idealismo ottocentesco.
Una coincidenza non del tutto fortuita vuole che proprio dal Sofista platonico nel secolo scorso riparta Lévinas in Autrement qu'être ou au-delà de l'essence, testo qui sopra citato nella traduzione italiana. Quest'"Altro" levinasiano però, sottratto all'ambiguità e restaurato a fatica dopo le catastrofi del '900, possiede una carattere insieme inconfondibile e per così dire corporeo: ha un "volto". Viceversa, altro limite di Voltaire sembra consistere nel non riuscire a dare sempre un volto all'alterità che dovrebbe essere oggetto di tolleranza, impedendo che essa assurga nella coscienza all'autonomia di soggetto altro. Quando vi riesce, può accadere che il riflesso dell'"amor proprio" offuschi la visuale, quasi si frapponga lo schermo di un'alienità intollerabile.
Se si preferisce, a ben vedere il problema è ancora proponibile nei termini di Platone nel maturo dialogo, in cui non a caso interveniva un molto parmenideo "forestiero di Elea". Non c'è nessun ente che possa dirsi in sé assoluto, bensì ogni ente è relativo rispetto a un altro. Altrimenti, avremmo una perenne tautologia del medesimo (tutt'al più, un "eterno ritorno" dell'identico, per dirla con Nietzsche). Ed è quanto induce Lévinas a rovesciare gli estremi del dilemma. Se non è concepibile un essere in quanto assoluto, con buona pace dell'eleate Parmenide, si schiude in compenso la via alla nozione-limite di "assolutamente Altro". Pur volendo sorvolare sulla questione risorgente dell'immanenza e della trascendenza, cara a Lévinas, nella sequenza "Medesimo, Altro, assolutamente Altro" l'accento si sposta dal "Medesimo" all'"Altro".
Per la stessa centralità così recuperata, il termine medio eredita in parte la necessità dell'essere parmenideo. In Problème de l'autre. Differenza e alterità, Bruno Lauretano ha del resto giustamente rilevato come una forma relativa di trascendenza, in Pour une morale de l'ambiguité di Simone de Beauvoir, venga attribuita direttamente alla figura dell'"Altro". Evidentemente, ciò rientrava in un'esigenza generale di ridefinizione esistenzialistica della soggettività. Il libro della De Beauvoir e i primi scritti di Lévinas sulla tematica sono praticamente contemporanei. Quasi in polemica da parte della scrittrice francese con Lévinas, quella trascendenza tendenziale sembra poter fare tranquillamente a meno sia di un essere assoluto sia di un "assolutamente Altro":
Che cosa ci aspettiamo dunque dall'altro? Sarei nel torto se sperassi che l'altro possa portarmi lontano attraverso un divenire senza fine. […] Attraverso ogni Uomo l'umanità cerca indefinitamente di raggiungere il suo essere, in ciò consiste il suo essere stesso; la nostra trascendenza non potrà mai superarla, ma solo accompagnarla; e nondimeno essa sarà interamente ripresa in ogni istante, poiché in ogni istante l'Umanità è. […] E' nel mito della solidarietà che l'umanità assume questo volto.
Ai fini del nostro discorso, la stessa percezione del "Medesimo" dipende in ogni caso dalla rappresentazione dell'"Altro". La diversità non può prescindere da un terreno comune di contiguità, fra gli elementi in causa. Ma spesso accade che appunto una tale contiguità riaccenda la diffidenza o la rivalità, anziché abolirle o attutirle. La proporzione ristabilita fra essere e "essere Altro" non esclude di per sé che quest'altro opponga una resistenza alla messa a fuoco e alla comprensione, proprio per il suo configurarsi in quanto altro. Non di rado, tale resistenza si manifesta nella forma di alienità dell'oggetto e come conseguente alienazione del soggetto coinvolto.
E' impensabile un superamento dell'antitesi, se non sforzandosi di rendere l'alterità di soggetto altro all'oggetto alieno e alienante. Nel momento in cui questo sia tornato a mostrare un "volto" umano, e qui attendibilmente ha ragione Lévinas, si scoprirà magari che l'alienità è una proiezione del soggetto più che un carattere dell'oggetto (la psicoanalisi non ha forse mostrato che l'alienità può celarsi nell'inconscio soggettivo?). Ciò che di esso risultava intollerabile riuscirà meglio tollerabile. Quanto meno l'"indifferenza", questo surrogato contemporaneo dell'alienità, si muterà in riconoscimento di una differenza su uno stesso piano. Ovviamente il ragionamento è reversibile, anche se la reciprocità non può essere avanzata quale pretesa apriorisica, senza che essa diventi il sigillo di un'alienità irriducibile.
Fra le questioni sollevate in questa breve ricognizione, ne rimane in sospeso una particolare. Portato alle estreme conseguenze, il concetto di "assolutamente Altro" di Lévinas non ripropone il vecchio problema dell'alienazione religiosa? Se così fosse, più che di "assolutamente Altro" si potrebbe parlare di alienità assoluta, di un'estraneità indotta rispetto a noi stessi e al mondo. In effetti, tale è la perplessità di fondo della De Beauvoir, per quanto ella non appaia particolarmente sensibile alla critica della "coscienza infelice" hegeliana. Ma si è premesso che quello di Lévinas è un concetto-limite, sebbene rivesta un carattere di necessità che per la De Beauvoir non sussiste. Inoltre l'alienità conserva un significato negativo, finché le attribuiamo una portata relativa.
Paradossalmente, un'alienità assoluta può assumere una valenza neutrale se non un potenziale positivo. In una prospettiva del genere, viene comprensibilmente a cadere ogni possibile distinzione fra alterità e alienità. Ma è pur vero che quest'ambiguità insiste a travagliare la nostra condizione di ordinaria immanenza. A costo che ciò possa suonare alquanto hegeliano, conviene forse ripiegare su una sequenza quale "identità, alterità, alienità", nel senso realistico che l'identità soggettiva è il risultato di una tensione fra alterità e alienità. Superfluo rammentarlo, la nostra identità è alterità per gli altri. Alienità è l'ombra comune a entrambe, pronta ad allungarsi secondo le angolature e l'esposizione alla luce della coscienza.
Sarebbe comunque errato sottovalutare la portata teorica dell'"assolutamente Altro" levinasiano, anche considerato come concetto a sé. Per accorgersene, giova fare un salto indietro nella storia del pensiero occidentale. Nei Soliloquia, dialogo simulato fra la Ragione e l'autore, Agostino si interrogava con apprensione sulla coerenza della propria identità personale: "Ero io o un altro, di dentro o di fuori?". Che cosa può fornire assicurazione, di fronte a quest'intimo dubbio dell'autocoscienza? Il filosofo platonizzante procede per gradi e per esclusione. La prima risposta è la memoria. In difetto di quest'ultima subentra la scrittura, in quanto mezzo di fissazione e di comunicazione. Nell'impossibilità di ricorrervi, una terza ma definitiva risorsa è per il santo la preghiera, riferimento all'assolutamente Identico in cui ogni identità si preserva e riconosce.
Non solo, si ha qui già la traccia delle Confessiones. Sono implicate alcune premesse durature o ricorrenti nel pensiero europeo: la corrispondenza tra io e Dio, per cui il primo trova sostegno nell'idea unitaria e personale del secondo; le modalità del rapporto fra Essere e mondo, quali reminiscenza, iscrizione, evocazione. E' tuttavia pure implicito un elemento, singolarmente poco cristiano: il sospetto verso l'alterità. Sia interiore o meno al soggetto, essa viene percepita piuttosto come alterazione. Sostituendo l'"assolutamente Altro" all'assolutamente Identico agostiniano, Lévinas compie un'operazione che attendeva di essere esplicitata da tempo, ribaltando in senso apofatico la prospettiva. Ne consegue che l'"assolutamente Altro" può essere letteralmente tutto tranne l'Alieno, senza perciò essere vincolato a un'identità sterile e indifferenziata.
Tornando dall'empireo su questa terra, se l'ipotesi per absurdum di un'alienità assoluta è inconsistente oltre che surreale, è pur vero che nell'alienità sussistono differenze di intensità che la rendono permeabile alla comprensione e accessibile all'approccio. Raramente, l'alienità in cui ci si imbatte si presenta come blocco omogeneo. Perfino nella più refrattaria od ostica, si annidano aree di diversità nella diversità, di cui sono portatori soggetti con i quali è più facile rilevare un'affinità di condizione o di linguaggio, allacciare rapporti di cortesia o di solidarietà, intrattenere un dialogo o stabilire un'intesa che preluda ad augurabili intese più ampie. L'inconveniente che quei soggetti siano scarsamente riconosciuti dal loro stesso gruppo è compensato da una rappresentatività trasversale, la quale andrebbe valorizzata e portata alla luce.
Spesso si tratta di intellettuali, la cui gramsciana "organicità" trascende le soggettività in gioco, appunto perciò proiettandosi in una dimensione dialogica. Senza arrischiati passi falsi o machiavellismi di sorta, da lì converrebbe muovere alla conversione dell'alienità in alterità, anziché l'inverso come a volte anche inavvertitamente accade. Lungi dall'essere diversità a tutti i costi, diversità nella diversità sembra anzi una didascalia intonata al "volto" levinasiano, irripetibile residuo di differenza nella ripetizione. Non necessariamente rifiuto di appartenenza a una coralità di tradizioni o di intenti, ma nemmeno soggezione a una soggettività imposta dall'alto o dal basso, quest'attesa di una chiamata per nome sottrae all'anonimato della massa o anche della stirpe.
Essa è condizione non tanto di una improbabile soggettività multipla, quanto di una soggettività articolata, disponibile a sua volta ad associare un nome a ogni volto e a pronunciarlo quale atto di riconoscimento. Solo l'alienità permane, per antonomasia, innominabile. Si danno però eccezioni in cui un'alienità altrui, troppo fragile per resistere all'impatto con un'alterità eccessivamente differenziata, vada semplicemente rispettata. Mutando angolatura, è purtroppo da constatare che la diversità nella diversità è sovente pretesto per l'emarginazione di una minoranza, in seno a una soggettività che si voglia esclusiva o si senta minacciata dall'esterno. Più che attentato dissociativo alla propria integrità, la sfida dell'alienità appare a ogni modo verifica della tenuta di un'identità, della sua flessibilità e versatilità, si tratti di una soggettività collettiva o individuale.
Tolleranza e intolleranza
Voltaire intendeva fondare in pieno una soggettività moderna, laica e occidentale, impresa che riuscirà a Kant con maggiore profondità e universalità. Il percorso parallelo volterriano di autore di teatro, dall'Oedipe al Mahomet al Saül, può essere significativo di questo prendere le distanze da altre soggettività oltre che da un passato oscurantistico e intollerante cui quelle tradizioni vengono assimilate. Nel secolo successivo, agli albori del positivismo, pari tenacia nel perseguire un analogo scopo si riscontrerà in Francia in un pensatore quale Ernest Renan. Anche lui incorrerà suo malgrado in certi "abusi, i quali fanno in verità tanto male". Il più gravido di conseguenze è un antisemitismo tendenziale, non esente da un sottofondo di razzismo.
Che poi l'antisemitismo di Voltaire fosse diretto soprattutto contro la cultura ebraica, e quello di Renan contro l'arabo-islamica, è qui addirittura secondario. Se Voltaire incontrerà una puntuale replica nell'Apologie pour la Nation Juive dell'economista olandese Isaac de Pinto, altrettanto avverrà da parte del persiano-afghano Jamal al-Din al-Afghani nei confronti di Renan. Con un eccesso di zelo che rasenta il fanatismo da lui combattuto, Voltaire si rende responsabile di traghettare e adattare alla modernità quel sentimento caratterizzante i "secoli bui", altrimenti deprecati per la loro superstizione.
Da sarcastici e ragionevoli, i toni del discorso si fanno viscerali. Pure profuso ed esibito, il razionalismo critico si converte sovente in pretesto. Per accorgersene, basti leggere le voci Juifs e Judée nel Dictionnaire philosophique (senza voler qui considerare il Sermon des Cinquante, di problematica attribuzione). Ciononostante Voltaire è lo stesso che, benché di sfuggita e in nota al Traité sur la tolérance, non rifugge dal contestare con lucidità la vecchia accusa di deicidio nei confronti degli ebrei. Essa era il pretestuoso e colpevolizzante fondamento, del millenario atteggiamento discrimininante o persecutorio delle Chiese cristiane nei loro confronti:
Ci si domanda in che modo i discendenti di quegli Ebrei che non erano stati complici della morte di Gesù Cristo, quanti pur essendo a Gerusalemme non vi presero affatto parte e quanti erano dispersi sul resto della terra, possano essere in questa vita puniti nei loro figli, così innocenti come i padri.
Si potrebbe sofisticare che la cultura ebraica fosse all'epoca talmente arretrata rispetto a quella del contesto europeo, con cui si trovava a convivere, da non poter offrire a Voltaire che indizi di una congenita incapacità a evolversi. Sia la confutazione del filosofo francese da parte di De Pinto -- questi adottò il sottotitolo Réflexions critiques, per non apparire da meno del suo referente --, sia il fatto che un Moses Mendelssohn fosse praticamente loro contemporaneo, attestano però il contrario. Ed è pur vero che Voltaire mostra di apprezzare il pensiero di Spinoza, sebbene non ne condivida fino in fondo l'atteggiamento giudicato panteistico in materia di religione. Ma egli considerava il pensatore olandese un'anomalia, in seno all'ebraismo che lo aveva ripudiato. Di esso Mendelssohn lo reputò invece una matura, benché incompresa, espressione.
Mentre Voltaire era ancora in vita, nel 1763 si ebbe un episodio di per sé trascurabile. Lo scritto di Mendelssohn Sull'evidenza delle scienze metafisiche venne preferito a un testo di Kant dall'Accademia delle Scienze di Berlino. Ancor più che con l'Indagine sulla distinzione dei principi della teologia natutale e della morale di Kant, il testo premiato in concorso contrastava con quanto già sostenuto da Voltaire nel Traité de metaphysique. A cominciare da Friedrich H. Jacobi amico di Mendelssohn, la cultura tedesca "autoctona" non digerirà facilmente un simile attentato al suo "amor proprio". Comunque esso si schierasse, un moderno ebraismo pensante poteva apparire un soggetto più competitivo del classicismo di moda, anziché complementare come sosterranno Hermann Cohen o Martin Buber. E ciò strideva con lo stereotipo volterriano, nella lettera sui Pensieri di Pascal, di "barbari" che "detestavano i popoli più civilizzati".
E' forse questa la ragione "intollerabile" di tanta avversione. In una lettera di risposta a Isaac de Pinto, Voltaire se ne rese in parte conto, promettendo di fare pubblica correzione e ammenda. Probabilmente, la sua intelligenza intravide l'uso aberrante che poteva essere fatto delle proprie affermazioni, nella catena dell'umana intolleranza. La sua sensibilità avvertì come quella potesse annidarsi nella tolleranza stessa. In senso lato, il disaccordo insorto con Rousseau non riguardava anche l'ammissibilità o meno di un'"intolleranza" rivoluzionaria? Ma il danno era ormai compiuto. Era tardi per tornare indietro. La voce Judée del Dictionnaire philosophique si era chiusa con un congedo ironico: "Addio, miei cari Ebrei. Mi spiace che terra promessa sia terra perduta".
L'autore allora non sospettava che quella terra ideale potesse diventare il territorio compromesso della modernità. Il riferimento simbolico o perfino realistico alla "terra promessa" -- una promessa evidentemente sentita come disattesa, da parte delle religioni cosiddette rivelate --, ricorre nelle opere di Voltaire. Il risentimento psicologico per qualcosa di vissuto come inganno o tradimento è in lui tale, da prendere il sopravvento su una razionalità a lungo esercitata. Per vie traverse, detto risentimento si è spesso indirizzato verso il popolo disperso, latore di quel messaggio poi fatto proprio dal cristianesimo. Sul piano di una sforzata razionalizzazione, prevale l'irritazione.
Il metodo critico-dialogico applicato alle religioni in nome di una religiosità naturale da Zadig, protagonista del romanzo volterriano omonimo, si rivela infatti impotente di fronte all'"impostura" refrattaria di una tradizione chiesastica o etno-centrica. Secondo l'illuminista ebreo Zalkind–Hourwitz autore di un'altra Apologie des Juifs, il male "forse involontario" apportato dalle opinioni di Voltaire alla comunità ebraica fu compensato dal periodo di relativa tranquillità ed equità da essa goduto grazie all'illuminismo. Ritorcendo l'accusa di barbarie e temendo per il futuro, De Pinto più lungimirante aveva annotato: "Che può sperare questa sventurata nazione, se barbari pregiudizi sono condivisi dal genio più famoso del Secolo dei Lumi?".
Altro argomento forte impiegato da De Pinto è la scarsa conoscenza dell'ebraismo vivente del suo tempo da parte di Voltaire, calatosi nel ruolo di estemporaneo e improprio esegeta biblico. In base alla presunzione che per il solo essere più vicina, o per il saperne i più o meno leggendari trascorsi, una realtà umana fosse meglio conoscibile di una lontana, egli era incorso in un errore analogo a quello da lui imputato a John Locke nella Metaphysique de Newton:
…ma un uomo della saggezza di Locke non doveva ritenere sospetti questi viaggiatori? Hanno tutti in comune il vedere male, raccontare male ciò che hanno visto, il prendere per legge -- in una nazione di cui ignoriano la lingua -- ciò che è invece abuso della legge, e infine il giudicare i costumi di tutto un popolo da un fatto singolo di cui ignorano le circostanze. Se un persiano passasse da Lisbona, Madrid o Goa, il giorno di un autodafé crederebbe, con qualche sembianza di ragione, che i cristiani fanno sacrifici umani a Dio.
Appunto per essere stato il massimo portavoce dell'illuminismo -- l'"età classica" della modernità, secondo Foucault --, Voltaire ne aveva lasciato trasparire le contraddizioni irrisolte. Dopo aver premesso la non liceità di "fare sia pure un piccolo male in vista di un gran bene" (un passo avanti o un tornare sui propri passi, secondo i punti di vista, rispetto alla moderintà "selvaggia" alla Machiavelli), nel Traité sur la tolérance il filosofo francese era passato a elencare "all'incirca i soli casi, in cui l'intolleranza pare ragionevole". Tra questi, non poteva mancare quello qui portato a esempio di una fragilità del concetto di tolleranza, specie quando questo pretenda di auto-limitarsi in base a criteri selettivi arbitrari:
Gli Ebrei sembrano avere più diritto di altri a derubarci e a ucciderci. Infatti, si hanno cento esempi di tolleranza nell'Antico Testamento. Ma non mancano esempi e leggi intransigenti. Talora Dio ordinò loro di uccidere gli idolatri, salvo le figlie nubili. Ed essi ci reputano idolatri. Anche se noi oggi li tollerassimo, quando loro comandassero potrebbero ben lasciare al mondo solo le nostre figlie. Sarebbero anzitutto assolutamente tenuti ad accoppare tutti i Turchi, questo è ovvio: […] essi dovrebbero rientrare in possesso dei loro beni, che i maomettani usurpano da più di mille anni. Se gli Ebrei attuali ragionassero così, è chiaro, non resterebbe possibile risposta che spedirli in prigione.
Nelle parole di Voltaire, sconcerta leggere particolari attendibili mescolati a paure sproporzionate o a minacce immaginarie. Esse si rincorrono in un circolo vizioso, quasi copione minimo di un dramma in cui cause, effetti e ruoli delle vicende umane, risultano intercambiabili. La memoria di persecuzioni, messe in atto da altri nei propri confronti, si confonde con un'insicurezza di fondo anziché tradursi in comprensione e solidarietà. Il bisogno di auto-conferma del soggetto moderno si proietta su un soggetto configurato come alieno e prefigurato quale oggetto, a sua volta, di espulsione o di persecuzione.
In effetti, in base a presupposti del genere la libertà e l'uguaglianza di fatto fra i cittadini sarebbero facilmente alterabili rispetto a quelle di diritto, a seguito della loro pertinenza a un gruppo religioso o etnico, al limite sociale e politico, diverso oppure presunto ostile a quello maggioritario o dominante. Basterebbe invocare misure eccezionali, appellandosi in via preventiva a un principio di "legittima difesa". Peggio, si riaprirebbe la via verso forme aggiornate di mascheramento, con modalità che possono a volte ricordare una patologia paranoica. Non molto diversamente, e anzi con maggiore facilità, avverrebbe nei rapporti fra i popoli.
Nella peggiore delle ipotesi la moderna soggettività occidentale, di cui Voltaire è artefice in misura non irrilevante, somiglierebbe a una trappola costruita a svantaggio di soggettività contigue. Una sorta di congegno a tempo, sebbene intuibilmente inconsapevole della portata degli eventi successivi e di come essi si sarebbero effettivamente realizzati. Leggendo in filigrana, il passo su citato può suonare larvato suggerimento a dislocare e a scaricare la paventata tensione fra europei ed ebrei su quella tra ebrei e musulmani, nella speranza che le due soggettività rivali si neutralizzino a vicenda. Il confronto con la situazione attuale nel Vicino Oriente, e con la catena di fattori storici i quali hanno concorso a determinarla, può al limite alimentare quest'impressione negativa.
Se è sensato parlare di "banalità del male", non meno lo sarebbe di un'"astuzia dell'irrazionale", anziché di una ragione già esaltata dall'illuminismo se non ancora assolutizzata come nell'idealismo hegeliano. Il Traité sur la tolérance si conclude riprovando la "cupa superstizione che porta uomini deboli ad accusare di delitti chiunque non la pensi come loro". Viene da chiedersi se, a quella religiosa, non vada d'ora in poi affiancata una forma di superstizione della ragione. Con Hannah Arendt nella lettera a Gershom G. Scholem, là dove si pone invece il problema del farsi di una soggettività ebraica contemporanea, viene pure da chiedersi se la forzosa conversione dell'alterità in alienità non risponda a un'inconfessabile istanza di ogni soggettività, che pretenda di porsi come momento di cesura inaugurale o rifondante di sé medesima.
Fondamentalismo e integralismo sono operazioni o movimenti distinti, ma sovente complementari. Una soggettività esce dalla storicità che l'ha edificata o condizionata, nel tentativo artificioso di un ritorno alle proprie radici. Questi fondamenti vengono idealizzati ed epurati, di quanto nel tempo li abbia presumibilmente offuscati o alterati. Il rischio è che un atteggiamento fondamentalistico ne generi uno integralistico, e che la ricerca di un'"originalità" integrale sfoci non nel recupero dell'identità originaria, bensì in uno snaturamento dell'identità effettiva. Non di rado all'interpretazione di se stessi subentra quella letteralistica di testi religiosi ridotti a "pre-testi", per accreditare l'acquisizione di un'identità collettiva, tanto autoselettiva all'interno quanto esclusiva verso l'esterno. Ciò sarebbe l'innnesco di una reazione a catena, quando così si provochi l'insorgere o l'irrigidirsi di fondamentalismi e integralismi contrapposti.
Signoria e servitù
C'è un pensatore contemporaneo, che si è dedicato all'analisi del farsi tanto dell'identità individuale quanto di una collettiva, evidenziandone l'interdipendenza e specialmente la dipendenza della prima dalla seconda. In La tecnologia politica degli individui, Michel Foucault ha ribadito come la nostra identità si sia storicamente strutturata tramite alcune modalità, quali esclusione, oggettivazione e assoggettamento: "cioè il modo in cui, attraverso una certa tecnologia politica degli individui, siamo stati portati a riconoscerci come società, come parte di una entità sociale, come parte di una nazione o di uno Stato". Ora, non c'è dubbio che in una tale strategia rientrino tanto determinate istituzioni e dinamiche connesse, quanto le ideologie che si sforzano di razionalizzarle e giustificarle nell'ambito della nostra educazione e cultura.
In una intervista di Rux Martin a Foucault del 25 ottobre 1982, poi intitolata Verità, potere, sé e inclusa nel volume Tecnologie del sé, il filosofo francese ha inoltre chiarito uno dei principali argomenti di studio, nel corso della sua lunga ricerca: "le tecnologie del potere, che regolano la condotta degli individui e li assoggettano a determinati scopi o domini esterni, dando luogo a una oggettivazione del soggetto". Nell'articolo su citato e compreso nello stesso volume, Foucault ha enucleato infine un concetto non meno importante e complementare: quello delle "antinomie della ragione politica". Negli esempi qui appresso esaminati, vediamo di stabilire un nesso plausibile tra i due assunti foucaultiani, in una retrospettiva genealogica cara allo studioso.
Già ai tempi di Aristotele doveva esserci chi sosteneva la disumanità, oltre all'innaturalezza, della schiavitù, nonostante che essa fosse diffusa in gran parte del mondo antico e costituisse la base economica delle società allora più avanzate. E' lui stesso a confermarlo, nel trattato sulla Politica:
Alcuni sono dell'opinione che il governo da parte di un padrone sia una scienza, e che da un lato la gestione domestica e la direzione di schiavi, dall'altro il governo politico e l'esercizio di un potere sovrano, siano la stessa cosa come ho detto all'inizio. Altri affermano che il governo di un padrone nei confronti di schiavi sia contro natura, e che la distinzione fra schiavo e uomo libero esista solo per legge, non secondo natura; e che, entrando in collisione con la natura, sia perciò un'ingiustizia.
Riguardo a quest'ultima opinione, è assai probabile che Aristotele alluda all'ala più spregiudicata e cosmopolitica della sofistica, da Ippia e Antifonte a Licofrone e Alcidamante, sostenitori di una basilare uguaglianza di tutti gli uomini secondo natura. In quanto difensore aprioristico della prima opinione, per meglio giustificarla il filosofo di Stagira fa a sua volta appello alla natura. Pur facendo qualche apparente concessione al parere contrario, egli si sforza di mostrare come padrone e schiavo siano in fondo legati da una comunanza di interessi:
Chi sia dotato di previdenza, tramite l'esercizio della mente, è da natura destinato a essere signore e padrone. Chi col suo corpo sia in grado di dare effetto a tale previdemza è un assoggettato, predisposto per natura a essere schiavo. Padrone e schiavo hanno lo stesso interesse: […] il secondo praticando l'obbedienza, il primo esercitando l'autorità e la signoria che la natura ha inteso conferirgli. L'abuso di quest'autorità è nocivo a entrambi. Gli interessi della parte e del tutto, del corpo e dell'anima, sono gli stessi. Lo schiavo è parte del padrone, quasi parte vivente e separata del suo organismo. Quando la relazione fra padrone e schiavo sia secondo natura, essi sono amici e hanno un interesse comune. Là dove essa si basi solo sulla legge e sulla forza, è vero il contrario.
E' superfluo rimarcare che il rigore dell'argomentazione non fa, in questo caso, onore all'acume del padre della logica greca. Essa finisce con l'avvitarsi su se stessa, incapace di uscire dall'antinomia, al punto da dar ragione a chi reputa la filosofia una giustificazione a posteriori dell'ordine costituito, politico, sociale o economico che esso sia. Il presupposto tautologico è che lo schiavo sia un essere inferiore e non padrone di sé per natura, salvo capricci della sorte: "Fin dall'istante della nascita, c'è chi è designato per la soggezione, chi per comandare". In compenso, l'impaccio dell'autore è tale, da tradire un imbarazzo per l'ingrato compito assunto. Fatto sta che nell'Etica nicomachea egli si sente in dovere di tornare sull'argomento con un sofisma, invece di fornire un'improbabile spiegazione valida, sia pure sul piano della "filosofia pratica":
Come non sussiste amicizia verso un cavallo o un bue, così nei confronti di uno schiavo in quanto schiavo. Non c'è niente in comune fra le due parti in causa. Lo schiavo è uno strumento vivente. Uno strumento è uno schiavo senza vita. In quanto uno è schiavo, non si può essere amici nei suoi confronti. Si può esserlo verso di lui, in quanto uomo. Infatti sembra esservi una qualche giustizia fra un uomo e un altro, che condividano un sistema di leggi o facciano parte di un accordo prestabilito. Nella misura in cui lo schiavo è umano, ecco allora possibile un'amicizia nei suoi confronti.
Non molto diversamente Aristotele considera i rapporti delle donne con i mariti e dei figli con i padri, nel tentativo di salvare a ogni costo il suo concetto di philia politikê, di "amicizia politica" in una società "democratica" su modello familiare. La verità è che in particolare la contraddizione fra padrone e schiavo è antinomica -- oppure, da un diverso punto di vista, antagonistica --, poiché avvertita quale condizione di sussistenza della società di cui il filosofo tratta, in cui si trova a vivere e a operare. All'apice della prosperità di Atene, pare che il numero dei liberi cittadini fosse circa un quarto di quello degli schiavi. In L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, capitolo sulla Genesi dello Stato ateniese, ciò indurrà Friedrich Engels a sostenere che tale scompenso fu la causa interna di rovina della democrazia ateniese.
In tali condizioni, è difficile dar credito a una complementarietà o complicità, tanto meno a frequenti relazioni di amicizia tra padroni e schiavi, sia pure su un piano umano distinto da quello dei "rapporti di lavoro". A tal punto però la soggettività rappresentata da Aristotele dipende da un processo di assoggettamento e di oggettivazione altrui, che egli attribuisce alla natura quanto da addebitarsi alla cultura di appartenenza. Più raffinata sotto tale aspetto, la cultura greco-romana saprà esprimere la stoica benché sterile corrispondenza dell'imperatore Marco Aurelio e dell'ex schiavo Epitteto. E' uno degli spunti suggestivi, che terrà presente Friedrich Hegel introducendo la sua moderna interpretazione della dinamica "servo-padrone", nella Fenomenologia dello Spirito.
La sottomissione da parte del servo favorirebbe un processo dialettico, teso alla sua emancipazione morale e materiale. Quest'ultima consegue a un reciproco riconoscimento, grazie al quale il servo cessa di "essere parte" del padrone, aristotelicamente parlando. L'oggetto acquista autonomia rispetto al soggetto, prendendo coscienza di sé come soggetto altro, e configurandosi in quanto tale agli occhi del soggetto dominante. Pure lui sarebbe indotto a modificarsi, assumendo un atteggiamento più rispettoso. Egli cessa di essere il "non altro da sé" per prendere atto dell'alterità, nella sfera di una superiore autocoscienza, sostituta della coincidenza di interessi aristotelica.
In termini meno retorici, un rapporto di soggezione è comunque da preferisi a uno di esclusione, con i rischi di distruzione, di non sussistenza o di semplice incomunicabilità, che il secondo comporta. Sul tenore di tali rischi almeno nell'antichità, sulla necessità di evitarli da parte di chi vi fosse soggetto ma anche sulla convenienza di farlo per chi aveva potere di renderli effettivi, Aristotele era stato fin troppo esplicito. Con senso visionario più che di previsione, egli aggiunge che solo in un mitico mondo automatizzato la schiavitù avrebbe potuto essere superflua; né dimentica di raccomandare la precauzione che la massa degli schiavi agricoli venisse scelta fra i dotati di minor spirito, al fine di evitare eventuali rivolte:
Sebbene in base alle rispettive nature schiavo e padrone abbiano un interesse comune, nondimeno il governo del padrone viene esercitato principalmente in vista del proprio interesse. Tuttavia, accidentalmente, esso prende in considerazione anche lo schiavo. Ciò, dal momento che, se quello perisse, lo stesso governo del padrone si estinguerebbe con lui. […] E' dunque chiaro che per natura alcuni sono liberi e altri schiavi; per questi ultimi, la schiavitù è insieme una legge e una risorsa.
Colonizzatori e colonizzati
Produttivo ma alienato, -- in tal senso, notoriamente Marx svilupperà e correggerà il discorso di Hegel -- il lavoro salariato industriale è la forma privilegiata di moderna servitù. Ciò non risolve automaticamente le contraddizioni, ma stabilisce certe premesse affinché tanto possa alfine realizzarsi. L'antinomia si articola in antagonismo fra classi sociali. Alla conciliante alternanza hegeliana subentra una tensione alternativa. L'autocoscienza soggettiva coincide con la coscienza di classe e con una presa di coscienza politica, in ultima istanza rivoluzionaria.
Resta sospetta ogni soluzione intermedia, che sembri poter ritardare o compromettere il soddisfacimento di quell'istanza onnicomprensiva. Le cose intuibilmente si complicano, quando le classi siano associate a identità nazionali, religiose o etniche, tra loro diverse (già Aristotele sottolineava l'equazione barbari-schiavi, nell'opinione greca corrente). E' stato il problema del colonialismo e dell'imperialismo, nelle sue forme anche regressive, rilevava Frantz Fanon in Peau noire, masques blancs. Esso permane in gran parte tale, nell'età della globalizzazione capitalistica.
Nel saggio citato apparso nel 1952, Fanon contestava che lo schema hegeliano fosse applicabile alla storia della schiavitù nell'epoca coloniale. La dinamica "servo-padrone", egli affermava, implica una reciprocità che non aveva trovato effettivi riscontri fuori della società e dell'economia europee. In opere successive quale Les damnés de la terre, si specifica come i rapporti fra colonizzatori e colonizzati somigliassero più a quelli tra padroni e schiavi che a quelli fra imprenditori e operai. Seguirono critiche di "terzomondismo" da parte di marxisti dogmatici dell'epoca, nei confronti dell'intellettuale "di colore". Giova allora confrontare la posizione di Fanon con quella di Karl Marx sul tema, quale esposta nel 1847 in Miseria della filosofia.
Espressa in maniera polemica nei riguardi di Pierre-Joseph Proudhon, essa può lasciare interdetto il lettore odierno per un suo cinico determinismo e soprattutto perché smentita dagli eventi successivi con riferimento alla Guerra di Secessione negli Stati Uniti d'America. A dispetto peraltro dell'abolizionismo illuminista di Montesquieu in De l'esprit des lois, perfino la schiavitù può evidentemente apparire a Marx come List der Vernunft, hegeliana "astuzia della ragione" in una sorta di provvidenzialismo immanente alle cose. Al volontarismo etico di Proudhon, egli oppone in compenso lo smascheramento di ogni idealistica "falsa coscienza":
La schiavitù diretta è il perno dell'industria borghese, altrettanto quanto le macchine, il credito, et. Senza schiavitù non c'è cotone e senza cotone non c'è industria moderna. E' stata la schiavitù a conferire alle colonie il loro valore., sono state le colonie a creare il commercio mondiale ed è il commercio mondiale la condizione della grande industria. In tal modo la schiavitù e una categoria economica della più grande importanza. Senza la schiavitù, l'America del Nord, il paese oggi più progredito, si trasformerebbe in un paese patriarcale. Cancellate l'America del Nord dal mappamondo e avrete l'anarchia, la decadenza completa del commercio e della civiltà moderna. Fate scomparire la schiavitù e avrete cancellato l'America dalla carta dei popoli. Così la schiavitù, essendo una categoria economica, è sempre stata nelle istituzioni dei popoli. I popoli moderni non hanno saputo far altro che mascherarla nel proprio paese per imporla senza veli nel nuovo mondo.
Per essere obiettivi, va annotato che la stessa versione marxiana della dinamica "servo-padrone" appare un po' una forzatura interpretativa da parte della vulgata marxista. Benché appaia alludervi spesso nella sostanza, Marx cita l'altrimenti abusata espressione hegeliana marginalmente nelle sue opere. Esistono ovviamente letture del pensiero complessivo di Marx e una tradizione di ispirazione marxista, assai più sensibili o comprese nelle problematiche di quello che in un periodo ormai storico è stato sbrigativamente definito "Terzo Mondo". Da segnalare, la critica culturale e letteraria di Edward W. Said, in Orientalism e in Culture and Imperialism.
In uno dei saggi di questa raccolta, analisi di Mansfield Park di Jane Austen, l'intellettuale esule evidenzia come la narratrice inglese sviluppi l'intero racconto sullo sfondo dello schiavismo nelle piantagioni americane, con sorprendente indifferenza per quanto rende semplicemente possibili gioie e pene dei protagonisti. Di fronte a se stesse e agli altri, anche le persone più sensibili possono fingere di non accorgersi di quanto la "coscienza infelice" -- meglio, "coscienza malinconica" la chiama Judith Butler -- sia frutto di falsa coscienza o di cattiva coscienza. Quest'ultima non vuole essere rimossa, perché costituisce il sostegno stesso del proprio mondo. E il paradosso universale sta nel particolare che i loro racconti sono pur belli, osserva Said in un altro saggio, accompagnato dalla musica del coro di remota ambientazione egiziana dell'Aida di Giuseppe Verdi. Un'autocoscienza non tanto estranea, quanto esotica rispetto a sé.
Si danno casi risaputi di alterità, ostinatamente irriducibile. Anche allora è opportuno chiedersi quanto essi siano il frutto di una forzatura, di un processo non sempre consapevole eppure ideologizzante di conversione dell'alterità in alienità. O, peggio, se quell'alienità non sia spinta a tradirsi in quanto tale, imboccando il vicolo cieco del risentimento e della vendetta. Tanto più questa modalità è aberrante, quanto non di rado essa risponde a un calcolo del soggetto che si ritiene più forte. Il traguardo non è nemmeno l'oggettivazione e l'assoggettamento, bensì l'esclusione e l'annullamento dell'altro. Specie quando questi opponga resistenza a uniformarsi ai criteri della soggettività egemone, o a sottomettersi al rapporto di soggezione, l'esito può essere distruttivo per entrambi o per uno dei soggetti in causa. Di solito, il più debole. Ma pure l'altro ne esce menomato.
Sul piano storico-politico, è Hannah Arendt a portare un controverso esempio di dinamica "servo-padrone", nella sua versione marxiana. Stando alla ricostruzione delle circostanze da lei fornita, in realtà tutte da verificare, nel caso particolare il congegno non avrebbe potuto funzionare e neppure avviarsi, semplicemente perché non sussistevano i presupposti per un'interazione dialettica fra le parti coinvolte. In Pace o armistizio nel Vicino Oriente?, scritto del 1948 pubblicato nel 1950, è da osservare che anche qui il tentativo di spiegare un'antinomia conduce a conclusioni tanto pessimistiche quanto paradossali.
Al di là dell'onestà degli intenti il ragionamento della Arendt resta un capitolo sintomatico nella storia delle acrobazie, e dei trasparenti imbarazzi, dell'ideologia. Nelle premesse logiche, la pensatrice contemporanea evita l'ingenuità aristotelica a lei ben nota, di attribuire al soggetto dominante qualche diritto di natura, ribaltando la situazione e aggirando le pretese di un diritto religioso: "la Palestina è una Terra Santa per tre religioni monoteistiche. Su di essa gli arabi hanno un diritto naturale e gli ebrei diritti storici, tutti ugualmente validi".
Rappresentate rispettivamente per quanto arbitrariamente dai contendenti, Natura e Storia si fronteggiano, senza che prevalga l'una o l'altra. Alla fine, con l'epifania dell'Economia politica, il "circolo ermeneutico" si rivela una trappola. Esso si risolve nella deterministica prospettiva di un grottesco assurdo: piuttosto che sfruttamento coloniale, la rimozione ed espulsione dell'altro non tanto in quanto tale, ma poiché manodopera "a basso prezzo", troppo competitiva sul mercato e sprovveduta circa i propri diritti sindacali:
L'incapacità degli ebrei e degli arabi di vedere i loro vicini come concreti esseri umani può essere spiegata in molti modi. Uno dei principali è la struttura economica del paese, in cui i settori arabo ed ebraico erano divisi, per così dire, in compartimenti stagni. […] La manodopera araba era pericolosa perché a basso prezzo; c'era la costante tentazione, da parte del capitale ebraico, di assumere arabi al posto dei lavoratori ebrei, più costosi e consci dei propri diritti. L'intera iniziativa sionista poteva facilmente degenerare, in quegli anni cruciali, in un'impresa coloniale dell'uomo bianco, per mezzo e alle spese del lavoro dei nativi. La lotta di classe ebraica in Palestina fu in gran parte una lotta contro i lavoratori arabi: essere anti-capitalisti ha quasi sempre voluto dire essere praticamente anti-arabi.
Altri passi e l'opera complessiva della Arendt suggeriscono che l'ambiguità sia qui intenzionale e provocatoria. Tant'è che l'oriundo palestinese E. W. Said, in Orientalism, la include tra gli autori citati a sostegno delle sue tesi. La tensione fra dire e non dire è d'altronde allusiva nei confronti di un referente sionista, con cui il discorso sfocerà a lungo andare in aperta polemica se non in una sofferta rottura, come attesta lo scambio di lettere con Gershom G. Scholem del 1963. Paradosso nel paradosso, il passo in questione si presenta comunque quale un piccolo labirinto.
Non si tratta solo di incongrua applicazione dello schema risolutivo "servo-padrone", cioè del rimpianto della fallita occasione di un male minore in vista di un aleatorio bene ulteriore, causa il prevalere in Palestina di una "manodopera ebraica organizzata" sugli "infelici proletari arabi potenziali". In particolare, sconcerta l'espressione "uomo bianco" opposta ai "nativi", impiegata da chi si è distinta per i suoi scritti contro il razzismo oltre che sul totalitarismo. Tocca dedurne un uso ironico, da parte di chi peraltro confesserà di aver "compreso tardi l'importanza di Marx, perché da giovane non ero interessata né alla storia né alla politica". In che senso l'iniziativa sionista avrebbe potuto degenerare in "impresa coloniale dell'uomo bianco"? L'autrice ebrea non sta forse parlando di popoli entrambi semiti, di lingue e religioni consimili?
Non importa certo appurare se l'ebreo sia più o meno "bianco" dell'arabo. Passando proprio da quelle parti, non risulta che il samaritano della parabola evangelica -- già di per sé un altro nell'alterità, perciò esemplarmente universale -- si sia posto problemi del genere. Come molti di noi avrebbero fatto nel suo caso, probabilmente egli ha solo calcolato per un attimo i rischi che correva e i vantaggi che avrebbe tratto da una libera scelta, prima di sottrarsi a un'ipoteca di servo arbitrio. E deve aver concluso, con Blaise Pascal, di aver poco da perdere mettendosi in gioco. Divenire il prossimo, riconoscersi nell'altro, è una scommessa contro l'alienità e una scelta incondizionata.
Eleggendo invece il samaritano a "custode" dell'altro, in buona fede un Agostino alquanto platonizzante aveva inaugurato un'inedita versione della soggezione "servo-padrone". Imitato da uno stuolo di esegeti non solo medioevali, egli rafforzò il concetto col verso di un salmo biblico: Non dormit, neque dormitat qui custodit Israel. Da allora in poi, un esercito di vigili samaritani si è sparso per il mondo in cerca di soggetti su cui esercitare una tutela, consenzienti o meno che siano. Non più aristotelicamente incivili e barbari, almeno essi siano arretrati e sottosviluppati, tali da doverli più tardi convertire alle regole progressive della dialettica o del mercato. Magari, soggiogati da qualche forma di "dispotismo asiatico", per poterli meglio liberare e custodire.
E' ora evidente che nelle parole della Arendt "uomo bianco" sta, alla Rudyard Kipling, per soggetto di civiltà occidentale moderna. Se adottata in opposizione ai palestinesi e riferita agli ebrei provenienti dall'Europa -- per giunta, perseguitati sotto il nazismo perché ritenuti poco omologhi a un simulacro di "uomo bianco" --, l'espressione però stride. Stando a quanto enunciato dalla stessa autrice, essa è indizio a oltranza di qualche effettiva "incapacità degli ebrei e degli arabi di vedere i loro vicini come concreti esseri umani". Per dirla con Emmanuel Lévinas, di guardarsi in "volto", quando l'irriducibilmente altro prenda il sopravvento sulle proiezioni dell'"assolutamente Altro".
Infine, altrove la Arendt aveva sostenuto che "l'ebreo Karl Marx scrisse Il capitale, un libro che, nel suo zelo fanatico per la giustizia, alimentò la tradizione ebraica in modo molto più efficace del fortunato concetto di "uomo eletto della razza eletta"". Più che un disinvolto recupero di Marx, per la verità dietro l'esempio tanto idealizzato quanto realizzato a senso unico addotto dalla Arendt viene da scorgere il prototipo dell'Utopia di Thomas More. Ivi il martire cattolico aveva immaginato e giustificato le imprese coloniali degli Utopi, volte a far sì che "una landa altrimenti arida e non bastante per una sola popolazione divenga così fertile, da poterne mantenere due":
Ma, se i nativi rifiutano di conformarsi alle loro leggi, li espellono dai confini tracciati per sé e ricorrono alla forza se essi oppongono resistenza. Infatti rieputano più che giusta una guerra contro chi impedisca altrui di possedere del terreno, lasciandolo inutilizzato e incolto, dal momento che ogni uomo per legge di natura ha diritto a una porzione di terra bastante alla propria sussistenza.
Dialettica e differenza
Pur prestandosi a equivoci o appunto perciò, la dinamica "servo-padrone" non ha mai cessato di attraversare le società e di insinuarsi fra società e società, interferendo con la possibilità di relazioni paritarie tra soggetti, fino a colorirsi essa stessa di un più o meno motivato sospetto di ideologismo. Certo ben pochi riterrebbero ammissibile un legame di schiavitù, così come lo concepiva a suo tempo Aristotele o lo contemplava lo stesso Marx in quanto deprecabile ma dialettica "categoria economica". Eppure è ancor oggi attuale il paradosso di una dicotomia nelle relazioni umane. Si può avere un riconoscimento di parità o perfino esprimere solidarietà in teoria, a fronte di un rapporto di subordinazione, di asservimento o di sfruttamento, in pratica. E quest'ultimo viene a volte pubblicamente tollerato, quale male minore o addirittura inevitabile e utile.
Quella che per Aristotele era una soluzione, velata di ipocrisia, non è che il transitorio chiarimento dei termini di una tenace contraddizione. Fin troppo mirato a scongiurare o a nueutralizzare l'irriducibilmente altro, dal canto suo lo schema hegeliano ha il limite di tenere in scarso conto l'alterità nell'alterità, fra le possibili vie tramite cui un soggetto si riconosca "altro dell'altro" piuttosto che "non altro da sé". La via privilegiata da Hegel è il desiderio dell'assoggettato di emulare il soggetto, prendendo il suo posto, più che autonoma volontà di liberazione. Padrone e servo diventano ruoli intercambiabili, in un circolo vizioso mascherato da "autocoscienza dello spirito", cui Marx sostituirà il traguardo utopico di una società senza classi.
Già rivalutata da Voltaire nel Traité de metaphysique in quanto fattore di progresso, l'invidia sociale è il poco edificante sentimento, che anche per Hegel funge da movente. Se non altro in ciò appare fondata la critica nicciana del ressentiment, nella Genealogia della morale. A sua volta, essa ha però il difetto di ricordare da vicino il pregiudizio aristotelico della distinzione fra "libertà relativa" e "libertà assoluta", intesa quale nobiltà "secondo natura". A proposito di Nietzsche e della sua "morale degli schiavi", a suo dire essa sì ormai incapace di inquadrare l'altro se non in quanto antagonista, è da ribadire che questa iperbolica deformazione, sommata a un fantasioso naturalismo di contorno, ha sortito effetti assai deleteri nella storia del pensiero del '900.
Solo ribaltando una tale posizione, in Nietzsche et la Philosophie e nell'introduzione a Nietzsche, Gilles Deleuze ha potuto adottare l'esempio della relazione "servo-padrone" per mostrare come quello nicciano sia un pensiero basato sulla differenza e quanto esso diverga dalla dialettica hegeliana. Nell'ottica conferita da quest'ultima, l'assoggettato sarà pur sempre un "altro da sé" rispetto al soggetto egemone. Per quanta autonomia egli consegua, ci sarà un residuo di dipendenza sia pure reciproca. A maggior ragione, quando i ruoli si siano invertiti:
…è evidente che lo schiavo non cessa di essere schiavo prendendo il potere, né il debole, un debole. Le forze reattive, anche se prendono il sopravvento, non cessano di essere forze reattive. Poiché, in ogni cosa, secondo Nietzsche, si tratta di una tipologia qualitativa, si tratta di bassezza e di nobiltà. I nostri signori sono degli schiavi che trionfano in un divenire-schiavo universale.
Perché possa davvero evadere da uno stato di soggezione, di minorità o di inespressione, specifica il filosofo francese, occorre riconoscere piena alterità di diritto all'assoggettato. Egli è altro rispetto all'altro, già in partenza. Sarà la sua "volontà di potenza" ovvero di riscatto a convertire la potenzialità in atto, a realizzarne l'originale differenza, a sottrarlo alla "differenza indifferente" di una ripetizione inerte o coatta. Sulla traccia della filosofia della differenza, ma di una identità o alterità viste soprattutto al femminile, si colloca il femminismo integrale -- senza essere, con ciò, integralista -- della belga Luce Irigaray. Circa il contrastato rapporto col pensiero nicciano, si veda Amante marine. De Friedrich Nietzsche, singolare rilettura del mito di Arianna e Dioniso.
Si può infine praticare l'assoggettamento in seno a una società, indirizzando all'esterno l'aggressività e la distruttività. Ovvero si può usarla all'interno come ricatto, quale minaccia di esclusione e di reclusione nei riguardi di chi non risponda ai criteri della soggettività dominante, o non si uniformi consensualmente a essi. La strumentalizzazione dell'altro può servirsi di più mezzi di pressione: dal disconoscimento dell'alterità alla condanna della diversità, alla conformazione dell'altro a propria immagine e somiglianza. Ciò, in vista magari di una promozione personale o sociale, o della partecipazione a un potere decisionale che si proponga come imparziale. Tutte queste operazioni sono sovente dosate e complementari, nelle complesse società contemporanee.
Nemmeno la modernità è stata in grado di uscire dall'antinomia, se non a patto di trasformarla in altre, talvolta peggiori. Figure già da Aristotele fra loro accostate in quanto predisposte a uno stato di soggezione -- lo schiavo, la donna di famiglia o il "barbaro" -- sono state surrogate da analoghe, in seguito interiorizzate. L'incidenza di fattori ideologici e simbolici è di gran lunga cresciuta. Indagando i nessi tra psicologia e politica, uno psicoanalista come Jacques Lacan ha orientato la sua ricerca in base alla relazione "servo-padrone". In un'ottica incentrata sui rapporti fra i sessi, è quanto variamente analizzato da Judith Butler. Specialmente in The Psychic Life of Power: Theories in Subjection, ella riparte da Foucault, piuttosto che da Deleuze come fa un'altra pensatrica al femminile: l'australiana Rosi Braidotti.
Esponente di un femminismo eccentrico anche rispetto a sè, nel saggio citato la Butler opera un'originale rivisitazione della dialettica "servo-padrone", ripercorrendo i nessi fra soggettività e soggezione quali indagati da Hegel, Nietzsche, Freud, Althusser e Foucault. Nel complesso, il suo pensiero si sviluppa da un'ambivalenza polemica verso il "pensiero della differenza" della Irigaray. E' interessante come l'autrice statunitense muova da una posizione di alterità nell'alterità, per demistificare contrapposizioni radicate nella civiltà occidentale o per adombrare vie di comprensione se non di soluzione dei conflitti. Nello specifico, si potrebbe annotare che il suo metodo risulta più hegeliano di quello applicato da Hegel stesso.
Su un piano teorico, la discrepanza fra la Butler e la Irigaray è meno settoriale o secondaria di quanto sembri. Nel momento in cui la prima immette nel "pensiero della differenza" un elemento di alterità nell'alterità -- alias, di diversità nella diversità --, ella reintroduce e aggiorna la dialettica hegeliana. Le ombre di Nietzsche e di Hegel -- o, se si preferisce, di Marx -- tornano ad allungarsi dietro le rispettive concezioni, nel corso di un'annosa contesa o in cerca di una possibile confluenza. Meglio "allineata", la Braidotti punta su una sintesi fra la Irigaray e Deleuze. Oltre che di un maturo pensiero femminista, tutto ciò risente di un travaglio cruciale nella filosofia contemporanea. Il risvolto politico è più chiaro, se si confrontano opere recenti quali Contingency, Hegemony, Universality, della Butler e altri, e Nuovi soggetti nomadi della Braidotti.
Vari sono gli approcci, per indagare il farsi di una soggettività. Svariate, le "teconologie" per abilitarla o delegittimarla, riprendendo qui una definizione foucaultiana. Ce n'è forse una, quasi intelligenza occulta, che superveda e coordini le altre? In Surveiller et punir Foucault aveva anticipato indicazioni in merito. Perfino la pretesa di "prendersi cura" dei cittadini, purché in sintonia con un certo modello o finalità, si presta a essere larvata versione della dinamica "servo-padrone". Ivi, il secondo ruolo è sì delegato allo Stato. Ma il cittadino ideale, già del resto produttore e consumatore, sarebbe esecutore ed esecutivo a un tempo. Fertile brodo di coltura, in un contesto burocratico, per la arendtiana "banalità del male". Da "servo-padrone" a "vittima-carnefice", non c'è poi un abisso.
Spostando l'attenzione sul terreno a lui congeniale, così Foucault magistralmente stigmatizzava l'intera questione, in La tecnologia politica degli individui:
…la Rivoluzione francese dà il via alle spaventose guerre nazionali dei nostri giorni, che coinvolgono eserciti imponenti e trovano la loro conclusione o apice nei grandi eccidi collettivi, come penso si possa riconoscere nelle vicende della seconda guerra mondiale. Sarebbe arduo trovare nell'intera storia dell'umanità forme di massacro di paragonabile estensione ed efferatezza. Eppure precisamente in questo periodo vengono formulati i grandi programmi di benessere, di salute pubblica e di assistenza sanitaria. […] La coesistenza, nelle strutture politiche, di meccanismi di distruzione su larga scala e di istituzioni orientate alla cura della vita degli individui è un fatto strano che richiede di essere indagato. Si tratta dell'antinomia centrale della nostra ragione politica.
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