Pino Blasone
2. Per una filosofia minore
Metropoli e cosmopoli
Nei capitoli qui precedenti, si è intravisto quanto lentamente, in maniera complessa e anche contraddittoria, la coscienza civile abbia raggiunto una dimensione cosmopolitica. A questo sforzo e conquista della mente, mai abbastanza e universalmente acquisita da essere irreversibile, hanno concorso fattori politici ed economici, culturali e religiosi, storici e geografici. Correnti di pensiero quali la sofistica, l'aristotelismo, lo stoicismo e l'ecumenismo non solo cristiano, vi hanno contribuito in misura rilevante anche se circoscritta o a volte funzionale alla propria area di competenza. A chi chiedesse informazioni circa la propria provenienza, nelle sue Diatribe lo stoico Epitteto attribuiva a Socrate il consiglio di non rispondere "di essere originario di Atene o di Corinto, bensì di essere cittadino del mondo".
Derivato dai vocaboli kosmos e polis -- in greco esisteva il composto kosmopolitês; e il concetto si trova già presso Zenone di Cizio --, il termine cosmopolitisme si diffonde in Francia durante l'illuminismo. Il senso maturo è che tutti gli uomini possono essere considerati cittadini di una sola patria, senza discriminazioni di nazionalità o di razza, e altresì di credo religioso. Benché l'ideale incontrasse crescente fortuna almeno fino a Immanuel Kant, non sempre né ovunque esso è stato poi accolto in positivo. L'idea kantiana è di una federazione di Stati, libera civitas gentium opposta all'impositiva "repubblica universale" che intanto la Francia stava per adottare come legittimazione ideologica, per esportare con le armi la sua Rivoluzione nel resto d'Europa.
Comprensibilmente, questo antefatto dell'imperialismo napoleonico lo è anche di un rigetto della concezione del cosmopolitismo settecentesca. Ciò, non solo da parte dei nazionalisti influenzati dall'idealismo romantico - magari, attraverso un rimpianto dell'universalismo cattolico, come per Novalis in La cristianità ovvero l'Europa --, ma perfino degli internazionalisti di ispirazione socialista. Una critica da loro mossa è che un vero internazionalismo presuppone l'enucleazione ed emancipazione delle identità nazionali. In assenza di quest'ultima, il cosmopolitismo può anche essere giustificazione ideologica di una forma di imperialismo. Dalla Riforma cristiana protestante ai Risorgimenti nazionali dell''800, sviluppatisi in contrapposizione all'eredità del Sacro Romano Impero, la storia europea sembrava impartire una tale lezione.
Quanto a mêtropolis, con riferimento ai greci delle colonie il termine designava la madrepatria; in senso traslato, la città più grande e importante di un territorio. In epoca moderna coloniale, "metropoli" è venuta a significare il paese di origine dei colonizzatori ovvero l'intera Europa colonialista. E' tuttavia nel pensiero di Gramsci che la distinzione tra le definizioni "metropoli" e "cosmopoli" assume una accezione particolare: la prima vi coincide con la civiltà occidentale moderna, nata dalla "grande eresia" dell'insorgere degli Stati nazionali; la seconda, con quella europea medioevale e con analoghe caratterizzate dall'universalismo religioso o culturale.
E' il caso di soffermarsi sull'intima natura di tale analogia, ispirata alla concezione hegelo-marxiana della dialettica storica. La ricerca di una regola di massima applicabile allo studio delle civiltà, ricavabile dalla storia di quella meglio nota e ritenuta più avanzata, è evidente in un'osservazione che l'autore formula nel 1930 a proposito della società giapponese a lui contemporanea. Il metodo adottato, di prevedere la fase imminente di sviluppo di quella società in base allo stadio presumibilmente corrispondente nel progresso civile europeo, risponde certo a un punto di vista eurocentrico. E' pur vero che, nello specifico, il criterio difficilmente poteva essere diverso se non in modo simulato e artificioso:
Dopo il suffragio allargato (quando e in che forma?) ogni elezione, con gli spostamenti nelle forze politiche dei partiti e con i cambiamenti che i risultati possono portare nel governo, opera attivamente a dissolvere la forma mentale "teocratica" e assolutista delle grandi masse popolari giapponesi. La convinzione che l'autorità e la sovranità non è posta nella persona dell'Imperatore, ma nel popolo, conduce a una vera e propria riforma intellettuale e morale, corrispondente a quella avvenuta in Europa per opera dell'illuminismo e della filosofia classica tedesca, portando il popolo giapponese al livello della sua moderna struttura economica e sottraendolo all'influsso politico e ideologico dei baroni e della burocrazia feudale.
Si obietterà che il Giappone di quel tempo aveva poco di cosmopolitico, nella più comune accezione del termine. In effetti, l'esempio introdotto da Gramsci è motivato dai forti influssi che quel Paese aveva attinto ai suoi rapporti millenari con la "cosmopoli" cinese e a quelli ben più recenti con la "metropoli" dell'Occidente industrializzato. Oltre alla Cina e all'India, un esempio di "cosmopoli" giunte fino ad epoca moderna che l'autore adduce nei Quaderni del carcere è quello del mondo islamico. Ad esso, egli applica lo stesso metodo comparativo che al Giappone:
Se si ammette che la civiltà moderna nella sua manifestazione industriale-economica-politica finirà col trionfare in Oriente […], perché non bisogna concludere che necessariamente l'Islàm si evolverà? […] Il Cristianesimo ha impiegato nove secoli a evolversi e ad adattarsi, lo ha fatto a piccole tappe, ecc. L'Islàm è costretto a correre vertiginosamente. Ma in realtà esso reagisce proprio come il Cristianesimo: la grande eresia su cui si fonderanno le eresie propriamente dette è il "sentimento nazionale" contro il cosmopolitismo teocratico. Appare poi il motivo del ritorno alle "origini" tale e quale come nel Cristianesimo, alla purezza dei primi testi religiosi…
Nonostante alcune intuizioni previdenti in quanto di lui qui riportato, lette in retrospettiva le conclusioni di Gramsci possono sconcertare per la forma assiomatica e per la meccanica trasposizione di elementi da una civiltà all'altra, nonché per un carattere di forzosa "necessità" rivestito dal suo storicismo. E' lo stesso autore del resto a interrogarsi in merito alla bontà del suo metodo, e a meravigliarsi di certe incongruenze o di inconvenienti che pur si verificano nella realtà:
Quando incomincia la vita culturale nei vari paesi del mondo e dell'Europa? Ciò che noi dividiamo in "storia antica", "medievale", "moderna", come si può applicare ai diversi paesi? Pure, queste diverse fasi della storia mondiale sono state assorbite dagli intellettuali moderni anche dei paesi solo di recente entrati nella vita culturale. Tuttavia il fatto dà luogo ad attriti. Le civiltà dell'India e della Cina resistono all'introduzione della civiltà occidentale, che pure in una forma o nell'altra finirà col vincere…
I dubbi palesati da Gramsci non erano abbastanza convinti, da evitare che egli identificasse tout court la "vita culturale" con quella esportata dalla "metropoli", né da fargli dubitare che il predominio della civiltà occidentale fosse in ultima istanza ineluttabile poiché essa era l'unica che potesse davvero definirsi moderna. Appare d'altronde chiaro che il cosmopolitismo tradizionale è criticato da Gramsci, in quanto esso viene recepito come riduzione della visione del mondo alla propria cifra anziché apertura nei confronti delle possibilità che il mondo offre. In particolare, un tale cosmopolitismo conservatore sarebbe stato di intralcio alla formazione di una mentalità nazionale progressiva da parte degli intellettuali italiani.
Attendibilmente, un loro eventuale provincialismo non sarebbe stato di minore ostacolo e lo stesso autore com'è ovvio condanna un altro "equivoco" eccesso, quello del nazionalismo. Si può peraltro ribattere che la "metropoli" non agisce diversamente dalle vecchie "cosmopoli" quando essa pretende di imporre ad esse il proprio modello, e che non sempre quest'ultimo è espressione del meglio della sua "vita culturale". Che senso ha sostenere un monopolio della "vita culturale", se non l'implicazione che le altre civiltà fossero ancora vincolate alla "vita naturale"? Ma quello, che allora poteva apparire un difetto, può oggi risultare addirittura un pregio.
Ancor più che di materialismo storico, tutto ciò sa di Fenomenologia dello Spirito o della lettura che di essa aveva dato il nostro hegelismo. Beninteso, la marxiana gerarchia degli stadi di sviluppo non impedisce al pensatore politico italiano di riporre fiducia in un "nuovo cosmopolitismo", filtrato attraverso l'esperienza dell'internazionalismo e che anzi ne sia l'esito effettuale. Prioritaria resta comunque, per Gramsci, la maturazione di una coscienza nazionale laica. Se ci fosse bisogno di una conferma, è quanto emerge con forza quando egli rivolge la sua attenzione all'America Latina, vale a dire a una cultura che non ha molto di esotico ma è imparentata alla civiltà europea nella sua versione cristiana cattolica:
…molti Stati rappresentano una fase semifeudale e gesuitica, per cui si può dire che tutti gli Stati dell'America centrale e meridionale (eccettutata l'Argentina, forse) devono attraversare la fase del Kulturkampf e dell'avvento dello Stato moderno laico (la lotta del Messico contro il clericalismo dà un esempio di questa fase).
Ciò che Gramsci non poteva o non desiderava prevedere è che il processo di conversione delle "cosmopoli" in "metropoli" sarebbe stato portato avanti non tanto dall'internazionalismo socialista, quanto dalla globalizzazione capitalistica, con tutte le sperequazioni e le subordinazioni che questo comporta. Almeno finora, è andata così delusa la speranza ultima di Karl Marx, maturata attraverso la critica delle ideologie e poi dell'economia politica: che la dialettica trasversale e rivoluzionaria fra classi sociali neutralizzasse l'antagonismo non di rado bellico tra nazioni, razze, religioni, ovvero fra interessi economici e tra Stati o compagini statali che ne siano espressione.
Fra le conseguenze odierne, più ancora della crisi di sovranità degli Stati nazionali -- pronosticata, dal loro punto di vista, da Marx ed Engels -- il rischio è che la societas rerum prenda definitivamente il sopravvento sulla societas hominum. In altre parole, che la Weltanschauung unificante venga ad essere quella del mondo della produzione, visto per giunta dall'alto e da un centro sempre più determinato dalle geometrie variabili tracciate dalle multinazionali economiche e finanziare. Nostalgico dello zôon politikon e del bios theôrêtikos di Aristotele, Gadamer commentava nel 1991, nella prefazione all'edizione italiana di L'eredità dell'Europa: "Né siamo in grado di dire come la logica dell'homo oeconomicus si potrà conciliare con nuove forme di solidarietà". E come potrà far fronte a forme di intuibile resistenza, si può aggiungere.
Sorge dunque il sospetto di un errore a monte: la difficoltà a pensare il rapporto fra soggettività umane sì in maniera dialettica, ma quale paritario scambio di apporti operativi e di contenuti culturali, piuttosto che come prevalere di una concezione di vita o di una fase storica su un'altra. Pur così distanti fra loro nel tempo, personalità quali Socrate, Boezio, Gramsci, non hanno solo in comune l'ingiustizia di aver subito la morte dopo il carcere. Più ancora che la portata rivoluzionaria del loro pensiero, essi hanno scontato una incapacità delle rispettive comunità di rapportarsi col resto del mondo, in crisi di transizione da un'era all'altra.
Ciechi sul tramonto incombente della polis, nella satira Le nuvole di Aristofane gli stessi allievi di Socrate sofisticavano sull'esigua distanza geografica tra le rivali Atene e Sparta! Né è raro trovare riscontri utili per la filosofia politica nella commedia classica, sia essa greca o romana. Il motto reso famoso da Thomas Hobbes, Homo homini lupus ("L'uomo si comporta da lupo verso l'altro uomo"), è ad esempio la sintesi peggiorativa in senso pessimistico di una battuta dell'Asinaria di Plauto: Lupus est homo homini, non homo, quom qualis sit non novit ("L'uomo è come un lupo anziché un uomo, verso un altro che egli ignora chi sia"). In compenso, non meno celebre è una frase stoicheggiante e filantropica nell'Heautontimorumenos di Terenzio: Homo sum, et humani nihil a me alienum puto, "Essendo uomo, niente di umano giudico a me estraneo".
Il verso dell'oriundo cartaginese Terenzio doveva suonare replica a quello di Plauto, preso nella sua integrità originaria. Vi sono infatti in gioco le categorie dell'alterità e dell'alienità. L'implicanza ecumenica era destinata a suscitare reazioni di consenso del pubblico più attento, nei teatri della metropoli cosmopolita imperiale. Nell'esordio del su citato Del sentimiento trágico de la vida, ai primi del '900 sarà però De Unamuno a coglierne una anacronistica genericità e al limite un'astratta ambiguità, ponendo l'interrogativo "quale altro?". Richiamo alla concreta fisicità dell'essere umano e all'imprescindibile singolarità del suo bios, la critica è tanto più suggestiva e riequilibrante ai fini del nostro discorso, quanto essa non proviene da un pensatore materialista:
Homo sum; nihil humani a me alienum puto, disse il commediografo latino. Io direi piuttosto: Nullum hominem a me alienum puto; sono un uomo, nessun altro uomo reputo estraneo. Infatti l'aggettivo humanus mi mette in sospetto tanto quanto il sostantivo astratto humanitas, umanità. […] Il bipede implume delle didascalie, lo zoon politikón di Aristotele, il contraente sociale di Rousseau, l'homo oeconomicus di quelli di Manchester, l'homo sapiens di Linneo o, se così piace, il mammifero eretto: ecco un uomo che non è di qui né di lì, né di questa epoca né di altra; che non ha sesso né patria. Alla fin fine un'idea, un non-uomo. Il nostro uomo è invece l'altro, quello in carne ed ossa.
Impero e "arcipelago"
Ancor prima di poter dar luogo a soggettività politiche, i Nuovi soggetti nomadi, -- così li chiama estensivamente Rosi Braidotti in un suo saggio, sulla scorta di Deleuze e Guattari -- sono uomini e donne, perfino bambini "in carne ed ossa" e con tutti i loro bisogni, per dirla con De Unamuno e con la Heller. Nella loro forzata instabilità, essi hanno poco a che vedere con l'indubitabile identità cartesiana. Portatori di antichi valori e messaggeri involontari di altre culture, formano una moltitudine di individualità e allo stesso tempo una presenza molecolare nelle nostre società, accomunati dalla perdita materiale o morale e dalla ricerca di una patria: condizione di Heimatlosigkeit, l'ha definita in tedesco Gadamer.
Soprattutto, a causa dei flussi migratori gli stessi costituiscono una mobile forza-lavoro ricattabile per quanto riguarda diritti sindacali e civili, esposta a discriminazioni e sfruttamento, oggetto di rivalità sul mercato del lavoro e di speculazioni in campo politico. Eppure, consapevoli o meno che ne siano, proprio loro possono fungere da agenti, mediatori e protagonisti, di un "nuovo cosmopolitismo". Nella migliore accezione del discorso gramsciano, gli intellettuali che essi esprimono o esprimeranno possono essere insostituibili avanguardie e interlocutori di un dialogo privilegiato, improntato a principi di giustizia sociale e mutua tolleranza.
Ma tanto non può che avvenire in un quadro giuridico-amministrativo, in grado di favorire un processo, il quale non sia assimilatorio in senso coercitivo né selettivo in senso esclusivo. Nei Paesi ospitanti, ciò richiede un adeguamento culturale e addirittura una modifica della forma-Stato. Un ripiegamento regressivo di quest'ultima su se stessa, oltre a non essere compatibile col progresso civile e a essere eticamente discutibile, non è attendibilmente sostenibile a lungo termine.
Un'alternativa è la scelta di demandare il compito della soluzione dei problemi a organismi o forme di governo sovranazionali. Però anch'esse, specie quando non siano generalmente rappresentative, possono cedere alla tentazione di una chiusura verso l'esterno o di un atteggiamento repressivo all'interno delle società che rappresentano: peggio ancora, di un imperialismo globale e di una conflittualità endemica col resto del mondo, che pure sussiste e a volte si ribella all'assimilazione o all'omologazione, funzionali alla divisione capitalistica del lavoro.
Sono queste le premesse per la restaurazione di una sorta di impero, diretto da una o più superpotenze egemoni e su scala ben più vasta di quelli del passato. Può anche darsi che un tale esito, oltre a garantire qualche ordine e sicurezza a discapito di umane libertà che non siano quella del mercato, faciliti col tempo l'affiorare e il chiarirsi delle contraddizioni di fondo. Un male inevitabile e necessario, insomma. E' un'ipotesi cui varrebbe la pena di rassegnarsi, se non fosse per gli indizi che il tempo a disposizione per porre un rimedio alle emergenze che affliggono la civiltà odierna sia ridotto. Quasi che la Natura non possa attendere il compimento della Storia.
In merito, piace ricordare il concetto di alterità nella triplice accezione che dava Emmanuel Lévinas: l'alterità assoluta, prerogativa del divino; l'alterità degli altri, vale a dire del "prossimo"; infine quella della Natura, impenetrabile nella cifra della propria essenza (evidente che, per Lévinas, lo zôon politikon di Aristotele è anche l'"animale metafisico" di Schopenhauer). Pur escludendo la prima categoria dal nostro orizzonte laico, o volendo assimilarla alla terza, rimane quest'ultima quale alterità irriducibile. La sola via praticabile è la seconda. In effetti, il filosofo di cultura ebraica intendeva che la via maestra per trascenderci è il confronto con gli altri; essa non può essere elusa o aggirata. Purché l'altro sia "assolutamente Altro", e non una semplice proiezione di se stessi.
Non si vede una pregiudiziale valida, per non applicare questa riflessione "pura" alla filosofia "pratica" nella situazione attuale, anche da parte di un immanentista convinto. La riconciliazione urgente tra polis e phusis passa attraverso il riconoscimento di un valore prioritario, se non "assoluto", all'alterità. La differenza fra cosmopolitismo e globalizzazione consiste in questo scarto di sentimenti e di vedute, nonché di opportunità politiche a fronte dell'opportunismo economico e delle sue pretese usurpatorie di "dettare legge". Una legge, universale e assoluta, della cui razionalità e imparzialità è lecito dubitare.
C'è invece una bella immagine, che un filosofo non per niente veneziano, Massimo Cacciari, ha pensato di opporre all'imperante mercificazione dell'alterità -- il maggior grado, si presume, di alienazione -- e alla reductio ad unum dell'esistente. Piuttosto che l'Imperium romano, l'archi-pelagos dei greci. Un'immagine centrifuga o policentrica, al posto di una centripeta e concentrica. O "deterritorializzante" anziché "riterritorializzante", tanto per riprendere neologismi pressoché impronunciabili, ricorrenti nella "geo-filosofia" di Gilles Deleuze e Félix Guattari.
Prima di passare a significare un gruppo di isole tra loro prossime o vicine, il composto "arcipelago" è stato per la verità tardivamente coniato per designare il "mare principale", che insieme separa e congiunge popoli e civiltà i quali su esso si affacciano. Storicamente, il Mediterraneo: spazio un tempo franco per la circolazione di uomini, di manufatti e di idee; tramite per l'incontro fra culture, quel tanto che à bastato -- nonostante le guerre e secolari fratture -- a farne una delle cosiddette culle della civiltà.
Il modello sotteso è quello mediterraneo di un'Europa aperta all'alterità, antico "destino" e costituzionale vocazione adombrata dall'eroina fenicia del mito, che ancora condivide il suo nome. Il compito attuale che a essa si pone davanti è di fungere da ponte fra "metropoli" e "cosmopoli", nel senso ultimo già dato ai due termini da Gramsci. Il venirvi meno equivarrebbe a uno snaturamento della propria essenza, al mancato saldo altresì di un debito morale contratto nei riguardi dei popoli di altri continenti all'epoca della colonizzazione. A fronte di altrui ambizioni neo-imperiali, si presenta l'occasione per il recupero di un ruolo autonomo e congeniale. E i "nuovi soggetti nomadi" possono ben essere i primi interessati, a che tale disponibilità si realizzi.
In un recente intervento intitolato Un'Europa aperta al mondo, il nord-americano Michael Hardt si chiede se "un'Europa aperta al mondo" sia poi praticabile e compatibile con l'ipotesi neo-imperiale di cui sopra. Nelle conclusioni, la risposta è cautamente affermativa. La contraddizione interna al sistema politico planetario, la quale in pratica ne scaturirebbe, non potrebbe che sortire effetti riequilibranti e positivi. A un livello teorico, si può in margine annotare, la stessa contraddizione rammenta alla lontana il contrasto tra il "federalismo di liberi Stati" proposto da Kant in Per la pace perpetua e la République universelle teorizzata dal contemporaneo e oriundo prussiano Anacharsis Cloots, progetto portato avanti con mire espansionistiche dalla rivoluzione borghese nella Francia della fine del '700.
Si è già rilevato come una tale contraddizione minò profondamente la credibilità dell'ideale stesso di cosmopolitismo, con conseguenze a lungo andare anche deleterie. Il fenomeno era storicamente destinato a ripetersi, mutatis mutandis, per quanto concerne in particolare l'internazionalismo socialista nel '900. Cogliamo allora lo spunto al volo, per riproporre l'argomento centrale -- oggi più che ieri, in buona parte realistico -- del discorso cosmopolitico kantiano. Dopo una rifondazione laica dell'etica, esso è intuibilmente mirato a una ragionevole se non "razionale" saldatura dei nessi con quella recisi dall'utilitarismo politico moderno:
Ora, poiché con la comunanza (più o meno stretta) tra i popoli della Terra, che alla fine ha dappertutto prevalso, si è arrivati a tal punto che la violazione di un diritto commessa in una parte del mondo viene sentita in tutte le altre parti, allora l'idea di un diritto cosmopolitico non appare più come un tipo di rappresentazione chimerica ed esaltata del diritto, ma come un necessario completamento del codice non scritto sia del diritto politico sia del diritto internazionale, verso il diritto pubblico dell'umanità e quindi verso la pace perpetua; e solo a questa condizione possiamo lusingarci di essere in costante cammino verso di essa.
Si potrebbe ritenere che Kant attribuisse l'auspicata predisposizione e interesse delle "parti", nel coordinarsi con un "tutto" organico, alla benefica influenza o azione civilizzatrice della progredita "metropoli" nei confronti delle "cosmopoli" arretrate o di loro componenti e altre realtà "minori". Fatto sta che il pensatore più decisivo e attento alla modernità occidentale non la pensava esattamente così. Probabilmente per una forma di amara ironia e di stimolante provocazione, il moralista sembra addirittura incline al parere contrario, tanto egli si mostra scandalizzato da quelli che erano appena i pionieristici inizi del moderno colonialismo:
…parti del mondo lontane possono pacificamente entrare in rapporti reciproci che alla fine diventano pubblicamente legali, avvicinando così sempre di più il genere umano verso una costituzione civile universale. Se a ciò si confronta la condotta inospitale degli stati civili, sopattutto quelli commerciali, della nostra parte del mondo, l'ingiustizia, di cui essi danno prova visitando paesi e popoli stranieri (visite che essi immediatamente identificano con la conquista), è tale da rimanere inorriditi.
Nell'ottica kantiana "ospitalità" è tanto il corretto comportamento di chi è ospitato, quanto la buona accoglienza da parte di chi ospita. Non proprio a caso, già in latino il termine era lo stesso nei due casi, indicando sentimenti, atteggiamenti e anche regole, reciproci e reversibili. Come l'"amicizia" con Aristotele, con Kant l'"ospitalità" esce dal senso comune e assume spessore politico. La seconda è eventuale premessa alla prima, quando i soggetti in causa non appartengono alla stessa comunità. In Che cos'è la filosofia?, Deleuze e Guattari hanno sostenuto che ospitalità e amicizia concorsero alla nascita della filosofia. Tra i primi pensatori c'erano immigrati o esuli, che trovarono nelle agorai greche udienza e materia per contendere. Un residuo eurocentrico dei due autori si condensa nella formula "I filosofi sono stranieri, mentre la filosofia è greca" . Nell'articolo Platone, i greci, Deleuze ha puntualizzato:
Poiché rifiutano ogni trascendenza imperiale barbara, le società greche, le città (anche nel caso delle tirannie) formano dei campi d'immanenza. […] Il filosofo greco fa appello a un ordine immanente al cosmo, come ha dimostrato Vernant. Si presenta come amico della saggezza (e non come un saggio alla maniera orientale). Si propone di "rettificare", di garantire l'opinione degli uomini. Sono caratteristiche che sopavvivono nelle società occidentali, anche se vi assumono un senso nuovo, e che spiegano la permanenza della filosofia nell'economia del nostro mondo democratico.
L'ospitalità nel senso kantiano è comunque la principale virtù dei cosmopoliti, quella che permette loro di essere virtuali concittadini. Se essa rimane una doverosa virtù e la facoltà di concedere il diritto di soggiorno (nell'originale tedesco, Gastrecht) spetta ai singoli Stati, Kant postula che un diritto sovranazionale debba comprendere almeno un duraturo e tutelato "diritto di visita" (Besuchsrecht). Erede della phronêsis o sôphrosunê degli antichi greci, una saggezza (Weisheit) etico-politica è così bilanciata dall'accortezza applicativa (Staatsklugheit) consigliata da tempi e situazioni. In compenso, la Praxis kantiana è opposta alle Pratiken, espedienti della politica contingente più che dell'arte politica.
L'obiettivo di una "repubblica universale" non venne del tutto messo da parte. Fu rimandato a tempi più maturi e meno sospetti, mentre si profilava all'orizzonte l'invasione "liberatrice" delle armate napoleoniche, col prossimo pretesto degli "Stati Uniti d'Europa". L'opera "minore" politica di Kant in Prussia, e quella storica di Cuoco in Italia, sono documenti indiretti ma significativi. Di nuovo in Che cos'è la filosofia?, gli autori hanno sarcasticamente commentato: "Se non c'è uno Stato democratico universale, malgrado il sogno di fondazione della filosofia tedesca, è perché la sola cosa che sia universale nel capitalismo è il mercato".
Malgrado tutto, dall'epoca di Kant e anche grazie a lui la legislazione ha compiuto diffusi progressi, fino ad accettare diritti quali l'asilo politico e il soggiorno per motivi di studio o di lavoro. Resta in sospeso l'accoglienza con pieno riconoscimento dei diritti civili, allo straniero che intenda stabilirsi sul nostro territorio. Pare un assurdo che quell'ospite lavorante o in cerca di lavoro debba affidarsi al sogno o all'incubo di una repubblica universale, per poter rivendicare una cittadinanza, di cui godevano gli abitanti liberi nel tardo Impero romano.
Maggioritario e minoritario
Mettiamo fra parentesi le massime questioni. Fosse pure quella di appurare se un Impero economico-finanziario globale -- e militare -- si sia già realizzato più o meno a nostra insaputa, in attesa dell'occasione e convenienza di una forma giuridico-politica congeniale e "consensuale", per la propria epifania e investitura. Più di quanto si sia qui fatto finora, restringiamo inoltre la visuale all'Europa. Nella prima parte del suo articolo su citato Michael Hardt, coautore del libro Impero insieme ad Antonio Negri, invita a porsi dal punto di vista degli ex-colonizzati. Sarebbero essi favorevoli alla crescita di un'Europa unitaria, o lo impedirebbe la memoria lunga della soggezione coloniale? La questione è meno oziosa o moralistica, di quanto possa sembrare.
In effetti, il solo porsela suggerisce un criterio valido per valutare quale Europa si intenda costruire, secondo un modello chiuso o aperto verso l'esterno. Risulterebbe allora abbastanza ovvio che il secondo sia il più accettabile ed efficace, suscettibile di procurare comuni vantaggi. Ma non va dimenticato che consistenti minoranze immigrate di quelle popolazioni sono da tempo presenti sul nostro territorio e partecipi alla vita economica e civile, che questo ruolo venga loro riconosciuto o meno. E' un motivo di più, per affrettare tale riconoscimento. La loro ammissione a una partecipazione decisionale non potrebbe che rendere più universalmente apprezzato o credibile il volto ringiovanito della vecchia Europa.
A un livello intellettuale, si tratta quindi di rifondare un pensiero delle minoranze, sia come riflessione sulle minoranze sia in quanto portato delle stesse. Accelerare e approfondire il dialogo con esse, considerate come potenziali avanguardie culturali e politiche in un'Europa effettivamente rinnovata. Oltre a scendere su un terreno pratico, esperienza si è visto non nuova ma ricorrente e vivificante, nello specifico la filosofia potrebbe liberarsi del suo persistente eurocentrismo: impresa questa più difficile, ma non impossibile in base a una pretesa contraddittorietà con la propria essenza. La filosofia delle origini non era né poteva essere eurocentrica. Contraddittoria è solo la presunzione, che essa non sia compatibile né paragonabile con forme di pensiero altrove elaborate.
Pensarsi come forma di pensiero particolare farebbe attrito con l'antica aspirazione a proporsi in quanto universale, da parte della filosofia. Ogni sua irriducibile o intraducibile particolarità è un segno di relativo insuccesso. A maggior ragione, ciò valga in ambito politico. Qui la filosofia può tutt'al più salutarmente dirsi "minore", non tanto perché ne esista una "maggiore" quale la teoria rispetto alla pratica, quanto per il motivo che essa non può alla lunga sussistere senza soggetti che la mettano in opera. La sua costante ricerca di soggetti potenziali o minoritari è dettata da una tale mutua utilità e necessità. Non si intende proporre una versione del vecchio e sospetto attualismo, bensì implicare che quei soggetti in nuce sono espressione di una realtà rimossa o di una maggioranza remota, che rappresenta anch'essa a buon titolo l'universalità. Né una minoranza ha stretto bisogno di rappresentare una maggioranza, per meritare rispetto o per svolgere un ruolo.
Vagliando e facendo proprie le ragioni delle minoranze -- in tal senso va interpretato l'appello a "divenire minoritari", lanciato anni fa da Deleuze --, un "pensiero minore" non cessa affatto di aspirare ad essere universale. Questa effettualità è anzi agevolata dalla rinuncia ai caratteri unilaterali e mistificanti di un pensiero che si creda o si spacci per unico, neutro o perfino progressivo: di esso sono esempi eloquenti l'uso distrorto che fu fatto della République universelle di Anacharsis Cloots o gli "Stati Uniti d'Europa" di Napoleone, preannunci o strumenti di un altro Impero, qualunque merito transitorio si attribuisca a quella storica macchinazione.
Il concetto di "minoritario" è certo più ampio di quello qui evidenziato, abbracciando movimenti e categorie sociali in vario modo alternativi. "In qualsiasi tipo di complessità essa si esplichi -- attraverso la storia del movimento femminista o quella dell'omosessualità, attraverso l'interesse per le relazioni umane in generale --, una nuova sensibilità del genere è rivoluzionaria. Se gli occhiali della rivoluzione non ci consentono di vedere ciò, allora è tutto finito": così dichiarava, nel 1979, Guattari in una intervista alla libera emittente bolognese Radio Alice.
Oggi ci sono elementi per ritenere che le minoranze etniche, religiose e culturali, abbiano acquistato maggior peso, anche a causa del graduale inserimento nel mondo del lavoro. Occorre operare accortamente affinché esse a loro volta non si chiudano in se stesse, o entrino addirittura in contrasto fra loro e con le conquiste acquisite dalle minoranze che le hanno precedute sul terreno di lotta per una migliore democrazia. Le comuni condizioni oggettive di disagio dovrebbero far sì che vengano accantonate diffidenze soggettive, contribuendo a sviluppare uno spirito dinamico di solidarietà. E' questo il punto più delicato, su cui si gioca l'intera partita.
C'è un significato filosofico più profondo, nel "divenire minoritari" di Deleuze? Nelle opere in collaborazione con Guattari, il concetto si trova applicato specialmente al linguaggio e alla letteratura. E' innanzitutto in un denso articolo del 1978, Philosophie et Minorité, che il pensiero deleuziano attraversa un momento di distacco critico dalla prevalente tradizione filosofica "occidentale" (una tradizione che si era espressa per lo più in greco, in latino, in tedesco, ma -- non dimentichiamolo -- anche in arabo). Nella traduzione italiana di Adelino Zanini, ne riportiamo appresso i punti salienti:
Minoranza e maggioranza non si oppongono in modo solamente quantitativo. La maggioranza implica una costante ideale, un metro-campione in rapporto al quale essa si valuta, si contabilizza. […] Così ha fatto la filosofia ogni volta che ha creduto di parlare in nome dell'essenza dell'uomo, d'una ragione pura, d'un soggetto universale o di diritto. La maggioranza presuppone uno stato di diritto e di dominazione, non viceversa. Essa presuppone il metro-campione, non viceversa. Una determinazione altra dalla costante sarà perciò considerata come minoritaria.
Collocata nella prospettiva del divenire storico, quella determinazione assume tuttavia una valenza differente. La differenza o la diversità stessa acquista dignità ontologica. Più che suggerire correttivi al sistema rappresentativo democratico, a Deleuze preme sottolineare l'emergenza dell'essere minoritari come "divenire potenziale, creato e creativo. Il problema non è mai di acquisire la maggioranza, pur instaurando una nuova costante. Non c'è divenire maggioritario, la maggioranza non è mai un divenire. Non c'è divenire che non sia minoritario". Su questo terreno, si auspica il ripristino di una funzione autonoma e propedeutica della filosofia rispetto alla politica:
In breve, c'è una figura universale possibile della coscienza minoritaria, come divenire di tutti, ed è questo divenire che è creazione. Nello stabilire la figura di una coscienza universale minoritaria, ci si rivolge a potenze del divenire che appartengono a una sfera diversa da quella del Diritto e del Dominio. Sarebbe questo il compito della filosofia, in opposizione alla sua astratta pretesa maggioritaria.
Deleuze torna sul tema in una intervista a Negri del 1990 poi intitolata Contrôle et devenir, confutando una critica di parte marxista, che la sua nozione di minoranze e di maggioranze sia in contrasto con quella canonico di classi sociali. E' l'occasione per scendere sul piano di discussione della prassi politica, e per spiegare meglio il rapporto fra minoranze e maggioranze, nonché la funzione progressiva affidata alle prime nello sviluppo del suo pensiero. Pur con qualche residua riserva, il chiarimento suscita l'impressione di una correzione nella messa a fuoco, più possibilista verso l'acquisizione delle minoranze alla complessa dinamica della dialettica sociale:
Le minoranze e le maggioranze non si distinguono dal numero. Una minoranza può essere più numerosa di una maggioranza. Ciò che definisce la maggioranza è un modello al quale bisogna conformarsi. […] Finché una minoranza non ha un modello è un divenire, un processo. Si può dire che la maggioranza sia nessuno. Tutti, chi per un verso chi per un altro, sono presi in un divenire minoritario. […] Quando una minoranza si crea dei modelli significa che vuole diventare maggioritaria, e ciò è senz'altro inevitabile per la sua sopravvivenza o la sua salvezza (per esempio avere uno Stato, essere riconosciuta, imporre i propri diritti). Ma la sua potenza deriva da quello che ha saputo creare e che passerà più o meno nel modello, senza con ciò dipenderne.
L'ultima asserzione ci riporta sul piano filosofico. Del resto, l'alternarsi dei piani è un carattere esplicito nel discorso deleuziano. A volte, ciò richiede o esige delle integrazioni. Come possiamo non dipendere da un modello, che noi stessi ci siamo conformati? Probabilmente, il porsi dal punto di vista di una minoranza significa proprio calarsi in un paradosso del genere, che impone di scegliere tra l'aspirazione a farsi maggioritari oppure universali, integrati o invece cosmopoliti. L'una cosa non esclude necessariamente l'altra. Ma la possibilità che la decisione inclini verso la seconda opzione, piuttosto che verso la prima, implica un salto di qualità sia delle minoranze sia delle maggioranze.
Si può anche essere minoranza, senza rendersene pienamente conto. Nei confronti di un non troppo ipotetico "Impero", l'Europa uscirà dal suo stato attuale di minorità, nella misura in cui saprà liberarsi del vecchio modello "metropolitano" e rinunciare alle sue ambizioni maggioritarie. Il nuovo modello non sarà appendice dell'Oriente -- storica fobìa, ereditata dagli eventi della propria gestazione e genesi --, ma nemmeno baluardo dell'Occidente, che si è ormai spostato oltre e altrove. Atto prioritario di tale rivolgimento è il riconoscimento delle minoranze interne, promuovendole al rango di componenti dinamiche. Grazie a questo sforzo, essa uscirà valorizzata e potenziata. In una parola, più universale, in armonia col proprio patrimonio culturale e autentica ragione di esistere.
Conviene inoltre porsi dal punto di vista non solo degli ex-colonizzati, come invita a fare Hardt, ma anche fare i conti con quello degli ex-perseguitati. Cioè di quelle minoranze che le persecuzioni del passato hanno costretto a emigrare dall'Europa anziché il contrario, o che hanno rischiato la loro stessa estinzione. I cenni qui precedenti al pensiero di Strauss e della Arendt, di Benjamin e di Lévinas, possono fornire indicazioni utili per quanto riguarda la minoranza più importante e colpita: quella ebraica, verso la cui visione del mondo la cultura o meglio ancora la "coscienza" europee sono in forte debito. In quest'ultimo caso, più che minoritario, si tratta in effetti sovente di un pensiero "rimosso".
Utopia e "ucronia"
Sebbene la filosofia, specie quella "pratica", ambisca comprensibilmente alla propria messa in opera, la sua intima vocazione resta utopica. Non c'è chi non conosca il senso del termine "utopia", più o meno da quando nel 1516 l'inglese Thomas More alias Tommaso Moro pubblicò in latino un Libellus vere aureus nec minus salutaris quam festivus de optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia ("Libretto davvero aureo e non meno utile che dilettevole, circa l'ottimo Stato e la nuova isola di Utopia"). E' l'atto di nascita di un genere saggistico-narrativo, il cui remoto modello è la Repubblica di Platone. Seguiranno produzioni, quali La Nuova Atlantide di Francesco Bacone o Oceana di James Harrington e La Città del Sole di Tommaso Campanella.
A differenza del solo Bacone, Harrington e Campanella condivideranno con Moro la sorte della persecuzione e del carcere, per una coerenza nient'affatto utopica con le proprie posizioni. Né manca, per la precisione, un antecedente nel pensiero arabo: il trattato Al-madîna al-fâdila ("La città virtuosa"), del filosofo platonizzante Al-Farabi. Ma l'opera di Moro è l'inizio del moderno utopismo politico. Il primo dei due libri che la compongono riguarda la critica dell'esistente, ovvero dell'Inghilterra proto-capitalistica dell'epoca. Questa sezione è documentata e realistica. Nel secondo libro il protagonista inventato, paragonato a Ulisse e a Platone, narra di un fantastico viaggio nell'isola di Utopia, e della sua costituzione politica democratica e socialisteggiante.
E' vero, la tolleranza di casa in Utopia ha qualche limite ai nostri occhi. La riduzione in schiavitù è eccezionalmente ammessa. Nonostante la libertà di confessione religiosa, gli atei sono emarginati e banditi. Sporadicamente contemplata da Moro, la pena capitale sarà reintrodotta a tutto titolo nella Città del Sole dal serafico Campanella, a fianco del platonizzante comunismo dei beni e delle donne. In omaggio alle convenzioni correnti e a una pretesa condizione di natura, le donne saranno pure escluse dai diritti politici, nel filo-repubblicano Tractatus politicus di Spinoza:
E' del tutto lecito affermare che le donne per natura non godono di pari diritti con i maschi; di fronte a questi esse devono cedere, non essendo possibile che i due sessi governino alla pari, tanto meno che dei maschi siano governati da donne.
La cura di Spinoza nel riequilibrare il rapporto fra polis e phusis, a favore di quest'ultima, subisce qui una vistosa caduta. L'antica eroina Antigone si sarebbe ritrovata al punto di partenza, nella società delineata dall'autore. D'altronde, già nel Tractatus thelogico-politicus egli era giunto a prefigurare concetti che alla prova dei fatti storici si riveleranno quanto meno ambigui, quale quello di un interesse generale superiore che accredita futuri "comitati di salute pubblica". Il ruolo di questi ultimi, durante la Rivoluzione francese, sarà tale da destare qualche nota perplessità:
Non si può compiere verso il prossimo alcun atto di pietà che non si risolva in empietà, se da esso abbia a derivare un danno per tutto lo Stato; e per contro nulla di empio si può commettere verso il prossimo che non sia conforme a pietà, quando sia compiuto in vista della salute pubblica.
Nel quadro del pensiero politico dell'epoca, la distanza fra Spinoza e i più realisti o pessimisti -- e meno moralisti -- Machiavelli e Hobbes viene ad attenuarsi, cosa che non sfuggirà a un critico disincantato quale Leo Strauss. Con altre motivazioni, l'opera di Spinoza e quella di Hobbes vennero accomunate dalla messa al bando in Olanda. Sebbene più volte nel Tractatus thelogico-politicus ribadisca "la natura non crea nazioni, ma individui", Spinoza partecipa a un movimento di pensiero tendente a configurare lo Stato come assoluto immanente. Da qui a trascendere o a prevaricare le volontà dei singoli o delle minoranze, non ci corre poi molto. Tanto quanto l'allora incipiente contrattualismo sociale, la spinta utopica non è estranea al rischio di tali sviluppi. In una lettera all'amico Jarig Jellis, il filosofo olandese mostra di avvertire il problema:
La differenza di idee politiche tra me e Hobbes, su cui mi interroghi, consiste in questo: io mantengo sempre integro il diritto di natura. Inoltre, sostengo che in ogni Stato all'autorità suprema non compete sui sudditi un diritto maggiore, di quanto la sua potenza avanzi quella degli stessi.
In quest'epistola del 1674, il ricorso a un "diritto di natura" aleatorio è appunto l'elemento utopico. Il mito dello "stato di natura" attraverserà tutto il '700. Bisogna pur tener conto dei tempi e dei loro tenaci pregiudizi, nonché pressanti esigenze. Sottraendosi alla tutela religiosa, l'astrazione di uno Stato laico poteva intanto garantire la libertà di pensiero. E va preso atto che non di rado, nella civiltà europea, è stato incompreso e perseguitato chi preparava la strada alla sua stessa contraddittoria evoluzione. C'è però un altro elemento inquietante, in seno al pensiero utopico più disarmante. E' ciò di cui avverte in L'Arcipelago Massimo Cacciari, alla filologica ricerca di presupposti negativi che si annidano nella modernità per riaffiorare nella contemporaneità.
Gli utopiani di Moro arrivano a definire lo Stato una "congiura dei ricchi", anticipando in qualche modo Pierre-Joseph Proudhon, e respingono ogni machiavellismo in patria. Ma essi sono talmente animati da buone intenzioni, da arrogarsi il diritto di usare ogni mezzo per combattere la tirannide altrove ed esportare la propria rivoluzione. Non sono queste le basi, perché Utopia esca dal proprio splendido isolamento e muova alla conquista dell'Arcipelago? Un Leviatano forse liberatore, parafrasando Hobbes, ma pur sempre mostruoso. Almeno in tal senso, Utopia è l'antenata tanto della République universelle di Anacharsis Cloots e degli "Stati Uniti d'Europa" di Napoleone quanto del colonialismo e dell'imperialismo, ma anche di più recenti e note aberrazioni.
E' quasi un vizio cronico dell'Europa e dell'Occidente, dall'alto del loro "stadio di sviluppo": al limite, meno importa in quale seducente versione quest'ultimo si rappresenti o esibisca. L'ideologia egemonica dell'isola immaginaria di Utopia, a fronte della possibile e auspicabile varietà di apporti dell'Arcipelago, denotano comunque atteggiamenti contrastanti nella storia del pensiero politico occidentale. Né sussiste il dubbio che la seconda tendenza sia di gran lunga minoritaria. L'invito a evitare che di nuovo venga a imporsi un'utopia, la quale non tenga nel debito conto il rispetto delle differenze esistenti, o che viceversa accrediti forme di ingerenza politica e di intervento militare, è d'altro canto trasparente nel discorso sviluppato da Cacciari.
Quale più quale meno, per la loro stessa componente utopica tutte le teorie universalistiche si prestano certo a un uso distorto o strumentale. Ciò consiglia spirito critico e cautela verso i facili entusiasmi. Non per questo, dovrebbe essere infirmato il principio a monte o si dovrebbe diventare radicalmente scettici nei confronti di una prospettiva cosmopolitica. Nonostante l'inevitabile tono paternalistico, anche per gli sfiduciati valga quanto suggerito una volta dallo stoico Marco Aurelio. In merito, lui sì si suppone che se ne intendesse abbastanza, cimentandosi nell'impresa di essere filosofo e imperatore a pieno titolo allo stesso tempo:
La causa universale è un torrente che tutto trascina. Questi uomini meschini, i quali presumono di essere pratici di politica e di agire da filosofi, non sono che dei mocciosi. Che fare, allora? Fa' quello che la natura lì per lì richiede. Se consentito, agisci senza curarti che altri lo sappia. E non sperare nella repubblica di Platone. Ti basti un progresso anche minimo. Per quanto piccolo e particolare, pensa che è pur sempre qualcosa. […] L'opera della filosofia è semplice e modesta.
Nel 1876 il francese Charles Renouvier pubblicherà un singolare saggio, dal lungo titolo: Uchronie: l’utopie dans l’histoire, esquisse historique apocryphe du développement de la civilisation européenne tel qu’il n’a pas été, tel qu’il aurait pu être: "Ucronia: l'utopia nella storia, saggio storico apocrifo sullo sviluppo della civiltà europea quale non è stato, ma quale avrebbe potuto essere". Se il termine utopia già escogitato da Moro ha una connotazione spaziale, letteralmente significando "non-luogo", il neologismo "ucronia" coniato da Renouvier è anch'esso derivato dal greco ma ne ha una temporale. Esso viene a designare una situazione di "non-tempo". In realtà, si tratta di un tempo degli eventi storici, pensati diversamente da come essi si sono svolti. Assai più tardi, l'idea verrà ripresa con fortuna dalla narrativa "di genere" .
A titolo esemplare, il filosofo neo-criticista kantiano immagina che nell'antichità a Marco Aurelio fosse succeduto non il figlio degenere Commodo, bensì un altro imperatore proveniente dalla sua cerchia. Può darsi -- il momento era stato particolarmente critico, come rilevato da Ernest Renan contemporaneo di Renouvier -- che le stesse riforme vagheggiate da Marco Aurelio sarebbero andate in porto. Le sorti dell'Impero romano avrebbero preso tutt'altra piega. L'intera storia dell'Europa ne avrebbe risentito. E' da annotare che, repubblicano fervente, Renouvier era influenzato dall'avversione per il rigurgito di cesarismo nella Francia del suo tempo. Fatto sta che la metafora suggestiva dell'Impero -- proiettato magari in altre epoche -- diventerà una tema ricorrente, nella popolare letteratura di ispirazione "ucronica".
Ma l'argomento in sé è perfino secondario, nelle intenzioni dell'autore e ai fini del nostro interesse. Ancor più che verso il proverbiale adagio "la Storia non è fatta di "se"", risalta infatti un intento polemico se non parodico, nei riguardi della corrispondenza hegeliana tra reale e razionale. Nessuna idealistica razionalià storica può vietare di figurarsi la storia diversamente da come si è svolta, ovvero come essa avrebbe potuto altrimenti realizzarsi, nel bene o nel male. Né più né meno che per i fatti delle nostre esistenze, quel procedimento per absurdum è anzi basilare per migliorarle, per correggere errori o evitare che si ripetano. Libero arbitrio e "imperativo categorico" trovano in tale facoltà un loro fondamento e accordo. E' una facoltà che "fa la differenza" etica.
Ed è anche grazie a tale attività che la stessa soggettività si evolve e prende forma o si trasforma. Nel breve saggio intitolato Di cosa parlavamo quando parlavamo di Ucronia, osserva acutamente il narratore e critico letterario Vittorio Catani, commentando alcuni romanzi "ucronici" ben noti agli intenditori:
L'ucronia si è sempre prestata, spesso indirettamente, a una serie di considerazioni epistemologiche. Voglio dire, il raffronto tra le diramazioni della Storia (una delle quali ci appartiene) ha sempre agevolato l'emersione di significati extraletterari. Ad esempio: nella dickiana Svastica io individuo temi quali l'indecidibilità del reale, la valenza di morte che accompagna ogni ricerca della verità, il potere, eccetera. Il senso di Pavana lo esplicitava nel testo lo stesso Keith Roberts, allorché scriveva che la vita
A livello collettivo, ripensare la storia per come essa è stata, ma anche per come avrebbe potuto o "non dovuto" essere, rientra comunque fra i compiti propedeutici della politica. Per dirla con Nietzsche, è la sua componente "inattuale". E' altresì imprescindibile da un senso critico di responsabilità. Fa parte di quel Principio responsabilità, raccomandato da Hans Jonas in un'opera meritatamente famosa. Altra funzione della politica, di solito concepita in rapporto a uno spazio da amministrare, è quella di organizzare un tempo comune. Di nuovo, le dimensioni della spazialità e della temporalità rimandano ai concetti di utopia e di ucronia, tra loro complementari. Essi possono essere "deformazioni" della realtà utili, a patto di saperle ben utilizzare per tracciare le linee di fuga di soluzioni prospettiche. Vale a dire, di positive trasformazioni.
Nei confronti dell'utopismo o, meglio, di un certo utopismo, altra e più radicale della diffidenza manifestata da Cacciari è quella di Negri in Kairós, Alma Venus, Multitudo. All'utopia viene imputata l'ambiguità di dirottare verso una dimensione nostalgica e di disperdere su un piano figurato spaziale il potenziale inventivo e creativo del desiderio di un futuro migliore, che essa stessa intercetta e veicola:
Anche il desiderio investe il futuro: lo chiamiamo utopia. Essa tuttavia investe l'avenire in maniera ambigua: da un lato infatti propone l'omologia spaziale del passato, dall'altro la supera nell'espressione immaginativa del desiderio. E tuttavia, in generale, l'utopia non può darsi come nome comune dell'avenire, perché (anche quando non ripete il perdurare della figura spaziale) il desiderio si presenta qui comunque come distanza spaziale (non-topos, ma sempre luogo).
Con un gioco di parole preso in prestito dal gergo giuridico, va però specificato che il "non-luogo" utopico è in effetti un "luogo a procedere". Le nozioni di "non-luogo" o di "non-tempo" sono correlate non tanto con quella di un altrove che può essere puramente simbolico, come per l'Utopia originaria di Moro, quanto con un oltre da configurare per vivere: utopico o "distopico", cioè augurabile o scongiurabile che esso sia. In tal senso è da intendere l'espressione di Renouvier Uchronie: l’utopie dans l’histoire. La prima si annida sì nella seconda, ma non per dimorarvi a lungo, così come il senso è insofferente del linguaggio che lo cattura e imprigiona, pur rendendolo fruibile e operativo.
Se la memoria ne è l'elemento coesivo, l'alterità è la componente dinamica dell'identità. E il neologismo dell'ucronia, detta anche "storia alternativa" o -- con ibrido grecismo -- "allostoria", ha proprio a che vedere col divenire. Nel delicato passaggio di un soggetto sociale dall'identità all'alterità, col confronto con l'alienità che questo comporta, essa rivendica una libertà di ripensamento e di scelta, che perfino ai singoli presi in sé pare preclusa. In quanto tale, è un'estrema irruzione di democrazia nella coscienza politica. Ma, anche, extrema ratio. Quale ragionevole esercizio della critica non si avvale di una veste ipotetica? Contro ogni tipo di condizionamento culturale o di determinismo storico, lo stesso ipotizzare una storia diversa è una forma metodica e salutare di anarchismo della mente.
Oriente e Occidente
Siamo a una delle questioni più dibattute e controverse nella storia del pensiero occidentale. Si tratta in effetti di una duplice questione, i cui aspetti sono strettamente correlati fra loro. Il primo è quello che ha una portata politica più generale. Il secondo giunge a coinvolgere il concetto che la filosofia ha di sé. Citando Jaspers, in Origine e senso della storia, dal canto suo Giacomo Marramao in Kairós. Apologia del tempo debito ha centrato e riassunto con esattezza i due aspetti:
Karl Jaspers ci ha spiegato in modo definitivo come la stessa antitesi Oriente-Occidente sia un luogo comune, un topos caratteristico della civiltà occidentale. […] L'antitesi Oriente-Occidente è una "polarità interna" all'Occidente: polarità originaria, costitutiva della sua identità. […] L'Oriente è sempre un'estroflessione dell'Occidente. […] Non esiste propriamente una filosofia orientale, se non come proiezione sull'Oriente della nostra ossessione di "identità": ossessione culturalmente determinata, storicamente relativa.
Così formulata, la prima parte dell'affermazione è più che condivisibile. Trasposta in termini kantiani, se ci è consentito, il "noumeno" dell'Oriente ha permesso al "fenomeno" dell'Occidente di configurarsi in quanto tale. Nulla, del resto, di più posizionale e relativo di concetti quali Oriente e Occidente. Più opinabile, la seconda parte, in quanto dipende dalla variabile soggettiva presente nel primo assunto. Vale la pena di scendere nei particolari verificabili. Effettivamente, il pensiero di Jaspers è una traccia pertinente da seguire. Chiarita la premessa metodica di cui sopra, egli non incontra le prevenzioni di molti suoi colleghi nell'affrontare le correnti di pensiero e gli autori orientali, per quanto possibile risalendo alle fonti da filosofo piuttosto che da specialista.
In I grandi filosofi di Jaspers, nascono così non solo le pagine "sapienziali" sul Buddha e su Confucio, ma quelle più filosofiche sul logico buddhista Nagarjuna e sul taoismo di Laotse, indiano il primo e cinese il secondo. Le difficoltà di comprensione in base alle coordinate e alla terminologia della cultura europea vengono brillantemente sormontate, per quanto concerne Nagarjuna: "Egli rappresenta per noi le estreme possibilità di superare la metafisica mediante la metafisica". Ma i problemi sono destinati a risorgere, trattando in particolare di Laotze:
Ciò che qui manca di quella intuizione dell'essere, propria dell'India e dell'Occidente, che appartiene alla storia universale, non dev'essere visto come mancanza del senso dell'innaturale e dell'assurdo, quasi che i cinesi dei tempi lontani avessero avuto la fortuna di sottrarsi a una temibile follia, come doveva apparire secondo il criterio della naturalità cinese. […] Ma nonostante tutto il limite rimane: lo spirito cinese, pur con la magia che in sé contiene, ci resta estraneo perché in esso non vediamo rivelarsi il terrore abissale in tutta la sua profondità. […] Questo filosofare vive nel mondo il fondamento del mondo. […] Manca quella chiarificazione di sé, quel rapporto con se stesso e quell'incessante ricacciare le illusioni, gli occultamenti e i travisamenti sempre ritornanti, che sono tutte caratteristiche del nostro spirito occidentale.
Da parte nostra, non si può in realtà non rimarcare che il discorso di Jaspers ha del positivo, ma cede esso stesso a un "travisamento". Egli cerca e seleziona nel pensiero orientale non tanto riscontri utili per la filosofia occidentale, procedimento probabilmente inevitabile, quanto per la propria posizione -- notoriamente e apprezzabilmente, esistenzialistica -- all'interno di quella tradizione. Un filosofare che "vive nel mondo il fondamento del mondo" viene individuato come un limite del pensiero dell'Estremo Oriente. Semmai, esso lo è anche di una corrente non trascurabile di quello occidentale, fin dalle sue origini elleniche. Siamo qui di fronte a una palese forzatura, del postulato da Jaspers stabilito in Origine e senso della storia:
I greci hanno fondato il mondo dell'Ovest. Ma in maniera tale che esso continua a esistere soltanto finché tiene il suo sguardo sull'Oriente, si mette a confronto con esso, lo comprende e se ne distacca, adotta i suoi elementi e li rielabora fino ad appropriarsene.
In una ipotetica "storia universale" del pensiero, i rigetti e le adozioni, e le conseguenti traduzioni da una cultura o da una lingua all'altra, formerebbero una lunga catena. Lo stesso esempio, addotto a proposito di Jaspers, è sintomatico. In quanto iscrivibile nella cornice religiosa del buddhismo, l'opera di Nagarjuna non ci è giunta nell'originale sanscrito, bensì in due versioni là dove essa è stata accolta una volta rifiutata dall'India: in cinese e in tibetano. La ricostruzione del pensiero di Nagarjuna è, necessariamente, un'operazione filologica prima che filosofica. Ciò non toglie che al tentativo di recupero e di inquadramento di Jaspers cinesi e tibetani hanno "collaborato", al punto che altrimenti quel pensiero non ci sarebbe giunto.
Evidentemente, il "superamento della metafisica tramite la metafisica" di Nagarjuna non contrastava poi tanto col "filosofare che vive nel mondo il fondamento del mondo, dello spirito cinese", proprio per essere questo anti-metafisico. Per opposte ragioni, più sbilanciato in senso eurocentrico del giudizio di Jaspers suona quello espresso da Hans G. Gadamer in L'eredità dell'Europa. In questo caso non abbiamo a che fare tanto con lo "spirito cinese" o con lo "spirito occidentale", quanto con un itinerante "spirito del mondo", il quale si sarebbe compiaciuto di prendere la direzione dell'Occidente fin dalla stagione luminosa dei greci e grazie a questi ultimi:
Il fatto in sé è ben noto: voler riportare, per esempio, la saggezza dell'Estremo Oriente alle nostre categorie di filosofia e scienza, religione, arte e poesia, sarebbe un'impresa disperata. Ed è innegabile che proprio in Grecia lo "spirito del mondo" abbia preso quella direzione che doveva poi sfociare nel nostro sistema classificatorio. Ciò che è avvenuto allora, e che ha formato ab origine la storia dell'Occidente, potrebbe essere definito, in un senso molto generale, come "illuminismo", come "illuminismo scientifico".
Tanto vale, allora, ripiegare su un Oriente più Vicino anche se non meno problematico. Un altro noto esempio riguarda la filosofia, identificabile con sicuro criterio etimologico nella falsafa ellenizzante del mondo arabo. Per un periodo coincidente con buona parte del nostro Medioevo, essa viene tradotta e accolta nella cultura arabo-islamica e in quella arabo-ebraica. Né si tratta di semplici "prestiti". Tradotte a loro volta in latino, tali originali rielaborazioni tornano a contribuire al pensiero europeo in maniera incisiva se non determinante, specie quando subiscono un rigetto per motivi religiosi presso la civiltà araba. Ne sono eloquenti testimonianze la Confutazione dei filosofi di Al-Ghazali e la Confutazione della confutazione di Ibn Rushd/Averroè.
I motivi di questo parziale rifiuto non furono solo religiosi. Un fondamento oggettivo della conoscenza, scriveva lo storico e scienziato Al-Biruni già intorno al 1000 nel trattato Eredità delle antiche nazioni, "non può essere ottenuto raziocinando con nozioni filosofiche e con induzioni solo basate sull'osservazione dei sensi". Più ancora che precorrere il moderno metodo di verifica critica e sperimentale, ai nostri occhi egli accredita il principio relativistico sostenuto da Jaspers. Ma esso risulta coerentemente incentrato sul sincretismo della "cosmopoli" arabo-islamica dell'epoca. Le nazioni, cui l'autore iranico allude, spaziano dalla Grecia all'India. "Ricercatore della verità" e "amante della saggezza", filosofo alla lettera se non di fatto, Al-Biruni prosegue con l'osservare:
Perché talvolta sperimentiamo (e altri han sperimentato prima di noi ) apparenze fisiche che noi dichiareremmo senz'altro impossibili se ci fossero state tramandate da documenti antichi […] è nostro dovere di procedere dal più vicino e più ovvio al più lontano, da ciò che è noto a ciò che è meno noto, raccogliere le tradizioni da quelli che le hanno riferite, correggendole per quanto è possibile e lasciando il resto com'è, perché il nostro lavoro possa aiutare chiunque ricerchi la verità e ami la saggezza.
Dal canto suo, in Umanismo ed esistenzialismo nel pensiero arabo, un esistenzialista convinto come l'egiziano 'Abd al-Rahman Badawi ha pur contestato a Jaspers e soprattutto a Heidegger la presunzione che i presupposti dell'esistenzialismo fossero interni alla civiltà occidentale. Non del tutto a torto, egli ha rivendicato alle culture semitiche con particolare riguardo alla propria qualche priorità nel corso della loro sofferta storia. Del resto, al taoismo cinese Jaspers imputerà a difetto quello che per altri sarebbe stato un pregio: di ignorare "la minaccia delle reincarnazioni buddhiste e quindi l'impulso a fuggire dal cerchio del tormento"; tanto più, la cristiana "angoscia del peccato inevitabile, la dipendenza dell'uomo dalla grazia redentrice".
Ora, si converrà, quest'ultima "angoscia" ha poco a che vedere con l'eredità ellenica, bensì semmai con l'ingente apporto semitico ebraico alla civiltà europea, la cui complessa matrice rimane mediterranea. Interlocutori laici di Jaspers, con riferimento all'etica politica, sono stati sia l'ex allieva Hannah Arendt sia occasionalmente Raymond Aron. Circostanza da non sottovalutare anche ai fini di un augurabile dialogo, il pensiero esistenzialista ha cioè esercitato un certo ascendente, sia sul pensiero di estrazione ebraica sia su quello arabo. Sulla scia di Badawi ma su un piano più politico si collocano infatti altri intellettuali, quali i siriani Muta' Safadi nel saggio Filosofia dell'angoscia e Antun Maqdisi in un articolo dal titolo tautologico L'arabo è l'arabo.
Secondo questi autori, purtroppo facilmente preveggenti, l'antitesi fra Occidente e Oriente, tra modernità e arretratezza, fra soggettività e soggezione, diventa l'esca per tale angoscia bivalente. La prima è il catalizzatore, perché la seconda da possibile propellente reattivo e costruttivo venga dirottata a convertirsi in lacerazione devastante o auto-distruttiva. "L'impulso a fuggire dal cerchio del tormento", altrimenti approvato da Jaspers, non sembra qui un incentivo adeguato. Ecco un terreno, se non altro, su cui ebraismo e arabismo dovrebbero poter riflettere ed eventualmente convergere, uscendo dalle rispettive "derive identitarie". Nonostante tutto, in tale ambito l'Europa potrebbe altresì svolgere un ruolo di mediazione discreto ma doveroso.
Insomma, conviene cercare un pensatore del '900 europeo, anche "minore" ma fino a un certo punto, da affiancare a Jaspers e a Gadamer per integrare o equilibrare i loro punti di vista. Un candidato, che si sia sforzato di assumere un atteggiamento il più possibile imparziale, a favore di un'equa distribuzione dello "spirito del mondo", sembra ben essere Albert Schweitzer. Per più versi, egli è stato peraltro vicino e affine a Jaspers. Il suo interesse e la sua ricerca, almeno in un testo del 1935 come I grandi pensatori dell'India, sono focalizzati sul pensiero indiano. Tuttavia le sue conclusioni critiche hanno un carattere generale attualmente valido. Qui un pensiero "dominante" è sì auspicato, ma kantianamente giudicato in base alla sua efficacia etica:
O gli Occidentali, come Schopenhauer e altri, rinnegano il pensiero occidentale ed adottano il punto di vista indiano; oppure, convinti che il pensiero dell'India sia loro sostanzialmente estraneo, mostrano verso di esso solo avversione e incomprensione. I pensatori dell'India dal canto loro non hanno mai cercato di esaminare a fondo il pensiero occidentale, che sembra loro un caos di sistemi filosofici diversissimi. […] Dobbiamo aspirare ad un pensiero più profondo e più alto, più ricco di energie morali e spirituali, capace di dominare uomini e popoli e di imporsi loro. In un'epoca turbata come la nostra, dobbiamo indirizzarci verso un pensiero di tale natura, in Oriente come in Occidente: questo deve essere il fine costante della nostra ricerca.
La proiezione dell'Oriente può dare luogo a stereotipi sia idealizzanti sia sprezzanti, pur sempre omologanti. La percezione psicoanalitica junghiana dell'Oriente quale grande inconscio cui attinge la coscienza benché deformante dell'Occidente, o la teoria marxiana del "modo di produzione asiatico" che attende di trovare nell'incontro-scontro con l'imperialismo occidentale la sua via verso il progresso e l'emancipazione, non sono poi da meno. Ma occorre prendere atto che dietro quella proiezione esiste una realtà composita e diversificata. Bisogna pur avere il coraggio di porsi un quesito. Eventi inauditi quali i campi di sterminio nazisti o le bombe atomiche lanciate sul Giappone si sarebbero verificati così come è stato, se le vittime non fossero in qualche modo rientrate nella categoria mentale di un "Oriente", interno o esterno che fosse?
Se dunque il "terrore abissale" di Jaspers, sia pure "in tutta la sua profondità", è subentrato allo stupore di fronte all'infinita varietà delle forme quale motore della filosofia, ciò non si deve certo solo all'antico apporto della sensibilità semitica, o al più recente fascino della saggezza indiana magari fraintesa da Schopenhauer in chiave pessimistica come vuole la Irigaray. Nemmeno la Grecia fu immune da quel terrore, sublimato nel sentimento dionisiaco del tragico, che Jaspers insisteva a negare allo "spirito cinese". Ma oggi esso si ripropone in altra veste.
L'antitesi non è più neanche tra Atene e Gerusalemme, celeste o terrestre che sia, bensì fra sussistenza e spettro dell'annientamento. Ci si può ovviamente chiedere se le aspettattive catastrofiche abbiano un riscontro oggettivo, o se siano soggettivamente radicate nella cultura occidentale e nel nostro inconscio collettivo. Sfortunatamente, l'una cosa non esclude necessariamente l'altra. Per quanto piuttosto vaga e politicamente eterogenea, in Anima mundi dello psicoanalista James Hillman, si trova una risposta abbastanza indicativa a tale interrogativo:
Le fantasie catastrofiche […] realizzano la visione apocalittica del cristianesimo. […] Le fantasie catastrofiche riflettono anche il processo iconoclastico in corso nella psiche, che vorrebbe infrangere quell'idolo meccanico e senz'anima che è diventato il mondo. […] I movimenti ecologici, la futurologia, il femminismo, l'urbanistica, il pacifismo e il disarmo, l'individuazione persomale, non possono da soli salvare il mondo dalla catastrofe insita nella nostra stessa idea di mondo. Hanno bisogno di una visione cosmologica capace di salvare il fenomeno "mondo".
Quanto allo "stupore" platonico-aristotelico, dalle forme della natura e dell'arte esso si è ridotto a esercitarsi su quelle della tecnica, mutandosi a volte in dolorosa sorpresa o in mortale noia. C'è forse un campo in cui quello stupore può essere in parte reintegrato. Intesa in senso lato, è proprio una filosofia politica messa di fronte alla varietà delle forme umane e alla loro irriducibilità a farsi determinare, assimilare o inquadrare, salva restando la costante per cui umanità e libertà tendenzialmente coincidono come linee rette parallele protese all'infinito. Ogni vera prospettiva cosmopolitica dovrebbe tenerne conto, ma anche una strategia politica la quale non si voglia a lungo termine votata all'insuccesso, di qualsiasi area di consenso, sostegno finanziario o apparato militare essa si avvalga. Oltre che di una "filosofia minore", si avverte infine il bisogno di una "filosofia comparata", in grado di abbracciare e di confrontare più tradizioni di pensiero.
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