n a r r a z i o n i 

 

 

 

                                                                                                      

Indice delle sezioni:

 

A) I ricordi

1)   I ricordi della prima infanzia

2)   Ricordi della fanciullezza

3)   I ricordi di Aulla e di Massa

4)   La fanciullezza finisce

5)   I ricordi dell’adolescenza

6)   I ricordi della giovinezza

 

              I RICORDI DELLA PRIMA INFANZIA

Sommario:

1) Il ricordo più antico

2) Altri ricordi

3) Nonno Giovanni nel ricordo di Guido

 

 

                          1 -  IL RICORDO PIU` ANTICO

 

Quello che credo sia il piu` antico ricordo della mia vita risale a quando ancora la mia famiglia abitava al Ponte, nella casa di Mario Giannetti. Poiche` ci trasferimmo da quella casa quando io avevo tre anni, il fatto che sto per narrare risale a quando avevo meno di tre anni. Verosimilmente dovevo avere intorno ai due anni.

 Era, dunque, una sera e stavamo tutti : mia nonna Mariuccia, mio nonno Giovanni, mio padre, mio fratello Guido ed io , seduti intorno al grande camino acceso. Mia madre, invece, stava trafficando intorno ai fornelli che si trovavano, come ho appurato parlandone con mio fratello, perche` su questo punto il mio ricordo non e` chiaro,nella cucina, attigua alla stanza dove era il camino e dove noi ci trovavamo. C'era, pero` , una porta di comunicazione fra le due stanze, sicuramente aperta, ed io dovevo trovarmi, evidentemente, in posizione tale che riuscivo a vedere la mamma mentre, come ho detto, stava trafficando intorno ai fornelli. Stava essa, esattamente, controllando cio` che stava cuocendo dentro un piccolo forno portatile consistente in un treppiede di ferro fatto in modo che su di esso, posto sopra il fornello, potesse collocarsi una teglia, ed in una specie di grossa campana di alluminio, recante in vetta un pomello di bachelite per poterla afferrare, che veniva posta sopra la teglia per trattenere il calore del fornello e convogliarlo tutto sulla teglia stessa.

 Si trattava certo di uno sformato o di un dolce.

 Ad un tratto, mentre ce ne stavamo li` come ho detto, venne a mancare la corrente elettrica e rimanemmo al buio. Immediatamente tutto l'ambiente assunse, ai miei occhi, un aspetto misterioso e vagamente minaccioso. La fiamma e le brace del camino erano ora l'unica fonte di luce,per cui le facce, illuminate dal basso, avevano acquistato un colore rossastro e un aspetto inconsueto, per le vaste e profonde zone d'ombra che si disegnavano su di esse.

 Le nostre ombre, poi, si proiettavano sulle pareti della stanza ingigantite e tremolanti. Malgrado tutto cio`, tuttavia, la mia inquietudine era controllabile, in virtu` anche del fatto che tutti continuavano a parlare con calma e senza mostrare preoccupazione.

 Riuscivo ancora a vedere mia madre, ombra scura che continuava a muoversi intorno ai fornelli, e questo era abbastanza tranquillizzante, anche se un po' di inquietudine mi veniva dal fatto di vederla quasi completamente inghiottita da quel mare d'ombra.

 A un certo punto, pero`, mia madre, che, verosimilmente, aveva sentito puzza di bruciato o, almeno, aveva temuto che qualcosa non funzionasse a dovere nella cottura del suo sformato o dolce che fosse, sollevo` il coperchio del forno.

 Rimasi agghiacciato dal terrore.

 Davanti a mia madre delle cose rosse sfrigolavano e scintillavano in modo che a me parve terribilmemte minaccioso. Ebbi la sensazione che qualcosa di diabolico, di infernale fosse sorto davanti a mia madre e stesse per portarmela via in modo sconvolgente. Mi rannicchiai in attesa dei clamori che pensavo si sarebbero levati da tutti gli altri di fronte alla grave minaccia. Pensai che mio padre sarebbe sorto fulmineamente e si sarebbe gettato in disperato soccorso della mamma. E mi preparai a piangere, per unirmi al coro delle grida altrui.

 Ma non accadde nulla. Tutti mostrarono la piu` grande indifferenza per quello che stava accadendo e continuarono a parlare con molta calma. E mentre io, sconcertato, notavo tutto questo, e ansiosamente guardavo mia madre continuando a temere per lei, essa, con mossa decisa, abbasso` il coperchio che teneva in mano e imprigiono` sotto di esso le fiammeggianti forze infernali che la minacciavano, facendole cosi` inghiottire dalle stesse tenebre dalle quali,prima, erano  improvvisamente emerse.

 Dopo un attimo torno` anche la luce facendo riemergere intatti gli oggetti e le persone della mia casa. La mamma era salva, tutto era al suo posto, non c'era piu` nulla da temere. E cosi`, piano piano, anche in me torno` la calma e la tranquillita`. A lungo, pero`, continuai a pensare che una grave minaccia c'era stata , anche se i "grandi" della mia casa non si erano lasciati intimorire da essa e la avevano sventata con forza e decisione.

 Soltanto molto tempo dopo ho saputo che lo sfavillare minaccioso che mi aveva tanto intimorito era dato dal fatto che i ferri del treppiede che reggeva la teglia, per un eccesso di calore, si erano arroventati fino a divenire incandescenti.

 

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                               2 - ALTRI RICORDI

 

 

 

Un altro nebuloso ricordo del tempo in cui abitavamo la "casa del Giannetti" è legato allo spazio antistante la casa, uno stretto e lungo spazio recintato, occupato da un lungo marciapiedi cementato e da qualche aiuola con piante. Nelle belle giornate usavamo molto questo spazio. Ci fu un periodo in cui il babbo mi aveva costruito, con delle tavolette ricavate da casse da imballaggio, un rudimentale cavallino, fissato su una piattaforma di legno munita di ruote. Io stavo volentieri su questo cavallo che Guido faceva muovere tirandolo con una cordicella lungo il marciapiede. Ma c'era un vicino che mi faceva arrabbiare dicendomi : " Ma quello non è un cavallo, è una capra !" La cosa mi irritava molto, e le mie ire facevano molto divertire il mio vicino e anche quelli che assistevano.

 Un altro ricordo abbastanza netto di quel periodo è il seguente. Un giorno che, evidentemente, non volevo mangiare, mia madre mi portò fuori in braccio, in questa specie di piazzale-giardino e, tenendo in una mano il piatto (che ricordo benissimo: era un piatto di porcellana decorato con delle roselline rosse), con l'altra mano cercava di farmi mangiare qualche cucchiaiata di riso (credo fosse riso in brodo) dicendo ai passanti: - Vedete come è bravo il mio bambino !? Guardate come mangia il risino ! - Io sentivo che c'era qualcosa che non andava in quella situazione, ma, suggestionato dalla "verità" rappresentata dalle parole di mia madre, sia pure recalcitrando un poco, finivo con l'essere "bravo" e col lasciarmi ficcare in bocca qualche cucchiaiata di riso ogni tanto. Ma la non coincidenza fra ciò che era la mia verità avvertita e ciò che era la verità dichiarata da mia madre, doveva crearmi un disagio non indifferente, se l'episodio ha lasciato un segno così persistente nella mia memoria.

 

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                      3 – IL NONNO GIOVANNI NEL RICORDO DI GUIDO

La vita

Il nonno Giovanni era nato nel 1855. Era ragazzo quando perdette il padre (Daniele era suo padre. Nel 1871 morì anche il nonno Iacopo. Giovanni aveva 16 anni); la madre, di nome Rosa era molto bella (la chiamavano “la bellona”), divenne l’amante di un ricco proprietario di Poggio, il che le permise di allevare senza grandi stenti, cioè Marco, Giovanni, Giuseppe e Carlo (c’era anche una figlia: Maria Amabile Teresa).

 Il nonno Giovanni militò sotto il Re Vittorio Emanuele II e sotto il suo successore Umberto I. Era il periodo in cui nel meridione si combatteva il terrorismo, che cercava di ammantarsi anche di lealismo borbonico e lo stato italiano aveva inviato laggiù grandi forze militari. Anche il nonno fu inviato nel meridione e vi rimase per tutto il tempo del servizio militare, che allora durava alcuni anni.

 Congedato, sposò la Mariù (Mariuccia Bertoi. Da ricerche fatte nel comune di Camporgiano risulta che il matrimonio fu celebrato il 27.11.1884. Risulta pure che il giorno 8.10.1892 nacque una figlia: Maria Adelfina Zelia Irisse, della quale, che probabilmente morì dopo poco, noi non abbiamo mai avuto notizia) e partì per la Francia dove ebbe successo. Divenne, infatti, direttore di una fabbrica di coloranti. Guadagnava molto, spediva discrete somme di denaro alla Mariù, pregandola di raggiungerlo, ma lei non si decideva mai perché riteneva più doveroso assistere la madre (“la mamma Rosa”, la chiamava mia madre pur non avendola mai conosciuta).

 Il nonno allora contrasse amicizie con opersone benestanti e si dette ad una vita galante e dispendiosa. La Mariù si accorse del cambiamento del marito e si decise a raggiungerlo in Francia, dove scoperse che il Giovanni aveva un’amante a cui era molto affezionato. Allora fuggì da lui e ritornò a Camporgiano, ma neimgiorni trascorsi in Francia era rimasta gravida della Lina, nostra madre.

 Il nonno Giovanni intanto aveva pensato di mettersi in proprio ed aveva comperato un terreno, dove aveva iniziato la costruzione di uno stabilimento, costruzione che fu subito bloccata perché risultò che il terreno comperato era ipotecato. Ne nacque una causa che durò diversi anni e che fu dal nonno perduta. Essa gli costò tutta la sua fortuna.

 Allora tornò in Italia dalla nonna Mariù e con il denaro che gli era rimasto comperò un buon appezzamento di terreno il Calabricchia (deformazione dialettale del nome Colle Aprico), dove costruì anche una casina di due ambienti: sopra un fienile e sotto una vasta cantina con tini, botti, damigiane, avendo creato in Calabricchia un grande vigneto. Comperava anche vitellini per rivenderli poi come manzi o come giovenche. Possedeva, infatti, molto fieno.

 Ma dal momento in cui tornò dalla nonna Mariù la sua vita ebbe un futuro incerto per lui. La casa dove viveva la Mariù era stata lasciata dai genitori al fratello di lei, Don Domenico, parroco a San Romano e finchè non giunse per il prete il tempo del suo ritiro dalla parrocchia tutto andò bene. Mia nonna poteva godere dei frutti del podere e della vasta casa; il nonno Giovanni poteva dedicarsi alla Calabricchia, vendendo quintali del suo vino, molto apprezzato, e mettendo da parte pgni anno decine di bottiglie di vino sceltissimo. Ma improvvisamente gli giunse l’intimazione, da parte di Don Domenico, di cercarsi una nuova casa perché sarebbe giunto stabilmente lui.

 Il nonno Giovanni possedeva ancora la casa paterna, ma rovinata dal terremoto del 1920, per cui si accinse a ricostruirla; egli aveva diritto a un mutuo, che però non bastò, per cui ebbe bisogno di un prestito, che poi non potè restituire. Per colmo di sventura un incendio provocato sventatamente da un vicino, gli imnvestì il vigneto distruggendolo. Ricordo ancora i lunghi filari di viti essiccati dal fuoco, il tutto sembrava un gran mare grigio. Ormai privo dei frutti del podere, con la Calabricchia distrutta, pensò di venire a Monzone per vedere il mio fratellino, nato da un mese. Volle passare da Minucciano, per vedere anche Delfina e Settimo, ma, viaggiando da Gramolazzo, capolinea della corriera, a Minucciano, sorpreso dalla notte, cadde, provocandosi una specie di paralisi dalla quale non si riebbe mai del tutto. Per pagare il debito contratto dovette cedere la Calabricchia e la casa paterna, ma passò serenamente e senza preoccupazioni il resto della vita. Visse dal 1931 al 1937 in casa nostra, accolto insieme a Mariù dai miei genitori.

 

Io ed il nonno Giovanni

Col nonno Giovanni fui in contatto fin dalla più lontana infanzia. Infatti mia madre mi partorì in casa della nonna Mariù e vi rimase a lungo mentre mio padre era soldato nella marina militare, e ancora quando passavo coi nonni quasi tutto il periodo delle vacanze estive.

 Rivolgendomi al nonno io lo chiamavo “Tato” e lui rispondendomi o rivolgendosi a me usava l’espressione “o bimbin”.

 Quando cominciai a frequentare le scuole elementari mia madre, nelle vacanze, mi portava a Camporgiano dai nonni e mi ci lasciava per circa tre mesi, tornando a prendermi poco prima dell’inizio del nuovo anno scolastico. Nei primi anni, assieme all’Ubaldo, mio amico inseparabile, di un anno più anziano di me, ci divertivamo nell’orto della nonna o nel terreno più vicino a casa; ma dopo qualche anno, fatte alcune amicizie,ci allontanavamo da casa facendo disperare la nonna, che ci chiamava, ci cercava, domandava a tutti se ci avevano visti. La disperazione raggiungeva il colmo quando io e l’Ubaldo volevamo andare al fiume con altri ragazzi. Allora qualche volta interveniva il nonno Giovanni: “O Mariù, ce li porto io, tanto devo andare alla “fagiolaia”, orto presso il fiume dove seminava fagioli, pomodori e altro.

 Presso la fagiolaia c’era un bello specchio d’acqua dove ad un certo momento il nonno faceva il bagno in mutande e prima di immergersi mi diceva: “ Te, bimbin, attacchiti alla mi’ cintola e movi le gambe, cusì imparerai a notar”. Io allora afferravo la cinghia che gli sosteneva le mutande e muovevo i piedi. Non so quanto quell’esercizio mi fosse giovato per il nuoto.

Qualche volta, anzi spesso nell’ultima estate in cui fu sano, assieme all’Ubaldo mi recavo in Calabricchia, dove il nonno mi accoglieva bonariamente: “ O bimbin, sei venuto ? Andate là a quel filar che c’è l’uva moscatella” . Ricordo ancora il buon sapore di quell’uva. Io e l’Ubaldo avevamo portato in Calabricchia un bel gattino, che poi scomparve. Ricordo ancora quella cantina fresca, che egli puliva accuratamente e profumava tenendoci piantine di timo e di lavanda.

 Ma contatti assai stretti ebbi col nonno Giovanni nei due anni che passammo al Ponte. Fu qui che mi parlò di uno scontro che coi suoi fratelli sostenne contro il “Rugio” (così lo pronunciava), capo di una banda di rapinatori e grassatori, che fu costretto a lasciarlo in pace. Mi parlava anche dell’attacco dei Francesi alle comunità italiane. Era allora in corso la “guerra delle tariffe” tra il governo francese e quello italiano presieduto da Crispi. La guerra che ne derivò fu placata a stento dall’intervento pacificatore del sindaco di Marsiglia. Vi furono anche dei morti quando truppe francesi provenienti dal Tonchino furono fischiate allo sbarco a Marsiglia da italiani. Anche il nonno, come quasi tutti, portva nascosto, per sua difesa, uno “stiletto”.

 Sopattutto nell’anno in cui frequentai la quinta elementare (1932-1933) ebbi modo di conoscere meglio il nonno, il suo sentimento nazionale: mi raccontava, quasi invidiandolo, di un suo conosvcente di Camporgiano, che nel 1870 era corso all’attacco di Porta Pia e aveva visto cadere, colpito da una pallottola, il camerata che correva all’attacco al suo fianco.

 Parlando delle battaglie del nostro Risorgimento, che io studiavo sul libro di testo e leggevo anche sulla “Storia d’Italia” del prof. Paolo Giudici, che mio padre aveva comperato, egli mi riferiva certi particolari che risultavano storicamente veri. Ad esempio, mentre gli parlavo del valore dei soldati piemontesi nell’assalto al colle di San Martino, egli aggiunse: “ E furono tormentati anche da un grande temporale”. Questo particoolare corrispondeva al vero ed altri particolari conosceva, relativi alla battaglia di Adua contro il negus Menelik, alla guerra italo-turca, alla prima guerra mondiale. Ricordo ancora con quanto interesse seguì le vicende della guerra etiopica nel 1935.

 Il nonno Giovanni fu un ammiratore di tutto ciò che è coraggio, lealtà, onore nazionale, come mi pare abbia dimostrato ed io gli volli bene, anche se a volte negli ultimi anni lo trattai sgarbatamente, forse indottovi anche dall’atteggiamento della Mariù nei suoi riguardi.

 

Le relazioni fra nonno e nonna

 Il nonno Giovanni rientrò dalla Francia nel 1901 e nel 1902 la Mariù gli partorì una seconda figlia, la Delfina. Al suo rientro però fu accolto dalla Mariù con distacco e risentimento tale che a mia madre, che aveva allora tre anni (veramente ne aveva quattro perché era nata nel 1897) apparve come un estraneo, tanto che non lo chiamò mai “papà”, come faceva la Delfina, ma si rivolse sempre a lui con un “O te!”. E così fu sempre: forse era stata suggestionata dall’atteggiamento della nonna Mariù, la quale anche negli ultimi anni per richiamare la sua attenzione, si rivologeva a lui con un “O te!”. Poche volte l’ho sentita riv9olgersi al marito con “O Giò”. Però anche nei riguardi di lei non pronunziai mai la parola “nonna”, la chiamai sempre “Mariù”.

 Eppure il nonno Giovanni doveva essere stato sempre per sua natura affettuoso e paziente tanto con la prima figliola che con la moglie.

 Quando mia madre, allora giovinetta di quattordici o quindici anni, chiese per la prima volta di andare ad una festa da ballo, la Mariù si oppose decisamente, ripetendo più volte: “I balli son del diavolo!” o “Cosa direbbe mai Don Domenico !”. Mio nonno allora intervenne: “O Mariù, ce la porto io”. Allora la Mariù s’indusse ad acconsentire. La Lina giovinetta, bionda, con gli occhi azzurri, ballò per tutta la serata, guardata con compiacenza dal padre, il quale era felice di ascoltare i commenti dei suoi amici: “ O Giò, andù l’hai trova una fiola cusì?!”

 Al mattino, mentre la madre la chiamava per darle la sveglia, la Lina udì il padre che diceva: “O Mariù lascela durmì, poerina; iersera ha fatigato tanto!”.

 Ma il risentimento della nonna Mariù verso di lui non cessò mai. Anche negli ultimi anni, nella casa di Riolo, ella ogni tanto accennava alla vita elegante di lui in Francia e agli amici di allora. Soprattutto ricordava un notaio, forse il suo miglior amico: “Se ti vedesse adesso monsieur Carven!”. Forse le conseguenze della caduta di lui a Minucciano significavano per lei quasi un castigo divino oper averla tradita con un’amante.

 Mia madre da giovinetta usò le sue camicie di seta per farsene delle camiciette. Egli aveva portato il suo vestiario in due bauli, decorati sul coperchio con pelli di cinghiale. Quando i miei genitori mi posero in collegio, uno dei due bauli, contenente il mio corredo da collegiale, mi seguì a Soliera. Non so che fine i due bauli abbiano poi fatto.

 Il nonno Giovanni cadde e si infortunò nel 1930, venne con la nonna Mariù in casa nostra nel 1931 e morì in casa nostra a Riolo nel 1937.

 La nonna Mariù era nata nel 1856. Era quindi più giovane di un anno del marito. (Da ricerche in Comune risulta, invece, che Maria Domenica Teresa Bertoi di Andrea e di Sarti Rosa nacque il  21.11.1857. Tortelli Giovanni Innocente di Daniele e Mazzei Rosa era nato il 27/9/1855)

 

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                 RICORDI DELLA FANCIULLEZZA

                       

Sommario:

     1) Le gite a San Giorgio

     2) Investito da una bicicletta

     3) Brucia il camino

4) Gli orecchioni e la tosse canina

5) La bicicletta

6) I vermi

7 Le domestiche

8) La murella della ferrovia

9) Il Bertino ferito

10) I giochi con Guido

11) La morte del nonno Giovanni

12) La trombetta in gola

13) La carrettina dei ferri vecchi

14) Gli amici di Monzone

     15) Guerra anch’io

16) Il terremoto

17) La guerra di Finlandia

18) La cacca in testa

19) Le vacanze alla Casetta

20) La testa rotta e le spalle bruciate

21) Manuele e il fuoco nella scarpa

22) La fionda gigante

23) Il Toni e le cinque lire false

 

 

 

                             1 - LE GITE A SAN GIORGIO                                                                                                                                     

 

Quando, nel 1935, l'Italia iniziò la conquista dell'Etiopia, la Società delle Nazioni impose le sanzioni, cioè un duro embargo su tutte le materie prime di importazione. Il governo italiano reagì economicamente attuando un regime di autarchia (si cercò di sostituire i prodotti non più importati con prodotti nazionali) e politicamente con un duro giudizio negativo su queste sanzioni. E, a imperituro ricordo di questo, in ogni comune d'Italia fu murata una lapide che ricordava l'evento. A Monzone la lapide venne murata in cima al monte San Giorgio, che si trova all'incirca a sud del paese, sopra la frazione di Aiola. Dopo che la guerra fu vinta e l'impero conquistato, (la proclamazione solenne avvenne, con il discorso di Mussolini, il 9 maggio 1936), si prese l'abitudine di salire, ogni nove maggio, sul San Giorgio per festeggiare, presso la lapide, la fausta ricorrenza.

Se non ricordo male la prima volta fu il 9 maggio 1937. Ricordo che se ne parlava da giorni ed io ero molto eccitato all'idea. Quando venne il giorno stabilito io fui in piedi per tempo e mi vestii con la divisa di "figlio della Lupa". Poi, mentre attendevo che anche mamma e papà fossero pronti (Guido era con i suoi amici), stavo nel piazzale davanti alla bottega e, nel vedere la gente che si avviava, e che passava, quasi un corteo, lungo la strada, fui preso da un forte orgasmo (mi accadeva spesso) perchè temevo di far tardi, e stavo male perchè avvertivo come delle contrazioni nel basso ventre. Per fortuna alla fine partimmo anche noi e ci immettemmo nel "corteo". Salimmo fino ad Aiola e, poi, ancora sù lungo la mulattiera che porta al monte.

 C'era moltissima gente e c'era molta allegria. Io ero felice e mi sentivo molto in forma. Non avvertivo stanchezza e, mentre la gente percorreva la mulattiera seguendone gli ampi tornanti, io abbreviavo il percorso tagliando per la selva e, poi, attendevo gli altri.

 Giungemmo, infine, ai ruderi del vecchio convento che si trovano vicino alla cima e, qui, facemmo delle foto. Ho avuto la fortuna, dopo la guerra, di ritrovare una foto che mi ritrae insieme al Bertino e ad altri in mezzo a quei ruderi. Infine fummo sul culmine dove, su una parete di roccia, era murata la lapide. Di fronte ad essa c'era un ampio spiazzo erboso e, qui, facemmo un gigantesco pic-nic con tanta tanta allegria. Mi pare che i grandi ballarono anche, al suono, forse, di un grammofono portato fin lassù.

 Anche l'anno successivo tornammo a San Giorgio. Quella volta non ero in divisa. E fu la solita gradevolissima scampagnata con moltissima gente. In effetti c'era, mi pare, un breve discorso ufficiale, ma la cerimonia si riduceva a quello. Anche di questa volta ho ritrovato una foto di gruppo ai margini della quale compaio anch'io. Ho sempre serbato un grato ricordo di queste gite, ed ho sempre desiderato

tornare su quel monte. Purtroppo fino ad oggi (29.4.96) non ho trovato il modo di farlo. Ma non dispero ancora.

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                      2 - INVESTITO DA UNA BICICLETTA

 

Quella volta dovevo avere meno di sei anni, ma già uscivo di casa da solo perchè il Riolo, dal passaggio a livello fino al Ponte, era una strada frequentata al massimo da qualche raro barroccio e qualche bicicletta. Era un vero e proprio avvenimento se, ogni tanto, capitava una automobile o un camion. E, comunque, c'era la nonna che mi teneva d'occhio quasi di continuo. Così cominciavo a uscire e a stare con gli altri ragazzi, nella strada o nella selva delle Angelini, lì vicina.

 Quel giorno stavamo giocando, forse a rimpiattino, nella strada. A un certo momento io mi trovavo proprio al passaggio a livello, in mezzo alla strada. All'improvviso sbucò dalla curva una bicicletta che scendeva dal Riolo con una certa velocità. Era il Renato Martinelli, figlio del casellante che abitava proprio nel casello vicino al passaggio a livello. Era un ragazzo di diversi anni più grande di me, ma che, comunque, conoscevo bene (come conoscevo sua sorella Adriana, bella ragazza che morì in tempo di guerra per un bombardamento. Suo padre, che era stato poi trasferito a Castelnuovo, lo rividi durante un mitragliamento aereo che subii a Fornaci di Barga e che racconterò a suo tempo). Ma torniamo alla bicicletta che spuntava dalla curva.

 Io, anche per le continue raccomandazioni della nonna che, con lo scopo di rendermi guardingo, mi prospettava in termini drammatici le varie disgrazie che avrebbero potuto accadermi, ritenevo una cosa grave e drammatica l'investimento, anche da parte di una bicicletta.

 Così, nel trovarmi proprio di fronte a una eventualità del genere, rimasi paralizzato dal terrore e non balzai da parte, come forse avrei potuto. E venni investito in pieno e gettato a terra. Poichè poi risultò che non mi ero fatto nulla, ritengo che fosse ancora la paura a tenermi steso a terra, quasi fossi tramortito. Fatto sta che, mentre una miriade di ragazzi si fece intorno per vedere l'investito, qualcuno mi prese in braccio e mi portò a casa, forse anche preoccupato per il mio mutismo e per i miei occhi sbarrati. Una volta a casa, la mamma, che dovette rendersi conto che non avevo nessun male, mi prese in braccio e, sedutasi in una poltrona del salottino, prese a consolarmi e a coccolarmi. A quel punto il mio terrore si sciolse in un gran pianto ed io rimasi in braccio alla mamma, col viso affondato nel suo seno, ad occhi chiusi, a godermi il tepore del suo abbraccio e delle sue coccole. Poi mi calmai, smisi di piangere e sollevai il capo. Con immenso stupore vidi allora che, tutto intorno alle pareti del salottino, seduti per terra, stavano tutti i ragazzi che avevano assistito all'incidente, forse una quindicina, e che mi avevano seguito fino in casa ed erano rimasti lì, convinti che mi fossi fatto qualcosa di grave, tutti seri e silenziosi, ad ascoltare il mio pianto disperato. Fu solo quando videro che non avevo nulla, e questo fu chiaro dopo che mi alzai e, forse, sorrisi, che ripresero a sorridere e a parlare.

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                            3 - BRUCIA IL CAMINO

 

 

 

Come ho già detto descrivendo la cucina, noi avevamo un bello ed ampio camino, nel quale, in inverno, facevamo dei magnifici fuochi. Ho dei ricordi molto piacevoli delle serate passate tutti insieme davanti al camino. Mio padre passava tutte le sere in casa con noi ed io, che non lo vedevo per tutto il giorno, me lo godevo proprio tanto. In genere stavo in braccio a lui, a cavalcioni sulle sue ginocchia, e mi facevo raccontare i mille episodi della sua vita, specie della sua fanciullezza in Italia, in Francia e in America del Nord. Ma giocavo anche con il suo viso, tirandogli il naso o le orecchie, insomma strapazzandolo ben bene. La mamma ogni tanto brontolava, perchè diceva che facevo stancare papà, ma lui mi teneva volentieri e, così, finivo quasi sempre per rimanere sulle sue ginocchia. Ma il babbo conversava piacevolmente con tutti, ed io amavo anche seguire la conversazione dei grandi. Specie quando, parlando con la mamma o la nonna, rievocava episodi del Camporgiano del passato o personaggi caratteristici. Ma anche quando parlava con Guido di storia (che era la grande passione del babbo, che ne aveva una buonissima conoscenza) o quando Guido leggeva ad alta voce delle poesie. Ne ricordo una in particolare : "Faida di comune" di Carducci, ma anche "Davanti a San Guido", sempre di Carducci (autore molto apprezzato in casa nostra). A volte, poi, accadeva che era a casa nostra qualche ospite, e anche questo mi piaceva, perchè arricchiva la conversazione che io, molto curioso, cercavo di seguire. E mi piaceva, anche se, in tali occasioni, dovevo scendere dalle ginocchia del babbo. Allora mi rannicchiavo, di solito, sulla vasta cassapanca che i miei, in una certa epoca, avevano fatto costruire e che stava proprio davanti al camino. Spesso era nostra ospite la suora dell'Ospedaletto (quando qualcuno doveva fare una cura di iniezioni, era lei che le faceva). Agli ospiti, offrivamo il caffè, ma quando sopraggiunse la guerra e il caffè non si trovava più, offrivamo ancora il "caffè" fatto di orzo o di surrogato.

Anche in luogo del tè, si faceva il "Carcadè", altro surrogato. Altri ospiti erano, in genere, uomini che avevano bisogno di parlare con mio padre e che, poi, finivano per passare la serata con noi. Una sera, mi pare che non avessimo ospiti, sul fuoco venne messa troppa legna secca e minuta, che sviluppò una gran fiammata rumoreggiando forte. Ovviamente la fiammata durò poco, perchè, appena consumate le legne minute, il fuoco tornò a dimensioni normali. Ma il rumore, come un boato continuato, continuò a scendere dal camino, dal quale, inoltre, cominciarono a cadere grossi pezzi di caligine accesi. Fu subito chiaro che "aveva preso fuoco il camino". Si era, cioè, incendiata la caligine abbondantissima (il camino non era mai stato pulito) accumulatasi all'interno della canna fumaria. Subito i miei si preoccuparono, ma non sapevano bene cosa fare. Mi pare che mio padre provasse, con un lungo bastone, a fare cadere la caligine accesa, ma la cosa risultò subito non risolutiva, anche perchè la canna fumaria era molto più lunga del bastone. Il rumore fortissimo del fuoco, la agitazione e la preoccupazione dei grandi (si temeva che potesse incendiarsi un trave in soffitta) cominciarono a rendermi inquieto e spaventato. Uscimmo all'aperto e, dall'esterno, vedemmo il nostro comignolo che vomitava fiamme, illuminando tutto il Riolo. Intanto molte altre persone del vicinato erano fuori a guardare lo spettacolo.

 Fra questi il Dario, un nostro vicino che era anche cacciatore.

 Questi propose di sparare una fucilata su per il camino, al fine di far cadere la caligine accesa. L'idea fu accettata, anche perchè non ce n'erano di migliori. Così Dario prese il fucile e venne a casa nostra. Entrato in cucina, caricò il fucile con una cartuccia a pallini e, fattosi sotto la cappa del camino, sparò una fucilata su per la canna fumaria, mentre noi, qualche passo indietro, ci turavamo le orecchie. Molta caligine cadde, ma il fuoco non si spense ancora.

 Ed io ero sempre più eccitato ma anche spaventato. A un certo punto salimmo al piano di sopra per controllare la camera della nonna dove, all'interno di un muro, passava la canna fumaria. L'agitazione e la preoccupazione andarono alle stelle quando, entrando in quella camera, la trovammo piena di fumo. Il calore, infatti, aveva aperto delle crepe nell'intonaco, lasciando uscire il fumo. Mio padre si avvicinò per osservare meglio, e noi con lui, così vedemmo che le crepe erano abbastanza larghe da lasciar vedere le fiamme. Mio padre, allora, prese una brocca piena d'acqua e cercò di versare acqua all'interno della canna fumaria attraverso quelle crepe. Intanto il tempo era passato e le fiamme avevano divorato tutta la caligine. Così, alla fine, il fuoco si spense. Rimaneva la preoccupazione che in soffitto il fuoco potesse aver bruciato un trave. Così il babbo si procurò una scala e, dal terrazzo che era fuori dalla camera di Guido, raggiunse un alto finestrino che era l'unica via di accesso al soffitto. Entrò e, con l'aiuto di una lampadina tascabile, controllò il trave che era vicino alla canna fumaria. Il trave era ancora caldo ma non aveva subito danni. Allora la tensione si sciolse e, dopo aver areato la camera della nonna, finalmente ce ne andammo a dormire piuttosto infreddoliti. Nei giorni seguenti ebbi molto da raccontare ai miei amici, che volevano conoscere tutti i particolari dell'avvenimento.

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                     4 - GLI ORECCHIONI E LA TOSSE CANINA

 

 

Fra le malattie dell'infanzia praticamente inevitabili al tempo della mia fanciullezza, c'erano, sicuramente la parotite e la pertosse.

C'era nella gente un totale fatalismo rispetto a queste malattie e si riteneva, con qualche ragione, che i bambini quanto prima le facevano e meglio era. Ogni anno, così, od ogni pochi anni, si aveva una bella epidemia e i bambini fra i tre e i sette,otto anni si ammalavano tutti o quasi. Quelli più piccoli stavano ancora molto poco con gli altri bambini e, normalmente, sfuggivano al contagio. Anche le famiglie mettevano una certa cura nell'evitare che si ammalassero, perchè si riteneva che, prima dei tre anni, quelle malattie, specie la pertosse, potessero essere pericolose. Come, in effetti, è.

 E così anch'io, verso i quattro o cinque anni, mi presi la mia brava "tosse canina" (così chiamavamo la pertosse). Era una cosa molto fastidiosa, perchè generava degli accessi di tosse forte e profonda, che duravano anche molti minuti e che, spesso, provocavano il vomito. Ricordo che spesso, quando ero fuori a giocare con gli amici, mi prendeva una di queste crisi, e c'era sempre qualcun altro che la prendeva contemporaneamente, e, allora, ci si appoggiava con gli avambracci al muro di una casa (ricordo particolarmente la casa del "Giannon", che era dall'altra parte della strada), si appoggiava la fronte sulle braccia e si cominciava a tossire di buona lena, emettendo quel suono caratteristico, simile al tossire di un cane o al ragliare di un asino (da cui tosse canina o asinina). Non era affatto piacevole, perchè talvolta pareva di non poter tirare il fiato, tuttavia si sopportava stoicamente e senza lamentarsi. E nessuno se ne prendeva una cura particolare. Anzi, accadeva talvolta che gli adulti ridessero di quello spettacolo, quando quattro o cinque ragazzini tossivano tutti insieme rumoreggiando al modo che ho detto. E, addirittura, i proprietari delle case si indispettivano e brontolavano quando sui loro marciapiedi rimanevano vomiti e catarri. Non ricordo quanto tempo durò la cosa, sicuramente alcuni mesi. Questa era la regola.

 Gli orecchioni (parotite), invece, li ho fatti più tardi, credo verso gli otto anni. Non ho molti ricordi, tuttavia. Ricordo solo che dovevo stare in casa e, quindi, mi annoiavo mortalmente. In quel tempo venne a casa nostra per alcuni giorni la mia cugina Anna, forse proprio per farmi compagnia. Avendo un anno di più, probabilmente lei li aveva già avuti. Con lei giocavo, sempre rimanendo in casa, a bottegai, usando la bilancia vera della nostra vera bottega (quando non c'erano clienti) e, forse, anche ad altri giochi. Ma ero scorbutico e indisponente, forse a causa del malessere che mi generava la malattia, e Anna se ne lamentava, dicendo che ero cattivo e che lei non mi aveva fatto nulla di male. Ricordo, in particolare, una volta che questo accadeva mentre eravamo fuori (forse era una bella giornata ed io, con un fazzolettone che mi copriva le orecchie, avevo avuto il permesso di uscire), al principio dell'orto, vicino alla murella della ferrovia.

Quella volta ero particolarmente sgarbato e villano ed ella, che era una brava bambina, cercava di difendersi e di cercare di mostrarmi quanto fosse ingiustificato il mio comportamento. E, in effetti, io lo capivo, e, in seguito, ho spesso provato rimorso per quelle mie cattiverie. Ma allora ero "noioso" e non riuscivo a comportarmi meglio. E la povera Anna diventava la vittima del mio nervosismo.

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                             5 - LA BICICLETTA

 

 

Ricordo vagamente di aver posseduto un triciclo verso i tre-quattro anni, ma non deve avermi dato grandi soddisfazioni giacchè non ho nessun ricordo particolare legato ad esso. La bicicletta, invece, ha avuto una importantissima parte nell'incrementare la mia sicurezza e la fiducia in me stesso. Dopo che mio fratello Guido superò brillantemente l'esame di quinta ginnasio, mio padre andò a Equi Terme e comperò una bella bicicletta nuova da un negoziante del luogo e gliene fece dono. Il fatto è, credo valga la pena di ricordarlo, che Guido, dopo aver fatto la quarta elementare, aspettò due anni prima che a Monzone venisse istituita anche la quinta. Così entrò in collegio a Soliera per fare il ginnasio con due anni di ritardo. Ma a

scuola era molto bravo e superò senza problemi le prime tre classi del ginnasio inferiore. In quarta ginnasio, poi, fu così brillante che anche i suoi insegnanti lo incoraggiarono nel suo progetto di preparare nell'estate e di sostenere ad ottobre dello stesso anno l'esame di quinta ginnasio. Così studiò sodo e ad ottobre si presentò all'esame a Carrara ben preparato. E fu promosso. Aveva, così, recuperato un anno. Meritava, quindi, il regalo della bicicletta. Credo che nei primi tempi Guido sarà stato geloso della sua bicicletta ed io non avrò aviuto il permesso di toccarla. D'altra parte, doveva essere il 1937, io ero ancora troppo piccolo per quella grande e pesante bicicletta (non ricordo la marca ma credo fosse una Velox). Più tardi, però, forse l'anno dopo, stante anche il fatto che Guido andava a scuola a La Spezia (frequentava il liceo classico) e, quindi,era fuori tutto il giorno, cominciai a ronzarle intorno, diventando essa di giorno in giorno una tentazione sempre più forte. Nè era un impedimento il fatto che, essendo la bicicletta alta, io non arrivavo ancora ai pedali. Infatti altri ragazzi con il mio stesso problema avevano imparato a tenersi in precario equilibrio pedalando "sotto canna". Essi, cioè, infilavano una gamba sotto il tubo orizzontale che nelle biciclette da uomo va dal sellino al manubrio (all'incirca) e raggiungevano, così, l'altro pedale. In verità era un modo faticoso e abbastanza buffo di andare in bicicletta, poichè il suddetto tubo o canna andava a premere contro il fianco, costringendo a tenere la bicicletta inclinata da una parte mentre il corpo tendeva ad inclinarsi dalla parte opposta per controbilanciare l'inclinazione della bici e rimanere, così, in equilibrio. Così, piano piano, forse anche un po' di nascosto, cominciai a portare la bicicletta nel piazzale davanti alla bottega e, lì, cominciai a provare e riprovare.

 Finchè imparai a tenere l'equilibrio e a procedere abbastanza disinvoltamente, ovviamente "sotto canna". Fu una conquista importante. Ora "sapevo andare in bicicletta" e, questo, mi dava molta sicurezza e faceva sì che io fossi fiero di me stesso. Cominciai ad avventurarmi anche fuori dal piazzale e, dopo poco, andavo da cima a fondo del paese, anche se il Riolo, cioè la zona più prossima, era la più frequentata. Ma l'aspirazione era quella di imparare ad andare anche "sopra canna". Così, frequentemente, portavo la bicicletta sul marciapiede fra la casa e la murella e, qui, sostenendomi con le mani al muro o alla murella, salivo "sopra canna" e misuravo quanto ancora mi mancava per arrivare ai pedali. Finchè, credo fosse nel 1939 o, addirittura, nel 1940, le gambe erano cresciute abbastanza da arrivare ai pedali. Non stando seduto sul sellino, però, bensì stando seduto sulla "canna", dove si stava scomodissimi e si finiva con l'avere il sedere ammaccato e dolorante. Era, comunque, tempo di imparare ad andare "sopra canna", ed io cominciai a provare con impegno. Faceva un po' paura stare seduti così in alto, non avendo le gambe abbastanza lunghe per poggiare un piede a terra in caso di bisogno, così mi occorse un po' di tempo. Finchè un giorno, dopo essere salito in groppa alla mia bici che avevo avvicinato a un muretto basso su cui potevo poggiare un piede, mi feci coraggio e, per la prima volta, partii "sopra canna". Fu esaltante. Arrivai fino alla Mancina dove, senza scendere, mi rigirai e salii fino in cima al Riolo. Anche qui, senza scendere, curvai fino a rigirarmi e riscesi fino alla Mancina.

E così per un numero esagerato di volte. Il fatto è che non sapevo come fare a scendere, perchè la bicicletta era alta e avevo paura di cadere. Ma, alla fine, la stanchezza fu tale che dovetti fermarmi per forza. Rallentai piano piano fino a fermarmi, e lasciai che la bicicletta si piegasse finchè il mio piede non toccò terra. La cosa avvenne senza incidenti, per cui, rassicurato, mi gustai anche questo successo. Sapevo andare in bicicletta anche "sopra canna". Ero grande ed abile. La fiducia in me stesso crebbe a dismisura. Da allora in poi i miei progressi furono rapidissimi. Imparai presto a partire senza l'aiuto del muretto. Mettevo il piede destro sul pedale stando dalla parte destra della bicicletta, poi mi davo una spinta e, mentre la bicicletta già andava, sollevavo la gamba sinistra fino a scavalcare il sellino e mi issavo a bordo, così come facevano i grandi. Dopo poco la mia sicurezza fu tale, che andavo anche fino a Gragnola o fino a Equi. E, da allora in poi, la bicicletta è stata una presenza quasi quotidiana nella mia vita. Ed anche una buona occasione di fare sport. Tanto che ne ebbi un ottimo sviluppo dei muscoli delle gambe. A Gragnola andavo alla farmacia a comperare le "pasticche di potassa" con le quali facevamo i "colpi". Si faceva così : si prendeva una pasticca (ma, in genere, se ne usava mezza) e la si triturava schiacciandola fra due piastre di marmo. A questa polvere si aggiungeva un pizzico di zolfo, ricavandone una miscela esplosiva. Quindi si sovrapponevano le due piastrelle di marmo lasciando in mezzo la miscela. Infine si saliva col tacco sinistro sulle piastrelle e, col tacco destro, si dava un forte calcio alla piastrella superiore. Il brusco attrito che si produceva faceva esplodere la miscela con un colpo secco e forte pari allo sparo di una pistola. Qualcuno, poi, aumentava la dose e, allora, il colpo era anche più forte. Si avvertiva, però, nel piede che stava sopra la piastra, un urto che, talvolta, rendeva dolorante il piede. In qualche caso, poi, si decideva di fare una super-esplosione. Allora ogni ragazzo contribuiva con una o più pasticche, finchè non se ne cumulavano fino a venti o più. Quindi si preparava la miscela e si disponevano le piastre. A quel punto, per farla esplodere, non si poteva certo usare il tacco.

Allora si andava all'interno di una chiesa in costruzione (c'erano soltanto i muri tirati sù, poi la costruzione s'era interrotta) e si sistemavano le piastre in un angolo. Poi si saliva sul muro, che era facilmente accessibile per un mucchio di terra alto quanto il muro stesso, e, da lassù, si lasciava cadere una grossa pietra sopra la piastra preparata. Quando tutto funzionava si otteneva una esplosione molto forte. Ma era una cosa molto imprudente, perchè schizzavano intorno schegge di pietra che avrebbero potuto ferire qualcuno. Per fortuna non accadde mai nulla di male. Giacchè ho parlato di questa chiesa (che è l'attuale chiesa di Monzone basso), voglio ricordare un altro gioco che vi si faceva. Si saliva sul muro e ci si portava in un punto dal quale si poteva saltare su un mucchio di terra che si trovava un paio di metri o tre distante e due metri buoni più in basso. Questo "salto in basso" era considerato una notevole prova di coraggio che non tutti riuscivano a superare. La nonna Mariù, fra l'altro, avendo saputo di questo sport, mi scongiurava di non farlo, perchè, diceva lei, "vi potrebbe venire l'ernia" (curiosamente la nonna Mariù mi dava del voi, mentre io le davo normalmente del tu. Era una vecchia abitudine quella di dare del voi ai bambini). Tuttavia io volli tentare la prova e lo feci più volte, guadagnandomi l'ammirazione anche di ragazzi più grandi. Il che, ovviamente, mi gratificava assai.

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                                   6 - I VERMI

 

Quando io ero bambino la presenza di ascaridi (che noi chiamavamo semplicemente "i vermi") nell'intestino di noi ragazzi era un problema largamente diffuso. Si diceva fosse determinato dal fatto che, nel gioco, avevamo sempre le mani nella terra, e le mani stesse non venivano adeguatamente lavate quando, poi, si mangiava, specie a merenda, allorchè si correva frettolosamente in casa, si arraffava un pezzo di pane (il più delle volte condito con olio e sale) e poi via di nuovo fuori a mangiarselo con le mani ancora sporche di terra.

 Il fatto sta, comunque, che più volte è accaduto anche a me di "avere i vermi". La cosa era molto sgradevole e faceva paura. Si narrava, infatti, forse per spaventarci, di bimbi cui i vermi erano saliti fino alla gola e li avevano soffocati. In genere i genitori si accorgevano che "avevamo i vermi", perchè si deperiva, si diventava palliducci e smunti. Ma anche a seguito di fatti improvvisi inconsueti. Come quando a me accadde di avere un episodio di sonnambulismo. Di notte mi alzai in piedi sul letto, ad occhi aperti, dicendo delle cose, senza esserne minimamente cosciente. La cosa non mi era mai accaduta (nè mi è più accaduta in seguito) per cui la mamma rimase alquanto impressionata e decretò : "Mario ha i vermi". Ed era, probabilmente vero. Così, ogni tanto, bisognava prendere la medicina per i vermi. Era piuttosto disgustosa, per cui si cercava di renderla bevibile aggiungendo del rosolio. Ma senza molto successo, se ricordo bene. Per me era una cosa molto spiacevole prenderla, sia per il suo orribile sapore ma anche perchè, dopo, bisognava pur andare di corpo e "fare i vermi". E la cosa mi spaventava. L'idea di avere dei vermi, spesso lunghi una ventina di centimetri, a contatto del mio corpo mi faceva inorridire.

 Una volta, avrò avuto sei o sette anni, ebbi necessità di andare al gabinetto e andai in quello a pian terreno, subito fuori dalla porta del salottino. Ero tranquillo perchè nessun segnale aveva fatto sospettare che "avessi i vermi". Così cominciai tranquillamente a "fare la cacca". Ma a un tratto mi resi conto che "la cacca" non si staccava dal mio ano e non cadeva nel gabinetto come avrebbe dovuto.

E, questo, malgrado mi sforzassi di farlo accadere. Allora chinai la testa e guardai. Quello che vidi mi riempì letteralmente di orrore. Tre enormi ascaridi intrecciati fra loro penzolavano sotto di me, ed erano ben vivi giacchè si stavano muovendo. Cominciai a urlare come se mi sgozzassero, e a chiamare la mamma disperatamente. E la mamma, spaventatissima, arrivò subito chiedendomi cosa ci fosse. Io, sempre più terrorizzato glielo dissi, e mi tendevo come per allontanarmi da quella cosa orrenda... La mamma, allora, cercò di tranquillizzarmi e mi disse che ci avrebbe pensato lei. E , infatti, prese un foglio di carta, con quello afferrò i tre vermi e tirò finchè li estrasse dal mio intestino (ebbi la sgradevole sensazione che qualcuno frugasse nelle mie budelle). A quel punto tirai il fiato e, dopo essermi pulito, mi allontanai da quei tre enormi vermi che, finalmente, sparirono nel water. Ma rimasi a lungo scosso da quell'avventura. E quella volta credo che avrò preso la "medicina per i vermi" senza protestare, pur di liberarmi da quell'ingombrante presenza.

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                            7 - LE DOMESTICHE

 

Da quando posso ricordare, in casa nostra c'è sempre stata una donna che aiutava la mamma nelle faccende di casa. Era necessaria, sia perchè la mamma era impegnata con la bottega, sia perchè la casa era grande, sia perchè non avevamo l'acqua in casa (a quell'epoca non c'era un acquedotto pubblico capace di fornire acqua anche alle abitazioni, per cui nessuno la aveva, salvo chi possedeva una sorgente e poteva farsi un acquedotto privato). Questa domestica, infatti, era impegnata nel trasporto di acqua dalla fontana a casa, trasporto che veniva effettuato per mezzo della "secchia", grande recipiente di rame senza manici, che veniva trasportato in equilibrio sulla testa, appoggiato sopra il "coroiolo", che era una ciambella fatta con un pezzo di stoffa arrotolato, ovvero per mezzo delle "paioline" o secchi di lamiera zingata. Sulla grande scaffa che stava a destra dell'acquaio , formata fa una grande lastra di marmo c'erano sempre la secchia e due paioline piene d'acqua. Immersa nell'acqua della secchia stava sempre la "ramaiola", grande mestolo di rame lucido col quale si attingeva l'acqua per i vari usi. In genere chi aveva sete beveva direttamente dalla ramaiola. Questo rifornimento d'acqua veniva sempre mantenuto costante, e, questo, comportava per la domestica diversi viaggi al giorno alla fontana. La fontana più vicina, alla quale noi attingevamo, era vicina al fiume, sotto il ponte della Mancina, e vi si accedeva per un viottolo ripido che, appena dopo il passaggio a livello, scendeva verso il fiume. Oltre a ciò la domestica puliva la casa e si occupava del bucato. La grande conca del bucato era in cantina e il bucato si faceva così : dopo aver sistemato i panni nella conca, questi venivano coperti con un grande telo che sporgeva fuori dalla conca stessa. Sopra quel telo veniva versato un grosso quantitativo di cenere, che veniva opportunamente sparsa e livellata.

A questo punto venivano messi a bollire sul fuoco del camino dei grandi "laveggi" di bronzo pieni d'acqua. Quando l'acqua era al bollore, il laveggio veniva portato in cantina e l'acqua bollente versata sulla cenere. L'acqua, filtrando attraverso la cenere, il telo e i panni da lavare, usciva, poi, da un foro situato vicino al fondo della conca, e finiva in un recipiente collocato sotto. Questa acqua, chiamata "lisciva", veniva poi riscaldata di nuovo e ancora versata sulla cenere....e così via per diverse ore. Ed era questa lisciva che aveva un potere pulente che sbiancava i panni. Alla fine i panni stessi dovevano essere risciacquati in acqua corrente, per cui era la domestica che, messili in una vaschetta di lamiera zingata, li portava alla "gora" dove erano sempre molte donne che lavavano e risciacquavano i panni nella limpida acqua proveniente dal fiume di Vinca. Mi pare che i compiti della domestica fossero tutti qui. Da mangiare, infatti, ne facevano la nonna Mariù e la mamma. Le domestiche che si sono succedute in casa nostra io le ho sempre percepite come persone di famiglia. Infatti mangiavano alla nostra tavola, quando era freddo si scaldavano con noi al caminetto, partecipando alla nostra conversazione e, insomma, vivevano la nostra stessa vita. Non dormivano, però, da noi, poichè erano del posto e, la sera, dopo aver lavato i piatti (mi pare che anche questo fosse loro compito. Ma forse non sempre), rientravano a casa loro. Ricordo che la prima domestica che abbiamo avuto, fin da quando abitavamo al “Ponte”, si chiamava Marietta (Guido, però mi dice che prima di lei c’era stata una certa Cristina che io non ricordo). Ricordo che essa, prima di andarsene, riceveva dalla mamma, quasi tutte le sere, del cibo che non avevamo consumato, e manifestava una infinita riconoscenza. Erano, infatti, anni difficili e quel cibo contribuiva a nutrire i suoi familiari, specie i suoi nipotini, che erano in difficoltà economiche.

Ricordo che era particolarmente felice quando riceveva dei grossi pezzi di carne bollita (la mamma faceva spesso il brodo, ma il lesso era poco amato e ne mangiavamo poco). La carne di bovino, infatti, era certamente fuori dalla portata delle loro tasche. Questa Marietta era una donna anziana, che viveva col figlio Treviglio (vecchio fascista amico del babbo), la moglie di lui che si chiamava pure Marietta, e i nipoti Nevio, Cesare, Nella e Maria. Nevio era il più grande e lo conoscevo poco, perchè è stato qualche anno in un collegio di frati.

Cesare aveva diversi anni più di me, ma spesso giocava con me e la sua compagnia mi era gradita. Nella aveva, se ricordo bene, tre anni più di me e ho giocato spesso anche con lei. Ma non mi divertivo troppo.

La stessa cosa devo dire per la Maria, che doveva avere la mia età o poco meno. Talvolta questi ragazzi venivano a casa nostra, ma a volte ero io che andavo a trovarli a casa loro. La loro casa mi incuriosiva, soprattutto la cucina i cui muri, non essendo stati evidentemente mai imbiancati, avevano assunto, per il fumo, quello stesso colore nero lucido che assumono gli interni dei caminetti. E sovente, in un'aia che era lì davanti, mi sono divertito molto con Cesarino. Ma un giorno accadde una cosa che mi turbò molto. Ero andato, come altre volte, a cercare Cesarino, e lo vidi in cima alla breve scala che dava accesso alla sua casa. Mi avvicinai festosamente, ma Cesarino, alzando il braccio coll'indice teso, con viso serio e voce rude mi disse : - Vai via da casa mia ! - Io pensai che scherzasse e continuai ad avvicinarmi sorridendo, ma lui non mutò atteggiamento e mi ripetè di andarmene. Allora rimasi interdetto, senza capire, mentre la mamma di Cesarino gli diceva di non fare così. Ma lui rimase serio e duro e mi disse che, come io avevo mandato via da casa sua la sorella, lui mandava via me da casa sua. E mi ripetè di andarmene. E a me non rimase altro che girarmi e tornarmene a casa avvilito e con un nodo in gola. In effetti era accaduto che, qualche giorno avanti, io avevo mandato via la Maria, perchè con lei non mi divertivo e anche perchè era un po' sporca. E lei, probabilmente, c'era rimasta molto male e lo aveva raccontato ai suoi. Ora mi rendevo conto di essermi comportato male con lei, e capivo il comportamento di Cesarino. Diciamo che fu una lezione che mi fece bene. Purtroppo, però, i miei rapporti con Cesarino non furono più come prima ed io non andai più da lui.

 Un'altra volta, doveva essere il 1935, mio padre dovette andare all'ospedale di Pontremoli ad operarsi di emorroidi (da anni ne soffriva, ma ormai la sofferenza che gli procuravano era insopportabile. Ricordo di averlo visto piangere dal dolore) e la mamma lo accompagnò. Allora, per farmi compagnia la notte, fecero venire la Nella a dormire con me. La cosa non mi dispiacque. Dormivamo entrambi nel letto grande e la cosa mi piaceva. Però accaddero due cose spiacevoli. Una notte io stetti male, mi venne una forte diarrea e sporcai il letto, cosa che mi fece vergognare molto. L'altra cosa spiacevole fu che la Nella, che aveva una gran testa di capelli neri e ricciuti, era piena di pidocchi e quando tornarono mamma e papà dovettero constatare con dispiacere che anche la mia testa, ora, pullulava di quei non graditi ospiti. E ci vollero le attente cure della mamma per eliminarli.

 Ma la Marietta era vecchia, per cui cominciò a farsi sostituire ogni tanto dalla sua nuora, che lei chiamava "la me nora", per cui anche noi la chiamavamo "Nora", anche per distinguerla dall'altra, chiamandosi entrambe "Marietta". Finchè la "Nora" la sostituì definitivamente. Di questa Nora non ho molti ricordi. Essa era più seria e meno loquace della Marietta, ed a me non piaceva molto. Di lei ricordo, però, un episodio curioso. Era accaduto che la nostra gatta (credo di aver già detto che faceva i gattini due volte l'anno) quella volta, dopo il parto (aveva partorito in bottega dietro il banco, in un cartone con un po' di paglia) non si riprese e, dopo poco, morì. La cosa fece un gran dispiacere a tutti noi, Nora compresa. Naturalmente morirono anche i tre o quattro gattini appena nati, essendo venuti a mancare loro il latte e il calore della madre. E, comunque, bisognava disfarsi degli sfortunati gatti. Così fu dato incarico alla Nora di portare tutto nel fiume. Ed essa si caricò l'intero scatolone sulla testa e si avviò, mentre la mamma ed io davamo l'estremo saluto alla gatta guardando la Nora che la portava via. Ma la Nora aveva fatto appena pochi passi che incontrò una donna, la quale volle sapere cosa avesse nello scatolone, e lei glielo disse, e narrò il dramma della povera gatta morta di parto e dei gattini che non avevano potuto sopravvivere. La donna fu interessata e chiese altri particolari, poi volle vedere i poveri gatti morti, e la Marietta dovette abbassare lo scatolone e mostrare il contenuto. Alla fine potè rimettersi lo scatolone in capo e riprendere la via. Ma fece solo pochi passi, prima di incontrare un'altra donna che volle sapere.....e la scena di prima si ripetè. E poi si ripetè ancora e ancora, forse quattro o cinque volte, tanto che per fare i cento metri o poco più per arrivare al fiume impiegò più di mezz'ora. La cosa fu tanto buffa che ci fece ridere assai, attenuando così il dolore per la perdita della gatta.

Negli anni successivi molte volte la mamma ha ricordato questo fatto e ogni volta che lo narrava rideva ancora.

 E venne il tempo che anche la Nora ci lasciò per andare in pensione (Mio padre era uso pagare regolarmente i contributi previdenziali dovuti). Allora venne la Maria, una donna giovane e allegra, che mi piacque subito. Essa aveva appena sposato un giovane che lavorava a Pantelleria (mi pare fosse già iniziata la guerra o stesse per iniziare) e che insisteva affinchè ella lo raggiungesse. Ma lei aveva paura del viaggio, del mare e non so di cos'altro...e, insomma, non avrebbe voluto andare. Però voleva anche non dispiacere al marito, per cui viveva in una grande incertezza e ne parlava spesso. A quel tempo c'era una donna anziana che veniva da noi ogni sera a portarci il latte appena munto. Si chiamava Maribella ed era una donna aperta e loquace che amava trattenersi un po' a chiacchierare. E così anche con lei la Maria parlava del suo problema, dicendo che non sapeva cosa rispondere alle insistenze del marito. Allora la Maribella, che capiva le sue paure, volle consigliarla a tenere duro e a non andare, per cui le disse con fare deciso : - Te gli devi scriver : Positivo, non viengo ! -

 Cercando di dire la frase in corretto italiano, aveva detto "viengo", ritenendolo la forma corretta. Anche questo episodio, che abbiamo ricordato molte volte, ci fece ridere assai. Era sempre la mamma che, donna allegra e scanzonata a quell'epoca, con un forte senso dell'umorismo, faceva notare anche a noi il lato comico delle cose e, raccontandole la sera al babbo, ce le faceva apparire in tutta la loro comicità. Poi anche la Maria ci lasciò (forse andò davvero a Pantelleria) e avemmo la Daria, ragazza un po’ timida che rimase poco e, dopo, la Fosca, che aveva sposato un nostro vicino di casa, figlio del “Giannon”. Ma anche lei non rimase a lungo. Infine avemmo la Zavia. Era, anche questa, una giovane donna, cugina di Emanuele (il mio amico) un po' claudicante, ma gradevole di aspetto e di comportamento. Essa, poi, mi era già familiare poichè la vedevo spesso al "Mulin" (o Alla Gora) dove abitava, vicino alla casa di Emanuele. Ed anche con lei, che mi pare sia stata l'ultima delle nostre domestiche, mi trovavo bene. Dopo il trasferimento ad Aulla, non avendo più il negozio ed avendo una casa più piccola, la mamma, dopo che la Zavia ci aveva seguito ad Aulla ma, non trovandosi bene, se ne era ripartita dopo breve tempo, fece a meno della domestica.

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                        8 -  LA MURELLA DELLA FERROVIA

 

La nostra casa era vicinissima alla ferrovia. Infatti quando fu costruita la ferrovia, negli anni venti, una parte della casa dovette essere demolita per fargli posto. Cosi` quel che rimase della casa era proprio vicinissimo alla ferrovia. Praticamente da quel lato la casa aveva solo un marciapiedino largo un metro e, poi, c'era un muro alto forse un metro e venti che segnava il confine con la ferrovia. Era un bel muro di pietra che terminava, alla sommita`, con dei lastroni di arenaria ben squadrati larghi quanto il muro e, quindi, una quarantina di centimetri, lunghi sessanta o settanta e alti almeno dieci o do- dici. Era, quella, la "murella della ferrovia". Non so perche` ma quella murella esercitava un fascino particolare su tutti i ragazzi: era bello starci seduti a chiacchierare, starci a cavalcioni, con una gamba che penzolava verso la ferrovia e una che penzolava verso l'esterno.... Ma, soprattutto, era bello correrci sopra ed anche fare i salti. Saltare dalla murella nel piazzale della nostra casa era un esercizio piuttosto semplice. Piu` avanti, lungo la strada che scendeva verso il passaggio a livello era un po' piu` impegnativo, dato che la "murella" era un po' piu` alta. Ma l'esercizio veramente temerario era quello si saltare sulla massicciata della ferrovia, che si trovava a un livello di circa due metri piu` in basso.

Anch'io, verso gli otto o nove anni, cominciai a frequentare abbastanza assiduamente la murella, salendoci sopra e provando anche qualche salto. Qualche volta osai provare anche il salto piu` difficile, quello sulla massicciata della ferrovia, ma non lo feci spesso poiche` lo ritenevo un atto troppo temerario. In realta`, pero`, non mi era molto facile stare sulla murella, poiche` la mia nonna materna, nonna Mariu`, che era terrorizzata dall'idea che potessi cadere nella ferrovia, magari quando passava il treno, era vigile e, se mi vedeva sulla murella, cominciava a strillare come una disperata, con gli occhi fuori dalle orbite, le mani protese, il viso rosso finche` non mi aveva costretto a scendere. Per dir la verita` la nonna non aveva quasi nessuna autorita` su di me ed io avrei potuto benissimo ignorare le sue richieste di scendere, ma questo suo agitarsi chiassoso che richiamava l'attenzione di tutti mi metteva in imbarazzo al punto che le ubbidivo per farla tacere.

Una volta, dovevo avere sugli otto anni, mi trovai a non avere la nonna alle calcagna e, quindi, nelle condizioni di poter godere tranquillamente la murella. Ci salii sopra e cominciai a correre felice dal piazzale al passaggio a livello e poi indietro e poi di nuovo, e ancora, e ancora... Ero ebbro di liberta`. Questa ebbrezza, pero`, mi distrasse e dovetti commettere un errore, cioe` mettere un piede fuori dalla murella. E`, questa, un'ipotesi che faccio, perche` non mi resi affatto conto, allora, di cio`. Quello che provai fu una curiosissima sensazione : un attimo prima stavo correndo sulla murella e un attimo dopo sentii un forte colpo nella schiena e, davanti a me, vidi il...cielo. Dico deliberatamente "davanti" e non "sopra" perche` in quell'attimo non mi ero ancora accorto di aver cambiato posizione.

Un attimo dopo, pero`, mi resi perfettamente conto che ero sdraiato supino nella strada (per fortuna non ero caduto dalla parte della ferrovia), che il cielo era "sopra" di me e che la botta sulla schiena era quella che avevo ricevuto dal suolo cadendovi proprio con la schiena.

Mi prese il panico. Tutte le cose tragiche....testa sanguinante, ossa rotte, ricoveri in ospedale....che la nonna Mariu` mi prediceva di continuo, mi si affollarono alla mente. Temetti di essermi ferito seriamente, immaginai la gente che accorreva gridando, il medico, le cure dolorose, l'ospedale....e mi sgomentai. Ma fu un attimo. Intorno a me c'era un perfetto silenzio. Mi guardai intorno : nessuno.

 Questo mi tranquillizzo` un po', mi alzai senza fatica, ero un po' "rintronato" ma non sentivo grandi dolori. Comunque dovevo controllare. Allora, come sempre quando avevo qualche problema, mi diressi di corsa verso la fagiolaia che si trovava nell'orto, sul retro della casa e mi imboscai fra i fagioli. Qui, al riparo da occhi indiscreti, cominciai a far l'inventario dei danni subiti : la testa non mi doleva affatto. La toccai, mi guardai le mani e non vidi tracce di sangue. Le braccia e le gambe erano integre e funzionavano bene.

 La botta sulla schiena era stata appena un po' dolorosa li` per li`, ma ormai il dolore era passato. Tutto a posto dunque. Con le mani spazzolai un po' gli abiti che risultavano impolverati e, quindi, lasciai tranquillamente il mio rifugio fischiettando.

 

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                              9 - IL BERTINO FERITO

 

 

 

Quel giorno Bertino, Emanuele ed io avevamo deciso di giocare alla guerra. Emanuele, o meglio il Manuele, come lo chiamavamo noi, era di tre anni maggiore di noi, per cui saremmo stati Bertino ed io insieme contro di lui. In cantina avevamo materiali di tutti i tipi, per cui Bertino ed io costruimmo il nostro fortino sotto il tavolino di marmo del giardino. Con delle casse da imballaggio lo chiudemmo da tre lati e, sul davanti, collocammo due tubi da stufa che guardavano verso il nemico. Quelli erano i nostri cannoni. Il Manuele, invece, si accontentò di una fortificazione molto meno sofisticata. Prese una tavola, la mise ritta a una diecina di metri dal tavolino e la puntellò con un bastone. Quello fu il suo riparo. A questo punto entrammo nelle rispettive fortificazioni e demmo inizio alla battaglia. Bertino ed io, ben riparati sotto il tavolino, lanciavamo i sassolini del giardino attraverso i tubi da stufa, riuscendo a fatica a farli andare poco oltre il tubo stesso. Manuele, invece, aveva portato dietro il suo riparo una cassetta piena di cianfrusaglie e usava quelle come proiettili. Erano oggetti pesanti, di ferro o di altro materiale, che colpivano le nostre casse con grande fragore.

 Noi, però, stavamo al sicuro nel nostro fortino senza subire alcun danno. A un certo punto, però, Bertino, che era dietro di me, ebbe la malaugurata idea di sollevarsi oltre il piano del tavolino per dare un'occhiata. Purtroppo, proprio mentre i suoi occhi facevano capolino sopra il piano di marmo, arrivò un vecchio ferro da stiro che il Manuele aveva trovato insieme alle altre cianfrusaglie e aveva usato come proiettile. Il ferro cadde sul tavolo di marmo e continuò la sua corsa in scivolata fino a colpire, proprio con la punta, il povero Bertino fra l'occhio e il sopracciglio, provocandogli un bel taglio.

 Io udii il colpo del proiettile in arrivo e, subito dopo, udii le grida di Bertino. Subito uscii fuori e vidi con orrore il Bertino che con le mani si copriva il volto, mentre il sangue sgorgava copioso arrossandogli tutto il viso e le mani. Anche Manuele, avvicinatosi, guardava spaventato l'amico ferito. Intanto, attratte dalle grida di Bertino, erano accorse la mamma e la nonna. La mamma prese subito in braccio il ferito e, portatolo in casa, cercò di tamponargli alla meglio la ferita. Subito dopo giunse l'Ida, la mamma di Bertino e, forse, anche la nonna. Già la mamma si era resa conto che l'occhio non era rimasto offeso e lo disse alla Ida che, comunque, era piuttosto spaventata. Le raccontammo brevemente cosa era successo, dopo di che se ne andarono portando Bertino che, poi, fu medicato dal dottore che, se  non ricordo male, dovette anche dargli un paio di punti. Il Manuele, intanto, si era dileguato e, come poi sapemmo, era rimasto nascosto a lungo, fino a buio, facendo così preoccupare anche la buona Rosina, sua madre, perchè aveva paura di essere preso dai carabinieri.

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                           10 - I GIOCHI CON GUIDO

 

Dal 1934 (se non erro), fino al 1936 o ‘37, mio fratello Guido ha frequentato il Ginnasio nel collegio dei frati di Soliera. Così, durante l'anno scolastico, non lo vedevo quasi mai (solo raramente i miei genitori mi hanno portato a trovarlo. Quelle volte si andava con la vecchia auto del Massimo, unico autista di piazza). I miei rapporti con lui, però, sono sempre stati molto affettuosi. Lui, che ha dieci anni esatti più di me, mi ha sempre dedicato molto tempo, facendomi giocare in mille modi ed anche insegnandomi molte cose. Per via del negozio, in cantina avevamo sempre una grande quantità di cassette da imballaggio e Guido amava costruire, con quelle, una quantità di cose.

 Avevamo sempre, per esempio, una quantità di spade e pugnali fatti da lui con le tavolette delle cassette. Faceva la spade in modo che sembrassero gladi romani. Aveva molta ammirazione, infatti, per gli antichi romani. Al punto che mi costruiva dei soldatini di cartone, romani e barbari, coi quali, poi, rappresentava battaglie, spiegandomi tutto ciò che riguardava le armi e le macchine da guerra dei romani.

 Ma fra le grandi costruzioni di tavole che fece per farmi giocare, ne ricordo soprattutto tre : una torre, un dray o carro australiano e una nave. La torre fu costruita in cantina, vicino alla pila di pietra che era proprio davanti all'ingresso. Era una torre alta forse un paio di metri, sulla quale si saliva mediante una scaletta. La cima della torre era circondata da una specie di ringhiera, per non cadere. Io salivo sulla torre per avvistare nemici in arrivo facendo la sentinella. Anche il dray fu costruito in cantina. Guido aveva letto da poco, e mi aveva raccontato, "Il continente misterioso" di Emilio Salgari, e aveva ricostruito il carro come descritto nel libro. Era abbastanza grande e robusto da poterci salire tutti e due. Qui abbiamo rivissuto le storie del romanzo di Salgari, più e più volte, immaginando torme di australiani selvaggi che scendevano dalle cataste di legna della cantina, che, per noi, erano boschi e montagne. Una frase ricorrente, della quale ridevamo molto, era " Ecco gli australiani, che vengono giù come micci !". La nave, invece, fu costruita nel piazzaletto adiacente al giardino, sotto il terrazzo che proteggeva la porta di ingresso. Questa costruzione mi colpì particolarmente. Essa, alta circa un metro e lunga almeno due, aveva la forma a fuso delle barche, con una prora e una poppa a punta. Con una scaletta si poteva salire sul ponte, che ci reggeva bene tutti e due e che aveva un parapetto tutto intorno. Ma la cosa che trovavo meravigliosa era il boccaporto, che si apriva sul ponte e attraverso il quale si poteva scendere nella stiva, cioè sotto il ponte. Erano per me, queste costruzioni, dei giocattoloni fantastici, coi quali mi divertivo immensamente. Ma i giochi che facevamo insieme erano anche altri. Uno, in particolare, tanto ci era gradito quanto sgradito era ai "grandi" per il baccano che facevamo. Si trattava di questo : Guido mi assaliva camminando all'indietro e mi spintonava urtandomi col deretano. Chiamavamo, questo, "dare di culo". Allora io mi costruivo delle fortificazioni, accatastando le poltroncine del salottino e salendoci sopra come su un castello. Dopo di che invitavo Guido al combattimento gridando : "Dà di culo se sei bon, Vellon, Vellon !" E Guido, "dando di culo", le colpiva finchè franava tutto travolgendomi (erano di vimini, quindi leggerissime). Successivamente mi costruì uno strano attrezzo che chiamammo "paraculo". Era una specie di monopattino che si muoveva, spinto da me che potevo anche salirci sopra coi piedi, su quattro rotelline. Davanti, al posto del manubrio, aveva una specie di grande tenaglia di legno che io manovravo e con la quale dovevo cercare di afferrare mio fratello quando mi assaliva a... marcia indietro. Era molto divertente.

 Un altro gioco che facevo spesso quando dovevo rimanere in casa per il maltempo, era quello di scivolare con le sedie sul pavimento. Era, questa, la causa per cui le nostre sedie di cucina erano tutte come consumate sul retro. Questo gioco lo facevo da solo, ma spesso Guido mi guardava incuriosito e divertito dalla grande abilità che avevo acquisito. Funzionava così : Sdraiavo una sedia in modo che lo schienale appoggiasse sul pavimento. Quindi salivo coi piedi sopra lo schienale e afferravo con le mani il bastoncino poggiapiedi anteriore.

 A questo punto, fingendo che la sedia fosse una macchina (il sedile era il cruscotto), stando incoccolato e molleggiando opportunamente sulle gambe, davo alla sedia una serie continua di spinte che la facevano scivolare in avanti sul pavimento lucido. Tanto ormai sapevo ritmare le spinte che il movimento era quasi continuo. Con opportune pressioni laterali coi piedi e con le mani, poi, facevo agevolmente ogni tipo di curva, per cui potevo percorrere lunghi tragitti, anche passando da una stanza all'altra e aggirando tutti gli ostacoli. Il legno della spalliera e quello dei piedi posteriori, che sfregavano contro il pavimento, ovviamente si usuravano e mostravano evidenti e antiestetici segni di consunzione. Per cui a mia madre non doveva piacere molto questa cosa. Però non me l'ha mai impedita, forse perchè era un gioco che mi impegnava a lungo e mi divertiva assai e, quindi, non aveva cuore di togliermelo. Oltre ai giochi, con Guido stavo molto volentieri anche per farmi raccontare delle favole. Ma non si trattava di favole note che, credo, egli non amava, bensì di favole inventate da lui estemporaneamente. I personaggi, sempre i soliti, erano quattro fratelli : Tintintin, molto astuto , Tontonton, molto forte, Conconcon, un po' sciocco e Benbenben, di cui non ricordo bene le caratteristiche. Questi erano i nomi abbreviati dei personaggi, che venivano usati quando mio fratello aveva voglia di raccontare e gli venivano facilmente in mente storie da raccontare. Quando non era così, allora i nomi venivano detti per intero, per cui Tintintin diventava Tintintintiritiritiritiritiritiritiritin, e così gli altri.

In questo modo bastava inventare pochi avvenimenti, tanto la favola diventava lunga col solo nominare i personaggi due o tre volte. Io, naturalmente, ero più contento quando i nomi erano abbreviati, perchè quelle storie mi piacevano veramente tanto. Anche se gli strani esseri che le popolavano, nani (specie di orchi) e tegame (specie di streghe) mi creavano delle paure anche notevoli. E' curiosa l'origine del nome "tegama" per indicare un essere negativo e pauroso. Era accaduto che una volta, quando ero molto piccolo (avevo, forse quattro anni), avevo fatto uno strano sogno che mi aveva terrorizzato. Mi trovavo nel breve spazio, allora senza case, fra il Ponte e il Riolo, ed ero solo. A un tratto sui fili della luce che correvano, alti, lungo la strada, era comparso un grosso tegame di alluminio a due manici (anche adesso ho chiara l'immagine) che incombeva sopra di me. Io cercavo di fuggire lungo la strada, ma il tegame, correndo sui fili, mi seguiva velocissimo ed era sempre minaccioso sopra di me. Alla fine mi svegliai spaventatissimo e raccontai il sogno. Nel racconto chiamai il tegame "tegama", al femminile, il che rese il racconto del mio sogno ancora più incomprensibile. Infatti era difficile immaginare che un tegame potesse avermi spaventato tanto. E Guido, incuriosito, dovette farmelo raccontare più volte, finche` dovette immaginare che io chiamavo "tegama", non si sa perchè, una specie di strega. E così introdusse il personaggio nei suoi racconti. E ci fu la Tegama Nanina e anche la Tegama detta Keana Beafù, e forse anche altre. A un certo punto, però. Guido dovette rendersi conto che questi personaggi mi spaventavano troppo, per cui volle aiutarmi a non temerli troppo e mi fornì delle formule magiche, che chiamava scongiuri, capaci di tenere a bada nani e tegame. Una diceva : " Un ippopototalamo si arresta sul pendio, erutta il viver mio, erutta il viver mio" . E un'altra, un po' meno ermetica : "Passeggiam di fondo in cima, abbasso la Tegama Nanina, passeggiam di cima in fondo, abbasso tutte le Tegame del mondo". Con questi scongiuri mi difesi validamente dalla paura.

 C'è un fatto curioso, che dimostra come ciò sia vero. Dovevo avere non più di cinque anni, una volta che il babbo dovette andare a Roma per il suo lavoro. La cosa era inconsueta e mi incuriosì molto. E il babbo mi promise in regalo un cavallo a dondolo. Così attesi con molta impazienza il suo ritorno. Ritornò, se non ricordo male, all'alba (forse era in macchina con qualcuno ?) ed io mi svegliai quando lui, che evidentemente non aveva dormito, si era appena infilato nel letto e tutti dormivano ancora. Appena sveglio chiesi con insistenza di vedere i regali che papà mi aveva portato. Ma era molto presto e la mamma mi disse di dormire ancora un po'. Ma io, preso dall'eccitazione, non ci riuscivo e continuavo a dire che volevo vedere i regali. Così, alla fine, la mamma mi disse che, se proprio volevo vederli, mi alzassi da solo e scendessi a vederli. Io, che ancora avevo bisogno di aiuto nel vestirmi, rimasi un po' perplesso ma, poi, il desiderio di vedere il cavallino ebbe la meglio e, sceso dal letto, mi vestii alla meglio e scesi al piano di sotto. In salottino vidi, bello oltre ogni immaginazione, il cavallino a dondolo, bianco, con la sella e i finimenti rossi, e rossa anche la base di legno dondolante. Sul tavolo, poi, c'erano dei sacchettini pieni di caramelle e cioccolatini. Io ne presi uno, lo legai al collo del cavallino, poi salii in groppa e cominciai a dondolare, al massimo della felicità. Ogni tanto pescavo nel sacchettino e sgranocchiavo un cioccolatino o una caramella, e dondolavo, dondolavo....

 Ma, a un tratto, fui colpito dal grande silenzio che c'era intorno a me. Nella casa non si udiva alcun rumore, e neppure dall'esterno arrivavano segni di vita. Improvvisamente mi resi conto che, nell'ampio pianterreno della casa non c'era nessuno all'infuori di me. Ero solo ! Cominciai a provare una certa inquietudine. Il piacere dei doni ricevuti improvvisamente si attenuava e il cavallino non bastava più a riempire la mia timorosa solitudine. Lasciai il cavallino e andai nell'andito, ai piedi delle scale, per sentirmi più vicino ai miei familiari che erano ancora di sopra. Ma l'inquietudine non si placava. Le storie dei nani e delle tegame mi tornavano alla mente e mi rendevano sempre più inquieto e timoroso. Tornare di sopra, però, non volevo, perchè mi vergognavo di ammettere le mie paure. Così, per farmi coraggio, mi armai infilando nella cintura spade e pugnali di legno (ne avevo in abbondanza) e cominciai a passeggiare avanti e indietro per l'andito, senza perdere di vista le scale, declamando a gran voce gli scongiuri : "Passeggiam di fondo in cima....." con quel che segue. E così seppi resistere alla paura. Finchè la mamma, disturbata dal mio vociare, si alzò e mi invitò perentoriamente a stare zitto per non svegliare il papà che dormiva ancora. Ed io fui ben lieto di obbedire, giacchè ora non ero più solo e la casa tornava a sorridermi, rassicurante come sempre.

 A proposito di brutti sogni, devo dire che mi è capitato più volte di farne, e alcuni li ricordo molto bene, perchè mi avevano letteralmente terrorizzato. Alcuni erano ricorrenti, come quello nel quale io mi trovavo con la mamma davanti a una specie di trottola gigantesca, grande come una giostra, che girava vorticosamente. A un tratto la mamma entrava in questa enorme trottola, che aveva porte e finestre, e la trottola cominciava a girare ed io sapevo che la mamma veniva tritata dentro a quel meccanismo infernale. E` questo, un sogno, che ho fatto più volte, sempre identico.

 Ma quello che, forse, mi spaventò di più, fu quello del vitello senza testa che mi inseguiva. Era accaduto che un giorno, con altri ragazzi, ero andato al macello di Pilade a veder macellare un vitello. Allora i vitelli venivano sgozzati con un coltellaccio, poi appesi, decapitati e, successivamente, squartati e fatti a pezzi. Quella volta, però, il veterinario dichiarò la carne non buona per la vendita, per cui il vitello, che era già stato decapitato e appeso, venne calato a terra e, poi, sepolto in una grande buca scavata poco lontano. Io assistei a tutte queste operazioni e, evidentemente, rimasi impressionato dalla visione del vitello senza testa, spiccata dal collo sanguinante. Così nella notte sognai questo vitello senza testa, che mi inseguiva in un galoppo sfrenato. Mi svegliai terrorizzato e chiesi di poter dormire nel letto grande fra mamma e papà. Ma la cosa non finì lì. Anche nei giorni seguenti, specialmente la sera, spesso mi rannicchiavo in braccio alla mamma, alla quale avevo raccontato il mio sogno con tutti i particolari, e, affinchè mi dicesse parole rassicuranti sull'argomento, la sollecitavo dicendo : " O mamma, ma quel vitello, eh !". E lei, ridendo, finiva con lo sdrammatizzare la mia vicenda, come faceva sempre, ridandomi serenità.

 C'era, infine, anche un altro sogno, che ho fatto almeno un paio di volte e che era abbastanza inquietante, ma che non mi terrorizzava come quello del vitello. Forse perchè ero più grande. Mi trovavo nei pressi del passaggio a livello quando, a un tratto, appariva un toro gigantesco, con delle corna enormi, che mandava dalle froge sbuffi di fumo, il quale si lanciava al mio inseguimento. Io fuggivo, ma lui mi si faceva sempre più vicino. Allora io tentavo di arrampicarmi su una sbarra del passaggio a livello, ma non riuscivo a farlo abbastanza velocemente. Così volgevo lo sguardo in basso e vedevo il toro vicinissimo, che mi guardava con uno sguardo maligno e poi, piegando un poco il capo, mi ficcava lentamente un corno nel ventre. E, qui, mi svegliavo tutto sudato.

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                    11 - LA MORTE DEL NONNO GIOVANNI

 

Il nonno Giovanni, padre della mamma, è morto nel 1938 come il mio nonno paterno Carlo. O, forse, nel 1937. Mi pare,ad ogni modo, che sia morto prima il nonno Giovanni (devo controllare queste date). Infatti doveva essere nei primi mesi dell'anno, era ancora freddo, mentre dovette essere in primavera che accadde la disgrazia dello zio Beniamino (ne parlo nel capitolo 8 - I parenti). E il nonno Carlo morì nell'autunno, a Minucciano dove era andato ad abitare, in casa di Settimo. Le cugine Anna e Mirella ci raccontavano che il nonno Carlo stava raccontando loro una favola, allorchè volse il viso dall'altra parte e cominciò a borbottare parole senza senso. Era stato colpito da un ictus e morì pochi giorni dopo. Ma torniamo alla morte di nonno Giovanni. Di questa ho qualche ricordo, perchè avvenne in casa nostra. Per la verità, però, non ricordo il nonno morto e neppure il nonno ammalato grave. Probabilmente non me lo fecero vedere per non turbarmi. Una delle ultime immagini che ho di lui è la seguente : Eravamo in cucina e c'era la radio accesa. A un certo punto il nonno era in piedi, col bastone in mano e, accompagnato dalla nonna, muoveva piccoli passi tremolanti verso il magazzino, che doveva attraversare per raggiungere le scale e salire in camera da letto. Ma aveva un viso preoccupato e, con una voce incerta, diceva : - Ma come faremo a passare dal magazzino con tutta quella gente che c'è ? - S'era fatto l'idea che le voci che uscivano dalla radio fossero di gente che stava nel magazzino. Era, ormai, molto invecchiato e malmesso, pur non avendo ancora ottant'anni. Quello che ricordo bene è che, quando lui morì, Guido ed io avevamo l'influenza ed eravamo coricati entrambi nel letto di mamma e papà (forse Guido aveva lasciato la sua cameretta alla nonna). La camera dove ci trovavamo era adiacente a quella dove giaceva il cadavere del nonno, dalla quale era separata da una porta.

La mamma e il babbo passavano dalla nostra camera per andare nella camera del morto, ed avevano visi addolorati. Naturalmente ci dettero la notizia della morte, ed io appresi in quella circostanza, udendo una frase del babbo, che i morti si chiamavano anche cadaveri. Solo che io intesi male e, anzichè cadavere, capii "calavero". Allora chiesi a Guido : - O Guì, che è il calavero ? - Guido che, malgrado il momento fosse poco adatto, aveva voglia di giocare con me, assecondò il mio errore e si mise a spiegarmi cosa era un calavero. Solo che, come era solito fare, mi imbastì storie fantastiche, descrivendo il calavero come una specie di zombi, spaventandomi assai. E così, divertendosi alle mie paure, a un tratto cominciò a dire : - Ecco il calavero che apre la porta....- Al che io, sapendo che proprio dietro quella porta c'era il "calavero" del nonno, riparai sotto le coperte, dove mi accucciai. E Guido, proseguendo nel gioco, continuava a dire: -....ora il calavero sale sopra l'armadio.....ora s'arrampica su per la tenda... - mentre io, raggomitolato sotto le coperte, immaginavo pieno di terrore le evoluzioni del "calavero" così pericolosamente vicine. Finalmente il "calavero" fu fatto uscire ed io riemersi guardingo, mentre Guido si sbellicava dalle risate.

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                       12 - LA TROMBETTA IN GOLA

 

E`, questo, un ricordo piccolo piccolo, ma vivo, per lo spavento che mi presi. Ero in casa, probabilmente era una brutta giornata ed io ero solo e non sapevo che fare. Finalmente in bottega o in magazzino, trovai un tubo di latta (forse un pezzo di ricambio di una solforatrice ?) che cominciai a usare come una trombetta. Tenendo in bocca una estremità del tubo emettevo dei suoni che uscivano dall'altra estremità curiosamente alterati e amplificati. Divertito dalla cosa, cominciai a marciare per la casa a....suon di tromba. La nonna, che era sempre terribilmente vigile, cominciò, con i suoi consueti toni drammatici, a descrivermi il male che avrei potuto farmi con quell'oggetto, citando, probabilmente, qualche fatto drammatico accaduto chissà dove e di cui era a conoscenza (la nonna aveva sempre storie terribili da portare come esempio). Ma io, come sempre, non mi curavo di quello che diceva, ed essa non aveva energia sufficiente per farsi ubbidire. E continuavo a marciare. A un tratto, giunto vicino ad una porta chiusa, non calcolai che la mia "trombetta" era più lunga del mio braccio teso per aprire la porta. E, così, la trombetta urtò la porta e mi si piantò in gola producendomi un taglietto. Il male non fu poi così tremendo, per cui non mi sarei allarmato. Se non che in un attimo sentii la bocca piena di liquido e, sputandolo, vidi che era sangue. La cosa era già abbastanza spaventosa, ma valse a renderla ancora peggiore il viso terrorizzato della nonna e il suo gridare : - Oddio ! Ve l'avevo detto ! Oddio il sangue ! - Tanto che mi misi a piangere e ad urlare anch'io. Finchè arrivò la mamma, sempre molto rassicurante, che mi guardò in gola, si rese conto che era poco più di un graffio, mi fece fare qualche sciacquo con qualcosa di disinfettante, finchè il sangue cessò di uscire e le ansie furono sedate.

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                   13 - LA CARRETTINA DI FERRI VECCHI

 

 

Quest'altro piccolo ricordo risale al 1935, cioè a quando avevo cinque anni. Era iniziata la campagna d'Africa e la Società delle Nazioni aveva imposto all'Italia le sanzioni. Così in ogni paese d'Italia si procedeva alla raccolta delle fedi nuziali ed anche alla raccolta di rottami di ferro. E anch'io, guidato da mio padre che mi spiegava il significato di tutto questo, caricai di rottami di ferro una mia carrettina ed andai, sempre accompagnato dal babbo, alla Mancina, alle scuole, dove consegnai i miei rottami e, mi pare, assistei anche alla cerimonia delle consegne delle fedi nuziali in oro, in cambio di fedi in acciaio. Ricordo che ero molto fiero di questo mio atto. Però ero anche preoccupato di dover fare un così lungo percorso con la carrettina, avventurandomi in luoghi che non mi erano molto familiari.

 E ricordo anche che i commenti e i complimenti dei conoscenti che si fermavano al mio passaggio non mi facevano piacere, forse perchè ero timido o forse perchè rendevano più lungo il mio viaggio. Comunque tutto si concluse felicemente.

 

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                              14 - GLI AMICI DI MONZONE

 

 

 

 Nei primi tre anni della mia vita, quelli trascorsi nella casa del Giannetti, non ho avuto amici. O, comunque, non ricordo nessuna figura di bambino presente nei pochi episodi che rammento. Guido dice che giocavo spesso con l’Anna Bini, nipote del medico condotto, ma io la ricordo soltanto, e ne parlo, negli anni successivi.

 Negli anni successivi, invece, i miei ricordi cominciano a popolarsi di bambini, amici e parenti, con molti dei quali ho coltivato, negli anni, una bella amicizia.

 Purtroppo a Monzone mancava, all'epoca, una istituzione che accogliesse i bambini da tre a sei anni, tipo asilo infantile o scuola materna, per cui non ho avuto questa preziosa occasione di contatto con i coetanei.

 I miei genitori, però, specie mia madre, erano persone socievoli, che avevano rapporti con molte persone, per cui ho potuto avere contatti abbastanza frequenti con i bambini delle famiglie amiche. Anche se, a ben ricordare, molte delle persone che avevano rapporti con i miei erano adulti che venivano a casa nostra o perchè clienti del nostro negozio o perchè avevano bisogno di parlare con mio padre per questioni di lavoro o di politica. E, ovviamente, il più delle volte venivano da soli, spesso di sera, senza i figli. Per cui, forse, in quel periodo ho conosciuto molti più adulti che bambini.

 Un ricordo piuttosto antico, comunque, riguarda dei gradevoli pic-nic fatti d'estate lungo le rive del Lucido, verso Equi, presso a poco sotto Aiola. C'era una bella selva di castagni ombrosa, sulla riva sinistra del detto fiume, che arrivava molto vicina al letto del fiume stesso. Quando era molto caldo, mia madre, con alcune amiche, andava a cercare refrigerio vicino all'acqua e mi portava con sè. Sicuramente una delle sue amiche era la mamma dell'Anna Bini, una mia coetanea che ricordo essere stata presente in quelle scampagnate. Ma c'erano altre signore e altri bambini che, però, non ricordo. Di molto gradevole ho il ricordo dell'ombra dei castagni, della merenda, dei giochi sotto i castagni e anche nell'acqua. L'acqua in quel punto era bassa e corrente e molto fresca. Tuttavia ci si poteva sedere nell'acqua e anche sdraiarsi, facendosi scorrere addosso l'acqua freschissima. Ed è a questo punto che il ricordo si fa poco gradevole. Infatti accadeva che tutti si bagnavano e sollecitavano anche me a farlo. Io, però, non riuscivo a sopportare il senso di gelo con cui l'acqua mi feriva le carni, per cui mi sottraevo alle sollecitazioni e non mi tuffavo mai completamente. Probabilmente ho qualcosa nel mio sistema di termoregolazione che non funziona bene. Infatti sono riuscito a vincere faticosamente questa sensazione quasi dolorosa soltanto molto più tardi ( a 13 anni circa) ed ancora oggi, quando devo tuffarmi nell'acqua fredda, devo fare un grande sforzo per sopportare questo senso di gelo che, ora come allora, mi ferisce le carni.

 A proposito di pic-nic vicino al fiume ho un ricordo vivo e molto gradevole di una cena fatta con tutta la mia famiglia (ad esclusione, penso, dei nonni) vicino all'"acqua nera", una sorgente ferruginosa, e precisamente sulla lingua di terra che divide il fiume di Equi da quello di Vinca. Era un luogo ameno, con prati e terreni coltivati, fresco e riposante. Fu in quell'occasione che scoprii i pomodori tagliati a fette e conditi con olio e sale. La loro bontà mi sembrò così grande che non ho mai dimenticato l'episodio. Mia madre e mio padre erano allegri e contenti a vedere il mio appetito e il mio entusiasmo per i pomodori. Forse perchè i bambini, in genere, non mangiano molta verdura. Fatto sta che i pomodori conditi sono stati, da allora, un piatto golosissimo per me, specie d'estate, quando i pomodori sono quelli coltivati nel mio orto.

 L'Anna Bini, quindi, è stata una delle mie prime amichette. Ma credo che anche Carlo Alberto Giorgi detto Bertino, nostro vicino di casa e mio coetaneo sia stato mio amico fin dai primi anni dopo il trasferimento a casa della Gemma. Sicuramente negli anni successivi (diciamo dai sei anni in sù) è stata una delle presenze più assidue nella mia vita. Suo padre era il Dino, il nostro sarto ( che, poi, aprì una sartoria anche ad Aulla), che amava pavoneggiarsi nella sua elegante divisa da gerarca fascista durante le cerimonie. Sua madre era la Ida, che ricordo come donna sempre allegra e cordiale. Io frequentavo regolarmente la sua casa e lui la mia. Tutti e due eravamo molto fieri dell'apparecchio radio che possedevamo ( fra i primi acquistati in paese). Noi avevamo un Phonola e loro un Magnadyne. Il Bertino sosteneva che il suo era migliore ed io mi davo da fare a sostenere che, al contrario, era migliore il mio, però queste sue affermazioni mi creavano un po' di inquietudine.

 Nel 1936 andai a scuola per la prima volta. Allora la scuola cominciava il 15 ottobre, quando il caldo dell'estate era ormai un lontano ricordo e bisognava portare la giacchettina sopra la blusetta nera. Naturalmente il Bertino era con me, essendo mio coetaneo.

 Ovviamente l'andare a scuola mi mise a contatto con moltissimi altri bambini e bambine. Malgrado questo, però, le mie conoscenze non diventarono subito moltissime. Mi feci subito alcuni nuovi amici e amiche, è vero, però la gran massa dei ragazzi frequentanti la scuola mi rimase estranea. Probabilmente la disciplina era rigida per cui non si poteva comunicare molto durante le lezioni. Ma c'era anche la mia timidezza che mi impediva di fare facilmente nuove amicizie. Quando tutti eravamo davanti la scuola in attesa dell'inizio delle lezioni, per esempio, l'occasione per parlare e conoscere nuovi amici ci sarebbe stata, ma io me ne stavo appartato, ammirato ma anche intimorito dai ragazzi più grandi che avevano molte abilità che io non avevo (molti, ad esempio, sapevano camminare con le mani a terra e i piedi in aria, come piccoli acrobati, e questa è sempre stata una abilità da me molto ammirata e mai posseduta), che giocavano a soldi, cosa da me considerata trasgressiva, che avevano un linguaggio aggressivo, pieno di parolacce, che usavano disinvoltamente il dialetto, cosa che a me, a sei anni, non riusciva. Insomma le mie relazioni sociali non fecero grandi progressi in quel primo anno di scuola. Tuttavia, come ho detto, qualche nuova conoscenza la feci. In primo luogo diventai molto amico di Francesco Cecchini (il France') che era figlio di una negoziante di alimentari, l'Italia, donna che io trovavo bella ed elegante, ma che mi appariva anche piuttosto severa e non molto incline alla cordialità. Il padre del Francè si chiamava Solino e credo si occupasse soltanto della amministrazione di alcune proprietà che avevano. Il Francè, insieme al Bertino, diventò subito e rimase uno dei miei più cari amici. Anche la Pina, che abitava alla Mancina proprio di fronte al Francè, divenne mia amica, forse perchè era amica di Francesco. Sua madre era la Franca, una sarta per signora.

  Un'altra bambina che divenne molto amica e che ha frequentato con una certa assiduità anche la mia casa fu la Maria Grazia Pietrini, che era figlia di un impiegato della locale segheria di marmo, carrarino. La trovavo carina e molto disinvolta e, forse, mi lusingava l'interesse che mostrava per me, anche se, a volte, mi metteva un po' in imbarazzo.

 A scuola non ebbi problemi, poichè sapevo già leggere e scrivere.

 Negli anni precedenti, infatti, sfogliando molti libri della nostra biblioteca (ricordo, in particolare, la "Storia d'Italia" di Paolo Giudici che mio padre aveva comperato a fascicoli e aveva poi fatto rilegare in cinque grandi volumi. Era ricchissima di illustrazioni a colori a tutta pagina e amavo molto sfogliarla) ed anche aiutato da mio fratello Guido che mi aveva perfino costruito un banchino di legno, avevo imparato a cavarmela con l'alfabeto. Una occasione particolare di esercizio, poi, fu rappresentata nel 1935 e 1936 dai bollettini di guerra dell'impresa etiopica. Mio zio Settimo, da me adorato, partecipava a quella guerra che, pertanto, suscitava il mio più vivo interesse. Credo che su quei bollettini perfezionai la mia capacità di lettura. E così, come dicevo, a scuola mi trovai bene. La mia maestra era la Casoletti, che era stata maestra anche di mio fratello ed era considerata una brava maestra. Ne ho, infatti, un ricordo buono, anche se non molto nitido. Un episodio, però, lo ricordo con chiarezza : erano i primi giorni in cui avevamo iniziato ad usare la penna e l'inchiostro. Usavamo i famosi pennini a punta di lancia, che intingevamo nel calamaio di cui ogni banco era dotato. Con tali strumenti accadeva talvolta che, se il pennino era stato intinto troppo, si caricava di un eccesso di inchiostro che, fatalmente, finiva col cadere, grossa goccia nera, sul bianco del quaderno, a formare la deprecata patacca. Anche a me quel giorno, mentre scrivevo, cadde sulla pagina un gran gocciolone di inchiostro lasciandomi costernato. Tentai di rimediare mettendomi a cancellare la macchia con la gomma ma, fatalmente, il foglio si consumò troppo e, al posto della macchia, ci venne un orribile buco. Questo fu troppo ed io scoppiai in un pianto dirotto. E fu la buona maestra Casoletti che, in qualche modo, mi consolò e riuscì a calmarmi.

 Negli anni successivi il numero dei miei amici crebbe notevolmente. Cio` accadde principalmente, io credo, in virtu` del fatto che io possedevo alcuni giocattoli che gli altri non avevano, in particolare una automobile a pedali rossa, che mi fu regalata dal mio padrino Pietrino Bernardini, ed anche perche` disponevo di spazi per giocare piuttosto appetibili : la famosa cantina, il giardino e l'orto. Fatto sta che cominciarono a frequentare la mia casa e i suoi dintorni anche ragazzi piu` grandi di me, come l'Emanuele Cecchini che era del 1927, il Francesco Simonini, pure del 1927 o 1928 e suo fratello Fernando che era addirittura del 1925.

 L'Emanuele e` stato mio amico fedele per molti anni (praticamente finche` non abbiamo lasciato Monzone).

 Abitava "alla gora" (oppure si diceva "al molino"), non molto distante da casa mia, presso una gora che portava l'acqua alla segheria di marmo che si trovava in fondo alla Mancina, e spesso andavo io a casa sua (la Rosina era sua madre, una buonissima donna con un occhio strabico e la Silvia era la sua sorella maggiore : la ricordo con le trecce bionde legate intorno alla testa). Abitavano li' presso anche delle sue cugine, una delle quali era una mia coetanea: erano tre o quattro, brunette e abbastanza carine. Vicino a casa sua c'era la bellissima selva delle Angelini, luogo stupendo per i nostri giochi,ed anche una collinetta di "tufo" dove andavamo a scavare, ogni Natale, un blocco da cui ricavare la grotta di Betlemme per il presepe.

 Manuele era un ragazzo molto paziente e tollerante quando era di buon umore. A volte, però, era annoiato (io dicevo "noioso) e, allora, preferivo evitarlo. Ricordo che, una volta, ero in casa perchè il tempo era brutto e mi annoiavo. Stavo in bottega con la mamma e guardavamo fuori dalla porta a vetri. A un tratto vedemmo, verso il passaggio a livello, passare il Manuele e la mamma si offrì di chiamarlo affinchè venisse a giocare con me. Ma io dissi : - No, non chiamarlo che oggi è "noioso", vedi come tira via le gambe ? - Da quel suo incedere dinoccolato (spesso lo paragonavamo a Pippo di Walt Disney) avevo intuito il suo stato d'animo. Fernando e Francesco, invece, abitavano in cima a Riolo, nella casa di Pilade, (fornaio e macellaio, di cui erano nipoti, essendo egli fratello della madre,                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               almeno credo) all'ultimo piano.

 Quando ,poi, teatro dei nostri giochi era la strada, in genere la ripida discesa del Riolo, molti altri ragazzi si aggiungevano. Fu cosi` che finirono per sfasciare la mia automobilina a pedali : io stavo alla guida ed essi mi spingevano sulla ripida salita. Giunti in cima, con una gran spinta mi avviavano per la discesa, dopo di che in tre o quattro si arrampicavano sulla automobilina lasciandosi fino in fondo, allorche`, con una brusca sterzata, andavo verso il piazzale antistante la mia casa. Era necessario, pero`, che uno dei ragazzi piu` grandi si ponesse davanti alla macchina e la frenasse per impedire che finisse contro la "murella" della ferrovia.

 Piu` tardi cominciai a uscire per il paese e, quindi, a frequentare anche altri ragazzi, che, pero`, furono solo amici occasionali. Una certa amicizia nacque, in un certo periodo, per Ercolino, che veniva a scuola con me e abitava al Ponte. Ancora, per un certo periodo, fu un grande amico il "Toni", figlio del "Pallucola" che aveva due anni meno di me ma era un ragazzino molto sveglio. A quell'epoca si univa a volte a noi il "Maruncin", un ragazzino di cui non ricordo bene il nome (forse Ettore), della famiglia dei "Maroni". Era, questo "Maruncin", un ragazzino un po' allo sbando (la famiglia, in difficoltà economiche, lo guardava poco) e spesso veniva alla porta di casa nostra e chiedere il pane col "ciccin", cioè la carne. E accadeva talvolta che, una volta ricevuto quanto chiedeva, buttava il pane e si mangiava la carne. Ricordo di essere stato, con lui e col Toni, lungo la via di Vinca, oltre l'"acqua salata", a cercar noci. Le facevamo cadere dalla pianta, poi con un sasso facevamo saltare via il mallo e, rotto il guscio, mangiavamo il gheriglio bianco e saporito. Ma il mallo, ancora troppo fresco, ci tingeva le mani di scuro. E noi a bella posta ci tingevamo tutte le mani, da farle diventare come quelle dei negretti. Poi, tutti fieri, cantavamo con una arietta inventata: - La mano nera, zighin, La mano nera, zigon...- . Dell'amicizia con il "Toni" ricordo due o tre cose divertenti. Una volta decidemmo di "provare a fumare". Avevamo 30 centesimi ovvero 6 soldi, con i quali potevamo comperare 2 "Nazionali" che costavano, appunto, 3 soldi l'una. Dell'acquisto si incarico` il Toni che, poiche` andava spesso a comperare sigarette per il padre o per i fratelli piu` grandi, non avrebbe destato sospetti. Io lo attendevo nella selva delle Angelini, dove avremmo consumato la trasgressione. Dopo poco il Toni torno` con tre invece che con due sigarette. Alle mie richieste di spiegazione disse che aveva comperato le "Popolari" che costavano due soldi l'una anziche` le "Nazionali" perche` "cusci` arsparmian" (cosi` risparmiamo). E lo disse con quella sua erre caratteristica, alla francese, e la sua aria di bambino furbo. La cosa mi convinse poco, anche perche` ora avremmo dovuto fumare una sigaretta e mezzo per ciascuno e le "Popolari" erano particolarmente forti e cattive. Tentai di spiegargli che avremmo effettivamente risparmiato se ne avesse comperato soltanto due, ma capii che non capiva il ragionamento e ci rinunciai. Cosi`, con i fiammiferi che avevamo, accendemmo le nostre orribili sigarette e cominciammo a fumarle. Pur cercando di non respirare il fumo, tuttavia l'impresa fu decisamente improba, anche perche`, finita la prima sigaretta, dovemmo fumare anche la successiva mezza sigaretta che scrupolosamente ci eravamo divisi. Il risultato fu che io cominciai ad avvertire una nausea sempre piu` forte e delle vertigini, per cui salutai il Toni e feci ritorno a casa mia. Qui dissi a mia madre quel che provavo, lei comincio` a preoccuparsi, e piu` si preoccupo` allorche`, eravamo presso l'acquaio di cucina, io vomitai rumorosamente. Penso` che mi avesse fatto male qualche cibo ed ebbe cura di me con molto affetto e qualche sentimento di colpa, finche` tutto passo`. Io mi guardai bene dal raccontargli quel che avevo fatto. Credo di averglielo raccontato solo molti anni dopo.

 Un altro ricordo divertente e` questo : Una volta a mia madre, che gestiva un negozio di articoli casalinghi e da regalo, fu rifilata una moneta da cinque lire d'argento che, poiche` aveva acquisito una colorazione scura ed aveva un suono non perfettamente argentino (il suono delle monete d'argento veniva controllato sul piano di marmo delle bilance a due piatti, con i pesi di ottone, che usavano allora), venne da mia madre considerata falsa e, quindi, da buttare. Allora io me la feci dare e la tenni per giocare. Accadde, allora, che il Toni vide questa moneta e ritenne di poterla.....rimettere in circolazione.

 Con la sabbia la lucido` ben bene finche` ebbe riacquistato un bel colore argento brillante, dopo di che ando` dall'Italia , che aveva un negozio di alimentari e, disinvoltamente, acquisto` qualche piccola cosa (credo delle caramelle), pago` con le cinque lire rilucidate ed ottenne regolarmente il resto. Subito venne da me che lo attendevo poco lontano e mi consegno` la rilevante somma di cinque lire meno i pochi centesimi spesi per le caramelle. Per avere un'idea della rilevanza di tale somma basti pensare che, a quel tempo, la paga di un manovale era di dieci lire il giorno o poco piu`. A quel punto io regalai una parte della somma al Toni, dopo di che ci appartammo nella parte alta della selva delle Angelini e, in uno spazio pianeggiante, tracciammo una riga in terra e cominciammo a giocare a soldi. Era, per me, un'esperienza emozionante. Infatti il giocare a soldi era considerata un'azione piuttosto trasgressiva ed io, probabilmente, non avevo mai giocato prima, anche se sapevo come fare, per aver assistito alle interminabili partite dei ragazzi piu` grandi. Il gioco consisteva nel porsi ad una certa distanza dalla riga (forse due o tre metri) e nel lanciare la propria moneta il piu` vicino possibile alla riga stessa. Quello che aveva fatto arrivare la moneta piu` vicina aveva il diritto di tirare in aria le monete di tutti i giocatori pronosticando, quando le monete, opportunamente lanciate, stavano frullando in aria, testa o croce (ma noi non si diceva croce : si diceva griffa, se ricordo bene). Le monete che cadevano secondo il pronostico del lanciatore erano da lui vinte. Le altre venivano lanciate dal secondo giocatore e cosi` via fino ad esaurimento.

 Il gioco comincio` con notevole divertimento. Dopo un po', pero`, mi accorsi con inquietudine che il mio gruzzolo stava calando mentre quello del Toni stava crescendo proporzionalmente. Giocammo ancora e poi ancora, ed io mi impegnai a fondo, ma l'abilita` del Toni, evidentemente piu` allenato di me, ebbe la meglio, ed io mi ritrovai a giocare i miei ultimi due soldi (giocavamo due soldi, cioe` dieci centesimi, per volta). Li giocai e, con una certa tristezza, persi anche quelli. Il Toni, che noto` la mia tristezza e che, dall'alto della sua ricchezza (certo non aveva mai posseduto una tale somma) era in vena di generosita`, mi dette trenta centesimi e, con solennita`, certo scimmiottando il padre o il Carlo`, suo fratello maggiore, mi disse: - To` , ma non ghi spendr !- ( Tieni, ma non li spendere !).

 A casa mostrai i miei trenta centesimi e raccontai tutta l'avventura. Ebbi molti rimbrotti sia per aver spacciato soldi falsi e poi per essermi fatto pelare a quel modo.

 Altro ricordo legato al Toni e` quello della pasta reale. Mia madre era usa, a quei tempi, fare frequentemente quel dolce a base di uova che si chiamava e si chiama pasta reale. Probabilmente questo accadeva quando le nostre galline facevano piu` uova di quante se ne consumassero. In quelle circostanze, la mia merenda era costituita da una fetta abbondante di pasta reale. Quel giorno ero uscito con la mia brava fetta di pasta reale e, sul ponte della Mancina, incontrai il Toni (la sua casa era proprio all'inizio del ponte). Naturalmente mi fermai a parlare con lui, e intanto continuavo a mangiare la mia pasta reale. Evidentemente al Toni sara` venuto voglia di assaggiarla ma, forse, non avra` avuto coraggio di chiedermene un po'. Io, d'altra parte, non pensai minimamente di offrirgliela. Fatto sta che, ad un tratto, il Toni disse : - Bona 'a patta riale co' vin ! - (Buona la pasta reale col vino !). Parlava ancora cosi`, forse erano i primi anni della nostra amicizia ed era ancora piccoletto. Ma qualche imperfezione di linguaggio l'ha sempre mantenuta. A quel punto io avrei dovuto capire, ma, ahime`, non capii e la pasta reale me la mangiai tutta da solo. Anche in questo caso, quando raccontai la cosa ai miei, piu` che altro per ridere del parlare infantile del Toni, mia madre mi sgrido` per la mia insensibilita`, ed io capii e ci rimasi molto male. Ma non era stato egoismo. Proprio non ci avevo pensato.

 Negli ultimi anni della nostra permanenza a Monzone, infine, fui molto amico anche di un ragazzino mio coetaneo, capitato a Monzone con la sua famiglia, allorche` vi fu trasferito il padre che era maresciallo dei Carabinieri: Rino Meloni. Malgrado non abbia episodi molto significativi da ricordare, tuttavia lo ricordo come un amico fedele e sincero, col quale passavo gradevoli giornate, generalmente a casa sua, che era l'appartamento del maresciallo, sopra la caserma.

 Purtroppo il padre fu trasferito a Montepescali in provincia di Grosseto (era gia` scoppiata la guerra. Quando scoppio`, il 10 giugno del 1940, infatti, c'era ancora suo padre a Monzone. Lo ricordo con sicurezza perche` fu lui che organizzo` un corteo di giovani e di ragazzi che percorse il paese inneggiando alla guerra e a Mussolini e scandendo insulti e minacce contro l'Inghilterra e la Francia. In quell'occasione mi colpi` il fatto che lui gridava : - Che cosa fa l'Inghilterra ? - e noi dovevamo gridare : - Schifo ! -). Tanta era la nostra amicizia che continuammo a scriverci per un po'. Poi la guerra si fece piu` dura, noi ci trasferimmo ad Aulla e ci perdemmo completamente di vista. Non ne ho piu` avuto notizie.

 A proposito di questo dieci giugno ho anche altri ricordi. Quell'anno io stavo frequentando la quarta elementare e, quando fu trasmesso il famoso discorso di Mussolini che annunciava la nostra entrata in guerra, io ero a scuola. Ricordo che l'apparecchio radio, che normalmente stava in un vano del muro che ne consentiva l'utilizzo sia dalla nostra che dalla classe adiacente (quel foro, poi, consentiva anche alle maestre di scambiarsi qualche chiacchiera), quel giorno era stato collocato sulla finestra aperta. Fuori dalla finestra, infatti, c'erano diverse donne che erano venute per ascoltare. Ricordo ancora bene la frase "..le dichiarazioni di guerra sono già state consegnate nelle mani degli ambasciatori di Francia e di Inghilterra". E ricordo anche che una delle donne che era lì fuori, una carrarina moglie di un dipendente della segheria di marmo, piangeva. Aveva un bambino in braccio e piangeva, ed io osservavo un po' stupito quelle lacrime che le scendevano abbondanti lungo le gote. Noi ragazzi, invece, non eravamo tristi, e infatti, come ho detto sopra, uscimmo per manifestare, lungo le strade, il nostro entusiasmo per quella che immaginavamo una avventura gloriosa per la nostra Patria.

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                              15 - GUERRA ANCH'IO

 

Nell'anno scolastico 1940/41 io cominciai a frequentare la classe quinta nella suola elementare di Monzone. La mia maestra era ancora la signora Pellini Panaiotti Elisa, con la quale avevo un ottimo rapporto. Essa ci parlava molto anche dell'attualità e, quindi, della guerra. Essa era una fascista entusiasta e ci entusiasmava parlandoci dell'eroismo dei nostri soldati e di vari fatti guerreschi.

 Seguivamo attentamente le vicende della guerra anche studiando sulle carte geografiche appese alle pareti dell'aula i luoghi ove le vicende belliche si stavano svolgendo. Questo, fra l'altro, aveva reso estremamente gradevole lo studio della geografia, che aveva perso, per noi, il suo carattere libresco e che vedevamo, invece, come strumento indispensabile per conoscere quelle vicende della guerra che eravamo molto motivati a seguire. Conoscevamo, così, perfettamente la geografia della Libia, dell'Africa Orientale e Settentrionale, della Grecia, ed anche quella della Francia e dei diversi mari dove operavano le flotte. E non trascuravamo di esaminare, nella carta dell'Europa ma anche dell'Asia, l'immensità dell'Unione Sovietica che, all'epoca, avendo un patto di non aggressione con la Germania, consideravamo quasi come una potente alleata. Era accaduto, poi, che all'aprirsi della campagna di Grecia, mio zio Settimo era partito volontario e vi partecipava col grado di sergente maggiore, rendendomi, così, ancora più interessato alle vicende belliche. Che, naturalmente, erano molto seguite anche in casa, dove si ascoltavano regolarmente i bollettini di guerra, i Giornali Radio e i "Commenti ai fatti del giorno", programma in cui famosi giornalisti come Giovanni Ansaldo e Mario Appelius commentavano i principali avvenimenti. Il programma era reso ancora più interessante dal fatto che il nemico cercava di disturbare queste trasmissioni interferendo in esse. A tratti si udiva, infatti, una voce lontana che si intrometteva cercando di confutare gli argomenti del commentatore. Il quale, talvolta, accettava il dialogo in  contraddittorio e rispondeva a tono. In questo clima, quando, dopo i  primi successi iniziali, l'offensiva inglese penetrò in Cirenaica, io  provai un po' di sconforto, ma la fede nella riscossa e nella vittoria  era ancora tanta. Così io, suggestionato dalle belle poesie  patriottiche che leggevo sul Corriere dei Piccoli, volli cimentarmi in  questa prova e scrissi una poesia su queste vicende. Era una cosa  ingenua, scritta da un bambino, ma la metrica era rispettata e la rima  anche. Così la feci vedere alla maestra. Essa ne fu entusiasta. La  fece leggere a destra e a manca e, infine, la mandò alla direttrice  che era a Fivizzano. Essa pure mi scrisse elogiandomi, ma inviò pure  la mia poesia al Federale di Massa. Il quale, a sua volta, mi scrisse  elogiandomi. Ricordo che la sua lettera terminava con queste parole : "Continua così e diventerai un vero italiano di Mussolini". La cosa mi  fece un immenso piacere, anche perchè mi rese molto popolare fra i  miei amici e, soprattutto, fra le mie amichette. Quell'anno era in  classe con noi la figlia della maestra, Adriana, che, pur avendo già  fatta la quinta ed essendo stata promossa (aveva un anno più di me),  la frequentava una seconda volta, forse perchè era complicato in tempo  di guerra andare a frequentare la scuola media chissà dove. Questa  ragazza, molto sveglia ed estroversa, mi dedicava molte attenzioni. Io  frequentavo la sua casa e lei la mia, e la sua compagnia mi piaceva,  anche se, talvolta, mi mettevano in imbarazzo i suoi comportamenti da  signorinetta. Essa aveva una sorella signorina, chiamata Toa (forse  Antonia ?), piuttosto piacente, che suonava il piano, cantava e aveva  anche ambizioni di attrice (spesso andavamo in casa sua anche per  imparare con il suo aiuto, delle canzoni da cantare durante le  recitine scolastiche). Probabilmente Adriana tendeva ad imitare i  comportamenti della sorella maggiore e, per questo, pareva spesso più  grande della sua età. Accadde, comunque, che io finii per considerarla  una mia fidanzatina.

 Questo, naturalmente, non distraeva il mio interesse per la guerra.  Le due cose, anzi, erano perfettamente compatibili. Per me, a  quell'epoca, l'uomo adulto faceva l'amore e faceva la guerra. Ed io  volevo diventare presto un uomo adulto.

 Le lettere che lo zio Settimo ci scriveva, anche rispondendo alle  molte domande che io gli ponevo, aveva accentuato al massimo il mio  interesse per la campagna di Grecia. Al punto che, piano piano,  cominciai a pensare sempre più seriamente alla possibilità di  parteciparvi. Pensavo che raggiungere Brindisi in treno non sarebbe  stato un problema (avevo, nel salvadenari, una sommetta che ritenevo  sufficiente per pagare il biglietto). Più complicato mi appariva  l'attraversamento del mare, ma pensavo che sarei riuscito a salire  clandestinamente su una nave per fare la breve traversata. Una volta  in Grecia non ritenevo molto difficile trovare lo zio Settimo (di cui  avevo l'indirizzo). Naturalmente non ne parlai in casa, ma avevo  bisogno di un compagno con cui mettere a punto il piano e, così.  scelsi di parlarne con un ragazzo della mia classe di nome Ercolino,  che ritenni adatto e che, infatti, mi parve interessato. A quel punto  tutto sembrava pronto. Per cui ritenni di dover salutare la mia  fidanzata. E scrissi una lettera "eroica" all'Adriana. La quale, però, spaventata, forse, da questi propositi di fuga, la fece vedere a sua madre. Essa, che era già entusiasta della mia poesia, lo ritenne un  componimento bellissimo e ne fu ancora più entusiasta. Così la mattina  dopo, a scuola, ecco che vedo con spavento la maestra trarre fuori  dalla borsa la mia lettera. Mi feci piccolo piccolo perchè mi  attendevo dei solenni rimproveri e sapevo che la maestra infuriata era  molto temibile. Con mia sorpresa, invece, la maestra, sorridente, mi  chiamò alla cattedra, mi baciò e mi ricoprì letteralmente di elogi e  di complimenti. Poi, e fu il momento per me più imbarazzante, lesse  alla classe la mia lettera, sottolineandone ancora il patriottismo, la  nobiltà dei sentimenti e anche il valore "letterario". Io me ne stavo  lì ad occhi bassi, tutto rosso per la timidezza, mentre accanto a me  l'Adriana, tutt'altro che timida, se ne stava tutta beata a  condividere la mia gloria. Dopo tutto era la destinataria e  l'ispiratrice della lettera. Ma non finì lì. La maestra volle leggere  la lettera anche ai miei genitori, che non mi mossero rimproveri, ma  non mostrarono neppure quell'entusiasmo che avevano mostrato per la  poesia. Forse erano preoccupati per i miei propositi di fuga.  Propositi che, in realtà, non avevo abbandonato. Tanto è vero che,  qualche giorno dopo, decisi di dare realizzazione al mio progetto e  aprii il salvadenari. Purtroppo al suo interno non trovai quasi nulla.  Evidentemente mia madre, per precauzione, li aveva tolti. O, forse, li  aveva presi perche` le servivano degli spiccioli, con l'intenzione di  rimetterli.... Fatto sta che, con tale scoperta, il mio progetto  dovette essere definitivamente abbandonato per mancanza di  finanziamento.

 Ed ecco la famosa poesia:

L’ITALIA E IL MEDITERRANEO

 

                    L'Italia è destinata

                    del suo mare regina

                    ma ci vuol comandare

                    l'Inghilterra cretina

 

                        Con maniere gentili

                        l’Italia la pregò

                        di tornare ai suoi posti

                        ma essa rifiutò

 

                    L’Italia allor sdegnata

                    Di tanta prepotenza

                    Gli dichiarò la guerra

                    E avanzò con violenza

                      

                        Ma essa si fermò

                        in Egitto, e poi

                        per mancanza di mezzi

                        indietreggiammo noi

 

                    Gli abbiamo già lasciata

                    tutta la Cirenaica

                    e l'Inghilterra stupida

                    ride e felice sbraita

 

                        Ma riderà per poco

                        perché l'Italia forte

                        la scaccerà col motto

                        "La Vittoria o la Morte"

 

                     Ed a guerra finita

                     L’Inghilterra cretina

                     Dovrà lasciar l’Italia

                     Del suo mare regina

 

                        Il Duce ha detto a tutti

                        questo motto supremo

                        che è chiuso in tutti i cuori

                        "VINCERE" e vinceremo.

 

                                                   Monzone febbraio 1941

 

 

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                            16 - IL TERREMOTO 

 

 

Fu nel 1939, credo, che si avvertì, a Monzone, una forte scossa di terremoto. Io ero con altri ragazzi alla Mancina e, precisamente, nel piazzaletto che si trova a fianco della casa delle Angelini, proprio nei pressi della porta che dava accesso alla sala del Dopolavoro. Penso fosse il pomeriggio di una domenica, perchè c'erano anche molti adulti lì intorno, sia all'interno che all'esterno del Dopolavoro. A un tratto si avvertì un forte boato ed io sentii chiaramente il rumore delle tegole del tetto che, scosse, urtavano le une contro le altre con un fortissimo rumore di cocci rotti. Qualcuno gridò : - Il terremoto ! - e subito ci fu un fuggi fuggi generale. Anch'io, appena udito quel grido, mi resi conto di cosa si trattasse e fuggii insieme agli altri. Non andammo lontano, però. Attraversammo la strada, in quel punto abbastanza larga, e ci fermammo sull'altro lato, proprio davanti al dopolavoro e all'adiacente caserma dei carabinieri. In quel tratto, all'epoca, non c'erano case ma campi, divisi dalla strada da un muretto con sopra una rete. Lì ci sentimmo al sicuro, giacchè anche gli adulti usciti dal dopolavoro e dalle case vicine, si erano adunati tutti lì.

 Ora la scossa era passata e non erano in vista danni evidenti, però il ricordo del terremoto del 1920 era ancora molto vivo, per cui la gente era piuttosto spaventata. E tanto più lo eravamo noi ragazzi, che dei tremendi effetti di quel terremoto del 1920 sapevamo bene per i racconti che più volte ci avevano fatto i nostri genitori. Stando lì all'aperto, tutti insieme, tuttavia, il nostro spavento era tenuto sotto controllo. Ma si avvicinava la sera e, alla fine, bisognò rientrare in casa. Qui trovai la mamma e la nonna molto spaventate e preoccupate, e questo accrebbe i miei timori. Il babbo e Guido, invece, non mostravano eccessivo timore, e, questo, in qualche misura mi tranquillizzava. Però avevamo ispezionato tutte le stanze della casa e avevamo scoperto, nel muro della sala, una lunga crepa che prima non c'era e mi parve che quella preoccupasse un po' anche papà. Quella sera, comunque, sia durante la cena che dopo (doveva essere ancora inverno perchè eravamo intorno al fuoco) non si parlò d'altro. Guido aveva preso il suo libro di scienze e leggeva quel che si diceva del terremoto. Il babbo raccontava ancora una volta del terremoto del 1920, che lo colse a Monzone, mentre la mamma e Guido appena nato (nacque il 4 agosto e il 20 settembre ci fu il terremoto. La parete dove era appoggiata la culla crollò ma dalla parte opposta, così lui fu salvo) erano a Camporgiano che, dai giornali, fu descritto come "raso al suolo". Alla fine la mamma disse che, per sicurezza, lei ed io avremmo dormito in cucina. Così fece portare un materasso sul nostro grande tavolo di cucina e lì fu preparato il letto. Io subito mi coricai e, accucciato sotto le coperte, continuavo ad ascoltare Guido e papà che erano ancora davanti al fuoco a chiacchierare. Questa soluzione mi tranquillizzò un po' e, coricatasi anche la mamma, dormii fino al mattino. La nonna, Guido e papà andarono tranquillamente a dormire nei loro letti. Non ricordo se dormimmo in cucina solo quella notte o anche qualche notte successiva. Certo è che l'inquietudine rimase per parecchio tempo. Anche perchè ci furono ulteriori scosse di assestamento nei giorni successivi, che mantenevano alta la tensione. Ricordo che una sera mi ero addormentato con la testa sul grembo della mamma, quando, a un tratto, si avvertì una scossetta. Io mi svegliai, malgrado che la mamma non si fosse mossa, proprio per risparmiarmi la paura. Forse fu la scossa stessa a svegliarmi, però non me ne resi conto bene. Tuttavia dall'atteggiamento un po' teso della nonna e anche dal comportamento degli altri, che pure lo negavano, capii che era venuto di nuovo il terremoto e la mia paura si aggravò ancora.

 Poi, piano piano, finii col non pensarci più, ma conservai un deciso timore per il terremoto, ora che lo avevo sentito personalmente.

 Qualche tempo dopo, credo fossimo già nel 1940, mentre eravamo nel cortile della scuola (non ricordo se in attesa di entrare in classe o per l'ora di ricreazione), un enorme boato che udimmo ci fece subito pensare a un nuovo terremoto. Subito dopo, però, ci accorgemmo che la terra non aveva tremato e il boato veniva da una direzione ben definita, cioè da nord, dalla parte di Aulla. All'epoca a Monzone non c'erano telefoni, per cui non fu possibile avere subito delle informazioni. Ricordo che ne parlammo a lungo anche in classe e una delle ipotesi fu che fosse saltato in aria il polverificio di Pallerone. Purtroppo tale ipotesi risultò veritiera. Era esploso proprio il polverificio di Pallerone causando anche alcuni morti. La sera avemmo tutti i dettagli dal babbo che, da Aulla, era corso subito a Pallerone a verificare l'accaduto.

 

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                          17 - LA GUERRA DI FINLANDIA

 

 

Nel 1939 scoppiò la guerra fra la grande Unione Sovietica e la piccola Finlandia. Naturalmente in casa se ne parlava e se ne parlava anche a scuola. Ci apparve subito come la lotta eroica di un piccolo popolo che difendeva il suo territorio e la sua indipendenza, quasi la riproposizione della sfida fra David e Golia, e ci appassionò. Ma quello che mi fece veramente appassionare a quella guerra furono le immagini disegnate da Walter Molino sulla Domenica del Corriere. Ne ricordo una che rappresentava i soldati finlandesi, tutti vestiti di bianco e con gli sci, che sfrecciavano veloci e silenziosi e, pur inferiori di numero riuscivano a tenere in scacco i sovietici. E un'altra che mostrava come gli eroici finlandesi bloccavano i carri armati sovietici che attaccavano attraverso il lago Ladoga ghiacciato. Con bombe a mano rompevano il ghiaccio e facevano sprofondare i pesanti carri nell'acqua sottostante. Queste ed altre immagini, mi fecero nascere una grande simpatia per questo popolo, tanto che, volendo fare qualcosa per loro, decisi di "fare i nove venerdì". Si trattava di andare a Monzone alto per nove venerdì di seguito a fare la comunione. Ciò mi avrebbe consentito di chiedere a Dio una grazia speciale, ed io avrei chiesto, naturalmente, la vittoria della Finlandia. La cosa comportò del sacrificio, perchè dovevo alzarmi molto presto per essere in chiesa quasi all'alba. Per fortuna c'era l'Erminia, una vecchietta che abitava vicino a noi, che, pure, andava a fare la comunione ogni venerdì, così avevo una compagna di strada.

 Ricordo che, fatta la comunione, mi concentravo intensamente e chiedevo la grazia di "far vincere i finlandesi". Poi ritornavo a casa, facevo colazione, quindi andavo a scuola. Riuscii a tenere duro e a fare tutti e nove i venerdì. Mi deluse un po' il fatto che la Finlandia non vinse la guerra, ma il papà mi diceva che, in fondo, se l'erano cavata abbastanza onorevolmente. Credo, tuttavia, che la mia fede cristiana ne risentisse un po'.

 

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                            18 - LA CACCA IN TESTA

 

 

Il nostro orto, in inverno, era libero da coltivazioni e diventava, quindi, un ottimo campo da gioco. Quasi ogni giorno io ero lì con qualche amico a giocare a qualcosa. Qualche volta, se non c'erano amici, giocavo anche da solo. A volte andavo fino in fondo e, scavalcati i fili che lo delimitavano, risalivo fino all'aia di Pilade per poi tornare a casa lungo la strada del Riolo. Una volta che mi trovavo lì da solo, ebbi bisogno di andare al gabinetto. Ma, chissà perchè, mi venne voglia di "fare la cacca" lì nell'orto. Così presi un foglio di giornale che era lì intorno e ci feci la cacca sopra. Poi me ne venni via lasciando tutto lì, tanto nell'orto non andava nessuno dei miei familiari in quel periodo. E mi dimenticai di ciò che avevo lasciato. Qualche giorno dopo ero di nuovo nell'orto a giocare con alcuni amici. Uno di questo era il Fernando, più grande di me di cinque anni, ma assiduo frequentatore del mio orto. Egli, a un tratto, notò la cacca sul giornale e la cosa gli parve bizzarra. Così cominciò a scherzarci e a prendermi in giro perchè "facevo la cacca nei giornali". Io, che mi vergognavo un po' di quella bizzarria che avevo fatto, non gradii i suoi lazzi, così raccolsi, prendendolo per i lembi, il giornale con la cacca dentro e lo scagliai verso di lui. L'intenzione era di farlo scappare senza colpirlo. Ma egli non fu abbastanza svelto a scansarsi, cosicchè fu colpito in pieno al capo e la cacca gli si spiaccicò sui capelli. La sorpresa sua fu così forte che lo lasciò per un attimo sconcertato e come paralizzato. Io, invece, spaventato per ciò che avevo fatto, capii subito che ci sarebbe stata una forte reazione, per cui profittai del suo sconcerto e fuggii il più velocemente possibile. Il Manuele, sempre fedele, mi seguì nella fuga. Il Fernando, appena ripresosi, tentò di inseguirmi scagliando, furioso, delle pietre. Ma ormai il mio vantaggio era incolmabile, cosicchè guadagnai rapidamente la porta di casa ed entrai con Manuele. Appena la porta fu richiusa si udì una gran botta. Era un sasso ben diretto che aveva colpito la porta. Ma, ormai, Manuele ed io eravamo al sicuro. Andammo alla finestra dell'andito, ben chiusa e munita di inferriata, e vedemmo passare il Fernà, piangente, con la testa sporca di cacca. Manuele, a quel punto, scoppiò a ridere ed esclamò : - Ghi ha messo i gradi - (gli ha messo i gradi). Aveva in testa, infatti, una striscia di cacca fatta a "V", simile ai gradi da caporale o da sergente. Io, però, non risi, e per parecchi giorni evitai di incontrare il Fernà. Seppi, poi, che quel giorno era corso alla "gora" e si era lavato ben bene tutta la testa.

 

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                           19 - LE VACANZE ALLA CASETTA

 

 

Molto importanti sono state, nella mia infanzia, le vacanze alla Casetta. La Casetta, poderetto da sempre posseduto dalla mia famiglia e sul quale mio nonno Carlo aveva costruito, nel 1920, una nuova casa (le vecchia andò, poi, distrutta col terremoto), era, per me, un luogo mitico. Il babbo, infatti, mi raccontava sempre, ed io non mi stancavo mai di ascoltarle, le sue "avventure" di bambino, che si erano svolte, appunto, alla Casetta. Così conoscevo i luoghi anche prima di averli visti e, quando li vedevo, mi emozionava il pensare che lì, proprio in quei luoghi, si erano svolte le azioni di mio padre bambino. Egli aveva avuto una infanzia difficile. Rimasto orfano appena nato (la madre Isolina morì di parto, subito dopo la nascita di mio padre, il suo ottavo figlio maschio), col padre che viveva quasi sempre all'estero (in Francia e in America), fu allevato da due zie nubili, la Lucrezia e la Annunziata (detta Nonziata, poi abbreviato in No'), insieme ai suoi fratelli. Era una famiglia unita, malgrado tutto, ma  la vita dell'epoca era molto più difficile di quella odierna. I fratelli maggiori, appena in età adolescenziale, emigravano col padre in cerca di lavoro, cosicchè a casa restavano i più piccoli con le due zie. Esse, con l'aiuto dei piccoli, cercavano di coltivare i loro terreni, ma non riuscivano a farli rendere molto. D'altra parte era una famiglia troppo grossa per poter vivere bene con i frutti del poderetto, specie dopo la morte della nonna Isolina che, essendo maestra, finchè visse contribuì a mantenere la famiglia. Così non rimase che la via dell'emigrazione. I ragazzi, mio padre e i miei zii, erano dei gran cacciatori di frodo, sempre inseguiti dai carabinieri che non riuscivano mai a prenderli. Così, con la caccia e con la pesca, si procuravano un po' di proteine nobili. Tutte queste cose rendevano affascinante, ai miei occhi, l'infanzia di mio padre, e così la Casetta, teatro di questa infanzia avventurosa, era, per me, un luogo mitico. Credo che fu nel 1934 che, per la prima volta, mio padre decise di trascorrere i venti giorni di ferie alla Casetta, dove viveva ancora mio nonno. Per andare da Monzone a Camporgiano bisognava passare dal passo dei Carpinelli, non esistendo all'epoca nè la ferrovia nè altre strade. Era una strada provinciale, sterrata e mal tenuta. Ci spostavamo noleggiando l'auto del Massimo, unico autista che faceva servizio pubblico a Monzone, e già questa era una avventura. Al ritorno, invece, noleggiavamo la macchina del Nilo Santarini, che faceva servizio a Camporgiano. La prima volta che arrivammo alla Casetta, entrammo dal cancello, raggiungemmo la casa ed entrammo. Il nonno, che, evidentemente, non ci aspettava così presto, ci guardò stupito e disse: - Come avete fatto a entrare, il cane non vi ha sbranato ? - E ci spiegò che, oltre al vecchio Fido, buon cane peloso e pacifico, aveva, ora, anche un cane-lupo da guardia molto cattivo, che impediva a chiunque di entrare dal cancello. Stranamente al nostro ingresso non aveva fatto obiezioni, forse sconcertato dalla nostra sicurezza o, forse, rassicurato dal nostro odore che aveva trovato familiare. La casa mi piacque subito moltissimo. Intorno c'era un verde lussureggiante, con tanti alberi carichi di frutta, davanti un bel piazzaletto cementato e, all'interno, una gradevole frescura.

La prima stanza a destra era un salottino, di cui ricordo il lampadario, che era un semplice piatto, abbellito, però, da una cortina di perline di vetro colorato che scendevano con un grazioso effetto dal piatto, tutto intorno. Qui, la sera, spesso giocavamo a carte con Jaccò, cioè Jacopo Pellegrinetti, fratello di mio nonno. La stanza successiva, sempre sulla destra, era una cucina usata come dispensa. Ho ancora nelle narici l'odore fortissimo di certe mele che il nonno conservava lì in gran quantità, ammucchiate per terra. C'era, poi, uno scrigno, delle botti, delle damigiane e molti attrezzi. La cucina era di fronte a questa, di là dal corridoio. Ricordo la vetrina, che doveva essere l'unico mobile oltre al tavolo e alle sedie, sulla cui base stava sempre un grande coppo di terracotta smaltata pieno del latte portato dal contadino. Il coppo era sempre ben coperto, perchè sulla stessa base stavano sempre alcuni gatti, specie quando si stava mangiando seduti intorno al tavolo. Altri stavano tutti intorno, sulla finestra o sulle sedie. Il nonno, infatti, aveva una diecina e forse più di gatti. Essi dormivano nel sottoscala, da cui potevano entrare e uscire liberamente attraverso un foro nel muro che dava sul retro della casa, sotto il terrazzino. Al mattino, però, uscivano tutti insieme dalla porta, non appena qualcuno gliela apriva, ed era uno spettacolo vedere questa torma di gatti che dilagavano per la casa. Non ricordo cosa c’era nella stanza di fronte al salottino.

 Di sopra c'erano quattro camere da letto. Anche il nonno Carlo mi piaceva, ancora bello diritto e giovanile (una volta lo vidi con stupore che faceva ginnastica con una sedia, sulla quale si issava con una gamba sola). Non ho mai potuto prendere molta confidenza con lui, però, dato il suo carattere  molto riservato. Davanti al forno, che era a fianco della casa, c'era un enorme pianta di sambuco, formata da quattro o cinque grandi tronchi alti alcuni metri. Guido aveva legato delle corde tutto attorno a questi tronchi, a vari livelli, per cui ci si poteva arrampicare su queste corde come su una scaletta , e si poteva sostare in alto, sempre stando su queste corde robuste. Lassù immaginavamo diverse avventure. Mi piaceva molto. Mi piaceva molto arrampicarmi dovunque. Così anche nel "boschetto" che è lì vicino, mi arrampicavo, con l'aiuto di Guido, sugli altissimi lecci e querce. Alla Roncaiana, che è un casolare vicino, c'era una bella ragazza chiamata Berta, che veniva ad aiutare la mamma nelle faccende domestiche. Essa mi faceva divertire portandomi a cavalcioni. E anche questa cosa la ricordo con piacere. A volte veniva anche un ragazzo un po' più grande di me, di nome Giordano e Guido lo coinvolgeva nei nostri giochi. Mi aveva detto che quello era Scarabisci, un personaggio delle favole di Rintintin. Lui stesso, così come Guido gli aveva detto di fare, affermava di essere Scarabisci. Io non so se ci credevo veramente. Ma, probabilmente, mi piaceva crederci per sentirmi immerso nel mondo della favola. Una volta accadde una cosa che ci fece molto ridere. La mamma, che con me era prodiga di "coccole", usava chiamarmi "Bì" , abbreviazione di "bimbin", allora molto usata quando ci si rivolgeva a un bambino. Inoltre mi parlava, per gioco, con linguaggio infantile. Così, per esempio, chiamava "pepè" il caffè. E, quel giorno, volendomi dare un cucchiaino di caffè (stranamente mi dava il caffè malgrado fossi ancora molto piccolo), chiamò dall'interno della casa dicendo : - O bì, venite che la mamma vi dà il pepè - E Giordano, servizievole, pensando non avessi udito, mi ripetè il messaggio dicendo - Bì (credette fosse quello il mio nome) vai in casa che la tua mamma ti deve dare il pepe -. Ma le cose che ricordo con maggior piacere sono le passeggiate che facevamo fino al fiume Edron e lungo di esso, nella fitta foresta di ontani. Papà mi prendeva a cavalcioni, ed io, fingendomi a cavallo, con un bastoncino che fingevo essere una spada, colpivo le foglie degli ontani, fingendo, così, di aprirmi la strada nella giungla. Guido, poi, evocava le più belle avventure lette nei libri di Salgari e fingeva che noi le stessimo vivendo. Ricordo due nomi : Cardozo e Mastro Diego, che ci attribuivamo spesso. Erano personaggi di qualche romanzo salgariano che non ricordo quale fosse (forse Il continente misterioso), ed io mi immedesimavo in queste storie e mi divertivo immensamente. Ricordo anche con molta tenerezza certi momenti trascorsi col babbo "in cima alla vigna". E', questo, un luogo vicino alla casa dove spesso il babbo andava a prendere il sole a torso nudo (diceva che gli faceva bene ai bronchi, irritati dal fumo).

 In quei momenti mi piaceva stare con lui, giocarci saltandogli addosso e ricevere la sue "coccole". Mio padre è sempre stato molto affettuoso con me e, questo, mi ha sempre fatto molto bene.

 Anche le partite a carte con Jaccò le ricordo come momenti felici. La mamma ha continuato a ricordare per anni, ridendone molto, un episodio curioso. Quella sera Jaccò aveva come compagno di gioco il Placido, un ragazzotto figlio del "Main" (tale Mariani che abitava in una baracca sulla strada provinciale, non lontano dalla Casetta) che dormiva con Jaccò per fargli compagnia (accadde dopo la morte della Genoveffa, la moglie di Jaccò). Il Plà doveva giocare ed era esitante sul da farsi. Così Jaccò, impaziente a rabbioso come sempre, lo esortò dicendogli con voce stizzita : - Via ! Via ! Via ! - Il Plà, allora, calò una carta e prese qualcosa (si giocava a scopone). Mal gliene incolse ! A seguito della sua mossa, infatti, gli avversari fecero scopa e la partita fu compromessa. Ed io non so descrivere l'ira di Jaccò, che investì il povero Placido con male parole. Il Plà, poveretto, con la sua voce calma,tentò di giustificarsi dicendo:  - Ma me lo avete detto voi di prendere ! - Al che Jaccò si infuriò ancora di più, se possibile, e ribattè : - Io ti ho detto "Via, Via !" per farti decidere a giocare ! - E il Plà, desolato : - E io ho inteso "Pia" (cioè "Piglia") - . Allora tutti scoppiammo in una risata e anche Jaccò si calmò.

  Mi pare che le vacanze alla Casetta le abbiamo fatte per tre o per quattro anni (non ricordo se si venne anche nel 1938, dopo che era accaduta la disgrazia del Beniamino), ma Guido venne soltanto la prima volta. Comunque per me sono state sempre molto belle, anche perchè era una occasione per passare molto tempo, intere giornate, con mio padre. Normalmente, infatti, lo vedevo solo la sera. Una volta, forse l'ultima, poichè ero ormai più grande, mio padre decise che lui ed io saremmo venuti in motocicletta, mentre la mamma sarebbe venuta in auto come al solito. Fu una gita che mi dette immenso piacere. Infatti il babbo aveva portato l'occorrente per cucinare, che usava sempre quando andava in montagna, e, giunti nei pressi del passo dei Carpinelli, trovammo una selva pianeggiante e ben pulita e lì ponemmo il nostro piccolo accampamento. Papà montò il piccolo fornello a spirito e mise a bollire l'acqua. Ricordo che essa tardava a bollire, forse perchè  c'era un po' di brezza che portava via il calore della piccola fiamma, tuttavia riuscimmo in qualche modo a far cuocere gli spaghetti che risultarono ottimi (il ragù lo avevamo portato bello e pronto). Dopo aver pranzato con molto gusto in quel luogo veramente ameno, ci riposammo un po' all'ombra dei castagni, poi riprendemmo la strada e giungemmo felicemente alla Casetta. Le strade di allora, però, erano piene di buche e di carreggiate profonde (allora circolavano ancora molti più barrocci che auto e, questi, con le loro strette ruote fasciate di ferro, segnavano profondamente le strade) e viaggiare in moto non era agevole, anche perchè le motociclette di allora avevano sospensioni molto rigide, per cui era normale che, dopo un viaggio in moto, la notte io facessi la pipì a letto. Ciò a causa degli sballottamenti subiti durante il viaggio. Una volta, addirittura, un sobbalzo più forte del solito mi sbalzò così in alto che persi la presa e andai a finire seduto per terra. Papà si prese un grande spavento, ma io non mi feci nessun male perchè a terra c'era un tappeto di foglie che attutì il colpo. Anzi la cosa mi parve così buffa che scoppiai in una irrefrenabile risata. E così il babbo, che si era subito fermato ed era venuto verso di me pieno di preoccupazione, fu subito tranquillizzato. Una cosa gradevole, dopo le vacanze alla Casetta, era anche il ritorno a casa, dove trovavo due o tre numeri del Corriere dei Piccoli e altrettanti della Domenica del Corriere, che leggevo con grande piacere. Ricordo che una volta, mentre stavamo per lasciare Camporgiano (quella volta stavamo partendo con una corriera, ma non ricordo che percorso facesse. Forse arrivava a Piazza al Serchio. O forse a Minucciano ?) e c'era lo zio Azelio che ci salutava, io ero triste per la fine della vacanza e dicevo che avrei voluto rimanere ancora. Allora Azelio mi disse : - Rimani a casa mia, poi il papà viene a riprenderti fra qualche giorno - Ed io, che mi divertivo assai anche con il cugino Giannetto, dissi di sì. Mamma e papà, anche se un po' perplessi, finirono per convincersi e stavano per darmi qualche soldo per piccole necessità. Essi stavano già sulla corriera e papà si stava frugando in tasca per cercare qualche moneta, quando Azelio disse : - Glieli do io - e mi porse una lira che io presi e misi in tasca. Al momento della partenza della corriera, però, un po' per il fatto che la mamma continuava a dirmi di partire con loro, e un po' anche per il fatto che a casa mi aspettavano i suddetti giornali di cui già pregustavo la lettura, cambiai improvvisamente idea e saltai sulla corriera. Senza pensare di restituire la lira allo zio Azelio, cosa che, in seguito, mi sembrò brutta e mi dispiacque assai.  Da quegli anni, cioè il 1937 o il 1938, non rividi più la Casetta fino al 1943, come dirò.

 

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                    20 - LA TESTA ROTTA E LE SPALLE BRUCIATE

 

 

Capitava ogni tanto, anzi abbastanza spesso, che mi facessi male da qualche parte, come ho già avuto modo di raccontare. Una volta mi ruppi la testa ed ecco come: Stavo giocando a nascondino nella zona antistante la nostra casa che comprendeva tutta la zona a fianco e dietro la casa di Giannon, la "barberia" (era una piccola costruzione a quel tempo non più usata), la strada e la selva delle Angelini. Il punto dove bisognava toccare per primi per essere "liberi" era la murella della ferrovia, proprio dove finiva il nostro piazzale. Quella volta io ero nascosto dietro la casa di Giannon e, a un certo punto, presi la corsa per andare a toccare la murella prima del bambino che aveva "contato" e che doveva trovarci. Correvo velocissimo e stavo per farcela.... ma, giunto all'altra murella che divideva il piazzale dalla strada e che, in quel punto si faceva bassa fino a finire allo stesso livello della strada, mi inciampai clamorosamente e partii a tuffo verso la murella della ferrovia distante poco più di due metri. Naturalmente la raggiunsi come un bolide ma, anzichè con le mani, la toccai con la testa e in modo così energico che la testa mi rimbombò tutta. Il dolore fu forte ed io mi sedetti sulla murella tenendomi la testa fra le mani e piagnucolando un po'. Piano piano, però, il dolore cessò ed io mi rimisi a giocare e non ci pensai più. Poco dopo la mamma mi chiamò a cena ed io andai. Mentre ero seduto a tavola e la mamma era in piedi dietro di me per servirmi la cena, io sentii qualcosa di liquido scorrermi lungo il collo e protestai dicendo che la mamma mi aveva fatto cadere qualcosa addosso. La mamma disse che non era possibile, ma io insistei e dissi : - Lo sento bene che qualcosa mi cola per il collo, guarda qui ! - Allora la mamma guardò e vide che era sangue. Subito allarmata posò il vassoio e volle sapere cosa avevo fatto. Immediatamente mi ricordai della testata e lo dissi. Anche il babbo e la nonna si erano allarmati e, insieme alla mamma esplorarono fra i miei capelli e presto videro una feritina proprio al culmine del capo. Era cosa da poco, ma intanto io mi ero preso un bello spavento. Comunque la mamma prese le forbici, tagliò i capelli intorno alla ferita e la disinfettò. E, dopo qualche rimbrotto, tutto tornò quieto.

 Un'altra volta, era d'estate, io ero andato con degli amici al fiume, dove era piacevole stare coi piedi nell'acqua fresca. Qui rimanemmo a lungo, guardando degli uomini che pescavano, ed io non mi accorsi che il sole stava bruciando la mia pelle. Così, quando tornai a casa, le spalle e le braccia cominciarono a bruciarmi terribilmente, tanto che cominciai a piangere disperatamente (dovevo avere sei o sette anni).

 La mamma, allora, mi unse la pelle arrossata con olio d'oliva, poi mi prese in braccio e mi consolò. Sarebbe stato bello stare lì in braccio a godersi le coccole, ma il bruciore mi tormentava e mi toglieva tutto il piacere. Ci vollero dei giorni perchè il fastidio passasse e, alla fine, cambiai completamente la pelle.

 

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                      21 - MANUELE E IL FUOCO NELLA SCARPA

 

 

Il Manuele è stato certamente uno dei miei amici più cari. Egli aveva tre anni più di me, ma era molto paziente e trascorreva volentieri molto tempo con me. Talvolta a casa mia, talvolta a casa sua. Quando andavo a casa sua, però, non stavamo mai in casa ma sempre fuori, nei dintorni. La sua casa era subito sotto la "gora", che si attraversava su un piccolo ponticello senza spallette. Sopra la "gora" c'era un suo orticello che arrivava, salendo un poco, fino a una collinetta di "tufo". Qui ogni anno scavavamo (usando la "penna" di un martello) un blocco di tufo che, reso opportunamente cavo, fungeva da grotta della natività nel presepio che facevamo in casa mia. Una volta accadde una cosa buffa mentre cercavamo di estrarre il nostro blocco di tufo. Col martello avevamo, ormai, scavato tutto intorno e anche dietro al nostro blocco, che stava ormai per staccarsi. Manuele, stando davanti al blocco, dava gli ultimi colpi di martello. A un tratto il blocco si staccò e, essendo tondeggiante, prese a ruzzolare per il pendio. Manuele, che se lo vide venire addosso, piantò lì il martello e, a passi lunghissimi (stralanci, dicevamo) prese a correre inseguito dal blocco. Naturalmente appena giunto nel piano il blocco si fermò e Manuele fu salvo. Ma fu buffissima questa sua fuga a "stralanci". Egli aveva sempre degli scarponi enormi e pesanti, che gli impedivano di fare passi molto frequenti e veloci. Così suppliva con la lunghezza del passo.

 Una volta eravamo nella selva, vicino al suo orto, e, per gioco, avevamo acceso un focherello. Ma a un tratto Manuele guardò di là dal fiume, dove era la caserma dei carabinieri, e gli parve di vedere qualcuno che ci osservava. Così, senza dirmi nulla, saltò coi suoi piedoni sul fuoco e cominciò a pestarlo per spengerlo, temendo una contravvenzione. Io, che non avevo capito il motivo del suo comportamento frenetico, lo guardavo esterrefatto e gli chiedevo spiegazioni senza, però, ottenere risposta. E ancora più esterrefatto lo guardai (forse pensai fosse impazzito) quando, improvvisamente, lo vidi partire di corsa e, a grandi stralanci, giungere alla gora e saltarci dentro a piè pari. Solo allora parve calmarsi. Io mi avvicinai mentre lui si tirava sù e si metteva a sedere sul ponticello lasciando penzolare i suoi piedi grondanti e, finalmente, ebbi la spiegazione: temendo una contravvenzione si era dato da fare per spengere il fuoco, ma una brace gli era entrata in una scarpa. Da cui la corsa e il....pediluvio. La sera, a casa, raccontavo con piacere le mie avventure del giorno e queste cose del Manuele facevano ridere tutti di gusto. Dicevamo che Manuele, per la sua figura allampanata e il suo modo di muoversi dinoccolato somigliava a Pippo, l'amico di Topolino, e, questo, me lo rendeva sempre più simpatico.

 

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                            22 - LA FIONDA GIGANTE

 

 

Quel giorno, doveva essere nel 1938 o nel 1939, era d'inverno ed io ero nell'orto sgombro di coltivazioni insieme al Manuele. In quel periodo giocavamo spesso con la fionda, fatta da noi stessi con un rametto a forcella, due elastici e un pezzo di cuoio su cui si appoggiava l'oggetto (sasso o altro) da lanciare. Cosi`, chiacchierando, ci venne in mente di costruire una fionda gigante, con la quale progettavamo di lanciare grosse pietre a grande distanza. Pensavamo, addirittura, di poter colpire la costa che sovrastava la strada di Equi, al di la` della ferrovia, della strada di Vinca, del Sottogora e del fiume Lucido. Ci mettemmo a studiare come fare e passammo subito alla realizzazione del progetto. Cosi` prendemmo in cantina un grosso ramo che formava, a una estremita`, una grande forcella e, fatto un buco nel terreno, ve lo piantammo saldamente, con la forcella in alto, orientata in modo da poter lanciare i nostri proiettili nella direzione voluta. Fatto questo, ci procurammo una vecchia camera d'aria di una ruota d'auto e ne ricavammo due lunghe strisce di gomma. Queste le fissammo ai due rami della forcella e legammo le estremita` opposte a un bel pezzo di cuoio ricavato, mi pare, dalla tomaia di una vecchia scarpa. Dopo una buona oretta di intenso lavoro, ci fermammo ad ammirare il risultato del nostro lavoro e ne fummo soddisfatti. La forcella piantata a terra si sollevava per piu` di un metro, e circa un metro era lunga ciascuna delle due strisce di gomma. Era, insomma, quella fionda gigante che avevamo immaginato. Ora non restava che provarla. Manuele ando` nella ferrovia che costeggiava l'orto e prese un bel sasso di fiume (all'epoca le massicciate delle ferrovie erano fatte con ghiaione di fiume) rotondo e grande come un pugno. Quello sarebbe stato il nostro primo proiettile. Eravamo visibilmente emozionati e gia` ci figuravamo il proiettile sibilare nell'aria, superare ferrovia, strade, campi, fiume e colpire la costa, il nostro bersaglio. Sistemammo il sasso dentro il pezzo di cuoio, lo serrammo con le mani, e, tirando entrambi, cominciammo a tendere le due grosse strisce di gomma. Tiravamo all'impazzata, puntando i talloni nella terra morbida dell'orto, tutti protesi all'indietro....Quando non ce la facemmo piu` a tirare, a un segnale mollammo la presa e guardammo in alto, dove pensavamo di vedere la pietra che correva veloce verso la costa. Ma non ci fu nessuna pietra in volo. Essa, dopo aver a malapena superato la forcella, cadde a terra e li` giacque. Noi rimanemmo immobili a fissarla, curvi per la delusione, e, per chi ci avesse visti, credo saremmo stati uno spettacolo esilarante. Dopo poco, pero`, anche noi ci guardammo in faccia e scoppiammo in una gran risata. Il contrasto fra le nostre speranze e la realta` di quel sasso che aveva fatto "plof" cosi` miseramente era troppo comico. Capimmo che avevamo fatto, si`, una fionda gigante, ma per usarla ci sarebbe voluto un gigante. Noi non ce l'avremmo mai fatta a tendere quelle grosse strisce di gomma. E non ci pensammo piu`.

 

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                             23 – IL TONI E LE CINQUE LIRE FALSE

 

Il Toni, figlio più piccolo del Pallucola, aveva due anni meno di me ma pareva ne avesse almeno quattro di meno, tanto era piccolino. In famiglia, essendo il più piccolo, era molto coccolato specie dal padre e lui, furbo matricolato, faceva la parte del bambino piccolino, il che gli consentiva di avere facilmente il perdono per le sue birichinate nonché per avere frequenti regalini. Quando voleva qualcosa dal padre faceva la voce da bambinello piagnucoloso ed era difficile che non rimediasse dieci o venti centesimi per comperare qualche caramella.

 Fuori di casa, invece, il Toni cambiava completamente. Invece che il piccolo, faceva il grande e trattava da pari a pari anche coi ragazzi maggiori di età. Era furbo come una volpe e sapeva trarre profitto da tutte le situazioni favorevoli senza mai lasciarsi sfuggire le occasioni.

 Era uno dei miei amici più frequentati, benchè all’epoca io avessi nove o dieci anni e lui soltanto sette o otto. Eravamo spesso in giro per la campagna a rubacchiare qualche frutto, specialmente noci. Talvolta salivamo sul barroccio del suo fratello più grande, ormai uomo fatto, il Carlò, quando andava a una cava sulla via di Vinca a caricare il quarzo per uno stabilimento che lo lavorava.

Il cavallo – di nome Pippi – ogni tanto si fermava di botto e cominciava a pisciare abbondantemente con un forte rumore di scroscio, creando nella strada sterrata un vero e proprio ruscelletto di pipì. E il Carlò, curiosamente,  si alzava in piedi e, dall’alto del barroccio, faceva anche lui, insieme al suo cavallo, la sua brava abbondante pisciata.

 Una volta mia madre venne in cucina dopo aver chiuso la bottega e, costernata, ci mostrò una moneta da cinque lire dal metallo annerito dicendo che era falsa e che qualcuno gliela aveva rifilata ma non sapeva chi. In effetti le cinque lire erano d’argento e, in genere, avevano un bel colore argenteo. Cosa che quella moneta lì proprio non aveva. Inoltre la mamma l’aveva provata sul marmo della bilancia a piatti e aveva sentito che non aveva il bel suono argentino che avrebbe dovuto avere. Fummo tutti un po’ costernati insieme alla mamma, ma senza farne una tragedia. E le cinque lire false le presi io e me le misi in tasca per mostrarle ai miei amici. Naturalmente le mostrai anche al Toni, che si mostrò subito molto interessato. E mi disse che, se le davo a lui, le avrebbe lucidate e fatte ritornare come nuove. Io non ebbi difficoltà a dargliele e lui mi assicutò che me le avrebbe riportate il giorno dopo belle lucidate.

 Il giorno dopo, puntuale, il Toni si presentò con aria di trionfo mostrandomi le cinque lire perfettamente lucide, quasi brillanti nel loro bel colore argentato. Io ero contento e stavo per rimettermi in tasca le mie cinque lire rinnovate, quando il Toni mi fermò e mi disse: < Se me le dai io le vado a cambiare e ti riporto i soldi>

< Ma sono false > obiettai io.

< Tu lascia fare a me> ribattè il Toni e, afferrata la moneta, si diresse di corsa verso la Mancina.

 Non passarono cinque minuti che eccoti il Toni di ritorno con tre sigarette “Popolari” e una manciata di spiccioli. Si trattava di cinque lire meno trenta centesimi, il costo delle sigarette.

 Io, un po’ perplesso, intascai gli spiccioli e dissi. < Ma perché hai comperato le “Popolari” ? Potevi prendere due “Nazionali” >

<Sì> rispose il Toni con la sua buffa erre moscia < Ma cuscì arrsparmian > cioè < così risparmiamo> .

 In effetti invece delle due sigarette “Nazionali” che io avrei preferito, ne aveva comperato tre allo stesso prezzo, ma “Popolari”, cioè più scadenti.

 Il fatto è che qualche volta, per imitare i grandi, provavamo a fumare anche noi ragazzi, anzi bambini.

 Così ci accingemmo a fumare le tre sigarette, una e mezza per ciascuno. Andammo in un posto un po’ appartato della selva delle Angelini e, accese le sigarette, le fumammo faticosamente e con notevole disgusto. Quelle “popolari” erano veramente schifose ed io ero abbondantemente nauseato. Il Toni pareva averle sopportate meglio.

 Ed ecco che se ne uscì con una nuova proposta apparentemente innocente: < Giochian a testa e griffa ? >

 Bisogna sapere che fra i ragazzi del paese era molto diffuso un gioco che si faceva con le monetine (generalmente quelle da dieci centesimi). Il gioco era molto semplice: si tracciava nella terra una riga lunga un paio di metri, poi, da una distanza di cinque o sei metri, ogni giocatore (potevano essere anche in molti) lanciava la propria monetina cercando di farla arrivare il più vicino possibile alla riga. Chi era andato più vicino di tutti aveva diritto di lanciare per primo tutte le monete in aria dopo aver dichiarato se voleva testa o griffa (cioè croce). Se aveva dichiarato testa, tutte le monete che cadevano mostrando la testa erano sue. La stessa cosa accadeva, ovviamente, se dichiarava griffa. Le monete rimanenti venivano lanciate dagli altri giocatori secondo l’ordine di vicinanza alla riga. La giocata finiva quando tutte le monete erano state vinte. E, allora, bisognava ricominciare con nuove monete.

 Io conoscevo bene quel gioco perché assistevo pressochè quotidianamente ad accanite partite, giocate, in genere, da ragazzi più grandi. Però non avevo mai giocato. Un po’ perché in genere io non portavo mai soldi in tasca; ma certamente anche perché il gioco dei soldi era considerato una brutta cosa dalla mamma e dalla nonna e, probabilmente, mi scoraggiavano dallo stare insieme a quei ragazzi considerati un po’ troppo monelli.

 Così alla proposta del Toni rimasi un po’ perplesso. Ma la mia perplessità non durò a lungo. Probabilmente mi attirava l’idea di fare quell’esperienza. D’altra parte non c’erano ragazzi grandi, eravamo soltanto io e Toni e, per di più, eravamo in una selva dove non ci vedeva nessuno. E per di più ancora, avevo in tasca una abbondantissima quantità di monetine. Così accettai e, trovato un luogo pianeggiante, tracciammo la nostra brava riga in terra e ci disponemmo alla dovuta distanza per cominciare il gioco. L’astutissimo Toni, a quel punto, si fermò e disse: < Ma io a ‘ni ho soldi > (Io non ho soldi)

< E allora ? >

< Alora mi gli presti te, po’ a t’ gli ardò > (Allora me li presti tu, poi te li ridò)

 Altra perplessità da parte mia ma, alla fine, gli consegnai alcune monetine e cominciammo il gioco. Mi resi subito conto che il Toni era molto più abile di me. La monetina più vicina alla riga era quasi sempre la sua e, quindi, era quasi sempre lui che lanciava in aria le monete per primo. E cominciò a vincere. Non ho mai capito bene come facesse ma sembrava che sapesse lanciare le monete in modo che mostrassero la faccia da lui dichiarata.

 Naturalmente non sempre ci riusciva e qualche volta vincevo pure io. Ma non molto spesso. Così le monetine cominciarono a passare lentamente dalla mia tasca alla sua. A un certo punto il Toni contò le monete che gli avevo prestato e me le restituì. Ormai si era fatto il suo gruzzoletto.

 Per la verità il gioco mi divertiva e non facevo gran caso alle perdite. Giocammo a lungo, accanitamente, finchè mi accorsi che mi rimaneva una sola monetina da dieci centesimi. La constatazione che avevo perso tutti i miei soldi non mi fece certo piacere. Un po’ mi dispiacque ma non tanto. Mi ero divertito assai e questo mi bastava. Così giocai anche l’ultima monetina e persi anche quella. Il Toni ora era il legittimo proprietario di tutto il piccolo malloppo.

 Facendo la parte della persona saggia dichiarò che era ormai tempo di smettere di giocare. Io non obiettai anche perché era ormai tardi e dovevo rientrare a casa.

 A quel punto il Toni dovette provare un po’ di rimorso per avermi così bellamente depredato, e fece una cosa che già all’epoca mi parve buffa. Si levò solennemente di tasca alcune monetine – forse trenta centesimi – e, consegnandomele, disse con sussiego: < To ! Questi gli en to. Ma non gli spendr ! > (Tieni, questi sono tuoi, ma non li spendere !)

 Era, probabilmente, la raccomandazione che gli faceva il padre quando gli dava qualche spicciolo. E il fatto che egli la facesse a me era veramente comico. Tuttavia intascai le monetine e, salutato il Toni, feci ritorno a casa.

 Rientrai ancora nauseato da quella orribile “popolare” e mezzo e la nausea, invece di passarmi, crebbe sempre di più finchè vomitai. La mamma se ne preoccupò molto temendo che mi fosse capitato un disturbo di stomaco e che, magari, stessi per ammalarmi. Ed io mi guardai bene dal confessare la storia delle sigarette.

 Raccontai invece – la sera, quando c’era anche il babbo – la storia delle cinque lire. Ebbi anche qualche rimprovero per il fatto di aver spacciato una moneta falsa, ma sostanzialmente tutti si divertirono a sentire la storia del Toni che con fare paterno mi regalava trenta centesimi. La frase con cui me li aveva consegnati era troppo buffa. E ci facemmo tutti

 

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della grandi risate.

 

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                I RICORDI DI AULLA E DI MASSA

 

  Sommario:

1)               Gli amici di Aulla

2)    Le poesie              

3)    I furtarelli

4)     A scuola a La Spezia

5)     Lo schiaffo al piccolo amico

6)     Il ruzzolone del babbo

7)     Il gioco dell’indiano catturato

8)     Il piede storto

 

 

                          1 -  GLI AMICI DI AULLA

 

 

Arrivati ad Aulla (come ho detto era il 10 aprile) fummo presi per alcuni giorni dai problemi legati alla nuova sistemazione, e nessuno penso` alla scuola. Ma la pratica del mio trasferimento era stata avviata dalla Direzione Didattica di Fivizzano per cui, alla scuola di Aulla, non vedendomi arrivare, mi cercarono. Cosi` il babbo mi accompagno` a scuola subito il mattino dopo. Arrivai un po` timoroso in questo palazzone un po` tetro che a me, abituato alla scuoletta di Monzone (tre aule, tre insegnanti) pareva immenso. Trovata la mia classe (frequentavo la quinta elementare) mio padre mi presento` al maestro (ottima persona di cui, purtroppo, non ricordo il nome) il quale mi accolse con molte feste e mi presento` ai compagni con grande enfasi. E qui devo spiegare il perche` di questa eccezionale accoglienza, che mi fece piacere ma mi mise anche in grande imbarazzo. Quando ero ancora alla scuola di Monzone, la mia maestra, la ottima Pellini Panaiotti Elisa, ci parlava spesso dell'attualita` e, quindi, della guerra in atto. Noi eravamo molto partecipi (fra l'altro lo studio della storia e della geografia ne era molto incentivato) ed io, che in quel periodo trovavo piacevole cimentarmi nello scrivere delle semplici poesiole (ero diventato sensibile alle rime e alla metrica), scrissi una poesia sulla guerra, che riporto in calce. Quando questa poesia fu letta dalla maestra, alla quale l'avevo mostrata, ella ne fu entusiasta, la lesse in classe, mi fece molti elogi e la invio` anche alla Direttrice Didattica. Questa scrisse alla maestra e a me, elogiando la mia poesia e, addirittura, la invio` al Federale di Massa che, pure, mi scrisse una lettera di elogio. A seguito di tutto cio`, al momento del mio trasferimento, insieme alla normale documentazione di rito, fu inviata ad Aulla la mia poesia con tutti gli apprezzamenti che aveva provocato. Questo fece si` che nella classe che mi attendeva si generasse un interesse per me e una aspettativa particolare. Da cui le eccezionali accoglienze. E cosi` il maestro lesse alla classe la mia poesia, io diventai molto popolare e tutti i bambini volevano conoscermi. La mia permanenza in quella classe, pero`, fu di breve durata, come diro`, per cui non feci a tempo a stringere delle vere amicizie. Di tutti quei bambini ricordo soltanto un cognome : Ceschi. Si trattava del figlio di un noto avvocato di Aulla che, poi, e` diventato giudice e di cui ho avuto notizie da mio fratello che lo ha conosciuto bene a Massa ove risiede. Egli ha detto a mio fratello che ricorda bene me e la mia poesia di allora. D'altra parte di quel periodo di scuola ricordo pochissimo. L'unica cosa nuova che mi impegno` un po' fu lo studio delle misure non decimali e delle operazioni relative, cose che a Monzone non avevamo ancora affrontato.

 Ho detto che rimasi poco in quella classe. Accadde, infatti, che un mattino, mentre ero a scuola, comincio` a dolermi la pancia. Sul momento la cosa era sopportabile, ma piu` passava il tempo e piu` il dolore si faceva forte. Quando, finalmente, fu tempo di uscire, mi avviai verso casa piegato in due per il dolore. Appena a casa andai al gabinetto e.....lo usai. Avevo una forte diarrea. Il dolore, pero`, non accennava a passare, per cui i miei mi misero a letto e chiamarono il dottore. Era un vecchio medico condotto di nome (lo ricordero ?) che diagnostico` subito : "ITTERIZIA". Infatti le mie feci erano di colore giallo chiaro, le orine molto scure, il colorito del viso giallastro e il bianco degli occhi macchiato di giallo. Mi mise a dieta molto stretta : mangiare poco e cose strane : la piu` insopportabile era il "pancotto". Io mal sopportavo quella dieta ed il medico, forse un po' troppo debole, mi concedeva delle deroghe che, evidentemente, erano inopportune, perche` non miglioravo. Passarono diversi giorni e la situazione era stazionaria, cosicche` i miei, pur a malincuore perche` era un buon uomo, non chiamarono piu` il dottor (come si chiamava ?) e chiamarono, al suo posto, il Dottor Lorenzetti.

 Era, costui, un uomo allegro, che mi teneva su` il morale con il suo scherzare (mi chiamava "il cinesino" burlandosi del mio colore e, cosi` facendo, sdrammatizzava la situazione) e che, preso atto delle mie antipatie alimentari, pur essendo inflessibile nel vietare cio` che avrebbe potuto nuocere, mi trovo` una dieta gradevole. Ricordo in particolare le enormi piattate di patate lesse e condite con olio crudo, sulle quali veniva scodellato un uovo "in camicia" cioe` anche quello lessato. Trovavo tutto cio` molto gustoso, quindi ricominciai a mangiare normalmente e rapidamente migliorai fino a guarire. Erano, pero`, passate alcune settimane e la scuola, nel frattempo, era finita. Un giorno il mio buon maestro venne a casa a consegnarmi la pagella da cui risultavo promosso con ottimi voti. Questo mi rallegro` assai e comincio` a farmi pensare alla Scuola Media che avrei dovuto frequentare l'anno dopo, una volta superato l'esame di ammissione che, avendo ormai perduto la sessione estiva, avrei dovuto sostenere nella sessione autunnale. Finita la mia malattia, intanto, ricominciai a uscire, ma, come ho detto, ero senza amici. Stavo molto con Rinaldo, di un anno o due piu` piccolo di me, che abitava nell'altro appartamento della nostra casa, ma tentavo anche di avere rapporti con altri. Ricordo che, una volta, mi ero avvicinato a un gruppo di ragazzi che giocavano a pallone nei pressi di casa mia. Mescolatomi a loro, tentavo di dare qualche calcio al pallone ma ci riuscivo molto raramente perche` i ragazzi non lo lasciavano arrivare a me ed erano evidentemente ostili. A un tratto il pallone sfuggi` al loro controllo e venne direttamente verso di me. Me ne rallegrai e mi accinsi a dare, finalmente, un bel calcio pieno e forte. Mi preparai e, al momento opportuno, sferrai un calcio poderoso ma....mancai clamorosamente il pallone. Tutti i ragazzi esplosero in una risata fragorosa e irridente, per cui io, umiliato e scoraggiato, me ne venni via.

 Per fortuna lavorava nell'ufficio di mio padre (credo come apprendista volontario) un giovane di nome Vasco, col quale avevo fatto amicizia e col quale facevo, quasi quotidianamente, delle belle gite in bicicletta (lui veniva a lavorare in bicicletta da qualche paese vicino ed io avevo la mia amatissima bicicletta). In genere l'ora in cui potevamo farlo era durante la pausa del desinare. Mi pare che l'ufficio riaprisse alle 15, per cui avevamo circa due ore di tempo a disposizione. Esploravamo tutti i dintorni, spingendoci verso Terrarossa e Pontremoli, ovvero verso La Spezia, ovvero verso la Lunigiana orientale (Pallerone, Soliera...), ovvero in stradine secondarie dei dintorni. Un giorno avevamo preso la via di Pallerone ed io mi sentivo particolarmente desideroso di pedalare. Cosi`, raggiunto Pallerone, io decisi di proseguire e Vasco mi assecondo`.

 Raggiungemmo ,cosi`, Serricciolo, poi Rometta, poi la stazione di Soliera.....Vasco comincio` a preoccuparsi perche` non avremmo fatto a tempo a tornare entro le 15, ma io, ormai, volevo proseguire ancora e arrivare a Monzone (che, da Aulla, dista una ventina di chilometri).

 Cosi` dicevo a Vasco, sfuggendogli avanti, - Ancora un pezzetto, ancora un pezzetto ! - . Vasco, ormai disperato, cercava in tutti i modi di farmi tornare indietro ma io non lo ascoltai finche` non arrivammo a Monzone. Arrivai fino nei pressi della nostra vecchia casa e, nei pressi della famosa "murella" trovai alcuni ragazzi ovviamente conosciuti anche se non proprio amici e un paio di donne. Tutti rimasero stupiti nel vedermi li` e nell'apprendere che ero venuto in bicicletta. Mi sentii un po' l'eroe di quell'impresa. Non mi fece piacere, pero`, il fatto che tutti mi trovarono molto ingrassato.

 Ci fermammo pochi minuti, dopo di che riprendemmo la via del ritorno. Per quanto veloci cercassimo di andare, non era certo possibile arrivare in orario. E, infatti, arrivammo in grave ritardo ( mi pare dopo le sedici) e trovammo mio padre e mia madre preoccupati assai.

Io raccontai fieramente la mia impresa ma non fui affatto lodato. Mio padre specialmente era molto irritato, specie con Vasco, che tentava, aiutato da me, di spiegare che non era stata colpa sua. Questi rimproveri che il povero Vasco dovette subire per colpa mia mi addolorarono molto. La cosa, pero`, non ebbe ulteriori conseguenze e anzi, in seguito, sbollita l'ira e la preoccupazione, anche mio padre, mia madre e Guido mostrarono stupore e apprezzamento per la mia impresa, che potei raccontare con dovizia di particolari, come sempre mi e` piaciuto fare.

 Con Rinaldo, invece, non ricordo di aver fatto gite in bicicletta. Forse non la possedeva. Ricordo, invece, di aver fatto piacevoli escursioni nelle campagne circostanti, sia verso il fiume Magra, sia verso la fortezza di Aulla. In genere Rinaldo doveva fare l'erba per i suoi conigli, ma avevamo molto tempo anche per divertirci. Nei pressi della nostra casa c'era una grossa struttura per la trasformazione e la distribuzione di energia elettrica alla linea ferroviaria, la Spezia-Parma che, essendo una linea interna, veniva abbondantemente utilizzata per il trasporto di materiale bellico (ricordo i lunghi treni merci carichi di carri armati) verso il porto de La Spezia.

 Tale struttura, che aveva le dimensioni di una piccola centrale elettrica, era sorvegliata da sentinelle che facevano parte di un piccolo distaccamento alloggiato in una baracca di legno. Il posto di guardia di una sentinella era situato lungo una stradina secondaria, nei pressi di un passaggio a livello che io e Rinaldo attraversavamo spesso nelle nostre esplorazioni. Accadde, cosi`, che facemmo conoscenza e, poi, diventammo veramente amici, di tutti i soldati del distaccamento. Ne ricordo in particolare uno, siciliano, che si chiamava Gatto Giuseppe, col quale ho continuato a scambiare lettere anche dopo che era stato trasferito. Quando lui era di sentinella, ci fermavamo a lungo con lui a chiacchierare. Ci raccontava cose della vita militare e cose della sua vita che ascoltavamo volentieri. Eravamo molto incuriositi dal fatto che le sentinelle avevano, ogni giorno, una "parola d'ordine" segreta, e avremmo voluto che ce la dicesse. Saremmo stati, cosi`, partecipi di un segreto. Naturalmente non ce la disse mai. Ci diceva, invece, quelle "scadute", cioe` quelle dei giorni precedenti. Mi pare di ricordare che le nostre mamme ci facevano portare a questi soldati dei piccoli regalini (credo cose da mangiare, forse dolci) ma non ne sono tanto sicuro. Un giorno eravamo con Giuseppe che era di guardia e, come al solito, chiacchieravamo con lui. Ammiravamo la compostezza di questo soldato che, inappuntabilmente vestito con la divisa grigioverde, bustina in testa, passeggiava avanti e indietro con molta calma e dignita`. Li` vicino, pero`, c'era quel giorno un agricoltore che trafficava intorno alle sue api. Accadde, cosi`, che queste api, infastidite dall'agricoltore (il quale era accuratamente protetto da una maschera di rete e da vestiti adatti), si avventarono su di noi che eravamo li` presso.

 Ovviamente bisogno` difendersi smanettando e dandosi degli schiaffi la` dove le api si posavano, per cui il povero Gatto Giuseppe dovette perdere il suo "aplomb" e darsi a smanettare, perdendo la bustina e con il fucile che gli ciondolava scompostamente da un braccio. La cosa fu molto comica e ci ridemmo tutti e tre di gusto, anche se dovemmo subire qualche puntura.

 Nel corso dell'estate, poi, i miei decisero di ritornare a Monzone a trascorrervi una ventina di giorni di vacanza (anche perche` si era fatta l'ipotesi che la causa della mia itterizia fosse stato il dispiacere per essere venuti via da Monzone). Credo fosse ai primi di settembre. Affittammo un appartamento al Ponte, nella casa dell'Ernesta, proprio di fronte alla casa del Giannetti dove io ero nato, e trascorremmo una lieta vacanza. Io ritrovai tutti i miei amici con i quali passai giornate liete di giochi all'aria aperta. Ero ancora un po' grassoccio ma stavo riprendento il mio peso forma.

 Inoltre ebbi la netta sensazione che stavo diventando grande. Per la prima volta vidi me stesso non piu` come un bambino ma come un ragazzo piu` grande (non conoscevo il termine "pre-adolescente") e la cosa mi rese piu` sicuro : si aprivano nuove prospettive alla mia vita.

 Ai primi di ottobre mio padre, che aveva provveduto a fare le pratiche necessarie, mi accompagno` a Pontremoli per sostenere l'esame di ammissione alla scuola media. Era una cosa molto seria : dettato, tema, compito di matematica....Duro`, fra scritti e orali, quasi una settimana. Feci bene, come al solito, gli scritti di italiano e non male anche quelli di matematica. Agli orali, pero`, non fui affatto brillante. Mi era di ostacolo una certa accentuata timidezza ma, per quanto riguarda la matematica, ricordo di essermi abbondantemente impappinato con dei numeri molto grossi (milioni, miliardi) con i quali, probabilmente, avevamo lavorato poco alle elementari. Ad ogni modo fui promosso e fui iscritto alla prima media a La Spezia. Da un anno era in vigore la Riforma Bottai che aveva istituito la Scuola Media Unica, dalla quale si poteva, poi, accedere, a tutte le scuole secondarie superiori. Con l'inizio delle lezioni, verso la meta` di Ottobre, comincio` una nuova interessante esperienza. Ritrovai il mio amico Bertino di Monzone e conobbi altri amici. In particolare un bravo ragazzino di cui non ricordo il nome di battesimo perche` ci chiamavamo per cognome. Il suo era Fontani, era di Aulla, aveva un fratello maggiore che conosceva mio fratello, ma di lui non ho mai piu` avuto notizie. All'epoca andavamo molto d'accordo e qualche volta ci vedevamo anche fuori dalla scuola, a casa mia, per giocare insieme.

 Rinaldo, naturalmente, continuavo a vederlo pressoche` tutti i giorni e facevamo insieme molte cose. Andavamo molto spesso, per esempio, a prendere l'acqua fresca ad una fontanina che era presso la stazione.

 Per farlo entravamo direttamente nel territorio della ferrovia per un passaggio che era vicino alla nostra casa (lo usavamo anche ogni giorno per andare alla stazione a prendere il treno). Un giorno stavamo ritornando a casa per quella stessa via portando un fiasco d'acqua ciascuno. A un tratto, giocherelloni come eravamo, prendemmo a camminare all'indietro cercando di farlo il piu` velocemente possibile. Purtroppo io andai ad inciamparmi in una catasta di traversine e caddi all'indietro. Il fiasco sbatte` violentemente contro le traversine , si ruppe e un frammento di vetro mi taglio` ben bene un gomito. Il sangue usciva copioso per cui, quella volta, dovetti parlare dei miei guai alla mamma che mi disinfetto` e mi fascio` non senza avermi sgridato ben bene.

 

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                                   2 - LE POESIE

 

 

In casa nostra si e` sempre guardato alla Poesia con molto rispetto e amore. Mio fratello Guido, di dieci anni piu` anziano di me, spesso, la sera, davanti al fuoco, amava leggere le poesie che studiava a scuola a mio padre, che lo apprezzava molto. E, naturalmente, tutti ascoltavamo e le poesie e i commenti. Ero ancora abbastanza piccolo, quindi, quando cominciai ad ascoltare con interesse quello che dicevano i grandi. Avro` avuto, al massimo, sette o otto anni.

 Ricordo, cosi`, di aver sentito e anche apprezzato poesie come "Davanti a San Guido" o "Faida di comune" di Carducci. Naturalmente anche a scuola imparavamo a memoria molte poesie, e anche quelle erano sempre di mio gradimento. Ricordo, per esempio, "Valentino" di Pascoli, "San Martino" di Carducci, "I pastori" di D'Annunzio, "La pioggerellina di Marzo" di Angelo Silvio Novaro, ecc. E anche il "Corriere dei Piccoli" di cui ero affezionato lettore, pubblicava delle poesie che mi piacevano assai. In questo clima, era abbastanza naturale che maturasse in me il desiderio di scrivere delle poesie.

 D'altra parte, eravamo, ormai, alla fine del 1940 ed io avevo preso a frequentare la quinta elementare, ora che c'era la guerra, eravamo tutti molto attenti a quello che accadeva sui vari fronti. Addirittura la nostra maestra, Elisa Panajotti Pellini, ci stimolava allo studio della geografia facendoci vedere sulle grandi carte geografiche appese alle pareti dell'aula, le localita` dove si combatteva o di cui, comunque, si parlava. E, questo fatto, mi forni` i "contenuti" delle poesie che avrei potuto scrivere. Cosi` un giorno (erano gli ultimi mesi del 1940 o i primi del 1941) presi carta e penna e scrissi la seguente poesia in agili settenari ordinati in quartine a rima alternata:

 

 

                   L’ITALIA E IL MEDITERRANEO

 

                    L'Italia e` destinata

                    del suo mare regina

                    ma ci vuol comandare

                    l'Inghilterra cretina

 

                        Con maniere gentili

                        l’Italia la pregò

                        di tornare ai suoi posti

                        ma essa rifiutò

 

                    L’Italia allor sdegnata

                    Di tanta prepotenza

                    Gli dichiarò la guerra

                    E avanzò con violenza

                      

                        Ma essa si fermò

                        in Egitto, e poi

                        per mancanza di mezzi

                        indietreggiammo noi

 

                    Gli abbiamo gia` lasciata

                    tutta la Cirenaica

                    e l'Inghilterra stupida

                    ride e felice sbraita

 

                        Ma ridera` per poco

                        perche` l'Italia forte

                        la scaccera` col motto

                        "La Vittoria o la Morte"

 

                     Ed a guerra finita

                     L’Inghilterra cretina

                     Dovrà lasciar l’Italia

                     Del suo mare regina

 

                        Il Duce ha detto a tutti

                        questo motto supremo

                        che e` chiuso in tutti i cuori

                        "VINCERE" e vinceremo.

 

 La metrica era rispettata, la rima abbastanza. Insomma mi parve presentabile e la lessi in casa. Ci fu sorpresa, soprattutto per il rigoroso rispetto della metrica, e la poesia fu apprezzata. Allora mi feci coraggio e la presentai alla maestra. Fu una cosa clamorosa e inaspettata. La maestra ne fu entusiasta, la lesse a tutti i ragazzi e alle sue colleghe, mi elogio` fino a mettermi in imbarazzo e, infine, decise di mandare la poesia alla direttrice che stava a Fivizzano. La direttrice mi scrisse una lettera entusiasta e invio` la poesia al Federale, il quale, a sua volta, mi scrisse complimentandosi. Concludeva la sua lettera: "Continua cosi` e sarai un vero italiano di Mussolini". Ne fui molto fiero.

 Il fatto e` che quando, in aprile del 1941, ci trasferimmo ad Aulla, insieme ai miei documenti scolastici furono inviate le copie delle suddette corrispondenze, per cui, quando arrivai nella mia classe ad Aulla, fui accolto come un piccolo fenomeno, come ho gia` raccontato.

 E tutti volevano la mia poesia. Che io, nell'ufficio di papa`, scrivevo a macchina su delle striscie di carta assorbente bianca (chissa` perche` !?) e poi distribuivo con l'aiuto di Rinaldo, l'amico che abitava nell'altro appartamento della casa di Valettini, dove abitavamo anche noi. Avevo anche fatto un mini-libretto con alcune altre poesie, oltre la su riportata. Trascrivo qui di seguito il contenuto di quel libretto, che conservo ancora in soffitto, insieme alle mie pagelle dell'epoca e alle mie tessere di "Figlio della Lupa" e di "Balilla".

 

L’AEREOPLANO                                  IL CANNONE

                              

L’uccello rombante decolla                    Un cannone squassato lì giace

poi volge la prora ad oriente.                su una tomba con delle granate                                     

Tre punti compaion nel cielo,                 volto ha al cielo il suo muso di ac-

con coraggio ei li assal prontamente                                         ciaio

 I tre punti ingranditi si buttan             par che parli e che dica:”ASCOLTATE”

 vomitando la morte sul nostro                 Una volta già anch’io combattiedi

 ma questi virando li schiva                   seppi cosa vol dire battaglia

 e dei tre pronto è a abbattere un mostro.     Fra urla d’assalto, bagliori

Gli altri due solidali e feroci                fra scoppi e fragor di battaglia.

si gettano e sparano forte.                   Con i fanti battiedi, indi vinsi

Colpisce l’eroico caccia                      li difesi, poi caddi con loro

La falce che getta la morte.                  E con lor dalla nostra Vittoria

 L’apparecchio colpito s’infiamma,            fui anch’io coronato d’alloro.

 il pilota colpito si piega                    Ora giaccio e non posso sparare

 l’aereoplano precipita inerte                 più non posso pugnar come allora

 nel mare ove l’uomo si annega                 ma la tomba del fante italiano

L’apparecchio scompare fra i flutti            pur squassato difender so ancora

Gli altri due se ne vanno con boria           

Ma l’eroe che morì per la Patria

Canta all’aer un canto di gloria.

 

 

ROMA IMPERIALE                                 AL MIO GATTO RICO

 

L’uragano è scoppiato sul mondo                Io possiedo un bel gatto

Francia,Italia,Germania,Inghilterra            fedel, chiamato Rico.

Accanite si batton per vincere                 Sarà buono e indulgente

Ne rintrona già tutta la terra                 ma non capisce un fico.

 L’uragano s’infiamma, si espande                Capisce solamente

 Dall’Asia,all’Europa,all’America                se vede del buon cibo

 Ne rimbomba, ne è quasi squassata               oppur se sente odore

 L’intera nostra superficie sferica              di qualche topo vivo.

Il ciclone continua con forza                  Esso non fa mai niente

Ma sui colli fatali di Roma                    dormicchia tutto il giorno

Questa sembra che parli e che dica:            e poi mi viene incontro

- Son io sola la grande padrona -              quando a casa ritorno.

                                                 Però io amo molto

                                                 questo caro gattino

                                                 benchè sia un po’ poltrone

                                                 e forse anche cretino

                                               Perché mi è fedel molto

                                               e se morisse guai !

                                               Piangerei proprio tanto

                                               Da non finire mai

                                                 Per questo amato gatto

                                                 a me fedele e caro

                                                 rifiuterei perfino

                                                 mille lire in denaro.

                                               Perché a volte nel mondo

                                               più che il denaro vale

                                               un cuore affezionato

                                               e un’anima leale.

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                                   3 - I FURTARELLI

 

Durante il mio soggiorno ad Aulla, sia in Aulla stessa, sia a La Spezia dove andavo a frequentare la prima media tutti i giorni col treno, insieme ad alcuni amici, cominciai a commettere dei piccoli furtarelli.

 Cominciammo a La Spezia, alla stazione. Un giorno in cui dovevamo aspettare un po' il nostro treno, ci avvicinammo all'edicola e, mentre alcuni miei amici stavano davanti all'edicola stessa e sfogliavano chiassosamente dei giornali, richiamando l'attenta vigilanza dell'edicolante, io, che stavo di lato e guardavo qualcosa li` appeso, apparentemente buono buono, in realta` sfilavo con destrezza un giornale per ragazzi che era li` esposto e, arrotolatolo, lo facevo sparire sotto la giacca. Dopo di che ci allontanammo e ci mettemmo a leggere allegramente il giornaletto.

 La cosa parve cosi` facile e divertente che divento` quasi una abitudine. In effetti lo facemmo diverse altre volte e rubammo, cosi`, forse una decina di giornaletti. Probabilmente la cosa fini` quando fini` la scuola.

 La cosa, pero`, mi aveva, in qualche modo, messo su una brutta via.

 Infatti raccontai la cosa a Rinaldo, che ne fu ammirato. Cosi` un giorno che eravamo andati a comperare qualcosa da un appaltino piuttosto anziano, notammo che questi stava quasi sempre nella sua cucina che era proprio dietro il negozio e veniva in negozio ogni volta che udiva il campanello che suonava aprendo la porta. E notammo anche che, quasi sempre, ci metteva un po' ad arrivare, essendo forse lento per l'eta`. Cosi` una volta, dopo essere entrati ed esserci avvicinati al banco di vendita, poiche` l'appaltino tardava ad arrivare, arraffammo alcuni "bocchini" per fumatori che stavano sul banco e ce li mettemmo in tasca. E anche questa cosa la trovammo divertente e la facemmo piu` volte. Per fortuna, pero`, questa volta venne a saperlo mio fratello, che mi sgrido` molto e mi convinse a non fare piu` certe cose. Ando` cosi` : ne` io ne` Rinaldo fumavamo, per cui non sapevamo che farcene di questi "bocchini". Allora un giorno li mostrai a mio fratello, che fumava, e gli dissi di scegliersene uno. Ovviamente si stupi` nel vedere tutti quei "bocchini" e volle sapere da dove venivano. Ed io glielo dissi, e gli raccontai anche del furtarelli di giornaletti. Lui si fece molto serio e mi fece capire la gravita` di queste bravate. Me ne resi subito conto e il giorno stesso tornai da quell'appaltino e, approfittando del suo solito ritardo nel venire in negozio, rimisi al loro posto tutti i "bocchini".

 

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                             4 -  A SCUOLA A LA SPEZIA

 

 

A quell'epoca, era l'anno scolastico 1941/1942, ad Aulla non c'era scuola media. Le piu` vicine erano Pontremoli o La Spezia. Forse perche` i collegamenti ferroviari erano piu` agevoli i miei mi avevano iscritto a La Spezia. Partivamo con un treno alle ore 7 circa, che arrivava a La Spezia, mi pare, verso le 7 e mezzo e ci consentiva di arrivare a scuola, in Piazza S.Agostino, per le 8. Mi pare, infatti, che la scuola iniziasse a quell'ora. Per il ritorno avevamo un treno verso le 13, che ci scaricava ad Aulla alle 13,30 circa. Alcune volte, pero`, uscivamo piu` tardi per cui mangiavamo a La Spezia, al Dopolavoro Ferroviario, e rientravamo con un treno successivo, nel primo pomeriggio. Alzarmi presto non mi piaceva affatto, pero` i ricordi di quel periodo sono, nel complesso, positivi. Il viaggio in treno, insieme a molti studenti e studentesse anche piu` grandi di noi, era piacevole e ci faceva sentire "grandi" (infatti cominciammo a fumare le prime sigarette). Inoltre La Spezia era, per me, una grande citta` ed una citta` importante (effettivamente il porto di La Spezia aveva, in tempo di guerra, una notevole importanza). A volte ci fermavamo tutto il pomeriggio per vedere qualche spettacolo cinematografico o di varieta` (ho visto, qui, il mio primo spettacolo di varieta` (come avanspettacolo), con una soubrette che mi parve bellissima e che cantava "La nebbia portata - dal vento , discende dal ciel - sonnolento....") e tutto questo era, per me, novita` eccitante.

 A proposito di quella volta della soubrette debbo raccontare l'inconveniente che ci successe. Lo spettacolo era al Teatro Civico e noi, per risparmiare, avevamo preso il biglietto per il loggione. Ma da lassù vedevamo il palcoscenico molto lontano. Ora si da il caso che la struttura del teatro, a scalinata, consentisse di passare dal loggione alla sottostante galleria scavalcando semplicemente la transenna divisoria. Cosa che noi tentammo, per vedere la nostra soubrette più da vicino. Ma una "maschera" ci aveva visto, cosicchè venne a pizzicarci (mi pare fossimo Bertino, Fontani ed io) e a buttarci fuori senza pietà. Per fortuna avevamo ancora qualche soldo, che ci consentì di acquistare nuovi biglietti per rientrare e vederci, così, il resto dello spettacolo. Ma....dal loggione.

 Altro motivo di interesse e di eccitazione erano, per me, le librerie, in particolare la grande libreria dei Fratelli Cavalca, in Via Prione, vicino a Piazza S. Agostino. Tutte le mattine, passando proprio li` davanti, mi soffermavo davanti alle sue vetrine, a concupire gli albi di Topolino della mia infanzia, che Mondadori ristampava, e i libri di Emilio Salgari, editi da Nerbini. Cominciai ad aguzzare l'ingegno per poter possedere gli uni e gli altri. Eravamo in tempo di guerra, la vita era dura e non potevo chiedere soldi in casa per queste cose che erano da considerarsi superflue dovendosi pensare soprattutto all'alimentazione che si faceva sempre piu` cara. Cosi` cominciai a saltare qualche pasto al Dopolavoro Ferroviario, risparmiandone il prezzo relativo, che mia madre regolarmente mi consegnava. Ma, non mangiando, risparmiavo anche il bollino della tessera annonaria (quasi tutti i generi erano tesserati, a cominciare dal pane) che, ben presto, trovai da vendere a buon prezzo a miei amici di La Spezia (specie ad uno che si chiamava Pani). In seguito riuscii a fare ancora meglio : vendevo i bollini regolarmente, ricavandone un bel po' e mettevo da parte il ricavato. Coi soldi che mi dava mia madre, invece, andavo a mangiare al Dopolavoro ferroviario e prendevo soltanto cio' che potevo avere senza tessera. In genere erano delle gran zuppe di verdura e ancora verdure per secondo. Cosi` cominciai ad acquistare sia gli albi di Topolino (sono riuscito a conservarli in gran parte fino ad oggi), sia i libri di Salgari. Mio fratello Guido era molto divertito dai miei traffici ed anche interessato agli acquisti che facevo. Se non ricordo male anche lui acquistava qualche albo o qualche libro, ovvero mi dava dei soldi per aiutarmi. So che queste collezioni che si andavano via via accrescendo facevano piacere ad entrambi.  Era il nostro segreto.

 Per la verita' ci fu un periodo in cui fui distratto da questo obiettivo dall'arrivo ad Aulla di un circo che aveva una pista circolare entro cui si potevano guidare delle automobiline elettriche con le quattro ruote come le auto vere (diverse dalle auto-scontro che si vedono ora nei luna park). Questa cosa mi appassiono` al punto che i miei soldi finivano quasi tutti li`. Per fortuna la cosa passo` ed io ripresi i miei acquisti di albi e di libri.

 Altra esperienza interessante fu, per me, anche vedere il mare, che non avevo mai visto (prima di allora i luoghi che io conoscevo oltre Monzone erano: Minucciano, ove vivevano i miei zii e le mie cugine, Camporgiano, ove andavamo in villeggiatura e dove viveva mio zio Azelio e, fino al 1938, mio nonno Carlo, Gragnola, paese vicino a Monzone ove era la farmacia, Aulla ove allora vivevo e, un po', Pontremoli ove avevo sostenuto l'esame di ammissione. Vicino a Monzone c'era anche Equi Terme, che conoscevo un poco. E basta.). Il mare mi affascino` subito, con i suoi vaporetti e, viste da lontano, le sue possenti navi da guerra, ma, soprattutto, con il suo orizzonte sconfinato. E mi affascina ancora, destandomi, come allora, strani umori e sensazioni. Anzitutto mi da` un grande senso di liberta`, di possibilita` di fare. Poi stuzzica il mio senso di avventura e mi fa immaginare possibili vicende avventurose. Anche il mio senso estetico si appaga nella semplicita` di questo quadro fatto di cielo e mare separati quasi impercettibilmente dalla linea dell'orizzonte, di questo quadro pressoche` monocromatico, arricchito solo dai gradevoli improvvisi imprevedibili luccichii delle onde. Mi da` anche, pero`, un profondo senso di malinconia che non mi sono mai completamente spiegato. Forse e` la consapevolezza che al di la` di quell'orizzonte sconfinato ci sono luoghi che non vedro` mai, genti che non avro` mai l'opportunita` di conoscere, avventure che non riusciro` mai a vivere.

 L'anno scolastico a La Spezia fu positivo anche dal punto di vista scolastico. Malgrado che i primi giorni di scuola mi sentissi sopraffatto da tutti quei libri (alle elementari c'erano solo due libri), rapidamente imparai ad usarli e ad apprezzarli. Ho conservato fino ad oggi alcuni di quei libri: La grammatica latina di Riccardo Rubrichi, l'Analisi logica di Campanini e Carboni, l'antologia italiana ("Per nuovi destini" di Castellini e Peloso), l'antologia latina "Alma Mater", e anche i libri di storia e geografia. Di professori ricordo soltanto la professoressa Andolcetti, di lettere, che mi apprezzava assai e il professore di Lavoro, che doveva essere un falegname, di cui non ricordo il nome e che ci faceva fare simpatici lavoretti con il legno. Ricordo un piccolo scafo di legno che io feci e che ho conservato a lungo.

 Durante il corso dell'anno scolastico, guidati dai piu` grandi, cominciammo, a volte, a "salare" (a marinare) la scuola. Ce ne andavamo, allora, "ai colli" da dove si godeva una magnifica vista del porto militare ove stazionavano le maggiori unita` della nostra flotta che noi avevamo imparato a riconoscere. E, in quelle occasioni, cominciavamo ad apprezzare le bellezze acerbe delle ragazzine che volentieri si univano a noi. Con la primavera arrivo` anche il caldo. Ho conservato memoria del disagio che ci causava il caldo quando, verso le ore tredici, salivamo sui vagoni del treno per Parma che doveva riportarci a casa e che da qualche ora stazionava sotto il sole. Curiosa la strategia che avevamo adottato per sentire meno caldo: negli scompartimenti ancora vuoti (arrivavamo alla stazione prima dell'orario di partenza) salivamo, arrampicandoci, sulle scaffe porta bagagli ove, essendo vicino al tetto di lamiera, il caldo era addirittura insopportabile. Dopo essere rimasti qualche minuto in quel forno ne discendevamo e, ovviamente, trovavamo in basso una temperatura che, a confronto della precedente, sembrava addirittura fresca. Assurdita` di ragazzini.

  Come ho detto piu` indietro il viaggio in treno era abbastanza gradevole. Capitavano, pero`, anche degli episodi poco piacevoli. Ne ricordo alcuni.

 Poiche` la mattina partivamo presto, la mamma si preoccupava di coprirmi a dovere. Cosi` mi compero` anche un berrettino di velluto blu che mi piaceva assai e che portavo volentieri. Un giorno, pero`, mi sporsi dal finestrino senza averlo ben calzato in testa e il vento della corsa me lo rapi` e lo fece volare chissa` dove. Me ne dispiacque assai e mi costo` anche molti rimproveri poiche` il berrettino era stato appena acquistato ed era stato pagato anche abbastanza caro. Comunque il berretto non c'era piu` e occorreva provvedere. Cosi` la mamma ne acquisto` un altro uguale identico e la cosa mi rallegro` assai. Malauguratamente, pero`, l'esperienza non mi aveva reso saggio e l'abitudine di sporgermi dal finestrino per farmi carezzare dall'aria fresca e vedere gli altri che, a loro volta si sporgevano, non l'avevo perduta. Cosi`, dopo pochi giorni, si ripete` la tragedia del berrettino portato via dal vento. E, questa volta, la cosa fu ancora piu` dolorosa perche` gli altri ragazzi che, come me, si sporgevano, videro la scena e ne risero molto, ed anche perche` il berrettino rimase a lungo vicino alla massicciata della ferrovia, nel tratto fra La Spezia e Migliarina, e ogni giorno lo vedevo e ne soffrivo (avevo anche meditato di fare a piedi quel tratto ma non ebbi mai il coraggio di farlo e, alla fine, il berretto spari`). E` evidente che i rimproveri furono ancora piu` duri, pero` la mamma era convinta che dovessi coprirmi la testa, cosi` torno` per la terza volta a comperare il berretto. Purtroppo, pero`, quelli di velluto blu non c'erano piu`, per cui me ne compero` uno di una stoffa marroncina con dei disegni, molto meno elegante degli altri due e che proprio non mi piaceva. Quello non riuscii mai a perderlo.

 Quella mia mania di sporgermi e di sporgere anche le braccia mi costo`, un'altra volta, un bel po' di male a un dito. Accadde, infatti, che tenni il braccio proteso anche quando il treno entro` nella galleria di Caprigliola e il dito medio della mano sinistra urto` violentemente (la linea era gia` elettrificata e i treni procedevano abbastanza veloci) contro un sasso sporgente. Il dolore fu acutissimo e il dito mi rimase gonfio e tumefatto per alcuni giorni.

 Per fortuna non ci furono altre conseguenze.

 Il terzo episodio sgradevole legato al mio viaggiare e` il seguente:

Un mattino, albeggiava appena, vedendo arrivare il treno per La Spezia sul quale dovevo salire e che arrivava nel secondo binario, attraversai il primo binario dove mi trovavo, senza utilizzare il passaggio apposito. Lo feci di corsa e mi inciampai in un binario, cadendo malamente in avanti. Naturalmente cercai di ripararmi ma, avendo anche la borsa che mi impacciava, andai a sbattere violentemente lo stomaco proprio nello spigolo del marciapiedi opposto. Mi rialzai subito ma la gran botta mi aveva messo una grande agitazione di stomaco. Addirittura mi sembrava di dover vomitare (avevo da poco colazionato) e mi sentivo tutto scombussolato. A quel tempo prendeva quel treno anche mio padre, che era stato trasferito a Massa. Mentre il treno arrivava, mio padre, che non si era accorto della mia caduta, mi vide cosi` pallido che si spavento` temendo che stessi per svenire e mi chiese come stessi. Io, che evitavo sempre finche` possibile di raccontare i miei guai, dissi che stavo bene e che non avevo nulla. Mio padre, pero`, mi stette vicino fino a Santo Stefano, dove scendeva per cambiare treno. Nel frattempo, pero`, mi ero ripreso, per cui se ne ando` tranquillizzato, pensando di aver visto male.

 

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                       5 - LO SCHIAFFO AL PICCOLO AMICO

 

 

Una volta stavo giocando nel cortile davanti alla mia casa con alcuni amici. Mi pare che si stesse giocando a calcio ma non ne sono sicuro.

 Fatto sta che io avevo, in quel contesto, una posizione di leader e davo ordini a destra e a manca. Uno dei miei amici era un morettino piccolo piccolo di cui, purtroppo, non ricordo il nome. Eravamo amici veramente ed io non nutrivo per lui assolutamente nessuna antipatia, ma quel giorno, chissa` come, ebbi con lui una discussione perche` egli non fece qualcosa che gli avevo detto di fare e, a un certo punto, gli detti un sonoro schiaffo sul viso. Ricordo ancora il viso stupito e smarrito del ragazzo a quel colpo inatteso. Subito io fui pentitissimo per quell'atto inconsulto, tanto piu` che il morettino si era messo a piangere. Così gli chiesi scusa ripetutamente, veramente e fortemente dispiaciuto del mio gesto, e insistei finche` lui smise di piangere e mi perdono`. Fui molto felice che fosse tornata la pace, anche perche` avevo subito percepito la disapprovazione di tutti gli altri anche se non avevano detto parola. E da quella volta ho sempre cercato di controllare i miei scatti d'ira, riuscendoci quasi sempre.

 

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                          6 - IL RUZZOLONE DEL BABBO

 

 

Dopo che mio padre si fu arruolato nella Milmart e fu destinato a La Spezia per la difesa contraerea, attendevo con ansia i suoi ritorni a casa in permesso, cosa che, data la vicinanza, accadeva non troppo di rado. Quando veniva stava molto con me, e facevamo anche delle belle passeggiate nella collina che iniziava quasi subito al di la` della Via della Rocca, vicina a via del Forte. E, spesso, portavamo la pistola e facevamo un po` di tirassegno. Una volta, doveva essere di inverno, eravamo andati per una delle solite passeggiate e papa` era in divisa e con un ampio pastrano. Stavamo camminando lungo un poggio, io avanti e lui dietro. A un tratto udii un rumore dietro di me e mi voltai. Quel che vidi mi spavento`: dal poggio stava ruzzolando giu` una specie di palla grigioverde che sicuramente era il mio papa` benche` non si vedessero ne` la testa ne` le braccia. Temetti che si fosse fatto chissa` che male. Invece, appena giunto in fondo al poggio ripido ma erboso, ecco che si rialzo` sano e salvo e mi tranquillizzo`subito. Subito dopo io dissi di questa palla che avevo visto e ne ridemmo molto. In effetti quella di cadere in un modo che lo ha sempre preservato da farsi male, e` stata una singolare caratteristica del babbo. Non appena si sente cadere, egli istintivamente si raggomitola tutto salvando la testa e ruzzola, come una palla, appunto, evitando urti troppo duri.

 

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                     7 - IL GIOCO DELL'INDIANO CATTURATO

 

 

Spesso nel piazzale del convento dove stava il mio amico Roni si radunavano anche molti altri ragazzi, alcuni che conoscevo e altri no.

 Facevamo anche delle memorabili partite a calcio ed io ero considerato un discreto calciatore. Solo che giocavo con le scarpe normali che portavo addosso e che, essendo tempo di guerra, erano prodotte con materiale cosiddetto "autarchico" e, quindi, erano poco buone. Cosi` accadeva spesso che la suola si staccasse dalla tomaia creandomi non poco impaccio. Una volta mi accadde mentre stavo giocando ed io continuai malgrado tutto. A un certo punto fronteggiai un avversario che stava avanzando col pallone e mi accinsi decisamente a colpire il pallone con un fortissimo destro. Il mio aspetto impetuoso spavento` l'avversario che, temendo di essere colpito dal pallone, abbandono` l'impresa e si giro`. Purtroppo la mia scarpa con la suola penzoloni mi fece fare una tremenda "sbucciata" e il pallone, mancato, rimase li`. Per fortuna l'avversario era girato ed io ebbi agio di colpirlo in seconda battuta, ma la figuraccia fu notevole.

 Ricordo che la mamma si disperava nel vedermi le scarpe rovinate, cosi` imparai a ripararle da solo. Fissavo alla meglio la tomaia alla

suola piantandoci delle "semenze". Era un lavoro brutto e che durava

poco, ma a quel tempo andava bene lo stesso.

 Quello che voglio raccontare, pero`, non riguarda il calcio, ma un gioco nel quale mi trovai coinvolto in qualita` di vittima.

 Quel giorno, arrivato nel solito piazzale, ci trovai una banda di ragazzi che non conoscevo, salvo alcuni conosciuti solo di vista.

Alcuni erano piu` grandi di me e avevano l'aria poco raccomandabile.

 Io mi fermai a vedere cosa facevano e vidi che fingevano di essere indiani, ma non sapevano bene che svolgimento dare al gioco. A un tratto uno di essi mi guardo` e lancio` l'idea : - Catturiamo il viso pallido e leghiamolo al palo della tortura !-  Naturalmente il viso pallido ero io. Li` per li` la cosa non mi dispiacque e la interpretai come un invito a partecipare al gioco. Pero` mi resi presto conto che essi non mi trattavano da amico. Infatti mi strattonarono violentemente e finsero di legarmi a un palo della luce che era li`.

 Io dovevo tenere le mani dietro il palo come fossero legate, e se le muovevo me le rimettevano dietro sgarbatamente. Loro facevano cerchio intorno al palo e insultavano il viso pallido. Ma io sentivo che in loro c'era cattiveria e che le offese le dicevano proprio a me. In piu` ogni tanto mi strattonavano e mi davano qualche scapaccione. Io per un po' mi sforzai di considerarlo un gioco e cercavo di fare la faccia sorridente. Finche` uno dei piu` maligni dei ragazzi (uno che conoscevo di vista,  piu` o meno della mia eta`) mi indico` e disse: - Guardate che faccia da ebete! - La cosa mi offese e mi irrito` profondamente. Ma non osai reagire subito. Pero` capii che me ne dovevo andare. Avevo gia` provato un paio di volte, quando ancora pensavo di giocare, ma non ero riuscito a sfuggire al cerchio di ragazzi che mi stava intorno. Cosi` stavo aspettando una opportunita` migliore, e rimasi immobile. Per un po` la sarabanda continuo` con una certa vivacita`, ma dopo un po' la cosa comincio` ad annoiare e i ragazzi cominciarono a distrarsi. Era il momento che aspettavo. Calcolai bene il momento e, come vidi che il cerchio si era un po` allentato e l'attenzione era piu` scarsa, con un balzo fui fuori dal cerchio e corsi via come un razzo (correvo molto veloce). Subito i ragazzi mi furono dietro, ma, vista la mia velocita`, si scoraggiarono quasi subito. Finalmente soltanto uno m'era rimasto dietro, proprio il piu` maligno, quello che mi aveva detto "faccia da ebete". Io, che tenevo d'occhio i miei inseguitori, mi resi conto prima li lui stesso che era rimasto solo. Allora mi fermai e mi girai di scatto per affrontarlo e fargli pagare cara la sua offesa. E gli gridai con voce feroce : - Vieni qua ! -. Credo che il mio aspetto, per l'ira che mi ardeva dentro, fosse terribile. Lo lessi nel viso del maligno, sconvolto da un vero e proprio accesso di terrore. Egli infatti si era reso conto all'improvviso di essere solo davanti a un nemico assetato di vendetta. E non resse. Si rigiro` precipitosamente

e si dette a una fuga disperata. Io non lo seguii. Mi considerai pago della paura che gli avevo fatto.

 

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                          8 - IL PIEDE STORTO

 

 

Durante l'inverno 1942/43 fui affetto da uno strano guaio. Al mattino, quando mi svegliavo, mi trovavo con un piede, mi pare il destro, che mi rimaneva storto, piegato verso l'interno. E se cercavo di appoggiarlo a terra mi faceva un male cane, perche` non sopportava di riprendere la posizione normale. Era, evidentemente, un fatto reumatico. La cosa, pero`, non preoccupo` nessuno. Forse la mamma credeva che me lo inventassi. Fatto sta che non fu consultato nessun medico ed io non feci alcuna cura. Anche perche`, nel corso della mattinata, durante la scuola, il dolore mi passava ed io potevo di nuovo appoggiare il piede normalmente. Cosi` per buona parte dell'inverno mi portai questo fastidio, che mi costringeva, al mattino, andando a scuola, a camminare dentro le cunette al bordo della strada, appoggiando il piede sulla parte in pendenza della cunetta, il che mi consentiva di appoggiarlo tenendolo piegato. Ma a tratti le cunette non c'erano, ed io dovevo arrancare zoppicando dolorosamente. Finche`, giunto a scuola, tiravo un sospiro di sollievo e mi sedevo al banco. E qui, durante la mattinata, tutto ritornava a posto.

 

 

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                                                                         LA FANCIULLEZZA FINISCE

Sommario:

1) Il Coppetti e l’”Io bescovosone”

2) Il bombardamento del ponte

3) L’autoparco tedesco

4) Le ragazze

5) Il mio otto settembre

 

                       1 - IL COPPETTI E L' "IO BESCOVOSONE"                    

 

Nell'estate del 1943, appena giunto a Camporgiano, avevo stretto una forte amicizia con il Walter Luccarini, che aveva due anni piu` di me e gia` lavorava come "boccia" in galleria. Lo aspettavo sempre verso le cinque e mezzo pomeridiane quando tornava dal lavoro e andavo con lui che aveva sempre dei lavoretti da fare, o alla "iara" intorno alle fagiolaie o a fare l'erba per i conigli o portare al pascolo la capra. Egli aveva un fratello che aveva solo un anno meno di me, ma era ancora poco cresciuto e lo consideravamo un bimbo piccolo. Si chiamava Bruno ma, per soprannome, lo chiamavano tutti "Coppetti" (Walter, invece, aveva per soprannome "Valletto"). Malgrado, come ho detto, lo considerassimo piccolo, spesso veniva con noi. Della capra, infatti, se ne occupava quasi sempre lui. Aveva un modo tutto suo di esclamare, di fronte a situazioni gravi, o pericolose, o, comunque, fuori del normale. Egli usava esclamare : - Io be ! - in caso di eccezionalita` minima. Se il caso era piu` rilevante, invece, usava:- Io bescovo !-   E, in casi di gravità eccezionale, la sua esclamazione diventava un : - Io bescovoso! - Una volta avevamo portato la capra sopra le mura, allora disabitate, ed eravamo entrati nel vecchio carcere, semidiroccato (dove ora c'e` la casa dei Guasparini) per governare i conigli che stavano li` dentro. Appena dentro io mi incuriiosii e cominciai a girare quelle che una volta erano le celle cercando di decifrare le frasi che i carcerati avevano inciso nell'intonaco delle pareti. Ricordo che ci trovai anche il nome di Satti Francesco (il "Rumito"), che, evidentemente, aveva fatto un po' di carcere, chissa` perche`. A un certo punto, per salire in una cella al piano superiore (eravamo scesi al piano seminterrato saltando su un mucchio di detriti), poiche` le scale non c'erano piu`, bisognava aggrapparsi con le mani al pavimento di sopra e issarsi su`, passando per l'ampio foro che il pavimento, in quel punto crollato, aveva lasciato. Per fortuna i detriti del pavimento crollato avevano formato un monticello di detriti a forma di cono, salendo sul quale si arrivava, con le mani, vicino al sovrastante pavimento, la` dove ancora non era crollato. Cosi` bastava un modesto balzo per afferrarsi e issarsi su`. Prima Walter, poi io, salimmo senza troppa difficolta`. Ma quando tocco` al Bruno, che era molto piu` basso di noi, accadde che egli, pur saltando in alto piu` che poteva, non arrivo` ad afferrarsi e ricadde. Ma invece di ricadere sulla punta del cono, cadde sul lato, la` dove la montagnola di detriti era molto ripida e andava a finire, attraverso l'apertura di un vano che si trovava proprio li` sotto, in un locale buio del piano seminterrato. Ovviamente i piedi gli scivolarono sul ripido declivio, cadde prima seduto poi sdraiato e, con le braccia ancora alzate, scivolo` veloce e scomparve nell'antro buio, andandosi a fermare in fondo alla montagnola di detriti. Non si fece alcun male e risali` subito senza problemi, ma quando si senti` scivolare verso quel buio inesplorato, temendo chissa` cosa, si senti` perduto e la sua esclamazione fu: - "Io bescovosone"-,   Evidentemente quella situazione era stata percepita da lui come una situazione di gravita` estrema. E fu l'unica volta che l'ho udito usare quella super esclamazione.

 

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                            2 - IL BOMBARDAMENTO DEL PONTE

 

 Dopo il bombardamento alla ferrovia dell'Ascensione (che io non vidi perche` ero a Minucciano dal Settimo) dovemmo cominciare ad abituarci anche ai bombardamenti. Ogni tanto arrivava una squadriglia di caccia bombardieri americani che si gettavano in picchiata mitragliando e, alla fine della picchiata, sganciavano due bombe da 250 chili l'una.

 Fino ad ora il paese di Camporgiano non era stato ancora bombardato giacche` l'obiettivo pareva essere la ferrovia che passa sotto il paese. Tuttavia stavamo tutti bene in guardia, aspettandoci il peggio.

 Una volta, era l’11 luglio, stavo passeggiando per il paese con i miei amici. Mi pare ci fosse il Renato Grassi, il Raffello Crudeli, il Luciano Di Gregorio e il Leo Cardosi. Forse anche il Vezio Bartolomasi. Eravamo proprio davanti alla Pretura quando udimmo e vedemmo, nel cielo sopra la scalinata, una squadriglia di aerei sicuramente nemici (raramente si vedeva qualche aereo italiano o tedesco) che volava a media altezza. A un tratto qualcuno di noi noto` che uno degli aerei sembrava fermo. Ci mettemmo, allora, tutti ad osservare questa curiosa cosa. Dopo pochi secondi vedemmo l'aereo che diventava piu` grande e sentimmo il rumore come di sirena che facevano gli aerei in picchiata. L'aereo ci sembrava fermo perche` stava scendendo in picchiata proprio verso di noi. In un attimo ci mettemmo a correre e imboccammo la via Colle Aprico per allontanarci dall'abitato. Correndo affannosamente risalimmo la strada e, giunti nei pressi della casa Tomei, seguendo il Leo che era avanti, io e qualche altro uscimmo dalla strada verso la campagna e ci ritrovammo dietro la casa Tomei. Proprio in quell'attimo cominciarono a risuonare i colpi della mitraglia ed io mi resi conto di essere andati nel posto sbagliato. L'aereo, infatti, stava proprio venendo verso di noi ed era quasi al termine della picchiata. Alzai lo sguardo e lo vidi vicinissimo, e vidi le fiammelle degli spari e gridai: "A terra, a terra !" buttandomi giu` dietro un poggio. Anche il Leo guardo` l'aereo e lessi il terrore nei suoi occhi. Poi si butto` a terra vicino a me. Sentii subito dopo, proprio sopra la testa, lo sferragliamento che denunciava lo sgancio delle bombe. Allora sollevai il ventre da terra, come ci avevano insegnato, aprii la bocca e mi tappai le orecchie. Mi aspettavo il finimondo, convinto che le bombe sarebbero cadute li` vicino. Invece il boato, per quanto forte, giunse da piu` lontano. Le bombe erano cadute vicinissime al ponte della ferrovia detto "del Nutini", che si trova piu` in basso e che era il vero obiettivo. Seguirono altre picchiate e altre esplosioni ma piu` lontane, sempre vicine alla ferrovia. Poi gli aerei se ne andarono e noi ci ritrovammo tutti insieme (Il Crudeli e altri avevano proseguito per la strada e si erano rifugiati nel fosso che e` un po' oltre) a commentare l'accaduto. Poi, come sempre, andammo a vedere dove erano esplose le bombe che, ancora una volta, avevano mancato il bersaglio.

 

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                              3 - L'AUTOPARCO TEDESCO

 

Verso l'inizio d'estate del 1944, se ben ricordo, in localita` "Le Piane", dove ora e` il vivaio forestale e un tempo, invece, era una bellissima selva di castagni (dove spesso in estate cantavano il "Maggio") i tedeschi installarono un grande autoparco, dove molti veicoli di mille specie venivano ricoverati e riparati quando occorreva. I tedeschi non avevano quasi nessun contatto con la popolazione, salvo che con quelli che abitavano nei pressi, forse, e non davano nessuna noia. Qualche volta si andava lungo la strada a passeggiare ma dalla strada non si vedeva quasi nulla, perche` lungo la strada e anche dentro l'autoparco c'erano siepi di rami di castagno che impedivano la vista. Molte delle vetture dovevano essere state requisite qua e la`, per cui in molti casi non era possibile reperire pezzi di ricambio. Cosi` accadeva che molti veicoli (camion, auto e moto) ancora in buono stato ma non riparabili per mancanza di ricambi, venivano gettati nello strapiombo che c'e` proprio al termine della piana, presso la curva detta "della Camillotta". Lo strapiombo, che scende fin quasi al fiume Serchio, era cosi` pieno pieno di questi veicoli, vero cimitero delle macchine. Alla fine della guerra furono in molti che, pescando fra quei rottami, riuscirono a rimettere insieme un'auto, forse anche un camioncino, e diverse motociclette.

 Inoltre le poche officine meccaniche dell'epoca recuperarono molti pezzi che consentirono loro di lavorare, riparando alla meglio i pochi e sgangherati veicoli che ricominciavano a circolare. E quel che rimase fu recuperato come ferro vecchio. Fatto sta che nel giro di pochi mesi non ci rimase piu` nulla.

 

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                                                                           4 – LE RAGAZZE

 

In realtà mi fu chiaro fin dall’estate del 1943 che la fanciullezza era finita e che cominciava una nuova fase della mia vita. Fu l’interesse che cominciai a provare per le ragazze e l’interesse che le ragazze dimostravano di provare per me. Avevo soltanto tredici anni ma ero ormai completamente sviluppato sessualmente, avevo una voce da uomo e anche una statura, ormai, da adulto. Ed ero un bel ragazzo. Inoltre venivo da fuori, quindi ero una novità. Così cominciai a notare  gli sguardi interessati delle ragazze e anch’io cominciai ad osservarle con molto interesse. Cominciai a conoscerne qualcuna e ad intrattenermi con piacere con loro, chiacchierando e scherzando. Ero molto amico di due fratelli di nome Walter e Bruno che abitavano in una zona tranquilla vicino alla casa dove abitavo e quasi ogni giorno andavo a casa loro a chiacchierare e a giocare. Vicino alla loro casa c’era la casa della loro cugina Leda che, all’epoca, aveva diciotto anni e quasi ogni giorno veniva a trovarla un’amica di nome Ivana, che era veramente una bella ragazza. Essa aveva sedici anni ma aveva l’aspetto di una donna fatta ed io mi sentivo troppo piccolo in confronto a lei. Tuttavia anche con lei parlavamo e scherzavamo piacevolmente. Un giorno, però, accadde un fatto. Mentre eravamo, come al solito, davanti alla casa a chiacchierare, essa si avvicinò all’amica Leda e le disse sottovoce riferendosi a me: - E’ un bel ragazzo - .  Bruno la sentì e, ripetendo le sue parole cominciò a prenderla in giro. Essa disse che non era vero, ma il rossore che le invase il volto la tradiva. Io rimasi piuttosto stupito, ma, naturalmente, mi fece piacere. Tuttavia non osai mai, con lei, spingermi oltre l’amicizia, considerandola, appunto, troppo grande per me. Cosa che non accadde, invece, con un’altra ragazzina che pure aveva due anni più di me essendo quindicenne, ma era più bassa di me di statura e mostrava per me un interesse particolare. Così nacque fra noi una relazione adolescenziale piuttosto acerba ma che ci attraeva, fatta di incontri concordati in luoghi appartati, di baci e di tenerezze. Naturalmente ci vedevamo anche in luoghi pubblici e il nostro rapporto divenne noto a tutti, creando un certo stupore data la mia giovane età e creando, soprattutto, irritazione e preoccupazione per mia madre che giudicava questa cosa assolutamente inopportuna. La cosa, però, continuò fino a quando le vicende della guerra ci divisero. Essa, infatti, a causa dei bombardamenti sfollò dal paese e non ci vedemmo più. Si chiamava Rosetta e, dopo la fine della guerra, ci ritrovammo e vivemmo una relazione molto più matura. Che, però, si concluse definitivamente nel 1948, quando io avevo diciotto anni e lei venti.

 

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                                                            5 –  Il mio otto settembre

 

Quel giorno, mi pare fosse di pomeriggio, ero in casa con mia madre e mia nonna. Eravamo nella ombrosa e accogliente cucina in casa della Editta. Improvvisamente irruppero l'Editta e la Rita con la sconvolgente notizia che "era finita la guerra". Esse pensarono immediatamente alla fine dei pericoli per gli uomini che erano al fronte e alla fine dei disagi che la guerra causava a tutti e, come ad un segnale, ciascuna di loro prese una sedia, la inclino` a mo` di inginocchiatoio e, tutte insieme, cominciarono a recitare preghiere di ringraziamento. La mia reazione, invece, fu affatto diversa. Sapevo, infatti, che la guerra non andava bene per noi, per cui “guerra finita" non poteva che significare "guerra persa". E questo fu il mio primo pensiero. Di conseguenza trovai assurdo che quelle quattro donne  mostrassero gioia per questa che io consideravo una sventura e, in modo brusco e villano, presi a calci le loro sedie e, bestemmiando, le insultai per quel loro comportamento, lasciandole esterrefatte. Poi me ne andai. Scesi in piazza e subito mi accostai ai "capannelli" di gente che commentava l'avvenimento. Avevano i giornali e cosi`, piano piano, cominciammo a renderci conto che la guerra non era affatto finita e che, invece, nubi nerissime si addensavano sul nostro futuro.

 Naturalmente fummo subito in apprensione per la sorte di Guido e del babbo. Di Guido avemmo notizie dopo qualche giorno: una cartolina della Croce Rossa ci comunicava che Guido era stato portato in Polonia prigioniero dei tedeschi. Il babbo, invece, ci fece avere presto sue notizie.

Da Minucciano, dove era giunto a piedi, ci fece sapere che la mattina dopo sarebbe arrivato col treno delle dieci. Il mattino dopo ero alla stazione ad aspettarlo.

Appena fu sceso dal treno ci abbracciammo in silenzio e in silenzio arrivammo a casa. Dopo che ebbe salutato la mamma e la nonna, venne in camera mia, ci sedemmo sul letto ed io, con un groppo alla gola gli chiesi : - Papa`, ma allora abbiam perso la guerra ? - Mio padre mi guardo` con gli occhi lucidi e mi rispose con voce alterata: - Si`, purtroppo -. Dopo di che scoppiammo entrambi in singhiozzi e ci abbracciammo, mentre mia madre cercava di calmarci. Ho sempre ricordato – e ancora ricordo – con emozione quel sentimento intenso di dolore per la sventura della Patria. Amavo appassionatamente la mia Patria ed ero abituato fin dall’infanzia, a considerarla invincibile: con i suoi eroi aveva vinto le guerre del risorgimento, aveva vinto la guerra di Libia, aveva vinto la prima guerra mondiale, aveva vinto la guerra d’Africa, aveva vinto la guerra di Spagna.. E ora questa grande sventura della sconfitta che mi gettava nella disperazione. Ma soprattutto ricordo quell’intima condivisione del dolore con mio padre. Sono convinto che in quell’attimo nacque fra noi un ulteriore particolare legame che rese ancora più profondi i già solidi legami esistenti.

 

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                                                         I RICORDI DELL’ADOLESCENZA

Sommario:

1) Lo sfollamento a Minucciano

2) Il caffellatte e il pane americano

3) Il brandone

4) Il vino di mele

5) Il mio povero osso sacro

6) La bandiera al sedere

7) La galleria del Poggio           

8) La pentola bruciata e la polenta senza sale

9) Jacco’ smemorato

10) Jacco’ e la gallina

11) Il tubo che ruggiva

12) I bengala della pretura

13) Le vittime dei giochi pericolosi

14) A casa di Marta

15) La morte di Olmokono

16) Il camiocino del Brogino

17) Il gallistro

18) Rita, la fidanzatina

                   

 

                   1 – LO SFOLLAMENTO A MINUCCIANO

 

 Il sei o il sette di gennaio del 1945 anche la mamma, la nonna ed io lasciammo il paese di Camporgiano ormai tartassato dai bombardamenti e semideserto, per andare a rifugiarci a Minucciano, a casa della zia Delfina, sorella della mamma. Erano tempi drammatici. Lo zio Settimo, marito di Delfina e fratello del mio papà, il 10 di ottobre 1944 era stato ucciso dai partigiani e solo nel febbraio 1945 recupereremo il suo cadavere. La zia Delfina, quindi, era rimasta sola con le due figlie di undici e sedici anni, priva di redditi e distrutta dal dolore per la perdita del marito. Ma bisognava sopravvivere. Così tutti cercavamo di farci forza e di non lasciarci sopraffare dalla disperazione.

Cercavamo anche di mantenere, malgrado tutto, un certo buon umore e a volte, la sera, Anna, Mirella ed io andavamo nella stanza adiacente la cucina, ci mascheravamo in modo buffo, poi uscivamo in cucina per far ridere un po’ anche le nostre mamme e la nonna. C’era un gran bisogno di sdrammatizzare un po’, per quanto possibile, la nostra situazione. Cominciavamo ad essere un po’ stufi della nostra alimentazione, tutt’ altro che variata e abbondante, ma, invece di lamentarci e abbatterci, facemmo una canzone che cantavamo, in modo un po’ irriverente, sull’aria dell’inno della Divisione “San Marco”. Le parole erano le seguenti:

               

1° strofa        Noi bevevamo il vin di scelta

                 E mangiavamo il pan di grano

                 E con le mani sempre in mano

                 Trascorrevamo i nostri dì

                    Ma finimmo il vin di scelta

                    E finimmo la farina

                    La polenta ogni mattina

                    Anche noi dovemmo far

                                          Dovemmo far

 

Ritornello       Polenta polenta

                 Non vorrei mai più mangiare

                 Ma se ‘un voglio digiunare

                 Quella lì oppur digiunar

 

2° strofa        Della polenta siamo stufi

                 ma se ritornano i bei tempi

                 voglio sciuparmi tutti i denti

                 la roba buona per mangiar

                    Mangeremo tutti i dolci

                    Paste e cioccolatini

                    Caramelle e croccantini

                    (Fino a fare indigestion

                                          indigestion) (?) (memoria incerta)

 

Ritornello        Polenta polenta

                  ……………………………………

 

 L'alimentazione, in effetti, era il problema piu` grosso, poiche` non c'era pressoche` nulla da acquistare e non sapevamo quanto sarebbe durata la guerra. Le nostre scorte alimentari consistevano in quanto segue : Dal contadino che allora avevamo alla Casetta (il Carlin) avevamo avuto la nostra parte di grano e di granturco (non ricordo quanto fosse ma, certo, non superava o superava di poco il mezzo quintale) e la Delfa ne aveva avuto altrettanta. Inoltre quell'anno era stata una eccezionale annata di castagne, per cui avevamo una buona scorta di farina di "neccio" (certamente oltre il quintale). Inoltre, quando ancora era vivo lo zio Settimo, la mamma aveva acquistato un maialino che lo zio Settimo avrebbe allevato. Alla fine avremmo diviso il maiale ingrassato. Questo avrebbe dovuto accadere verso il Natale del 1945. Ma il rischio che o i tedeschi o i partigiani ce lo sequestrassero, ci indusse a macellarlo molto prima (credo nel marzo o addirittura a fine febbraio). Il povero maialino pesava appena cinquanta chili, tuttavia fu "cucinato" e ne ricavammo lardo prezioso, strutto, prosciutti e insaccati vari che costituirono il condimento (insieme a un po' di olio che, con il sale, ottenevamo dai massesi in cambio di farina di castagne) e il "companatico" fino alla fine della guerra. L'incertezza sulla durata del conflitto ci indusse a un drastico razionamento delle nostre scorte per cui la nostra razione alimentare era la seguente : Al mattino un piatto di "manafregoli" (polenta tenera di farina di castagne) con pochi cucchiai di latte (trovavamo da acquistarne un quarto di litro il giorno, da dividere in sei parti), a mezzogiorno polenta di "neccio" con i prodotti ricavati dal maiale. Solo la domenica la polenta era di granturco. A merenda, come ho gia` detto, patate e sale (un giorno scoprii la Delfa che condiva le patate delle sue figlie con un po' d'olio e ci rimasi molto male), a cena un piatto di minestrone con patate e fagioli e basta. La farina di grano, infatti, non era sufficiente per fare anche il pane, per cui veniva utilizzata solo per fare la pasta.

 

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            2 - Il caffellatte e il pane americano

 

La guerra era stata lunga e difficile. In qualche modo avevamo sempre avuto notizie del babbo che riusciva a farci pervenire le sue lettere spedendole a La Spezia all’avvocato Nutini che, poi, riusciva a farcele avere per mezzo di un operaio che frequentemente veniva in Garfagnana a piedi. E, con lo stesso mezo noi facevamo avere a lui lòe nostre lettere. Ma di Guido, che si era ripresentato a Camporgiano poco prima del Natale 1944, non avevamo saputo più nulla. Solo dopo una sempre più angosciosa attesa, e mentre la mamma ed io stavamo per partire alla sua ricerca, egli era ricomparso a Minucciano, dove noi eravamo sfollati,  lacero e stanco, ma felice di essersi ricongiunto con noi.

 Quasi subito, dopo il suo arrivo, decidemmo di far ritorno a Campporgiano dove il babbo ci stava aspettando alla Casetta a casa di Azelio.

 Alla Casetta fummo ospitati tutti da Azelio ma in condizioni disagiate perché in casa c’erano anche i contadini e Azelio aveva solo tre stanze. Così non ricordo bene come si sistemarono il babbo e la mamma, forse in capannina, mentre io e Guido dormivamo con Leone (non ricordo Giannetto che, forse, era già tornato nei carabinieri) nello stesso letto. Ma si trattò di pochi giorni. Poi, avuta in affitto la “casina del Rumito” (si trattava di un edificio situato nella vigna dell’Arnaldo che aveva al piano terra la cantina e al primo piano una stanza abbastanza grande dotata di caminetto) la arredammo in modo sommario e ne facemmo la noistra cucina di giorno e la camera di Guido e mia per la notte.

 Fu così che, finalmente, sentimmo di avere una casa tutta per noi (anche se la mamma, il babbo e la nonna, che nel frattempo era venuta insieme alla Delfina e alle sue figlie dormivano ancora in capannina).

 E di questa riconquistata casa ho un ricordo bellissimo. Fu la prima volta che ci sedemmo intorno a un tavolo mamma, papà, Guido ed io e nessun altro dopo la bufera della guerra. Della casa prendemmo possesso in un pomeriggio del maggio 1945 e, quindi, la prima volta che ci sedemmo a tavola tutti insieme fu per la cena.

 Una nostra vecchia abitudine (all’epoca piuttosto diffusa) ci faceva prediligere, per il pasto serale, una bella tazzona si caffellatte nella quale inzuppare pane in abbondanza. E anche quella sera fu così. La mamma aveva acquistato una grande forma di pane (credo da un chilo) fatto con farina bianchissima che arrivava dall’America e molto lievitato, tanto che era alto in maniera inconsueta. Nel nostro vecchio e malandato laveggino avevamo scaldato il latte delle nostre mucche con il caffè (forse di orzo) e la mamma ne riempì le nostre tazze. Poi divise la forma di pane in quattro con un taglio in croce e ne dette una per ciascuno. A quel punto, religiosamente, spezzettammo il pane e lo immergemmo nella tazza, facendone una enorme zuppa che mangiammo avidamente. L’atmosfera era magica: saranno state le sette di sera e la luce entrava abbondante dalle due finestre. Eravamo tutti sorridenti e fiduciosi nell’avvenire. Eravamo contenti di quella piccola casa fatta di un’unica stanza, priva di acqua corrente e perfino di acquaio, ma nostra. La sera scese lentamente e c’era una grande quiete e una grande serenità. Dopo la cena stavamo seduti sulla soglia della porta aperta sulla campagna dove impazzava il canto dei grilli. Eravamo soli e avevamo davanti un avvenire incerto e difficile. Ma eravamo uniti, tutti e quattro salvi e dentro il mio cuore c’era una felicità immensa.

 

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                               3 - IL BRANDONE

 

 

Quando rientrammo alla Casetta dopo lo sfollamento a Minucciano, erano i primi giorni di Maggio del 1945, per alcuni giorni fummo ospiti dello zio Azelio, sistemati alla bell'e meglio, in attesa di una sistemazione indipendente. La mamma e il babbo, e poi anche la nonna (essa venne qualche giorno dopo, insieme alla Delfa) dormivano nella "capannina" su due letti di ferro che erano del nonno Carlo, Guido ed io dormivamo nello stesso letto a due piazze con Leone e Giannetto. La sistemazione si ebbe qualche giorno dopo, allorche` il Ruggero Micotti acconsenti` ad affittarci la casina a due piani di una sola stanza ogni piano, sotto cantina e sopra stanza abbastanza grande con caminetto. Nella stanza di sopra facemmo la cucina, ma nella stessa stanza dovevamo anche dormire Guido ed io. Per Guido fu rimediato un lettuccio di ferro, che stava nell'angolo sud e non dava noia alla cucina, ma un altro letto per me avrebbe reso la cucina impraticabile.

Cosi` decidemmo di costruire una branda pieghevole che potesse, di giorno, essere chiusa e sistemata dietro il letto di Guido. Avevamo il telo di un'amaca militare (della Marina) che aveva portato il babbo e avevamo un'ampia piattaforma di tavole che Guido ed io avevamo trovato nella galleria del Poggio che era piena di residuati di guerra di ogni tipo e che volevamo utilizzare per farci una piattaforma da collocare sopra la grande quercia che si trovava sotto la vigna del "Rumito" ove era la nostra casina (che noi chiamavamo "bungalow"). Avremmo poi costruito una scala di corda retrattile e quello sarebbe stato il nostro rifugio segreto. Ma l'impellenza delle necessita` quotidiane ci obbligo` a rinunciare al nostro sogno per utilizzare parte del legname per costruire la mia branda. Fatte quattro robuste "gambe" le fissammo a due a due a "X" con un perno nel mezzo in modo che potessero aprirsi e chiudersi. Poi le collegammo con due assi lunghe poco meno di due metri e, a tali assi, fissammo saldamente il telo di amaca. Ne venne una branda ampia e comoda, ma piuttosto mastodontica, tanto che la chiamammo subito "il brandone". Ogni sera la aprivo, vi ponevo sopra un vecchio e rattoppato materazzo di lana (comodo e caldo, pero`) che di giorno stava sul letto di Guido, poi con lenzuola e coperte preparavo il letto per la notte e ci dormivo divinamente. Al mattino occorreva fare l'operazione inversa. Dopo un po' di tempo, pero`, cominciai a trovare eccessivamente grande e pesante il brandone, e anche troppo alto (era alto circa un metro da terra). E poiche` e` destino che nella vita non ci si debba accontentare mai, ecco che un giorno mi decisi a ridurre le dimensioni del brandone. Lo sfeci, segai un pezzo a ogni "gamba", spostai il perno e rimontai il tutto. Ora l'altezza era giusta, circa mezzo metro da terra, ma conseguentemente si era ridotta anche l'ampiezza, cosicche`, abituato al mio ampio e comodo brandone, mi ritrovai ristretto in un brandino largo poco piu` di mezzo metro e, quindi, dormii malissimo. Decisi allora di correre ai ripari e rifare il brandone come prima. Pero` non avevamo legname adatto per fare quattro "gambe" nuove, cosicche` cercai di aggiuntare i pezzi che avevo tagliato. Feci il lavoro meglio che potevo, ma le gambe aggiuntate non potevano avere la solidita` di prima. Cosi` da allora dovetti sostenere il brandone con due sedie: una da capo e una da piedi. E mi rammaricai a lungo di non avere piu` il bel brandone solido che avevo all'inizio. E pensare che in quel brandone ho dovuto dormire fino al 10 marzo 1947, cioè per quasi due anni.                                

 

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                             4 - IL VINO DI MELE

 

Nell'immediato dopoguerra la campagna era ancora densamente abitata e ricca di giovani. Alla Casetta vivevano ben 22 persone : 10 erano i nostri contadini, 4 la famiglia di Azelio, 5 la nostra famiglia e 3 la famiglia della Delfa. Nella sua casina, poi, c'era Jacco`. A Battifollo viveva la vecchia madre con 6 figli (4 maschi e due femmine), alla Roncaiana viveva la vecchia Gina con tre figli (Alfredo, Cesare e Marina), una nuora moglie di Alfredo e i loro due figli, a casa del Peppe Suffredini viveva lui con la moglie Milly, i suoi due vecchi genitori e i suoi tre figli, a casa della “Crema” (Clementina) viveva lei col marito e i tre figli e poco sopra, nella sua baracca, ora distrutta, viveva il "Main", un tale Mariani con la moglie e i suoi sei figli. Infine in localita` Santa Lucia, sulla strada allora provinciale (ora statale), luogo anche detto "dal Gregorio", distante

dalla Casetta poco piu` di cento metri in linea d'aria e, quindi, considerato della stessa zona, c'erano tre case abitate: quella, appunto, del Gregorio, ove viveva lui con la moglie e tre figlie, dette "balie asciutte", quella detta "della Nonzia", abitata come affittuaria dalla Nonzia stessa con le sue due figlie e da un'altra famiglia venuta da poco ad abitare li`: gli Orsi e, poco piu` sotto, la casa della "Ovaia", anziana vedova che viveva li` con la figlia.

  Gli Orsi, originari di Camporgiano, avevano vissuto a lungo in Filicaia, per cui io non li conoscevo prima. Era una grossa famiglia composta dal padre, dalla madre (Martina, sorella della Crema, dette "delle Merchiore") e da sei figli : Ermete, che era Capo in Marina, Ilvano, con la passione del gioco d'azzardo, Lamberto, il piu` rozzo  ma grande lavoratore, la Noemi, unica femmina, il Silvio, che aveva un paio di occhialini rappezzati alla meglio e il Renzino, che era il piu` piccolo. Con questi ragazzi nacque subito molta amicizia. Ci vedevamo  spesso e facevamo delle cose insieme. La piu` notevole fu il vino di  mele. Papa` Orsi aveva ideato, nel terreno della Crema (e, quindi,  d'accordo con quella famiglia) un torchio primitivo. Su una  piattaforma rotonda di legno aveva collocato il cesto del torchio, e,  fin qui, era tutto normale. L'idea originale era stata quella di  sostituire alla vite che serve per pigiare cio` che e` nel cesto, vite che  non c'era, l'ingombrante meccanismo che ora descrivero`. A una certa  distanza dal cesto c'era un muro. Alla base di questo muro, in un foro  appositamente scavato, era stata infilata l'estremita` di un grosso e  lungo palo, quasi un trave, che passava sopra il cesto e sporgeva  dall'altra parte per un paio di metri. A questa seconda estremita` era  stato fissato il capo di una robusta fune, l'altro capo della quale  era fissata ad una specie di argano sottostante. Il tutto funzionava  cosi`: dopo aver riempito il cesto di cio` che si voleva torchiare, su  di esso veniva posto un robusto disco di legno a mo' di coperchio, e  sopra il disco veniva posto un robusto ceppo di legno lungo circa  mezzo metro. Il palo di cui prima ho detto veniva appoggiato sopra il  ceppo, dopo di che, azionando l'argano, si tirava in basso il palo.

  Naturalmente veniva spinto in basso anche il ceppo e il disco di legno e cio` che era nel cesto veniva, cosi`, spremuto a dovere. Per fare il vino di mele facevamo cosi` : Anzitutto bisognava procurarsi le mele, cosi` partivamo con un sacco ciascuno (io il vino lo facevo in societa` con l'Osvaldo e il Gianfranco, figli del Carlin, nostro contadino) e raccoglievamo tutte le mele che trovavamo sotto le piante sia nostre che di altri proprietari. Le mele "raccolte sotto", infatti, erano di chi le prendeva e i proprietari non obiettavano. Si trattava di mele spesso bacate (all'epoca nessuno usava veleni sulle piante) ma mature e buone. Fatta la raccolta bisognava pestarle per romperle e far uscire il succo. Per farlo usavamo un grosso pestello fatto con un ceppo di legno cui erano inchiodati due bastoni verticali da usarsi come manici. Mettevamo una certa quantita` di mele in una pila di pietra, poi col pestello le rompevamo a dovere. Quindi le mele cosi` pestate venivano raccolte in recipienti e portate al torchio per la spremitura. Il liquido che ne usciva era un mosto di color marrone dall'aspetto per nulla rassicurante. Esso veniva posto direttamente nelle damigiane e lasciato fermentare per alcuni giorni. A quel punto veniva travasato piano piano, perche` non si risollevasse la posa che si era formata in fondo alla damigiana, e ne usciva un liquido dorato, ancora dolce e frizzante, di gradevolissimo aspetto e sapore. Ne facemmo una damigiana da 50 litri per ciascuno e anche qualche fiasco in piu` che bevemmo in famiglia dove fu molto apprezzato. A quel punto all'Osvaldo venne in mente che, forse, avremmo potuto venderlo e farci qualche soldo. L'idea sembro` buona, tanto piu` che, se avessimo trovato clienti, avremmo potuto produrne fin che volevamo. A quel tempo, infatti, le piante di melo erano moltissime, sia nel nostro podere che nei dintorni. Cosi` un mattino Osvaldo ed io partimmo tutti speranzosi e, a piedi, andammo a Vagli, offrendo a tutti i negozi il nostro prodotto. Ma non avemmo nessuna fortuna. Il "vin di meli" decisamente non aveva mercato. Cosi` ci rassegnammo e cominciammo a bere anche il vino della damigiana. Per un po' continuo` ad essere dolce e frizzante ma, continuando la fermentazione, il dolce spari` e rimase un vinello piuttosto acido e non buono. Credo che finimmo per buttarlo via, anche perche` quell'anno era venuto molto buono il vino di uva del podere e bevevamo quello.

 

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                        5 - IL MIO POVERO OSSO SACRO

 

               

 

L'estate del 1945 fu un'estate bella e molto calda. Guido ed io in quei primi mesi dopo la bufera della guerra, ci godevamo la ritrovata possibilita` di stare insieme e non c'eravamo ancora posti il problema di come continuare i nostri studi. Parlavamo molto, giocavamo a vari giochi ma, soprattutto, facevamo molta attivita` fisica. Fra le altre cose, quasi ogni pomeriggio andavamo al fiume, alla "Grotta bianca", sotto Battifollo, a fare il bagno. Poiche`, pero`, prendevamo la via del fiume subito dopo pranzo, prima di fare il bagno facevamo quello che noi avevamo chiamato "arborismo". Scendevamo fino al Serchio prima di arrivare a Battifollo e ci inoltravamo in una stupenda ontanaia che si trovava un po' piu` a monte della "Grotta bianca". Era un boschetto di ontani molto folto ed ombroso, ricco di giovani piante alte e flessibili, che noi usavamo come "pertiche" di una palestra per fare molte "salite della pertica". Ma la cosa interessante era che queste piante, una volta che avevamo raggiunto una certa altezza, si piegavano sotto il nostro peso consentendoci di "planare" fino a terra. Ma a volte, poiche`, come ho detto, le piante erano molto fitte, prima di toccare terra passavamo vicini ad un'altra pianta, cosicche` avevamo la possibilita` di lasciare la prima, afferrare la seconda e procedere cosi`, di pianta in pianta, lungo il bosco, come delle scimmie o come degli emuli di Tarzan. Questo era il nostro "arborismo", ed era effettivamente una bella ginnastica. Con qualche inconveniente, pero`.  Una volta, mentre, lasciato un ramo, mi ero slanciato per afferrarne un altro, mancai clamorosamente la presa e caddi pesantemente in basso.

 Destino volle che andassi a cadere, battendoci proprio la coccige, su quel che restava di un albero tagliato. Non mi ruppi nessun osso ma il dolore fu veramente lancinante. Rimasi a piagnucolare per un bel po', malgrado gli interventi consolatori di Guido.

 Ma alla fine, come Dio volle, il dolore acuto passo` e mi rimase solo una forte dolenzia. Cosi`, essendo ormai l'ora di fare il bagno, ci avviammo verso il "bozzo" ed io contavo che il fresco dell'acqua avrebbe fatto bene al mio "osso sacro" dolorante. Cosi`, giunti al "bozzo", subito salii sulla grotta per fare un bel tuffo. Ma, proprio mentre stavo per tuffarmi, i piedi mi scivolarono sulla grotta bagnata ed io battei una nuova, tremenda "culata" sulla roccia, assai piu` dura del legno. Ovviamente il dolore all'osso sacro fu rinverdito, ma il fresco dell'acqua, dove ero finito, dovette lenirlo piuttosto bene.  Infatti il dolore se ne ando` piu` presto ed anche quel giorno ci godemmo il piacere del bagno in un'acqua che, allora, era di una limpidezza cristallina, tanto che, andando sott'acqua, si poteva vedere ad alcuni metri di distanza. Ed era piacevole rimanervi immersi per ore.

 

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                          6 - LA BANDIERA AL SEDERE

 

 

Come credo di aver gia` detto, nella tarda estate del 1945 io, con altri quattro ragazzi, fondai una sezione del partito dell"Uomo Qualunque" che, all'epoca, era l'unico che parlava di pacificazione anche con i fascisti. Ed io fui eletto segretario.

 In conseguenza di cio`, dopo un po' di tempo, mi pare fosse gia` autunno, un bel giorno vedo comparire al "bungalow" il maresciallo dei carabinieri. Non era piu` quello che ci aveva contestato il furto delle traversine della ferrovia, tuttavia rimasi sorpreso e molto sospettoso. Temevo qualcosa di sgradevole.

 Ero solo ed ero fuori, davanti alla casina. Egli mi saluto` ed io lo salutai. Mi chiese se ero io Mario Pellegrinetti ed io dissi di si`.

 Chiese ancora se ero il segretario della sezione dell'Uomo Qualunque ed io risposi ancora di si`. Allora mi disse che doveva farmi alcune domande. Al che mi sentii in dovere di farlo entrare in casa e gli indicai la scala che portava al nostro monolocale. Ma lui mi disse che facessi strada io. Io sapevo di avere dietro i pantaloni una "toppa" mezza scucita che, penzolando, scopriva le mutande, e mi vergognavo a mostrarla. Cosi` insistei per farlo salire per primo ma lui declino` fermamente l'invito e mi prego` di precederlo. A quel punto non avevo altra scelta per cui mi avviai per le scale. Non sapendo come nascondere la mia "toppa", pensai di salire rapidamente le scale per lasciare al maresciallo meno tempo per vederla. E cosi` feci. E mentre salivo sentivo la toppa sventolare e garrire come una bandiera. Ero molto imbarazzato, tuttavia, arrivato in cima alla scala e fatto accomodare il maresciallo, risposi alle sue domande che erano solo domande formali circa gli scopi che ci prefiggevamo e roba del genere.

 In definitiva nulla di preoccupante. Mentre rispondevo, pero`, mi capito` di girare lo sguardo verso il letto e....mi si drizzarono i capelli: nell'angolo dietro al letto spuntava, visibilissimo, il moschetto del babbo, che avevamo conservato fino ad allora. Pensai che se lo avesse visto sarebbe stato grave, forse mi avrebbe arrestato o chi sa che cosa, e stetti sulle spine fino a che il maresciallo, ottenute le mie risposte, mi saluto` e se ne ando`. Non lo vide ? Fece finta di non vederlo ? Non lo sapremo mai. La sera raccontai tutto mentre eravamo a cena e commentammo a lungo l'accaduto. La storia della bandiera al sedere ci fece ridere a lungo. Il babbo, pero`, non rideva troppo. Io so che soffriva per le nostre condizioni economiche che non gli consentivano di dare alla sua famiglia quel benessere che le aveva dato in passato.

 

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                           7 - LA GALLERIA DEL POGGIO

 

 

 In tempo di guerra, i tedeschi prima e gli alpini della Monterosa poi, avevano utilizzato la galleria sotto la Capriola, dove il treno non passava piu` da tempo, come rifugio e deposito di munizioni e di altro. Quando si ritirarono non fecero a tempo a portar via tutto quel che c'era, per cui la galleria rigurgitava di materiale bellico di ogni tipo. Abbondantissimi i proiettili da cannone calibro 75 prolungato che erano proiettili lunghi una quarantina di centimetri, collocati su un bossolo lungo circa un metro. Tali proiettili erano collocati dentro a delle casse di buon legno, ciascuna delle quali ne conteneva tre. Molta gente andava a razzolare in galleria, portando via quello che poteva servire a qualcosa. E anche noi ragazzi della Casetta andavamo spesso a cercare in quella galleria. Ho gia` detto, parlando del "brandone", della grande piattaforma di legno che avevamo preso Guido ed io. Inoltre avevamo preso tre casse (riuscimmo a prendere solo quelle perche`, essendo di ottimo legno, tutti le prendevano, lasciando i proiettili contenuti abbandonati in terra alla rinfusa) che, essendo noi senza mobili, ci servirono come como`, collocate una sopra l'altra nella camera di mamma e papa`. Ed ancora io avevo portato a casa molti fasci di polvere da sparo. Si`, ho detto proprio "fasci". Infatti dentro ai bossoli c'era la carica di "balistite" lavorata a stecche nere, simili a lunghe stecche di quelle che si usano per lavorare a maglia. Tali stecche erano contenute in sacchetti di seta. Cosi` di queste stecche io facevo un bel fascello e lo portavo a casa dove le stecche venivano usate per accendere il fuoco. I sacchetti di seta, invece, li usavamo come calze. Non erano sagomati per i piedi, e` vero, e recavano delle scritte indelebili, ma erano belli lunghi e consentivano di farci due o tre risvolte in modo da nascondere le scritte. Insomma la galleria era una miniera di cose.

 Un certo giorno ci andammo Gianfranco ed io. All'ingresso della galleria (che, nei pressi della stazione e` molto ampia) c'era uno dei soliti paraschegge fatto di due pareti di legno costruite con le traversine alla distanza di circa un metro l'una dall'altra e con lo spazio interno riempito di pietrisco. Tale paraschegge era alto circa due metri e occupava circa meta` dell'imbocco della galleria. Noi, superato il paraschegge, entrammo nel deposito dei proiettili da

cannone. Ce n'erano a dozzine, ammonticchiati alla rinfusa. Alcuni erano integri (proiettile ancora collocato sul bossolo), altri erano sfatti (bossolo e proiettile separati) e dovunque c'erano mucchi di balistite a stecche. Per togliere il proiettile dal bossolo si afferrava il bossolo alla base con le due mani, lo si sollevava e si batteva sullo spigolo di pietra della banchina in modo che lo spigolo battesse proprio un poco sotto l'estremita` del bossolo, dove finiva la parte del proiettile inserita nel bossolo stesso. In questo modo il proiettile, che era pesante, era sollecitato ad uscire dal bossolo. Se il colpo era bel assestato poteva bastare anche un solo colpo. Ma e` facile immaginare il rischio che si correva. Se, per errore, avesse battuto violentemente a terra la spoletta del proiettile, questo avrebbe potuto esplodere con conseguenze drammatiche. Eppure lo abbiamo fatto decine di volte. Ma quel giorno Gianfranco invento` un gioco ancora piu` pericoloso. Avevamo scoperto che, percuotendo con un grosso bullone (di quelli che fissano le rotaie alle traversine) la capsula di innesco situata sul retro del bossolo, questa esplodeva producendo una fiammata che usciva fin fuori del lungo bossolo e una sorta di sordo boato. Cosi` quel giorno Gianfranco prendeva tutti i bossoli vuoti che trovava e li "sparava" percuotendoli col bullone. La cosa pareva divertirlo molto, per cui continuava a farlo. Il guaio fu che lo faceva senza prestare la minima attenzione alla polvere da sparo sparsa per ogni dove. Cosicche`, a un certo punto, la fiammata di un bossolo ando` ad incendiare la polvere da sparo che si trovava li` sotto. Fu subito chiaro che sarebbe successo un disastro, con tutta la polvere che era li` in giro e con tutti i proiettili che c'erano mescolati, per cui facemmo l'unica cosa ragionevole a quel punto : ci mettemmo a correre all'impazzata e, usciti da quella galleria, ci dirigemmo velocemente verso l'altra breve galleria che dovevamo percorrere per tornare a casa. Mentre stavamo per raggiungerla, ne stava uscendo lo zio Azelio e ci sorprese il suo sguardo atterrito, che fissava qualcosa dietro di noi. Istintivamente ci voltammo e vedemmo quel che vedeva lui : fiamme altissime uscivano dalla galleria e salivano in alto, dopo aver invaso l'intera vasta imboccatura della galleria stessa. La nostra corsa, se possibile, divenne ancora piu` veloce. Passammo accanto allo zio che forse ci disse qualcosa ma al quale noi non dicemmo nulla, impegnati come eravamo a scappare. E proprio in quel momento udimmo le prime esplosioni: i proiettili avevano cominciato a scoppiare.  Attraversata velocemente la breve galleria ed allontanatici, cosi`, dal rischio immediato, cominciammo a preoccuparci delle conseguenze che quella vicenda avrebbe potuto procurarci. E ci venne l'istinto di nasconderci da qualche parte. Cosi`, invece di attraversare il ponte che si trova subito dopo la galleria, uscimmo dalla ferrovia e ci precipitammo giu` per la ripida costa che scende verso il fiume Edron. Scendendo a precipizio, a un tratto ci trovammo proprio addosso ad una grossa bomba di aereo che era li` caduta qualche mese prima ed era esplosa soltanto in parte. L'involucro era lacerato e si vedeva l'interno pieno di tritolo giallo, in parte anche fuoriuscito e sparso li` intorno (successivamente ci ricorderemo di quella scoperta e torneremo a recuperare il tritolo che ci servira` per altre imprese, cioe` fare bombe per i pesci o far saltare vecchi ceppi di alberi tagliati).

 Superata anche la bomba, scendemmo fino al fiume, lo attraversammo e ci imboscammo nei fitti boschi di ontano che coprivano le rive.

 Rimanemmo laggiu` per tutto il giorno, ascoltando, con angoscia, le esplosioni che continuarono per tutto il giorno. Infatti si era incendiato anche il paraschegge che, bruciando, aveva lasciato un grosso braciere il calore del quale continuava a portare via via qualche proiettile non ancora esploso alla temperatura necessaria per esplodere. Immaginavamo che i carabinieri ci stessero cercando e sobbalzavamo ad ogni fruscio. Finalmente, a sera, tornammo prudentemente a casa e qui, salvo i rimbrotti dei nostri familiari, trovammo tutto tranquillo. Sapemmo, poi, che per un pelo era stata evitata una disgrazia. Nell'appartamento della stazione di Poggio, infatti, vicinissimo alla galleria esplosa, viveva un cantoniere con la moglie (certo Benedetti). Essa, che era in casa, al momento delle prime esplosioni immagino` che fosse scoppiata una nuova guerra fra Russi e Americani (se ne parlava in quel periodo), per cui, istintivamente, usci` di casa correndo per andarsi a riparare proprio nella galleria che stava bruciando. Fu fermata, terrorizzata, dalle forti esplosioni proprio mentre stava per superare il paraschegge che gia` stava bruciando. E cosi`, per fortuna, se la dette subito a gambe senza subire danni. Noi per qualche giorno rimanemmo timorosi che qualcuno sarebbe venuto a cercarci, ma non successe nulla. Purtroppo a quel tempo c'erano residuati bellici dappertutto ed episodi legati alla disinvoltura con cui i ragazzi maneggiavano quei materiali erano all'ordine del giorno.

 

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                8 - LA PENTOLA BRUCIATA E LA POLENTA SENZA SALE

 

 

Durante tutto il 1945 e, forse, fino agli inizi del 1946, la mamma dovette andare diverse volte a Massa per cercare di vendere quel poco che avevamo recuperato nella nostra casa e quel poco di oro che aveva salvato dalla guerra, per sopravvivere. Quando questo accadeva essa stava fuori almeno un paio di giorni, per cui della cucina dovevo occuparmi io, specie a mezzogiorno, dato che papa` non rientrava per il pranzo. Ed io avevo imparato a fare diverse cose : sapevo spianare e fare i taglierini, sapevo fare il minestrone, la polenta e la frittata e, forse, anche altre cose. Cio` era sufficiente per un pranzo decente. La sera mangiavamo, in genere, caffe` e latte e, mi pare, un uovo fritto. E, poi, la sera c'era il babbo.

 Tutto bene, quindi. Salvo che, talvolta, mi capitava di dimenticare qualcosa. Soprattutto due "dimenticanze" clamorose vale la pena di raccontare.

 La prima: Un giorno avevo deciso di fare un bel minestrone di fagioli. Cosi`, all'ora giusta, misi l'acqua e i fagioli nella pentola e misi la pentola sopra un bel fuoco che avevo acceso nel caminetto.

 Dopo di che, sapendo che ci sarebbe stato da aspettare un bel po', scesi le scale e, nel piazzaletto antistante il nostro "bungalow", cominciai a tirare di scherma con Guido. I nostri fioretti erano dei rami sottili di frassino, flessibilissimi, cui avevamo applicato una protezione per le mani e, sulla punta, una pallottolina di stoffa morbida ad evitare graffi o pericolosi colpi sugli occhi. La cosa ci appassionava molto, per cui rimanemmo a lungo occupati. Finalmente mi ricordai dei fagioli e corsi di sopra. Ahime` : l'acqua era evaporata completamente e i fagioli giacevano, carbonizzati in parte, sul fondo.

 Ma la cosa piu` grave era che il fondo della pentola, di alluminio, era semi-fuso per cui la pentola non teneva piu` i liquidi per alcuni fori che si erano prodotti. E qui devo fare una parentesi per parlare di quella pentola. Bisogna sapere che noi non possedevamo piu` pressoche` nulla anche come attrezzatura di cucina. Cosi` accadde che, quando andammo a vivere per conto nostro nel "bungalow" dovemmo rimediare qualcosa qua e la`. Ma non avevamo rimediato una pentola.

 Il babbo, allora, trovo` una vecchia pentola del nonno, ormai usata come vaso da fiori per via del fondo pieno di buchi. La prese, la ripuli` e, con un vecchio coperchio di alluminio, gli rifece il fondo.

 Quel fondo, appunto, che ora ci ritrovavamo mezzo fuso.

 Ma non ci perdemmo di coraggio. Gli anni di guerra e le varie difficili situazioni vissute in quegli anni ci avevano abituato a fronteggiare ogni emergenza. Cosi` vuotai i fagioli sul tavolino e corsi di sotto dove il babbo teneva i suoi attrezzi. Qui, individuati i fori, li riparai con delle toppe di alluminio, imbullonate come vedevo fare al babbo. Poi ci misi di nuovo l'acqua e vidi con sollievo che le mie toppe "tenevano". Allora, con Guido, grattammo dai fagioli la parte carbonizzata e li ributtammo in pentola. Qui finirono di cuocere con le patate che subito dopo ci misi e, questa volta, sotto la nostra costante sorveglianza. Intanto io avevo preparato, su un fornelletto a carbone, un ottimo soffritto a base di lardo pestato, cipolla e prezzemolo e, al momento opportuno lo buttai in pentola.

 Poi ci cuocemmo i taglierini spianati in precedenza e, all'ora di pranzo, forse con un po' di ritardo, ci mettemmo a tavola e ci divorammo il nostro minestrone.   Per la verita` sapeva un po' di fumo, ma, a parte cio`, era gustoso e saporito come sempre.

 La seconda forse meno grave dimenticanza fu quando feci una ottima polenta di "neccio" ma dimenticai il sale.

 Dopo averla cotta a puntino, rovesciai il paiolo sul "tavoletto" con gesto energico e sicuro (ormai ero diventato abile), poi con l'archetto di legno preparai le fette. A quel punto sia Guido che io mettemmo le fette nel piatto e ci accingemmo a mangiare la polenta con la frittata di cipolle che, mi pare, avevo preparato. Ma al primo boccone fu evidente che avevo dimenticato di salare l'acqua. Ora la polenta di farina di castagne e`, come e` noto, dolce, ma e` il sale che si mette nell'acqua che esalta e rende gradevole quel dolce. Senza sale il dolce della polenta e`, al gusto, come sbiadito e, insomma, sgradevole. Ne` si puo` rimediare come con altri cibi, mettendoci sopra una spolveratina di sale, perche` allora il sapore salato contrasta col sapore dolce, facendo una combinazione di gusti ancora piu` sgradevole. Cosi` la pensavo io che, dopo qualche boccone, rinunciai con rammarico a quella bella polenta calda e mangiai solo la frittata con un po' di pane. Guido, invece, prese la cosa con filosofia e, sparso un po' di sale sulle fette, se la mangio` tranquillamente.

 

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                                9 - JACCO` SMEMORATO

 

 

Jacco`, cioe` Jacopo Pellegrinetti, era fratello del mio nonno paterno Carlo. Egli aveva vissuto tutto il periodo della guerra da solo, nella sua casetta, senza prendere neppure in considerazione l'idea di trasferirsi in galleria al sicuro dalle incursioni aeree, come avevano fatto lo zio Azelio e i contadini, insieme ad altri della zona. Per nulla impressionato dai bombardamenti americani, egli aveva assistito tranquillamente, stando seduto sotto la lunga pergola d'uva che correva davanti alla sua casa, anche ai bombardamenti del ponte della ferrovia che, in linea d'aria, non dista piu` di duecento metri.

 Dopo la guerra la figlia Anna (e, piu` tardi anche la Francesca rientrata dall'America) lo costrinse a passare l'inverno a Fornaci di Barga dove viveva. Ma l'estate egli tornava nella sua casetta dove viveva tranquillamente da solo. Era un tipo che a noi era molto simpatico. Amava raccontare lunghe favole che tutti ascoltavamo volentieri. E anche storie complicate della sua vita militare o della sua emigrazione in Francia. Poi amava moltissimo giocare a carte e spesso facevamo con lui lunghe e appassionanti partite. Aveva un certo fare irascibile e, specie giocando a carte, si arrabbiava per gli errori degli altri e li rilevava con fare stizzito. Fumava la pipa e la teneva sempre in bocca anche quando era spenta, reggendola fra i denti con qualche difficolta` per i denti che gli mancavano. Ed era molto buffo quando si arrabbiava, perche` nell'inveire, puntualmente la pipa gli sfuggiva dai denti e gli cadeva, e lui smanettava nel tentativo di afferrarla in aria, cosa che quasi mai gli riusciva. E, allora, doveva recuperarla e noi lo aiutavamo a raccoglierla da terra. Col passare degli anni era diventato non proprio smemorato ma un po' distratto, ed aveva certe espressioni che ci facevano ridere a crepapelle quando ce le raccontavamo. Una volta mi raccontava di un suo litigio col fratello Carlo, mio nonno, col quale non e` mai andato molto d'accordo. Nel terminare il suo racconto assunse un'aria assorta, assorbito, evidentemente, dai ricordi e concluse dicendo: - Piu` tardi mio fratello Carlo torno` per fare la pace, ma io ero morto !!! - Io spalancai gli occhi e lui, allora, subito si riprese e frettolosamente disse: - Cioe`, no, non ero morto, ero partito per la Francia ! .

 Un'altra volta, al tempo che mio padre era venuto in licenza e per qualche sera dormi` con lui, accadde che, dopo aver giocato a carte tutta la sera, andarono a letto e lui, come era solito dire, " si chiuse in meditazione" e disse le sue preghiere che comprendevano anche una preghiera per i defunti. A un certo punto, nel dormiveglia, dovettero confonderglisi le preghiere col ricordo delle partite giocate, per cui chiamo` mio padre e gli disse con aria preoccupata: - O Cesare, ma se io busso a bastoni, i poveri morti come devono rispondermi ? - Al che mio padre gli rispose qualcosa che lo tranquillizzo`. E si addormentarono tranquilli.

  Un altro episodio buffo accadde a Fornaci, d'inverno. Sua figlia Anna aveva l'abitudine di tenere in casa, in una tazza, dei fermenti lattici vivi. Come e` noto ogni mattina si puo` usare il latte reso acido dai fermenti, dopo di che i fermenti stessi, ben risciacquati, devono essere di nuovo coperti con latte fresco. Una mattina Jacco`, vide la tazza di latte e, dimenticandosi dei fermenti, gli venne voglia di bersela. E se la bevve inghiottendo, insieme al latte, anche i fermenti. Quando Anna se ne accorse si preoccupo`, ma Jacco` no. E, infatti, non ebbe nessun tipo di disturbo.

 

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                           10 - JACCO` E LA GALLINA

 

 

Prima di andare a stare a Fornaci d'inverno, Jacco` aveva anche un pollaio con due o tre galline. Di esse era molto fiero e specie di una vantava la grande virtu` di fare piu` di un uovo al giorno. In realta` era qualche gallina del Carlin (il contadino nostro) che andava a far l'uovo nel pollaio di Jacco`, ma Jacco` non lo avrebbe mai ammesso e continuo` sempre a credere che fosse la sua gallina a fare piu` di un uovo al giorno.

 Questa gallina, insieme alle altre ma piu` delle altre, razzolava volentieri davanti alla casa di Jacco` e sovente entrava anche in casa cercando qualcosa da beccare. All'epoca era una cosa normale e Jacco` la lasciava fare tranquillamente. Ma quando si stava giocando a carte ed egli aveva bisogno di tranquillita` per concentrarsi non la sopportava per il gracchiare sgraziato che quella faceva. Cosi` una volta che questa gallina fece il suo versaccio, Jacco` si volto` irato verso di lei e gli grido` : - Sta zitta ! - Ora accadde che la gallina, sorpresa da quel grido, tacque davvero, e Jacco` se ne compiacque. Egli, infatti, pensava di essere capace di farsi intendere da tutti gli animali, perfino dalle lucertole che, a suo dire, quando le chiamava gli salivano sulle ginocchia. Ma la gallina, passato l'attimo di stupore, ricomincio` il suo verso. E Jacco`, ancora piu` irritato, di nuovo : - Sta zitta !! E si ripete` la cosa di prima, che la gallina tacque per un po' e poi ricominciava. Alla fine Jacco` si alzo`, afferro` la gallina e la sculaccio` ben bene, ripetendogli che doveva stare zitta. Poi la depose e la gallina penso` bene di andarsene, offesa da quel trattamento. E la partita pote` proseguire.

 

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                             11 - IL TUBO CHE RUGGIVA

 

 

Ho gia` parlato delle stecche di balistite che prendevamo in grosse quantita` nella galleria del Poggio. Con essa spesso facevamo dei giochi bizzarri e anche pericolosi. Una volta avevamo per le mani, non so da dove venisse, un lungo tubo di ferro con una curvatura che lo faceva somigliare a un "J". Quella sera lo portammo nella ferrovia li` vicino, lo sistemammo, sostenendolo in qualche modo, a mo' di cannone puntato verso l'alto, lo empimmo di stecche di polvere e accendemmo la polvere dall'estremita` curva che stava in basso, non sapendo cosa sarebbe successo. La polvere si incendio` e, dalla bocca del "cannone" cominciarono a uscire frammenti accesi che venivano scagliati in alto per poi ricadere a qualche metro di distanza, con effetto da fuochi artificiali che ci piacque molto. Quando la polvere era quasi esaurita, poi, il "cannone" mandava una breve fiammata dalla parte posteriore ed emetteva uno strano suono, simile a un sordo ruggito.E anche questo ci divertiva assai. E cosi` continuavamo il gioco. Ora accadde che il Silvio e il Renzino Orsi, che abitavano nella casa della Nonzia, sulla strada proprio sopra di noi, videro quegli spettacolari fuochi d'artificio e corsero giu` per vederli da vicino, anche se era ormai notte. Scesero sulla ferrovia un po' piu` in basso e poi vennero verso di noi. Quando erano ormai vicini, ecco che noi demmo fuoco ad una nuova carica. E i due malcapitati vennero investiti dall'ondata di "lapilli" che ricadevano proprio addosso a loro. Ho ancora presente nella memoria la faccia spaventata del Silvio, che allora avra` avuto una diecina d'anni e portava un paio di occhialini malandati, tutti rabberciati con filo di ferro. Di fronte a quella pioggia di fuoco egli prese per mano il fratellino piu` piccolo e, fatto dietro front si mise a correre all'impazzata lungo la ferrovia, saltellando da una traversina all'altra. Alla luce del nostro fuoco li vedemmo per un po', finche` sparirono nell'oscurita`. E non tornarono.

 

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                        12 - I "BENGALA" DELLA PRETURA

 

 

Un altro immenso deposito di residuati bellici, questa volta americani, era nei locali della ex pretura, in una stanza cui si accedeva dall'esterno e che era sempre aperta, e non so come mai nessuno pensasse di chiuderla. C'erano molte bombe che noi chiamavamo "tromboncini", di quelle che si sparano col fucile e c'erano molti "bengala", cioe` specie di piccoli mortai con una carica di lancio capace di sparare a grande altezza il "bengala" (costituito da una quantita` di fosforo che, accendendosi e rimanendo in aria appeso al suo paracadute, illuminava a giorno una vasta zona. Questi aggeggi venivano piazzati davanti alle postazioni militari e nascosti nel terreno. A lato essi avevano un percussore che faceva partire la carica mediante un detonatore, e che si azionava tirando un anello. Gli anelli di due "bengala" situati a una certa distanza uno dall'altro, venivano collegati con una sottile cordicella nascosta fra l'erba. Se una pattuglia nemica, di notte, tentava di avanzare furtiva, era molto probabile che, inciampandosi qualcuno nella cordicella che, tirata, faceva scattare i percussori, i bengala partissero e la scena venisse illuminata a giorno rendendo la pattuglia perfettamente visibile.

 Ora accadde che qualcuno si accorse che ogni pezzo conteneva, opportunamente ripiegato, un abbastanza ampio paracadute di seta.

 Nel giro di qualche giorno tutti i paracadute furono portati via per farne camicie e altro. Ma rimase il resto. Che continuo` ad attirare alcuni assidui visitatori, fra cui Giacomo, altro figlio del Carlin, ed io. Giacomo, che era piu` grande di me e dei suoi fratelli (veramente il maschio piu` grande era il Berto, ma lui era un adulto e non aveva rapporti con noi ragazzi), era l'esperto di esplosivi. Era sempre con lui che andavamo a gettare le bombe nel fiume per prendere i pesci. E in quel deposito Giacomo ed io avevamo trovato il modo di procurarci i preziosi detonatori, indispensabili per far esplodere le cariche di tritolo. Ne erano muniti i "tromboncini". Occorreva svitarne la coda e staccarli dal supporto al quale erano fissati, il che facevamo battendoli leggermente contro qualcosa di solido finche` si troncavano nel punto di attacco. Era una operazione da artificeri, che noi facevamo con assoluta disinvoltura ed incoscienza. E ci sentivamo ricchi quando possedevamo una decina di detonatori. A proposito di Giacomo e degli esplosivi devo aprire qui una parentesi per raccontare di quando andammo, di notte, al cimitero di San Romano, dove avevamo saputo c'erano, chiusi nella cappellina, alcuni "panzer-faust" , terribili bombe anticarro, (i "bazooka" tedeschi). Penetrammo nella cappellina da una piccola finestrella rotonda posta in alto e portammo via due "panzer-faust" che, poi, facemmo esplodere nel fiume provocando stragi di pesci.   Erano esplosioni tremende.

 Ma tornando ai bengala diro` che, a un certo punto, cominciammo a portar via anche i bengala stessi, per poi spararli, la sera, come fuochi di artificio. Ma erano pericolosi perche`, non avendo piu` i paracadute, dopo essere saliti molto in alto ed essersi accesi, ripiombavano a terra velocemente e ancora accesi, rischiando di provocare incendi.

  Per spararli li fissavamo al suolo e poi, legata una cordicella all'anello del percussore, davamo uno strappo alla cordicella.

 Ora accadde che una volta alcuni ragazzi, fra cui il Luciano Di Gregorio, il Crudeli e il Vasco Rocchiccioli detto Dodi, avevano preso dei bengala e li sparavano sotto il muretto dove ora c'e` la casa che fu del Gino Fiorani falegname. O meglio : i bengala stavano sotto il muretto e i ragazzi stavano sopra e, da lassu`, tiravano la cordicella. Era una bella misura di sicurezza. Purtroppo accadde che, una volta, tirata la cordicella, il bengala non parti`. Allora, dopo aver provato piu` volte, alcuni ragazzi scesero sotto il muro per vedere come mai la cosa non funzionava. Il Luciano e il Dodi si misero a trafficare intorno all'ordigno in maniera del tutto imprudente. E accadde il disastro. Improvvisamente il bengala parti`. Al Dodi feri` una mano, ma in modo lieve (certo non tale da giustificare le grida e le scene di disperazione dello stesso), al Luciano, invece, giacche` stava chino sull'ordigno, colpi` di striscio la testa, portandogli via una bella fetta di cuoio capelluto. Egli, pero`, rimase calmo e si lascio` accompagnare dal dottor Bertolini (vecchio medico in pensione), che abitava proprio li` vicino e che lo curo`. Non so se poi ando` a farsi ricucire all'ospedale o se fece tutto il dottor Bertolini. Comunque la cosa fini` abbastanza bene.

 Prima di concludere, debbo raccontare di un altro uso che facevamo dei "bengala", ovvero, in questo caso, di una parte di essi.

 Il percussore di cui ho parlato si poteva svitare e utilizzare separatamente, giacche` era ricaricabile. Ora bisogna sapere che a quel tempo erano disponibili in quantita` illimitata cartucce di ogni tipo, specialmente cartucce per moschetto e per mitraglia. Molte di queste erano dotate di proiettili traccianti (avevano all'interno una carica di fosforo che si accendeva al momento dello sparo). Bisogna anche sapere che, durante i bombardamenti in tempo di guerra, era stata colpita anche la fabbrica di tessuti di Castelnuovo, dopo di che essa era stata saccheggiata. Circolavano, cosi`, molto numerosi, dei tubicini conici di cartone pressato molto resistente, che erano i "rocchetti" su cui stavano arrotolati i filati che usava la fabbrica e che erano stati, appunto, portati via.

 E qualcuno invento` il seguente "gioco". Alle cartucce veniva tolto il proiettile tracciante per poterle svuotare della polvere da sparo che contenevano. Quindi il proiettile veniva di nuovo inserito in cima al bossolo. Questa cartuccia cosi` trattata veniva inserita in uno dei tubicini di cui sopra dalla parte larga e spinta finche` si fissava la` dove il tubicino, che era conico, si andava restringendo. A questopunto si inseriva il percussore pronto a scattare e, tenendo in mano questa strana arma con la sinistra, la si puntava in alto e, tirando l'anello del percussore con la destra, si faceva partire il colpo.

 L'ago del percussore batteva con precisione sulla capsula situata sul fondo del bossolo facendola esplodere e questa pur debole esplosione riusciva ad accendere il fosforo e a far partire il proiettile che riusciva a percorrere una traiettoria di una trentina di metri e anche piu`, lasciandosi dietro una scia di fuoco molto suggestiva. Sempre, pero`, col rischio di incendiare qualcosa, giacche` il fosforo non si esauriva nella breve traiettoria e continuava a bruciare anche dopo essere caduto a terra. Una volta accadde a me che lanciai uno di quei proiettili dalle scale del "bungalow" verso il boschetto e questo, ricadendo, incendio` dell'erba secca, costringendomi a correre per spengerla prima che si generasse un incendio di vaste proporzioni.

 Un'ultima memoria, per dare l'idea di come i ragazzi trattassero con eccessiva disinvoltura gli esplosivi e quindi, veramente, "scherzassero col fuoco". Accadde che un ragazzo, mi pare fosse il Renato Accorsini detto il Matoletti, porse ad un altro ragazzo, non ricordo piu` chi fosse, forse il Lorenzo Fortini, una cartuccia non svuotata della carica di polvere, da sparare col tubicino di cartone.

 Questi, ignaro, la sparo`. Ci fu, ovviamente, una forte esplosione e il tubicino di cartone fu semidistrutto mentre il percussore veniva scagliato via. Per miracolo la mano che reggeva il tubicino non subi` gravi danni. E tutti risero del bello scherzo. Cose da matti !

 

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                     13 - LE VITTIME DEI GIOCHI PERICOLOSI

 

 

Fortuna volle che, malgrado le eccessive confidenze con gli esplosivi, non accadessero disgrazie mortali in quell'immediato dopoguerra. Ci furono, pero`, dei ragazzi che si ferirono piu` o meno gravemente.

Oltre al caso del Luciano Di Gregorio di cui ho parlato, ricordo due casi accaduti alla Casetta o nei pressi.

 Un giorno l'Osvaldo Comparini stava svuotando dei proiettili di carabina americana insieme al fratello piu` piccolo Gianfranco.

Osvaldo li reggeva con una pinza tenendoli inclinati e Gianfranco, con un martello, li colpiva a circa meta` del bossolo per far uscire il proiettile. Poi recuperavano la fine polvere da sparo che avrebbero utilizzato per caricare un vecchio fucile a bacchetta che possedevano.

 A un tratto, forse a causa di una scintilla provocata dal martello

contro il metallo, o forse perche` la martellata ando` a colpire la capsula, una cartuccia esplose con fragore e le piccole schegge di ottone del bossolo sibilarono intorno. L'Osvaldo, che avverti` un colpo alla spalla destra, grido` melodrammaticamente : - Oddio, sono colpito al cuore ! - Di questo lo canzonammo a lungo, anche perche` era stato colpito alla spalla destra e non certo al cuore. Pero` una piccola scheggia gli si era effettivamente conficcata nella spalla e dovettero portarlo dal medico a farla togliere.

 Un altro episodio simile accadde allo "Scalocchio", dove abitava il "marmista" con la famiglia (moglie, una figlia e tre figli). Il piu` grande di questi figli, che all'epoca aveva dieci o undici anni, era il Domenico Mazzei, che ora e` il nostro medico. Anche lui stava facendo, non so con che tecnica, quello che faceva l'Osvaldo, ed anche a lui esplose una cartuccia. Ma la sua ferita fu piu` grave. Credo che egli fosse “incoccolato” mentre trafficava con le cartucce (credo fossero di moschetto), fatto sta che le schegge lo colpirono al ventre, mettendo addirittura alla luce le budella. Il padre, che non aveva altri mezzi, lo carico` sulla "canna" della bicicletta e lo porto` dal medico. Qualcuno di noi vide passare questo ragazzo col padre e rimase sconvolto udendolo dire, con rassegnazione : - Addio, ragazzi, credo che non ci rivedremo piu`...- o qualcosa del genere.

 Per fortuna non erano lesi organi interni ed egli guari` senza altre conseguenze.

 

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                                     14 - A CASA DI MARTA

 

 

Un tempo era abbastanza diffusa l'abitudine di costituire fra amici delle provvisorie societa` filodrammatiche per mettere in scena una commedia da rappresentare nel locale Teatro Colombini che oggi, purtroppo, non esiste piu`. Cosi` quell'inverno, non ricordo di chi fu l'iniziativa, sia io che Guido fummo coinvolti in una di tali iniziative. Io ero ancora troppo giovane, ma, anche per ragioni, diciamo cosi`, "politiche" (ero il segretario della locale sezione dell'Uomo Qualunque), fui cooptato.

 Non ricordo neppure quale fosse il titolo della commedia. Ricordo con piacere, pero`, le lunghe serate passate a casa di Marta Telloli, che allora, sposata da poco e molto giovane (aveva 22 anni) abitava nella casa dove ora abitano la Clara e il Lambe`, al primo piano, mentre al piano terra abitavano, allora, i genitori di Clara e Tosca con le loro figlie. L'atmosfera era allegra e piacevole, anche perche` eravamo in maggioranza, se non addirittura nella totalita`, ex fascisti o simpatizzanti. C'erano, infatti, i fratelli di Marta (sicuramente il Renzo e l'Umberto, ma forse anche l'Athos), suo marito, il Crudeli Raffaello, la Tosca e, mi pare, anche la Colomba Rocchiccioli. Cosi`, oltre che provare la commedia, si parlava molto e mi scaldava il cuore constatare che eravamo un bel gruppo di amici con gli stessi ideali.

 La mia carriera di aspirante attore fu breve. Infatti ero ancora troppo timido e dicevo le battute frettolosamente e con imbarazzo, per cui, dopo le prime prove, convenni con gli altri che non ero adatto e lasciai la parte. Pero` continuai a frequentare la casa di Marta dove mi trovavo bene per le ragioni che ho detto.   Almeno fino a che venne la buona stagione e, allora, stavo fuori con gli amici. Mi pare che la commedia venne, poi, rappresentata, ma non riesco ad avere ricordi del fatto.

 

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                        15 - LA MORTE DI OL MOKONO

 

 

Ho gia` parlato altrove di questo nostro simpatico gattino, che fu nostro fedele compagno durante la permanenza al "bungalow". Lo avevo preso piccolissimo dal Raffaello Crudeli e lo avevamo allevato circondandolo di molto affetto. Quando eravamo a Monzone avevamo sempre avuto molti gatti per casa, per cui, questo riavere dopo tanto un gatto ci faceva sentire ancora di piu` il piacere di essere di nuovo tutti insieme in una nostra casa, anche se precaria. Non gli avevamo mai dato un vero nome, avendolo sempre chiamato semplicemente "Micino". Un giorno, pero`, mentre io e Guido giocavamo a parlare sostituendo un'unica vocale a tutte le vocali delle parole che pronunciavamo, e proprio mentre parlavamo sostituendo tutte le vocali con la "o", ecco che parlammo del micino che, naturalmente, divento` ol mocono. La cosa ci suono` bene, per cui, da quel momento, decidemmo che il nome del gatto sarebbe stato "Olmokono".

  Olmokono la faceva da padrone in casa nostra. Quando eravamo seduti alla nostra scrivania, anche quando Guido aveva qualcuno a lezione, Olmokono saliva sul tavolo e, con la coda bella diritta si strofinava ai nostri visi pretendendo attenzione e carezze. Il fatto e` che, a volte, entrava in casa con le zampe sporche di terra, per cui lasciava le sue impronte su libri e quaderni. Guido ha ancora il suo vecchio Atlante Geografico con impresse le impronte di Olmokono.

 Al "bungalow" la sua vita era splendida. Poteva entrare e uscire a suo piacimento dal nostro monolocale (d'estate la porta era sempre aperta e d'inverno qualcuno era sempre in casa, pronto a farlo entrare o uscire al suo miagolio). All'esterno aveva tutta la vigna come terreno di caccia e di giochi, ma poteva pure addentrarsi nel boschetto o altrove. Però non si allontanava mai molto, perche` li` eravamo isolati e nessuno lo disturbava mai.

 Ricordo che quando passavamo lungo i filari della vigna, per andare a prendere acqua o per passeggiare, lui ci tendeva i suoi agguati. Ci seguiva furtivo, nascosto dietro un filare e, al momento opportuno, ci balzava davanti a sorpresa (cosi`, almeno, credeva lui, e noi glielo lasciavamo credere anche quando, invece, ci eravamo gia` accorti di lui) e si godeva le feste che gli facevamo.

 Ho gia` raccontato altrove della sua disavventura, quando si avveleno` mangiando, probabilmente, un topo ucciso col veleno. Dalla quale, pero`, si era rimesso ottimamente.

 Il guaio fu quando, il 10 marzo del 1947, traslocammo alla casetta, abbandonando il "bungalow". Purtroppo la casetta era super abitata (la nostra famiglia, la famiglia della Delfa e la famiglia del contadino) per cui Olmokono vi fece solo fugaci apparizioni. Non veniva regolarmente neppure per mangiare, per cui cominciammo a portargliene al "bungalow", nei dintorni del quale egli continuo` a rimanere. Ma un giorno, avendogli portato da mangiare, lo chiamavo, e lui non arrivava. Eppure di solito al primo richiamo sbucava subito dalla vigna o dalla siepe. Dopo averlo chiamato a lungo, presi a cercarlo li` in giro. Ed ecco che lo trovai sdraiato in un posticino che si era trovato dentro la siepe dietro il "bungalow". Mi avvicinai ed egli mi guardo` socchiudendo gli occhi amichevolmente, ma emise soltanto un debolissimo: - Meo -. Annuso` il cibo ma non ne mangio` che poche boccate svogliate. E non si alzo`. Era evidente che stava male. Io non sapevo che fare. Avrei voluto portarlo a casa, ma sapevo che lui non gradiva la nuova dimora. Cosi`, visto che il luogo dove si trovava era ben riparato, lo lasciai li` sperando che guarisse. E per qualche giorno lo trovai sempre li`, nella stessa posizione. Mangiava poco e rimaneva sdraiato.  Ma un brutto giorno non lo trovai piu`. Li` per li` sperai che fosse guarito e che si fosse alzato. Ma per quanto cercassi non riuscii a trovarlo. E non lo vedemmo mai piu`. O era andato a morire da qualche altra parte, o era stato catturato e divorato da una volpe o da qualche altro carnivoro selvatico. E` superfluo dire che ne fummo tutti molto addolorati. Fu quasi come perdere uno di famiglia. E` cosi` che ci si allena a sopportare i dolori della vita.

 

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                        16 - IL CAMIONCINO DI BROGINO

 

 

Al tempo in cui frequentavo la casa della Rosetta, la frequentava, talvolta, un certo Brogino di Castelnuovo, di professione maialaio, grande ubriacone, buontempone, frequentatore delle feste da ballo che si facevano nella cooperativa gestita dal padre di Rosetta, il Fortunato. In genere era con un amico e avevano una chitarra. Cosi`, quando capitava in casa di Rosetta, si suonava la chitarra e si cantava. Era un tipo abbastanza divertente, ma a noi non faceva molto piacere il suo arrivo, perche` non trovava mai la strada per andarsene.

 Anche quella sera era andata cosi`, e fra il bere e il cantare si era fatto tardissimo. Percio` quando, finalmente, se ne andarono, era tempo che anch'io me ne andassi e, cosi`, uscii con loro.

 Il Brogino viaggiava con un vecchio camioncino su cui usava caricare i maiali che andava a vendere. Ed io, proprio per l'ora tarda, decisi di farmi portare da lui fino alla Roncaiana. Lui e il suo amico salirono nella cabina di guida ma io, un po' perche` la cabina era angusta e un po' perche` non mi fidavo dell'autista ubriaco fradicio, rimasi in piedi sul predellino pensando che, se il camioncino fosse andato fuori strada, io avrei sempre potuto saltare giu`.

 Partimmo e le cose andarono abbastanza bene fino a Sant'Antonio. Da li` in su il camioncino prese a procedere un po' a zig zag, ma non in modo pericoloso. Dopo la "salitina" (circa cento metri dopo S.Antonio una volta la strada presentava una breve  salita piu` ripida del pezzo precedente, per poi riprendere con la pendenza di prima. Coi lavori di asfaltatura quella "salitina" e` stata eliminata e la pendenza, ora, e` uniforme), pero` allo "zig" verso il muro non segui` un adeguato "zag" verso il centro della strada e il camioncino si avvicino` pericolosamente al muretto. Io sperai che si sarebbe riportato in carreggiata, ma questo tardava ad avvenire e il muretto si faceva sempre piu` vicino, tanto che la siepe che era sopra il muretto cominciava a sfregarmi le spalle e la schiena.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    A quel punto io non avevo piu` spazio per saltare via, per cui mi strinsi il piu` possibile al camioncino per non sfregare nel muro. Ma a un certo punto, forse a causa di una parte di muro piu` sporgente (era un vecchio muro "a secco"), il contatto avvenne e, mentre il camioncino proseguiva la corsa io rimasi incastrato fra il muro e il camioncino e, dopo un paio di rotazioni a trottola, piombai a terra. Ero piuttosto spaventato e pensai di avere del male serio. Mi rialzai subito in piedi e, con sollievo, constatai che, salvo qualche ammaccatura e scorticatura nelle gambe, non avevo altro.

 Intanto quelli del camioncino si erano accorti della mia caduta e si erano fermati. Scesero preoccupatissimi e parvero sollevati quando mi videro in piedi sano e salvo. Erano sinceramente dispiaciuti e volevano farmi salire per portarmi a casa. Ma io, come e` facile immaginare, declinai decisamente l'invito e li invitai a partire senza di me. Il che, alla fine, fecero, ed io vidi sparire con sollievo il maledetto camioncino col suo maledettissimo autista ubriaco.

 

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                                17 - IL GALLISTRO  

 

 

Fin dal 1945 il babbo aveva costruito, proprio nel luogo dove ora e` quella specie di baracca in muratura e lamiera, un pollaio, nel quale allevavamo polli e, in apposite gabbie di legno, anche conigli.

 Quando l'uva non era ancora abbastanza grossa da far gola alle galline e, in genere, quando nella campagna non c'erano danni da fare, i polli venivano lasciati liberi di razzolare dovunque. E, naturalmente, essi razzolavano volentieri intorno alla casa e anche dentro (la porta era sempre aperta), in cerca di qualche residuo di cibo. Erano abituati alla presenza degli umani e non avevano paura di nessuno, cosi` era facile vederseli arrivare vicinissimi quando si era all'aperto seduti in un prato, oppure in casa addirittura sotto il tavolo o in qualunque altro luogo. Fra tutti i nostri pollastri, il piu` ardito era uno che dalla struttura pareva un gallo, pero` non aveva messo la cresta. Si diceva, allora, che quello era un caso in cui il sesso non era venuto ben definito, per cui quella bestia non era ne` un gallo, ne` una gallina, bensi` un "gallistro". Benche` fosse ancora giovane, era diventato gigantesco, soprattutto alto, tanto che, quando io studiavo seduto sugli scalini vicini al pero e lui mi veniva accanto, la sua testa era al pari della mia. E mi guardava coi suoi occhi sfrontati, per nulla spaventati. E anche se cercavo di spaventarlo con grida o gesti delle mani, lui non si spaventava affatto e, al massimo, si allontanava di un passo.

 Quando entrava in casa bisognava stare attenti perche` riusciva a beccare anche la roba che era sul tavolo, se solo sporgeva appena.

 A quel tempo avevamo la cucina dove ora e` il salotto e cucinavamo su una di quelle stufette di ghisa basse. Era alta da terra non piu` di una quarantina di centimetri e aveva, sopra, due fori chiusi da vari cerchi di ghisa, che si toglievano quando si doveva mettere una pentola a bollire. Un giorno la mamma aveva appena buttato i taglierini nella pentola al bollore quando entro` in cucina il "gallistro". Il bordo della pentola era ad una altezza di circa sessanta centimetri da terra e un pollo normale non lo avrebbe certo potuto raggiungere. Ma il "gallistro" era piu` alto della pentola e osservava con grande interesse i taglierini che apparivano e sparivano nell'acqua al bollore. A un certo punto ritenne che quella fosse roba buona da mangiare e, voracissimo com'era, non ebbe timore di tuffare rapidamente il becco nell'acqua bollente per cogliere un bel taglierino in via di cottura. In un'attimo il taglierino fu divorato e gia` il "gallistro" si approntava a far una nuova pesca. Ma la mamma, accortasene, riusci`, sia pur a fatica, ad espellere dalla cucina quello che ormai consideravamo piu` uno struzzo che un pollo.

 

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                                                                                                           18 - RITA, LA FIDANZATINA

 

 Nell’estate del 1945, finita la guerra, si scatenò, come dopo tutte le guerre, la mania del ballo. In ogni occasione o, magari, anche se non c’era nessuna occasione particolare, ovunque, al chiuso o all’aperto, si organizzavano feste da ballo. Io, insieme a mia cugina Anna e aiutati da Guido che sapeva ballare, avevo imparato, alla meglio, a ballare il valzer e il tango. Ma non osavo presentarmi a una festa da ballo perché ero vestito malamente e non avevo che un paio di scarponi malconci. Per la verità qualche volta andai anch’io a ballare. Ma non in paese, dove c’era un teatro e la gente era vestita decorosamente. Seppi da qualcuno che in un piccolissimo borgo chiamato Molino della Rocca (erano poche case intorno ad un mulino) venivano organizzate modestissime feste da ballo in un’aia e anche all’interno di una casa. Il borgo era abitato da gente modesta, modestamente vestita per cui ritenni che sarebbe passato inosservato anche il mio modestissimo vestire. Così cominciai a frequentare quelle festicciole e ballai in pubblico per la prima volta in vita mia. Addirittura accadde che mi feci una fidanzatina, Si chiamava Rita ed aveva la mia età o, forse, anche un po’ meno. Ma aveva una gran voglia di avere un fidanzato per cui fu subito disponibile ad amoreggiare con me. E, addirittura, voleva che il nostro fidanzamento fosse una cosa seria. Ed io per un po’ l’assecondai, tanto che mi chiese perfino un anello. Ed io glielo regalai. Era un vecchio anello di metallo non pregiato (forse alluminio) che avevo trovato da qualche parte, ma essa lo apprezzò moltissimo e considerò il nostro fidanzamento ancora più seriamente. Era una ragazza graziosa e mi piaceva la sua compagnia, però, al contrario di lei, la consideravo una cosa senza importanza e mi creava qualche preoccupazione quella sua insistenza a volerla considerare una cosa molto seria. Tuttavia continuai per qualche tempo a frequentarla anche se la cosa mi creava qualche imbarazzo. Ricordo che il giorno della fiera a Camporgiano essa venne e volle passeggiare per il paese tenendomi a braccetto, il che mi imbarazzò alquanto. Finchè un giorno, mentre ero a far legna con i figli del contadino, mi ferii a un piede con l’accetta. Questo fatto mi impedì per un certo tempo di andare a trovare la Rita al Molino della Rocca, dove bisognava andare a piedi. Poi il piede guarì, ma io al Molino della Rocca non andai più. E così, molto semplicemente e senza drammi, il mio fidanzamento finì. E fu un sollievo.

 

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                    I RICORDI DELLA GIOVINEZZA

Sommario:

1)   Il mio ingresso in politica

2)   Il comizio di Ravenni (All’armi !)

3)   A Monzone col Francè

4)   La visita di Giorgio Almirante

 

                                                                                                       IL MIO INGRESSO IN POLITICA

 

La caduta del Fascismo del 25 luglio 1943 fece sì che io cominciassi a occuparmi di politica. Particolarmente mi aveva colpito la sparizione dei fascetti dalle mostrine del bavero della divisa del babbo e il suo dispiacere per questo. Egli li aveva conservati e li aveva portati a casa quando era venuto in permesso. Ed io ne avevo preso uno e me lo ero messo all’occhiello come un distintivo. Un giorno qualcuno me lo contestò ed io difesi la mia scelta. Fu la mia prima discussino politica. Non avevo ancora tredici anni.

 Poi la guerra finì ed io avvertii dolore e risentimento e, soprattutto, voglia di rivalsa. Così nell’estate del 1945, a pochi mesi dalla fine del conflitto, insieme ad altri quattro ragazzi (Domenico Guasparini, Celso Micotti, Osvaldo Comparini e la mia cugina Anna Pellegrinetti) fondai una sezione dell’ “Uomo Qualunque” , nuovo movimento politico di stampo liberale ma che sosteneva, in qualche modo, il diritto degli ex fascisti a fare politica. Per oltre un anno ne fui segretario.

Dopo qualche tempo, però, cominciò a uscire un giornale, "La Rivolta Ideale", diretta da Tonelli, che aveva come motto "Vivere ardendo e non sentire il male" che mi pare sia di Gaspara Stampa. Su di esso leggemmo i primi scritti di Almirante, che ci entusiasmarono. Cosi`, dopo che nel dicembre 1948 fu costituito il Movimento Sociale Italiano, maturammo la decisione di uscire dall'Uomo Qualunque e di costituire una sezione M.S.I. Eravamo in sette: mio fratello Guido, ex ufficiale della Divisione San Marco, Vincenzo Grassi, ex ufficiale della G.N.R., Raffaello Crudeli, ex marò della Divisione San Marco, Silvio Santarini, ex prigioniero degli inglesi, non collaboratore, Aristide Rocchiccioli, ex prigioniero non collaboratore degli americani,Renzo Telloli, ex partigiano (ma con un fratello ex G.N.R) ed io, magro diciassettenne determinato a fare la mia parte. Non era ancora stata costituita la federazione di Lucca, cosicche` inviammo i verbali a Firenze. Quando, poi, la federazione si costitui`, vi entrammo in contatto e conoscemmo Danilo Ravenni, scoprendo che era stato prigioniero negli U.S.A. con Aristide. Erano tempi di grande entusiasmo. Certamente a quell'epoca ci sentivamo ancora fascisti e forse pensavamo che tutto non era ancora perduto. Nel corso del 1948, le iscrizioni furono moltissime (dall'Uomo Qualunque uscirono tutti ad eccezione del Domenico Guasparini) e la nostra attivita` era frenetica. Trovammo adesioni anche nei paesi vicini e a Puglianella promuovemmo la costituzione di una nuova sezione. L'animatore era Natalino Cardosi, reduce della R.S.I. Io cercai proseliti fra i giovani e ne trovai molti, tanto che costituimmo una "Sezione studenti e lavoratori", cosi` si chiamavano allora le organizzazioni giovanili del M.S.I., e ne fui il segretario fino al 1950, quando andai militare. Avemmo anche una sede, nella casa dell'Angiolo, di fronte alla casa dei Girolami, che frequentavamo con assiduita` per il lavoro politico ma anche per ritrovarci insieme e fare qualche bella partita a poker. Tutto questo contribuiva a maturarmi.

 

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                   2 -  IL COMIZIO DI RAVENNI (ALL'ARMI)

 

Durante la campagna elettorale per le politiche del 18 aprile, un giorno venne a Camporgiano Danilo Ravenni per tenere un comizio in piazza. Ottenemmo dal Vincenzo Luccarini il permesso di usare il balcone della casa dove lui abitava (l'attuale sede della Cassa di Risparmio), montammo un impianto di amplificazione (non ricordo se lo avevamo procurato noi o se lo aveva portato Ravenni da Lucca) e, con un vecchio grammofono, cominciammo a fare della musica per attirare gente al comizio. Avevamo rimediato vecchi dischi, fra i quali c'erano anche canzoni fasciste che, ovviamente, non potevano essere suonate.

 Suonavamo, comunque, inni patriottici come "La canzone del Piave", l'"Inno a Roma" e cosi` via.

 A un certo punto fu messo un disco (non ricordo se ero io o qualcun altro l'incaricato) e la musica comincio`. A tutti noi si drizzarono i capelli in testa: dall'altoparlante, a volume altissimo, la voce proruppe : - All'armi ! All'armi ! - e ciascuno di noi penso` che, per errore, era stato messo l'inno "All'armi siam Fascisti". E certo qualcuno stava per staccare tutto quando il canto continuo` : -... si scopron le tombe, si levano i morti......- . Era, infatti, l'"Inno di Garibaldi". E tutti tirammo un sospiro di sollievo.

 Certamente durante quella campagna elettorale avemmo altri comizi a Camporgiano, quasi certamente quello del Prof. Marcello Nardi di Viareggio che, come Ravenni, era candidato. Era, egli, un oratore molto bravo, tipo Almirante, e lo ammiravamo molto. Quello che ricordo bene fu il comizio di Almirante a Castelnuovo. Parlo` dal balcone dell'albergo "IL GLOBO", che allora era in piazza Umberto ed era gestito dai Pedri, gente di destra. Io, fin da quella prima volta, rimasi affascinato dallo sguardo limpido di quegli occhi chiari che esprimevano una grande determinazione. Era una figura quasi ascetica, vestito alla meno peggio, con le scarpe dal tacco molto consumato, e diceva delle cose entusiasmanti. La sensazione esaltante era che ci eravamo risollevati dalla sconfitta, che potevamo ancora combattere, che i nostri ideali erano ancora ben vivi. Ed eravamo tutti decisi a difenderli a costo della vita. Paragonare quel nostro modo di fare politica ai modi attuali genera veramente un grande sconforto. Ora tutto e` carrierismo, affarismo, cinico opportunismo.

 

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                     3 -  A MONZONE CON IL FRANCE`

 

 

Come ho detto piu` sopra a fine Luglio seppi di essermi diplomato. Insieme a me si era diplomato Adalberto Cucurnia, l'amico che avevo trovato a Barga fin dall'anno prima. Egli, carrarino, era stato sfollato a Sillico in tempo di guerra, in casa del maestro Bianchi, che fu assassinato dai partigiani a guerra finita                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              e , giovanissimo, ne aveva sposato la figlia Marida (ella aveva la mia eta`, mentre lui era del 1927). E a Sillico passavano le vacanze estive.

 Quell'anno, per festeggiare la promozione, aveva invitato alcuni amici (avevano una casa molto grande)  per il 10 agosto, San Lorenzo, patrono del paese. Ed io ero della combriccola insieme a Pietro Redini, al figlio dell'allora preside Arrighi e a qualcun altro che non ricordo.

 Passammo lassu` alcuni giorni (io raggiunsi Sillico a piedi dalla stazione di Fosciandora, passando avventurosamente per i boschi) in grande allegria, facendoci molti scherzi, trattati con molta cordialita` non solo da Marida e da suo fratello che conoscevo ormai bene, ma anche da sua madre, signora molto dolce, e dai genitori di lui. Suo padre era fascista, epurato, aveva combattuto in Africa Settentrionale e aveva fatto la prigionia, e mi mostrava molta simpatia. Un giorno venne a trovarli l'On. Biagioni, originario di Sillico e amico di famiglia. Allora io mi vestii da fascista, usando divise che avevano in casa e mi presentai al Biagioni che fu spiritoso e stette allo scherzo (sapeva che era in casa di fascisti). Insomma fu una gradevolissima vacanza.

 Terminata la quale, felice ed euforico, rientrai a casa. Ed ecco la sorpresa : qui trovai il vecchio amico d'infanzia Francesco Cecchini (il France`), che era venuto a trovarmi in Lambretta e voleva portarmi a Monzone a casa sua. Io acconsentii subito volentierissimo, ma la mamma voleva che le dessi il tempo di lavare la mia unica camicia che avevo indosso e che, ovviamente, non era piu` di bucato. Ricordo che era una camicia col collo alla "Robespierre" (come si diceva allora), di colore rosa, e doveva essere la prima camicia nuova che io avevo avuto dopo la guerra. Ma io volli partire e la mamma si limito` a dare alla camicia una semplice stiratina. Subito dopo saltammo in groppa alla Lambretta e partimmo felicissimi. Dopo poco piu` di un'ora ( le strade allora erano tutte sterrate e in pessime condizioni) fummo a Monzone dove fui accolto dai genitori del France`,dall'altro grande amico Carlo Alberto Giorgi (il Bertino) e dalla sua famiglia, nonche` da altri conoscenti con molto affetto.

  Dormivo a casa del France` ma mangiavo anche altrove, invitato da Bertino e, forse, anche da altri. Mi fermai diversi giorni, credo almeno una settimana, e fu un'altra bellissima vacanza. Oltre alle belle chiacchierate che facevamo rievocando la nostra infanzia, oltre alle passeggiate per rivedere i vecchi luoghi, insieme al Ninetto Damiani, un po' piu` anziano di noi ma nostro amico e possessore di una vecchia motocicletta facemmo anche alcune gite nei paesi vicini e andammo a ballare a Gragnola, dove io, che ero molto euforico, mi detti da fare con una ragazzina trovata al ballo.

 A Gragnola ci andammo anche un'altra volta. Quella volta eravamo saliti sul cassone di un camion che andava laggiu` e, da la` sopra, scorsi nel fiume che fiancheggia la strada (il Lucido) il cadavere di una donna. Appena arrivati a Gragnola avvertimmo subito qualcuno. Poi sapemmo che era una signora anziana che era morta mentre stava lavando dei panni ed era stata trascinata dalla corrente. Quella cosa non fu piacevole, ma non riusci` certo ad appannare la felicita` di quella vacanza. Ricordo che la Ida, la mamma di Bertino, un giorno che ero a casa sua volle per forza lavarmi e stirarmi la camicia che, ormai, era proprio indecente. Ricordo che vidi anche la mamma di Lisetta, allora fidanzata di Guido, ma non ricordo se vidi Lisetta.

 Anche da questa vacanza ritornai felice e soddisfatto. Le vacanze erano una cosa che da molti anni non avevo piu` potuto permettermi.

 Quest'anno, invece, fra i giorni passati a Barga per l'esame, quelli passati a Sillico e quelli passati a Monzone, ero stato per molti giorni lontano da casa, ed ora ci ritornavo felice, malgrado le nostre condizioni economiche fossero ancora precarie, perche` tutto sommato vivere alla Casetta mi piaceva e perche`, dopo la laurea di Guido e il mio diploma, l'avvenire prometteva di essere piu` roseo.

 

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                             4 – LA VISITA DI GIORGIO ALMIRANTE

 

La campagna elettorale per le elezioni del 18 aprile 1948 fu faticosa ma esaltante. Malgrado fossimo soltanto in sette, ci prodigammo portando la voce e i manifesti del nuovo partito in tutta la Garfagnana. Avemmo un discreto successo e, soprattutto, risvegliammo dal timoroso letargo molti ex fascisti, promuovendo la costituzione di molte altre sezioni.

Il M.S.I. in campo nazionale ottenne un po' più di mezzo milione di voti ed elesse cinque deputati e un senatore. In quelle condizioni e con i pochissimi mezzi che avevamo fu obiettivamente un bel successo e ne fummo galvanizzati. Dopo poco tempo l'instancabile Giorgio Almirante, segretario del partito e ora anche deputato, preannunciò una visita alla nostra sezione. Egli, con l’intercessione di Ravenni, volle premiare la nostra sezione per la precocità della nostra costituzione (16 marzo 1947) e per il nostro attivismo. La cosa ci elettrizzò. Ripulimmo la nostra sede e attendemmo impazienti il giorno della visita. Arrivò un mattino verso le nove, con la corriera, insieme a Ravenni. Appena sceso in piazza andò dal barbiere, il Remo Morandi, buon ragazzo ma comunista, il quale lo riconobbe con grande stupore e gli fece la barba. Tutti furono stupiti nel vederlo arrivare così tranquillamente con un mezzo pubblico (evidentemente i nostri mezzi erano ancora pochissimi. Ricordo anche l'abbigliamento modesto e le scarpe col tacco consumato) e il Remo non dimenticò mai più quell'esperienza. Subito dopo Almirante e Danilo Ravenni vennero in sede dove la Paola, fidanzata del Vincè, gli preparò una cioccolata calda che fu molto gradita. Eravamo tutti entusiasti e commossi. Dopo che avemmo parlato un po' fra noi, aprimmo la porta della sede affinchè chi lo desiderava, del pubblico, potesse conferire con il deputato Almirante. Naturalmente avevamo fatto sapere in precedenza a tutti di questa possibilità.  E quale non fu il nostro stupore quando vedemmo entrare, con il cappello in mano, un gruppo di soci di una cooperativa operaia che aveva ricostruito il ponte di Petrognano ma ancora non aveva avuto i soldi. Erano tutti comunisti, ma erano anche dei poveracci che avevano bisogno di quei soldi per vivere. Almirante li accolse gentilmente, ascoltò il loro problema e si impegnò a sollecitare le cose a Roma. Cosa che fece, facendo giungere entro breve tempo alla cooperativa quanto gli era dovuto. Fu, quello, per noi, un motivo di grande soddisfazione.

 Almirante ebbe sempre una certa predilezione per la nostra sezione e diverse volte tornò, negli anni successivi, a visitarla, fermandosi anche a pranzo o a cena. Una volta – in quel momento ero io il segretario – notò con piacere che alla cena in suo onore erano presenti diverse donne. E da allora, ogni volta che lo incontravo, mi chiedeva sorridendo : - Come stanno le tue donne ? – Ed io rimanevo sempre piacevolmente sorpreso del fatto che si ricordasse così lucidamente di noi.

 

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