“1968,
CHOC AL PIPER”.
Il
primo racconto sembra descrivere il concerto di aprile, 18 o 19 che sia. Poca
gente, erano appena conosciuti in Italia, fa riferimento a “Julia Dream” ed
alla partenza di Syd Barrett. Bello il racconto di Roger con la sigaretta,
tipico per “Set the controls...”.
“Era
il 1968 e quattro ragazzotti approdarono al Piper di Roma. Li guida Roger Waters.
Il pubblico è scarso (un centinaio di persone, più o meno), ma è un trionfo
lo stesso. Spuntano le luci psichedeliche per la prima volta, nasce il mito
della marijuana e quella musica piace maledettamente. Comincia lì il lungo
viaggio dei Pink Floyd verso il successo. E comincia con un tamponamento
‘miracoloso’ ed entusiasmante…”.
“Al
Piper Club, tempio indiscusso del beat romano, arrivarono nella primavera del
1968, preceduti da un’eco a stento udibile. Da qualche mese, sporadicamente,
quasi sempre a notte inoltrata, la disc jockey inglese ha messo su Julia Dream,
e lì si fermano le nostre conoscenze. Syd Barrett ha appena lasciato la band,
la cui fama, già scarsa, risulta perciò ulteriormente menomata. In platea,
infatti, ci saranno sì e no un centinaio di persone. Uno show così, però, non
s’è mai visto: compaiono per la prima volta luci psichedeliche rudimentali,
ma assai impressionanti per l’epoca. E’ un clima del tutto nuovo, lontano
mille miglia dal sanguigno e sensuale rhythm’n’blues in voga. E’ music for
the mind, musica per la mente, non per il corpo. E nella mente, si sa, lo spazio
per gli equivoci è assai più ampio. Sarà per questo che, mentre scorre Set
the control for the heart of the Sun, Roger Waters scompare nel retropalco, per
riapparire con in mano una sigaretta dall’aspetto ambiguo, dalla quale aspira
con enfasi sapiente, come se in quella sigaretta ci fosse un intero mondo
sconosciuto. Di marijuana, al Piper, si parla molto, ma se ne è vista
pochissima. Così, quando Waters butta la cicca in platea, sono in parecchi a
precipitarsi a raccoglierla, in cerca di paradisi artificiali. Si scoprirà che,
di paradisi, in quella cicca non ce n’era (forse l’unico a cercarli davvero
era, all’epoca, Syd Barrett). Groopies amiche intrufolate al seguito, infatti,
confesseranno che Waters, Gilmore, Wright e Mason, fanno, da buoni inglesi
cresciuti al pub, un uso industriale di alcool d’ogni specie, ma di erba manco
l’ombra… I Pink sono, vera rarità per quei tempi, ragazzi piuttosto colti
(non a caso provengono per tre quarti dalla dotta Cambridge), e perciò
smaliziati, coscienti di una certa distanza dalle cose che fanno. In quell’era
di pop-rock ingenuo e sincero, hanno già capito l’importanza dell’immagine,
e che l’immagine non è solo questione di luci stroboscopiche…”.
E’ il
primo racconto diretto che testimonia forse il primo concerto romano ed italiano
dei Floyd, forse quello del 18 aprile 1968. Bianchi fa riferimenti precisi al
periodo, parla di ‘Julia Dream’, forse l'unica canzone dei Floyd conosciuta
in Italia;
parla di Syd Barrett che ha appena lasciato la band, e sappiamo che ufficalmente
lo ha fatto il 6 aprile; parla delle prime luci psichedeliche e rudimentali, il
light-show che i Floyd usavano già dal 1967 (come diceva anche Tito Schipa Jr.); parla di Waters e la sua sigaretta
durante ‘Set the controls for the heart of the Sun’, episodio che si
ripeteva spesso durante quel brano e che siamo stati abituati a vedere nel
filmato del 1973 di “Heart Of The Sun” di R. Clifton. A differenza di Eddie
Ponti (nel suo articolo di Nuovo Sound del 1975), questa serata sembra avere
poco pubblico: il che ci suggerisce che potrebbero essere veritiere le due date
di aprile (18 e 19), magari una con poco pubblico, l’altra con più persone,
la prima descritta da Bianchi, la seconda da Ponti.
Il
secondo riferimento sembra più preciso, parla del Festival romano del maggio
’68: fa anche un riferimento preciso ai proprietari del Piper, Crocetta e
Bornigia, e fa un riferimento velato ai problemi del festival che sappiamo.
“Torneranno,
al Piper, pochi mesi dopo. Bornigia e Crocetta compreranno in blocco le ultime
tre serate di un festival fallimentare organizzato al Palaeur di fronte ad una
platea spettrale, nonostante il cartellone sfoggi i nomi di Donovan, Nice,
Fairport Convention, Byrds, Captain Beefherat, Move, Julie Driscol, Famil (ma ci
sono anche gli improponibili jugoslavi Robotika). Il mondo, la musica e il
costume sono corsi molto veloci, i Pink Floyd sono già, anche da noi, pop stars,
e stavolta il locale è gremito. Per trovare una cicca di spinello non è
necessario aspettarla cadere dal palco: è nata e già cresciuta l’inedita
categoria dei pusher…”.
Di
sicuro Bianchi si è sbagliato con le date di maggio, come vedremo poi, ma il riferimento al
festival spostato al Piper è giusto; ricordiamo la frase sul poster del
festival “COLLABORAZIONE con PIPER CLUB di ROMA”, già citata in precedenza.
...Confuso, perchè solo l'ultima data (il 7) fu realmente spostata al Piper
Club e dunque non i Floyd.
Poi
c’è una terza situazione, sicuramente che risale alla fine degli anni ’60,
ai tempi della registrazione di “Zabriskie Point” per Michelangelo Antonioni.
“E,
se perdonate l’autobiografia, prima della fine del magico decennio, la
preistoria del gruppo registra una terza visita romana dei Pink Floyd.
Contrariamente alle altre, però, è del tutto clandestina: dopo aver fatto con
la loro magnifica colonna sonora la fortuna di un mediocrissimo film intitolato
More, il maestro Antonioni ha deciso di affidare al loro suono onirico il
discusso Zabriskie Point. Ed è per questa ragione che Waters & Co. Sono di
passaggio a Roma. Davanti al Piper Club staziona già in seconda fila una
Volkswagen rossa, con a bordo quattro vitelloni beat (quorum ego) determinati a
tirar tardi. Improvvisamente il ‘maggiolone’ è scosso da una botta
tremenda. Un pulmino l’ha tamponato, nonostante fosse fermo… I quattro
smontano dalla macchina, ben disposti alla lite, ancorchè un po’ intronati.
Ma quando scendono gli occupanti del pulmino, rimangono impietriti e ammirati.
Già, il guidatore è nientemeno che Ricky Wright, gli altri seguono a ruota.
Flemmatici e incuranti, non ci degnano nemmeno di uno sguardo, ed entrano al
Piper. A noi pare, ciò nonostante, di aver vissuto una serata leggendaria. Ci
si esalta vicendevolmente fra ‘ammazzate oh’ e ‘nun ce se crede’. Il
carroziere, poi, pretenderà una cifra per la riparazione, ma come si fa a
chiedere i danni ai Pink Floyd? Più che il danno, però, ciò che
successivamente ci suscitò inquietudine, fu il dubbio sulla causa di tanta
macroscopica imperizia nella guida: saranno stati ‘fatti’, o solo ubriachi?
Ascinosa ambiguità dei Pink Floyd….”.
Questa
terza paradossale situazione, quella dell'incidente, è senz’altro riconducibile al
periodo romano di “Zabriskie Point”, sul finire del 1969. Infatti, Bianchi
dice di un’apparizione fugace, ...“…del tutto
clandestina”: l’idea è che fossero andati al
Piper per ritrovare vecchi amici o invitati per una festa, certo non per fare un
concerto, visto che non risulta da nessuna parte e stavano già registrando con
Antonioni in quei giorni.