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Tardio è il brigante che ci interessa più da vicino, considerato che agì nel
Cilento tra il 1862 ed il 1863. Originario di Piaggine, ma vissuto a Campora era
un uomo molto colto, infatti si era laureato nel 1858, a 24 anni, presso il
Reale Liceo di Salerno. Dopo aver preso contatti a Roma con il comitato
borbonico e per questo fu gratificato con i gradi e con i sigilli ufficiali. Si imbarcò da Civitavecchia,
la notte tra il 21 ed il 22 settembre del 1861 con trentadue uomini e sbarcò ad Agropoli
dopo circa 72 ore di accorta navigazione,
per fare il capo-brigante anzi "il capitano comandante le truppe borboniche",
come lui stesso si definiva. A questo gruppo di uomini se ne aggiunsero molti
altri, la banda superò di gran lunga le cento unità. Tardio iniziò così la sua
opera di sommossa popolare contro il "tirannico e fazioso dispotico regime
Sabaudo" proprio da Agropoli e continuando per molti altri centri del Cilento,
quali Centola, Foria, Camerota, Celle di Bulgheria, Novi Velia, Laurito, Vallo
della Lucania ed altri ancora, a Futani disarmò l'intera guarnigione della
Guardia Nazionale. Nei paesi da lui occupati si distruggevano i monumenti, le
litografie gli stemmi reali e quant'altro potesse essere riferito al regime
sabaudo o a Garibaldi, poi alla folla (che in genere lo accoglieva con simpatia)
lanciava dei proclami,invitando i cittadini a schierarsi sotto il vessillo del "leggittimo
sovrano Francesco II" e ad insorgere contro il tiranno subalpino che aveva
ridotto la "seconda valle dell'Eden" (così definiva il Cilento) a "triste
contrada di provincia" angariata da tributi e rendendo il popolo nelle
condizioni simili ai quelle dei "barbari del settentrione del Medio Evo". Verso
la fine del 1863 presso Magliano grande la sua Banda venne annientata da un
attacco congiunto dei Carabinieri e della Guardia Nazionale e di lui si persero
le tracce, fino a quando tradito da un suo concittadino, venne arrestato nel
1870 al processo scrisse una sua memoria difensiva in cui diceva: "io non sono
colpevole di reati comuni poiché il mio stato, il mio carattere e la mia
educazione non potevano mai fare di me un volgare malfattore; io non mi mossi e
non agii che con intendimenti e scopi meramente politici; talché non si potrebbe
chiamarmi responsabile di qualsivoglia reato comune che altri avesse per
avventura perpetrato a mia insaputa contro la espressiva mia volontà e contro il
chiarissimo ed unico scopo per cui la banda era stata da me radunata". Venne
condannato a morte, ma la pena fu poi trasformata in lavori forzati a vita che
scontò sull'isoletta di Favignana, dove si spense il 13 giugno 1892 a 58 anni
avvelenato in carcere da una donna giunta sull'isoletta con il compito di
tappargli la bocaca in vista di una possibile revisione del processo, che
avrebbe potuto portare alla luce verità scottanti.
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