“ L'anniversario della nascita del luogo che ha segnato un'epoca. I 40 anni del Piper, l'Italia bipolare si spacca. Il locale del beat e delle ragazze yè-yè. Sinistra: fu lo specchio di speranze e illusioni. Destra: più rivoluzionario del '68.

ROMA — Il Piper di via Tagliamento compie quarant’anni. E l’Italia bipolare del 2005 si spacca sulla definizione politica da attribuire alla culla italiana della cultura beat e su ciò che fermentava, oltre i partiti tradizionali, a metà degli anni ’60. Tesi di Liberazione, firmata da Gianni Lucini: «Il Piper offre un grande laboratorio alla voglia di stare insieme di una generazione... in quell’antro fumoso ma pieno di musica e colori i giovani delle borgate romane incontrano i loro coetanei di Pavia o di Lecco...non è la rivoluzione e nemmeno nasce per esserlo. E’ soltanto un locale dove si incontrano le speranze e le illusioni di una generazione che nel 1965 si accontenta ancora di un sogno in musica e che qualche anno dopo tenterà di dare la scalata al cielo». Tesi opposta del Secolo d’Italia, firmata da Filippo Rossi, autore con Luciano Lanna di «Fascisti immaginari»: «La sinistra ideologica non poteva considerare in nessun modo assimilabile quella ribellione fatta di emancipazione e di individui, di minigonne e di libertà sessuale... Il Piper è stato più rivoluzionario del ’68». E’ la chiusura di un conto aperto da Lanna sullo stesso quotidiano l’8 dicembre 2004: «Scherzate con Nietzsche ma lasciate stare il Piper».

Certo il Piper è stato mille cose. La scommessa economica e culturale dell’avvocato Alberico Crocetta (a quindici anni volontario nella X Mas di Junio Valerio Borghese, a quaranta innamorato del rock e della pop art) e dell’imprenditore Giancarlo Bornigia. E lo sbarco in Italia delle eresie musicali anglosassoni («volevamo far ballare i giovani con i ritmi dei Beatles», sintetizza oggi Bornigia) e delle loro declinazioni italiane. Ci vorrebbe un’enciclopedia solo per elencare pochi nomi: i Rokes, l’Equipe ’84, ovviamente Patty Pravo (ex Guy Magenta), Caterina Caselli, Mal con i Primitives, i New Dada, Loredana Bertè e Mia Martini, Renato Zero, i New Trolls. I grandi ospiti internazionali: i Procol Harum, i Pink Floyd. Lì si frantumò per sempre il Piccolo Mondo Antico di Sanremo. Addio anche alla pittura figurativa cara al Pci, quindi al modello Guttuso: il fondale del Piper, per capirci, era composto da due Andy Warhol, un paio di Mimmo Rotella, due Schifano (ospite fisso con Tano Festa), un Rauchemerg. Tutti inconsapevolmente distrutti in qualche notte troppo lunga.

E l’ideologia? Giura Bornigia: «Eravamo attaccati da destra come da sinistra. Il questore di Roma, Di Stefano, il 21 dicembre 1966 chiuse il locale nel pomeriggio dicendo che costituivamo "mezzo di distrazione dei giovani con conseguente sviamento da occupazione e studi". Pochi giorni dopo un’interrogazione Dc, firmata da Agostino Greggi e altri, chiedeva al Viminale di applicare la norma in tutta Italia perché "è dovere costituzionale dei genitori educare i figli e sottrarli ai richiami di chi offre suggestioni per lucro". Il Parlamento tacque unanime, non ricordo dissociazioni». Invece Bornigia rammenta l’osmosi sociale che si creò «tra ragazzi di periferia e dei Parioli, tra romani e i fuggiti da altre città per venire qui. Nessuno vedeva di buon occhio anche questo aspetto». Alberto Bevilacqua, allora giornalista de Il messaggero, obietta: «La sinistra ufficiale ostile al Piper? Se così fosse stato, me ne sarei accorto. Ripenso anzi a un curiosissimo Carlo Salinari che cercava di capire quei giovani». Testimonianza importante: un quadro partigiano del vecchio Pci, critico letterario principe della sinistra marxista, alle prese con Patty Pravo. Quasi un ambasciatore di Botteghe Oscure.

Però ecco qui un articolo del 27 marzo 1965 di «Noi donne» (ne parla Filippo Rossi e appare integrale nel libro di Anna Tonelli «Ballando ballando»): «Il Piper è un mastodontico ingranaggio culturale basato sul mondo dello yeye, dello shake che dietro l’aspetto della ribellione nasconde invece una rivolta prefabbricata che porta stampato il marchio dell’approvazione ufficiale». Conferma Marta Boneschi, che ha raccontato in molti libri il dopoguerra italiano e il suo costume: «La musica non impegnata irritò il Pci che individuava la gioventù sana in quella che frequenta le sezioni. Lucio Battisti nel 1966 dichiarò di voler scrivere solo canzoni d’amore e subito gli dettero del fascista. Quel Pci amava le canzoni di Dario Fo e gli incontri di "Cantacronache"». Cioè i repertori ideologizzati cari a Franco Fortini. Il sociologo Alberto Abruzzese, per anni firma del Manifesto, storicizza: «Il Piper, il rock? La routine del Pci non consentiva di riconoscere come "cultura" tutto questo anche per una semplice questione di linguaggio: erano nuovi consumi culturali, come la tv, che vedevano il partito ben poco attento. E poi era roba venuta comunque dall’America, quindi suscettibile di riserve». Infine una schietta testimonianza diretta, quella di Tito Schipa Junior che nel 1967 mise in scena «Opera beat» su musiche di Bob Dylan: nel coro cantava un giovanissimo Giuliano Ferrara, alla batteria c’era Achille Manzotti, oggi produttore cinematografico: «Noi ci consideravamo della sinistra "americana", impregnata anche di cultura ebraica. La sinistra ufficiale italiana ci giudicava invece borghesi orientati verso ciò che loro consideravano disimpegno.

Fu al contrario una rivoluzione, nata dalla borghesia: come tutte le vere rivoluzioni». Ma cantava bene, Ferrara? «Benissimo. E ballava anche, benissimo. Lo giuro».

Paolo Conti
17 febbraio 2005 “
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