A) I ricordi
1) I
ricordi della prima infanzia
3) I
ricordi di Aulla e di Massa
I RICORDI DELLA PRIMA
INFANZIA
Sommario:
3) Nonno Giovanni nel ricordo di Guido
Quello che credo sia il piu` antico ricordo della mia vita
risale a quando ancora la mia famiglia abitava al Ponte, nella casa di Mario
Giannetti. Poiche` ci trasferimmo da quella casa quando io avevo tre anni, il fatto
che sto per narrare risale a quando avevo meno di tre anni. Verosimilmente
dovevo avere intorno ai due anni.
Era, dunque, una sera
e stavamo tutti : mia nonna Mariuccia, mio nonno Giovanni, mio padre, mio
fratello Guido ed io , seduti intorno al grande camino acceso. Mia madre,
invece, stava trafficando intorno ai fornelli che si trovavano, come ho
appurato parlandone con mio fratello, perche` su questo punto il mio ricordo
non e` chiaro,nella cucina, attigua alla stanza dove era il camino e dove noi
ci trovavamo. C'era, pero` , una porta di comunicazione fra le due stanze,
sicuramente aperta, ed io dovevo trovarmi, evidentemente, in posizione tale che
riuscivo a vedere la mamma mentre, come ho detto, stava trafficando intorno ai
fornelli. Stava essa, esattamente, controllando cio` che stava cuocendo dentro
un piccolo forno portatile consistente in un treppiede di ferro fatto in modo
che su di esso, posto sopra il fornello, potesse collocarsi una teglia, ed in
una specie di grossa campana di alluminio, recante in vetta un pomello di
bachelite per poterla afferrare, che veniva posta sopra la teglia per
trattenere il calore del fornello e convogliarlo tutto sulla teglia stessa.
Si trattava certo di
uno sformato o di un dolce.
Ad un tratto, mentre
ce ne stavamo li` come ho detto, venne a mancare la corrente elettrica e
rimanemmo al buio. Immediatamente tutto l'ambiente assunse, ai miei occhi, un
aspetto misterioso e vagamente minaccioso. La fiamma e le brace del camino
erano ora l'unica fonte di luce,per cui le facce, illuminate dal basso, avevano
acquistato un colore rossastro e un aspetto inconsueto, per le vaste e profonde
zone d'ombra che si disegnavano su di esse.
Le nostre ombre, poi,
si proiettavano sulle pareti della stanza ingigantite e tremolanti. Malgrado
tutto cio`, tuttavia, la mia inquietudine era controllabile, in virtu` anche
del fatto che tutti continuavano a parlare con calma e senza mostrare
preoccupazione.
Riuscivo ancora a
vedere mia madre, ombra scura che continuava a muoversi intorno ai fornelli, e
questo era abbastanza tranquillizzante, anche se un po' di inquietudine mi
veniva dal fatto di vederla quasi completamente inghiottita da quel mare
d'ombra.
A un certo punto,
pero`, mia madre, che, verosimilmente, aveva sentito puzza di bruciato o,
almeno, aveva temuto che qualcosa non funzionasse a dovere nella cottura del
suo sformato o dolce che fosse, sollevo` il coperchio del forno.
Rimasi agghiacciato
dal terrore.
Davanti a mia madre
delle cose rosse sfrigolavano e scintillavano in modo che a me parve
terribilmemte minaccioso. Ebbi la sensazione che qualcosa di diabolico, di
infernale fosse sorto davanti a mia madre e stesse per portarmela via in modo
sconvolgente. Mi rannicchiai in attesa dei clamori che pensavo si sarebbero
levati da tutti gli altri di fronte alla grave minaccia. Pensai che mio padre
sarebbe sorto fulmineamente e si sarebbe gettato in disperato soccorso della
mamma. E mi preparai a piangere, per unirmi al coro delle grida altrui.
Ma non accadde nulla.
Tutti mostrarono la piu` grande indifferenza per quello che stava accadendo e
continuarono a parlare con molta calma. E mentre io, sconcertato, notavo tutto
questo, e ansiosamente guardavo mia madre continuando a temere per lei, essa,
con mossa decisa, abbasso` il coperchio che teneva in mano e imprigiono` sotto
di esso le fiammeggianti forze infernali che la minacciavano, facendole cosi`
inghiottire dalle stesse tenebre dalle quali,prima, erano improvvisamente emerse.
Dopo un attimo torno`
anche la luce facendo riemergere intatti gli oggetti e le persone della mia
casa. La mamma era salva, tutto era al suo posto, non c'era piu` nulla da
temere. E cosi`, piano piano, anche in me torno` la calma e la tranquillita`. A
lungo, pero`, continuai a pensare che una grave minaccia c'era stata , anche se
i "grandi" della mia casa non si erano lasciati intimorire da essa e
la avevano sventata con forza e decisione.
Soltanto molto tempo
dopo ho saputo che lo sfavillare minaccioso che mi aveva tanto intimorito era
dato dal fatto che i ferri del treppiede che reggeva la teglia, per un eccesso
di calore, si erano arroventati fino a divenire incandescenti.
Un altro nebuloso ricordo del tempo in cui abitavamo la
"casa del Giannetti" è legato allo spazio antistante la casa, uno
stretto e lungo spazio recintato, occupato da un lungo marciapiedi cementato e
da qualche aiuola con piante. Nelle belle giornate usavamo molto questo spazio.
Ci fu un periodo in cui il babbo mi aveva costruito, con delle tavolette
ricavate da casse da imballaggio, un rudimentale cavallino, fissato su una
piattaforma di legno munita di ruote. Io stavo volentieri su questo cavallo che
Guido faceva muovere tirandolo con una cordicella lungo il marciapiede. Ma
c'era un vicino che mi faceva arrabbiare dicendomi : " Ma quello non è un
cavallo, è una capra !" La cosa mi irritava molto, e le mie ire facevano
molto divertire il mio vicino e anche quelli che assistevano.
Un altro ricordo
abbastanza netto di quel periodo è il seguente. Un giorno che, evidentemente,
non volevo mangiare, mia madre mi portò fuori in braccio, in questa specie di
piazzale-giardino e, tenendo in una mano il piatto (che ricordo benissimo: era
un piatto di porcellana decorato con delle roselline rosse), con l'altra mano
cercava di farmi mangiare qualche cucchiaiata di riso (credo fosse riso in
brodo) dicendo ai passanti: - Vedete come è bravo il mio bambino !? Guardate
come mangia il risino ! - Io sentivo che c'era qualcosa che non andava in
quella situazione, ma, suggestionato dalla "verità" rappresentata
dalle parole di mia madre, sia pure recalcitrando un poco, finivo con l'essere
"bravo" e col lasciarmi ficcare in bocca qualche cucchiaiata di riso
ogni tanto. Ma la non coincidenza fra ciò che era la mia verità avvertita e ciò
che era la verità dichiarata da mia madre, doveva crearmi un disagio non
indifferente, se l'episodio ha lasciato un segno così persistente nella mia
memoria.
3 – IL NONNO GIOVANNI NEL RICORDO DI GUIDO
Il nonno Giovanni era nato nel 1855. Era ragazzo quando
perdette il padre (Daniele era suo padre. Nel 1871 morì anche il nonno Iacopo.
Giovanni aveva 16 anni); la madre, di nome Rosa era molto bella (la chiamavano
“la bellona”), divenne l’amante di un ricco proprietario di Poggio, il che le
permise di allevare senza grandi stenti, cioè Marco, Giovanni, Giuseppe e Carlo
(c’era anche una figlia: Maria Amabile Teresa).
Il nonno Giovanni
militò sotto il Re Vittorio Emanuele II e sotto il suo successore Umberto I.
Era il periodo in cui nel meridione si combatteva il terrorismo, che cercava di
ammantarsi anche di lealismo borbonico e lo stato italiano aveva inviato laggiù
grandi forze militari. Anche il nonno fu inviato nel meridione e vi rimase per
tutto il tempo del servizio militare, che allora durava alcuni anni.
Congedato, sposò la
Mariù (Mariuccia Bertoi. Da ricerche fatte nel comune di Camporgiano risulta
che il matrimonio fu celebrato il 27.11.1884. Risulta pure che il giorno
8.10.1892 nacque una figlia: Maria Adelfina Zelia Irisse, della quale, che
probabilmente morì dopo poco, noi non abbiamo mai avuto notizia) e partì per la
Francia dove ebbe successo. Divenne, infatti, direttore di una fabbrica di
coloranti. Guadagnava molto, spediva discrete somme di denaro alla Mariù,
pregandola di raggiungerlo, ma lei non si decideva mai perché riteneva più
doveroso assistere la madre (“la mamma Rosa”, la chiamava mia madre pur non
avendola mai conosciuta).
Il nonno allora
contrasse amicizie con opersone benestanti e si dette ad una vita galante e
dispendiosa. La Mariù si accorse del cambiamento del marito e si decise a
raggiungerlo in Francia, dove scoperse che il Giovanni aveva un’amante a cui
era molto affezionato. Allora fuggì da lui e ritornò a Camporgiano, ma
neimgiorni trascorsi in Francia era rimasta gravida della Lina, nostra madre.
Il nonno Giovanni
intanto aveva pensato di mettersi in proprio ed aveva comperato un terreno,
dove aveva iniziato la costruzione di uno stabilimento, costruzione che fu
subito bloccata perché risultò che il terreno comperato era ipotecato. Ne
nacque una causa che durò diversi anni e che fu dal nonno perduta. Essa gli
costò tutta la sua fortuna.
Allora tornò in
Italia dalla nonna Mariù e con il denaro che gli era rimasto comperò un buon
appezzamento di terreno il Calabricchia (deformazione dialettale del nome Colle
Aprico), dove costruì anche una casina di due ambienti: sopra un fienile e
sotto una vasta cantina con tini, botti, damigiane, avendo creato in
Calabricchia un grande vigneto. Comperava anche vitellini per rivenderli poi
come manzi o come giovenche. Possedeva, infatti, molto fieno.
Ma dal momento in cui
tornò dalla nonna Mariù la sua vita ebbe un futuro incerto per lui. La casa
dove viveva la Mariù era stata lasciata dai genitori al fratello di lei, Don
Domenico, parroco a San Romano e finchè non giunse per il prete il tempo del
suo ritiro dalla parrocchia tutto andò bene. Mia nonna poteva godere dei frutti
del podere e della vasta casa; il nonno Giovanni poteva dedicarsi alla
Calabricchia, vendendo quintali del suo vino, molto apprezzato, e mettendo da
parte pgni anno decine di bottiglie di vino sceltissimo. Ma improvvisamente gli
giunse l’intimazione, da parte di Don Domenico, di cercarsi una nuova casa
perché sarebbe giunto stabilmente lui.
Il nonno Giovanni
possedeva ancora la casa paterna, ma rovinata dal terremoto del 1920, per cui
si accinse a ricostruirla; egli aveva diritto a un mutuo, che però non bastò,
per cui ebbe bisogno di un prestito, che poi non potè restituire. Per colmo di
sventura un incendio provocato sventatamente da un vicino, gli imnvestì il
vigneto distruggendolo. Ricordo ancora i lunghi filari di viti essiccati dal
fuoco, il tutto sembrava un gran mare grigio. Ormai privo dei frutti del
podere, con la Calabricchia distrutta, pensò di venire a Monzone per vedere il
mio fratellino, nato da un mese. Volle passare da Minucciano, per vedere anche
Delfina e Settimo, ma, viaggiando da Gramolazzo, capolinea della corriera, a
Minucciano, sorpreso dalla notte, cadde, provocandosi una specie di paralisi
dalla quale non si riebbe mai del tutto. Per pagare il debito contratto dovette
cedere la Calabricchia e la casa paterna, ma passò serenamente e senza
preoccupazioni il resto della vita. Visse dal 1931 al 1937 in casa nostra,
accolto insieme a Mariù dai miei genitori.
Col nonno Giovanni fui in contatto fin dalla più lontana infanzia. Infatti mia madre mi partorì in casa della nonna Mariù e vi rimase a lungo mentre mio padre era soldato nella marina militare, e ancora quando passavo coi nonni quasi tutto il periodo delle vacanze estive.
Rivolgendomi al nonno
io lo chiamavo “Tato” e lui rispondendomi o rivolgendosi a me usava
l’espressione “o bimbin”.
Quando cominciai a
frequentare le scuole elementari mia madre, nelle vacanze, mi portava a
Camporgiano dai nonni e mi ci lasciava per circa tre mesi, tornando a prendermi
poco prima dell’inizio del nuovo anno scolastico. Nei primi anni, assieme
all’Ubaldo, mio amico inseparabile, di un anno più anziano di me, ci
divertivamo nell’orto della nonna o nel terreno più vicino a casa; ma dopo
qualche anno, fatte alcune amicizie,ci allontanavamo da casa facendo disperare
la nonna, che ci chiamava, ci cercava, domandava a tutti se ci avevano visti.
La disperazione raggiungeva il colmo quando io e l’Ubaldo volevamo andare al
fiume con altri ragazzi. Allora qualche volta interveniva il nonno Giovanni: “O
Mariù, ce li porto io, tanto devo andare alla “fagiolaia”, orto presso il fiume
dove seminava fagioli, pomodori e altro.
Presso la fagiolaia
c’era un bello specchio d’acqua dove ad un certo momento il nonno faceva il
bagno in mutande e prima di immergersi mi diceva: “ Te, bimbin, attacchiti alla
mi’ cintola e movi le gambe, cusì imparerai a notar”. Io allora afferravo la
cinghia che gli sosteneva le mutande e muovevo i piedi. Non so quanto
quell’esercizio mi fosse giovato per il nuoto.
Qualche volta, anzi spesso nell’ultima estate in cui fu
sano, assieme all’Ubaldo mi recavo in Calabricchia, dove il nonno mi accoglieva
bonariamente: “ O bimbin, sei venuto ? Andate là a quel filar che c’è l’uva
moscatella” . Ricordo ancora il buon sapore di quell’uva. Io e l’Ubaldo avevamo
portato in Calabricchia un bel gattino, che poi scomparve. Ricordo ancora
quella cantina fresca, che egli puliva accuratamente e profumava tenendoci
piantine di timo e di lavanda.
Ma contatti assai
stretti ebbi col nonno Giovanni nei due anni che passammo al Ponte. Fu qui che
mi parlò di uno scontro che coi suoi fratelli sostenne contro il “Rugio” (così
lo pronunciava), capo di una banda di rapinatori e grassatori, che fu costretto
a lasciarlo in pace. Mi parlava anche dell’attacco dei Francesi alle comunità
italiane. Era allora in corso la “guerra delle tariffe” tra il governo francese
e quello italiano presieduto da Crispi. La guerra che ne derivò fu placata a
stento dall’intervento pacificatore del sindaco di Marsiglia. Vi furono anche
dei morti quando truppe francesi provenienti dal Tonchino furono fischiate allo
sbarco a Marsiglia da italiani. Anche il nonno, come quasi tutti, portva nascosto,
per sua difesa, uno “stiletto”.
Sopattutto nell’anno
in cui frequentai la quinta elementare (1932-1933) ebbi modo di conoscere
meglio il nonno, il suo sentimento nazionale: mi raccontava, quasi
invidiandolo, di un suo conosvcente di Camporgiano, che nel 1870 era corso
all’attacco di Porta Pia e aveva visto cadere, colpito da una pallottola, il
camerata che correva all’attacco al suo fianco.
Parlando delle
battaglie del nostro Risorgimento, che io studiavo sul libro di testo e leggevo
anche sulla “Storia d’Italia” del prof. Paolo Giudici, che mio padre aveva
comperato, egli mi riferiva certi particolari che risultavano storicamente
veri. Ad esempio, mentre gli parlavo del valore dei soldati piemontesi
nell’assalto al colle di San Martino, egli aggiunse: “ E furono tormentati
anche da un grande temporale”. Questo particoolare corrispondeva al vero ed
altri particolari conosceva, relativi alla battaglia di Adua contro il negus
Menelik, alla guerra italo-turca, alla prima guerra mondiale. Ricordo ancora
con quanto interesse seguì le vicende della guerra etiopica nel 1935.
Il nonno Giovanni fu
un ammiratore di tutto ciò che è coraggio, lealtà, onore nazionale, come mi
pare abbia dimostrato ed io gli volli bene, anche se a volte negli ultimi anni
lo trattai sgarbatamente, forse indottovi anche dall’atteggiamento della Mariù
nei suoi riguardi.
Il nonno Giovanni
rientrò dalla Francia nel 1901 e nel 1902 la Mariù gli partorì una seconda
figlia, la Delfina. Al suo rientro però fu accolto dalla Mariù con distacco e
risentimento tale che a mia madre, che aveva allora tre anni (veramente ne
aveva quattro perché era nata nel 1897) apparve come un estraneo, tanto che non
lo chiamò mai “papà”, come faceva la Delfina, ma si rivolse sempre a lui con un
“O te!”. E così fu sempre: forse era stata suggestionata dall’atteggiamento
della nonna Mariù, la quale anche negli ultimi anni per richiamare la sua
attenzione, si rivologeva a lui con un “O te!”. Poche volte l’ho sentita
riv9olgersi al marito con “O Giò”. Però anche nei riguardi di lei non
pronunziai mai la parola “nonna”, la chiamai sempre “Mariù”.
Eppure il nonno
Giovanni doveva essere stato sempre per sua natura affettuoso e paziente tanto
con la prima figliola che con la moglie.
Quando mia madre,
allora giovinetta di quattordici o quindici anni, chiese per la prima volta di
andare ad una festa da ballo, la Mariù si oppose decisamente, ripetendo più
volte: “I balli son del diavolo!” o “Cosa direbbe mai Don Domenico !”. Mio
nonno allora intervenne: “O Mariù, ce la porto io”. Allora la Mariù s’indusse
ad acconsentire. La Lina giovinetta, bionda, con gli occhi azzurri, ballò per
tutta la serata, guardata con compiacenza dal padre, il quale era felice di
ascoltare i commenti dei suoi amici: “ O Giò, andù l’hai trova una fiola
cusì?!”
Al mattino, mentre la
madre la chiamava per darle la sveglia, la Lina udì il padre che diceva: “O
Mariù lascela durmì, poerina; iersera ha fatigato tanto!”.
Ma il risentimento
della nonna Mariù verso di lui non cessò mai. Anche negli ultimi anni, nella
casa di Riolo, ella ogni tanto accennava alla vita elegante di lui in Francia e
agli amici di allora. Soprattutto ricordava un notaio, forse il suo miglior
amico: “Se ti vedesse adesso monsieur Carven!”. Forse le conseguenze della
caduta di lui a Minucciano significavano per lei quasi un castigo divino oper
averla tradita con un’amante.
Mia madre da
giovinetta usò le sue camicie di seta per farsene delle camiciette. Egli aveva
portato il suo vestiario in due bauli, decorati sul coperchio con pelli di
cinghiale. Quando i miei genitori mi posero in collegio, uno dei due bauli,
contenente il mio corredo da collegiale, mi seguì a Soliera. Non so che fine i
due bauli abbiano poi fatto.
Il nonno Giovanni
cadde e si infortunò nel 1930, venne con la nonna Mariù in casa nostra nel 1931
e morì in casa nostra a Riolo nel 1937.
La nonna Mariù era
nata nel 1856. Era quindi più giovane di un anno del marito. (Da ricerche in
Comune risulta, invece, che Maria Domenica Teresa Bertoi di Andrea e di Sarti
Rosa nacque il 21.11.1857. Tortelli
Giovanni Innocente di Daniele e Mazzei Rosa era nato il 27/9/1855)
TORNA
ALL’INDICE DELLE SEZIONI
Sommario:
2)
Investito da una bicicletta
4) Gli orecchioni e la
tosse canina
11) La morte del nonno
Giovanni
13) La carrettina dei
ferri vecchi
20)
La testa rotta e le spalle bruciate
21)
Manuele e il fuoco nella scarpa
23)
Il Toni e le cinque lire false
1 - LE GITE A SAN
GIORGIO
Quando, nel 1935, l'Italia iniziò la
conquista dell'Etiopia, la Società delle Nazioni impose le sanzioni, cioè un
duro embargo su tutte le materie prime di importazione. Il governo italiano
reagì economicamente attuando un regime di autarchia (si cercò di sostituire i
prodotti non più importati con prodotti nazionali) e politicamente con un duro giudizio
negativo su queste sanzioni. E, a imperituro ricordo di questo, in ogni comune
d'Italia fu murata una lapide che ricordava l'evento. A Monzone la lapide venne
murata in cima al monte San Giorgio, che si trova all'incirca a sud del paese,
sopra la frazione di Aiola. Dopo che la guerra fu vinta e l'impero conquistato,
(la proclamazione solenne avvenne, con il discorso di Mussolini, il 9 maggio
1936), si prese l'abitudine di salire, ogni nove maggio, sul San Giorgio per
festeggiare, presso la lapide, la fausta ricorrenza.
Se non ricordo male la prima volta fu
il 9 maggio 1937. Ricordo che se ne parlava da giorni ed io ero molto eccitato
all'idea. Quando venne il giorno stabilito io fui in piedi per tempo e mi
vestii con la divisa di "figlio della Lupa". Poi, mentre attendevo
che anche mamma e papà fossero pronti (Guido era con i suoi amici), stavo nel
piazzale davanti alla bottega e, nel vedere la gente che si avviava, e che
passava, quasi un corteo, lungo la strada, fui preso da un forte orgasmo (mi accadeva
spesso) perchè temevo di far tardi, e stavo male perchè avvertivo come delle
contrazioni nel basso ventre. Per fortuna alla fine partimmo anche noi e ci
immettemmo nel "corteo". Salimmo fino ad Aiola e, poi, ancora sù
lungo la mulattiera che porta al monte.
C'era moltissima gente e c'era molta allegria.
Io ero felice e mi sentivo molto in forma. Non avvertivo stanchezza e, mentre
la gente percorreva la mulattiera seguendone gli ampi tornanti, io abbreviavo
il percorso tagliando per la selva e, poi, attendevo gli altri.
Giungemmo, infine, ai ruderi del vecchio
convento che si trovano vicino alla cima e, qui, facemmo delle foto. Ho avuto
la fortuna, dopo la guerra, di ritrovare una foto che mi ritrae insieme al
Bertino e ad altri in mezzo a quei ruderi. Infine fummo sul culmine dove, su
una parete di roccia, era murata la lapide. Di fronte ad essa c'era un ampio
spiazzo erboso e, qui, facemmo un gigantesco pic-nic con tanta tanta allegria.
Mi pare che i grandi ballarono anche, al suono, forse, di un grammofono portato
fin lassù.
Anche l'anno successivo tornammo a San
Giorgio. Quella volta non ero in divisa. E fu la solita gradevolissima
scampagnata con moltissima gente. In effetti c'era, mi pare, un breve discorso
ufficiale, ma la cerimonia si riduceva a quello. Anche di questa volta ho
ritrovato una foto di gruppo ai margini della quale compaio anch'io. Ho sempre
serbato un grato ricordo di queste gite, ed ho sempre desiderato
tornare su quel monte. Purtroppo fino
ad oggi (29.4.96) non ho trovato il modo di farlo. Ma non dispero ancora.
2 -
INVESTITO DA UNA BICICLETTA
Quella volta dovevo avere meno di sei
anni, ma già uscivo di casa da solo perchè il Riolo, dal passaggio a livello
fino al Ponte, era una strada frequentata al massimo da qualche raro barroccio
e qualche bicicletta. Era un vero e proprio avvenimento se, ogni tanto,
capitava una automobile o un camion. E, comunque, c'era la nonna che mi teneva
d'occhio quasi di continuo. Così cominciavo a uscire e a stare con gli altri
ragazzi, nella strada o nella selva delle Angelini, lì vicina.
Quel giorno stavamo giocando, forse a
rimpiattino, nella strada. A un certo momento io mi trovavo proprio al
passaggio a livello, in mezzo alla strada. All'improvviso sbucò dalla curva una
bicicletta che scendeva dal Riolo con una certa velocità. Era il Renato
Martinelli, figlio del casellante che abitava proprio nel casello vicino al
passaggio a livello. Era un ragazzo di diversi anni più grande di me, ma che,
comunque, conoscevo bene (come conoscevo sua sorella Adriana, bella ragazza che
morì in tempo di guerra per un bombardamento. Suo padre, che era stato poi
trasferito a Castelnuovo, lo rividi durante un mitragliamento aereo che subii a
Fornaci di Barga e che racconterò a suo tempo). Ma torniamo alla bicicletta che
spuntava dalla curva.
Io, anche per le continue raccomandazioni
della nonna che, con lo scopo di rendermi guardingo, mi prospettava in termini
drammatici le varie disgrazie che avrebbero potuto accadermi, ritenevo una cosa
grave e drammatica l'investimento, anche da parte di una bicicletta.
Così, nel trovarmi proprio di fronte a una
eventualità del genere, rimasi paralizzato dal terrore e non balzai da parte,
come forse avrei potuto. E venni investito in pieno e gettato a terra. Poichè
poi risultò che non mi ero fatto nulla, ritengo che fosse ancora la paura a
tenermi steso a terra, quasi fossi tramortito. Fatto sta che, mentre una
miriade di ragazzi si fece intorno per vedere l'investito, qualcuno mi prese in
braccio e mi portò a casa, forse anche preoccupato per il mio mutismo e per i
miei occhi sbarrati. Una volta a casa, la mamma, che dovette rendersi conto che
non avevo nessun male, mi prese in braccio e, sedutasi in una poltrona del
salottino, prese a consolarmi e a coccolarmi. A quel punto il mio terrore si
sciolse in un gran pianto ed io rimasi in braccio alla mamma, col viso
affondato nel suo seno, ad occhi chiusi, a godermi il tepore del suo abbraccio
e delle sue coccole. Poi mi calmai, smisi di piangere e sollevai il capo. Con
immenso stupore vidi allora che, tutto intorno alle pareti del salottino,
seduti per terra, stavano tutti i ragazzi che avevano assistito all'incidente,
forse una quindicina, e che mi avevano seguito fino in casa ed erano rimasti
lì, convinti che mi fossi fatto qualcosa di grave, tutti seri e silenziosi, ad
ascoltare il mio pianto disperato. Fu solo quando videro che non avevo nulla, e
questo fu chiaro dopo che mi alzai e, forse, sorrisi, che ripresero a sorridere
e a parlare.
Come ho già detto descrivendo la
cucina, noi avevamo un bello ed ampio camino, nel quale, in inverno, facevamo
dei magnifici fuochi. Ho dei ricordi molto piacevoli delle serate passate tutti
insieme davanti al camino. Mio padre passava tutte le sere in casa con noi ed
io, che non lo vedevo per tutto il giorno, me lo godevo proprio tanto. In
genere stavo in braccio a lui, a cavalcioni sulle sue ginocchia, e mi facevo
raccontare i mille episodi della sua vita, specie della sua fanciullezza in
Italia, in Francia e in America del Nord. Ma giocavo anche con il suo viso,
tirandogli il naso o le orecchie, insomma strapazzandolo ben bene. La mamma
ogni tanto brontolava, perchè diceva che facevo stancare papà, ma lui mi teneva
volentieri e, così, finivo quasi sempre per rimanere sulle sue ginocchia. Ma il
babbo conversava piacevolmente con tutti, ed io amavo anche seguire la conversazione
dei grandi. Specie quando, parlando con la mamma o la nonna, rievocava episodi
del Camporgiano del passato o personaggi caratteristici. Ma anche quando
parlava con Guido di storia (che era la grande passione del babbo, che ne aveva
una buonissima conoscenza) o quando Guido leggeva ad alta voce delle poesie. Ne
ricordo una in particolare : "Faida di comune" di Carducci, ma anche
"Davanti a San Guido", sempre di Carducci (autore molto apprezzato in
casa nostra). A volte, poi, accadeva che era a casa nostra qualche ospite, e
anche questo mi piaceva, perchè arricchiva la conversazione che io, molto
curioso, cercavo di seguire. E mi piaceva, anche se, in tali occasioni, dovevo
scendere dalle ginocchia del babbo. Allora mi rannicchiavo, di solito, sulla
vasta cassapanca che i miei, in una certa epoca, avevano fatto costruire e che
stava proprio davanti al camino. Spesso era nostra ospite la suora
dell'Ospedaletto (quando qualcuno doveva fare una cura di iniezioni, era lei
che le faceva). Agli ospiti, offrivamo il caffè, ma quando sopraggiunse la
guerra e il caffè non si trovava più, offrivamo ancora il "caffè"
fatto di orzo o di surrogato.
Anche in luogo del tè, si faceva il
"Carcadè", altro surrogato. Altri ospiti erano, in genere, uomini che
avevano bisogno di parlare con mio padre e che, poi, finivano per passare la
serata con noi. Una sera, mi pare che non avessimo ospiti, sul fuoco venne
messa troppa legna secca e minuta, che sviluppò una gran fiammata rumoreggiando
forte. Ovviamente la fiammata durò poco, perchè, appena consumate le legne
minute, il fuoco tornò a dimensioni normali. Ma il rumore, come un boato
continuato, continuò a scendere dal camino, dal quale, inoltre, cominciarono a
cadere grossi pezzi di caligine accesi. Fu subito chiaro che "aveva preso
fuoco il camino". Si era, cioè, incendiata la caligine abbondantissima (il
camino non era mai stato pulito) accumulatasi all'interno della canna fumaria.
Subito i miei si preoccuparono, ma non sapevano bene cosa fare. Mi pare che mio
padre provasse, con un lungo bastone, a fare cadere la caligine accesa, ma la
cosa risultò subito non risolutiva, anche perchè la canna fumaria era molto più
lunga del bastone. Il rumore fortissimo del fuoco, la agitazione e la
preoccupazione dei grandi (si temeva che potesse incendiarsi un trave in
soffitta) cominciarono a rendermi inquieto e spaventato. Uscimmo all'aperto e,
dall'esterno, vedemmo il nostro comignolo che vomitava fiamme, illuminando
tutto il Riolo. Intanto molte altre persone del vicinato erano fuori a guardare
lo spettacolo.
Fra questi il Dario, un nostro vicino che era
anche cacciatore.
Questi propose di sparare una fucilata su per
il camino, al fine di far cadere la caligine accesa. L'idea fu accettata, anche
perchè non ce n'erano di migliori. Così Dario prese il fucile e venne a casa
nostra. Entrato in cucina, caricò il fucile con una cartuccia a pallini e,
fattosi sotto la cappa del camino, sparò una fucilata su per la canna fumaria,
mentre noi, qualche passo indietro, ci turavamo le orecchie. Molta caligine
cadde, ma il fuoco non si spense ancora.
Ed io ero sempre più eccitato ma anche
spaventato. A un certo punto salimmo al piano di sopra per controllare la
camera della nonna dove, all'interno di un muro, passava la canna fumaria.
L'agitazione e la preoccupazione andarono alle stelle quando, entrando in
quella camera, la trovammo piena di fumo. Il calore, infatti, aveva aperto
delle crepe nell'intonaco, lasciando uscire il fumo. Mio padre si avvicinò per
osservare meglio, e noi con lui, così vedemmo che le crepe erano abbastanza
larghe da lasciar vedere le fiamme. Mio padre, allora, prese una brocca piena
d'acqua e cercò di versare acqua all'interno della canna fumaria attraverso
quelle crepe. Intanto il tempo era passato e le fiamme avevano divorato tutta
la caligine. Così, alla fine, il fuoco si spense. Rimaneva la preoccupazione
che in soffitto il fuoco potesse aver bruciato un trave. Così il babbo si
procurò una scala e, dal terrazzo che era fuori dalla camera di Guido,
raggiunse un alto finestrino che era l'unica via di accesso al soffitto. Entrò
e, con l'aiuto di una lampadina tascabile, controllò il trave che era vicino
alla canna fumaria. Il trave era ancora caldo ma non aveva subito danni. Allora
la tensione si sciolse e, dopo aver areato la camera della nonna, finalmente ce
ne andammo a dormire piuttosto infreddoliti. Nei giorni seguenti ebbi molto da
raccontare ai miei amici, che volevano conoscere tutti i particolari
dell'avvenimento.
4 - GLI
ORECCHIONI E LA TOSSE CANINA
Fra le malattie dell'infanzia
praticamente inevitabili al tempo della mia fanciullezza, c'erano, sicuramente
la parotite e la pertosse.
C'era nella gente un totale fatalismo
rispetto a queste malattie e si riteneva, con qualche ragione, che i bambini
quanto prima le facevano e meglio era. Ogni anno, così, od ogni pochi anni, si
aveva una bella epidemia e i bambini fra i tre e i sette,otto anni si ammalavano
tutti o quasi. Quelli più piccoli stavano ancora molto poco con gli altri
bambini e, normalmente, sfuggivano al contagio. Anche le famiglie mettevano una
certa cura nell'evitare che si ammalassero, perchè si riteneva che, prima dei
tre anni, quelle malattie, specie la pertosse, potessero essere pericolose.
Come, in effetti, è.
E così anch'io, verso i quattro o cinque anni,
mi presi la mia brava "tosse canina" (così chiamavamo la pertosse).
Era una cosa molto fastidiosa, perchè generava degli accessi di tosse forte e
profonda, che duravano anche molti minuti e che, spesso, provocavano il vomito.
Ricordo che spesso, quando ero fuori a giocare con gli amici, mi prendeva una
di queste crisi, e c'era sempre qualcun altro che la prendeva
contemporaneamente, e, allora, ci si appoggiava con gli avambracci al muro di
una casa (ricordo particolarmente la casa del "Giannon", che era
dall'altra parte della strada), si appoggiava la fronte sulle braccia e si
cominciava a tossire di buona lena, emettendo quel suono caratteristico, simile
al tossire di un cane o al ragliare di un asino (da cui tosse canina o
asinina). Non era affatto piacevole, perchè talvolta pareva di non poter tirare
il fiato, tuttavia si sopportava stoicamente e senza lamentarsi. E nessuno se
ne prendeva una cura particolare. Anzi, accadeva talvolta che gli adulti
ridessero di quello spettacolo, quando quattro o cinque ragazzini tossivano
tutti insieme rumoreggiando al modo che ho detto. E, addirittura, i proprietari
delle case si indispettivano e brontolavano quando sui loro marciapiedi
rimanevano vomiti e catarri. Non ricordo quanto tempo durò la cosa, sicuramente
alcuni mesi. Questa era la regola.
Gli orecchioni (parotite), invece, li ho fatti
più tardi, credo verso gli otto anni. Non ho molti ricordi, tuttavia. Ricordo
solo che dovevo stare in casa e, quindi, mi annoiavo mortalmente. In quel tempo
venne a casa nostra per alcuni giorni la mia cugina Anna, forse proprio per
farmi compagnia. Avendo un anno di più, probabilmente lei li aveva già avuti. Con
lei giocavo, sempre rimanendo in casa, a bottegai, usando la bilancia vera
della nostra vera bottega (quando non c'erano clienti) e, forse, anche ad altri
giochi. Ma ero scorbutico e indisponente, forse a causa del malessere che mi
generava la malattia, e Anna se ne lamentava, dicendo che ero cattivo e che lei
non mi aveva fatto nulla di male. Ricordo, in particolare, una volta che questo
accadeva mentre eravamo fuori (forse era una bella giornata ed io, con un
fazzolettone che mi copriva le orecchie, avevo avuto il permesso di uscire), al
principio dell'orto, vicino alla murella della ferrovia.
Quella volta ero particolarmente
sgarbato e villano ed ella, che era una brava bambina, cercava di difendersi e
di cercare di mostrarmi quanto fosse ingiustificato il mio comportamento. E, in
effetti, io lo capivo, e, in seguito, ho spesso provato rimorso per quelle mie
cattiverie. Ma allora ero "noioso" e non riuscivo a comportarmi
meglio. E la povera Anna diventava la vittima del mio nervosismo.
Ricordo vagamente di aver posseduto un
triciclo verso i tre-quattro anni, ma non deve avermi dato grandi soddisfazioni
giacchè non ho nessun ricordo particolare legato ad esso. La bicicletta,
invece, ha avuto una importantissima parte nell'incrementare la mia sicurezza e
la fiducia in me stesso. Dopo che mio fratello Guido superò brillantemente
l'esame di quinta ginnasio, mio padre andò a Equi Terme e comperò una bella bicicletta
nuova da un negoziante del luogo e gliene fece dono. Il fatto è, credo valga la
pena di ricordarlo, che Guido, dopo aver fatto la quarta elementare, aspettò
due anni prima che a Monzone venisse istituita anche la quinta. Così entrò in
collegio a Soliera per fare il ginnasio con due anni di ritardo. Ma a
scuola era molto bravo e superò senza
problemi le prime tre classi del ginnasio inferiore. In quarta ginnasio, poi,
fu così brillante che anche i suoi insegnanti lo incoraggiarono nel suo
progetto di preparare nell'estate e di sostenere ad ottobre dello stesso anno
l'esame di quinta ginnasio. Così studiò sodo e ad ottobre si presentò all'esame
a Carrara ben preparato. E fu promosso. Aveva, così, recuperato un anno.
Meritava, quindi, il regalo della bicicletta. Credo che nei primi tempi Guido
sarà stato geloso della sua bicicletta ed io non avrò aviuto il permesso di
toccarla. D'altra parte, doveva essere il 1937, io ero ancora troppo piccolo
per quella grande e pesante bicicletta (non ricordo la marca ma credo fosse una
Velox). Più tardi, però, forse l'anno dopo, stante anche il fatto che Guido
andava a scuola a La Spezia (frequentava il liceo classico) e, quindi,era fuori
tutto il giorno, cominciai a ronzarle intorno, diventando essa di giorno in giorno
una tentazione sempre più forte. Nè era un impedimento il fatto che, essendo la
bicicletta alta, io non arrivavo ancora ai pedali. Infatti altri ragazzi con il
mio stesso problema avevano imparato a tenersi in precario equilibrio pedalando
"sotto canna". Essi, cioè, infilavano una gamba sotto il tubo
orizzontale che nelle biciclette da uomo va dal sellino al manubrio
(all'incirca) e raggiungevano, così, l'altro pedale. In verità era un modo
faticoso e abbastanza buffo di andare in bicicletta, poichè il suddetto tubo o
canna andava a premere contro il fianco, costringendo a tenere la bicicletta
inclinata da una parte mentre il corpo tendeva ad inclinarsi dalla parte
opposta per controbilanciare l'inclinazione della bici e rimanere, così, in
equilibrio. Così, piano piano, forse anche un po' di nascosto, cominciai a
portare la bicicletta nel piazzale davanti alla bottega e, lì, cominciai a
provare e riprovare.
Finchè imparai a tenere l'equilibrio e a
procedere abbastanza disinvoltamente, ovviamente "sotto canna". Fu
una conquista importante. Ora "sapevo andare in bicicletta" e,
questo, mi dava molta sicurezza e faceva sì che io fossi fiero di me stesso.
Cominciai ad avventurarmi anche fuori dal piazzale e, dopo poco, andavo da cima
a fondo del paese, anche se il Riolo, cioè la zona più prossima, era la più
frequentata. Ma l'aspirazione era quella di imparare ad andare anche
"sopra canna". Così, frequentemente, portavo la bicicletta sul
marciapiede fra la casa e la murella e, qui, sostenendomi con le mani al muro o
alla murella, salivo "sopra canna" e misuravo quanto ancora mi
mancava per arrivare ai pedali. Finchè, credo fosse nel 1939 o, addirittura,
nel 1940, le gambe erano cresciute abbastanza da arrivare ai pedali. Non stando
seduto sul sellino, però, bensì stando seduto sulla "canna", dove si
stava scomodissimi e si finiva con l'avere il sedere ammaccato e dolorante.
Era, comunque, tempo di imparare ad andare "sopra canna", ed io
cominciai a provare con impegno. Faceva un po' paura stare seduti così in alto,
non avendo le gambe abbastanza lunghe per poggiare un piede a terra in caso di
bisogno, così mi occorse un po' di tempo. Finchè un giorno, dopo essere salito
in groppa alla mia bici che avevo avvicinato a un muretto basso su cui potevo
poggiare un piede, mi feci coraggio e, per la prima volta, partii "sopra
canna". Fu esaltante. Arrivai fino alla Mancina dove, senza scendere, mi
rigirai e salii fino in cima al Riolo. Anche qui, senza scendere, curvai fino a
rigirarmi e riscesi fino alla Mancina.
E così per un numero esagerato di
volte. Il fatto è che non sapevo come fare a scendere, perchè la bicicletta era
alta e avevo paura di cadere. Ma, alla fine, la stanchezza fu tale che dovetti
fermarmi per forza. Rallentai piano piano fino a fermarmi, e lasciai che la
bicicletta si piegasse finchè il mio piede non toccò terra. La cosa avvenne
senza incidenti, per cui, rassicurato, mi gustai anche questo successo. Sapevo
andare in bicicletta anche "sopra canna". Ero grande ed abile. La
fiducia in me stesso crebbe a dismisura. Da allora in poi i miei progressi
furono rapidissimi. Imparai presto a partire senza l'aiuto del muretto. Mettevo
il piede destro sul pedale stando dalla parte destra della bicicletta, poi mi
davo una spinta e, mentre la bicicletta già andava, sollevavo la gamba sinistra
fino a scavalcare il sellino e mi issavo a bordo, così come facevano i grandi.
Dopo poco la mia sicurezza fu tale, che andavo anche fino a Gragnola o fino a
Equi. E, da allora in poi, la bicicletta è stata una presenza quasi quotidiana
nella mia vita. Ed anche una buona occasione di fare sport. Tanto che ne ebbi
un ottimo sviluppo dei muscoli delle gambe. A Gragnola andavo alla farmacia a
comperare le "pasticche di potassa" con le quali facevamo i
"colpi". Si faceva così : si prendeva una pasticca (ma, in genere, se
ne usava mezza) e la si triturava schiacciandola fra due piastre di marmo. A
questa polvere si aggiungeva un pizzico di zolfo, ricavandone una miscela
esplosiva. Quindi si sovrapponevano le due piastrelle di marmo lasciando in
mezzo la miscela. Infine si saliva col tacco sinistro sulle piastrelle e, col
tacco destro, si dava un forte calcio alla piastrella superiore. Il brusco
attrito che si produceva faceva esplodere la miscela con un colpo secco e forte
pari allo sparo di una pistola. Qualcuno, poi, aumentava la dose e, allora, il
colpo era anche più forte. Si avvertiva, però, nel piede che stava sopra la
piastra, un urto che, talvolta, rendeva dolorante il piede. In qualche caso,
poi, si decideva di fare una super-esplosione. Allora ogni ragazzo contribuiva
con una o più pasticche, finchè non se ne cumulavano fino a venti o più. Quindi
si preparava la miscela e si disponevano le piastre. A quel punto, per farla
esplodere, non si poteva certo usare il tacco.
Allora si andava all'interno di una
chiesa in costruzione (c'erano soltanto i muri tirati sù, poi la costruzione
s'era interrotta) e si sistemavano le piastre in un angolo. Poi si saliva sul
muro, che era facilmente accessibile per un mucchio di terra alto quanto il muro
stesso, e, da lassù, si lasciava cadere una grossa pietra sopra la piastra
preparata. Quando tutto funzionava si otteneva una esplosione molto forte. Ma
era una cosa molto imprudente, perchè schizzavano intorno schegge di pietra che
avrebbero potuto ferire qualcuno. Per fortuna non accadde mai nulla di male.
Giacchè ho parlato di questa chiesa (che è l'attuale chiesa di Monzone basso),
voglio ricordare un altro gioco che vi si faceva. Si saliva sul muro e ci si
portava in un punto dal quale si poteva saltare su un mucchio di terra che si
trovava un paio di metri o tre distante e due metri buoni più in basso. Questo
"salto in basso" era considerato una notevole prova di coraggio che
non tutti riuscivano a superare. La nonna Mariù, fra l'altro, avendo saputo di
questo sport, mi scongiurava di non farlo, perchè, diceva lei, "vi
potrebbe venire l'ernia" (curiosamente la nonna Mariù mi dava del voi,
mentre io le davo normalmente del tu. Era una vecchia abitudine quella di dare
del voi ai bambini). Tuttavia io volli tentare la prova e lo feci più volte,
guadagnandomi l'ammirazione anche di ragazzi più grandi. Il che, ovviamente, mi
gratificava assai.
Quando io ero bambino la presenza di
ascaridi (che noi chiamavamo semplicemente "i vermi") nell'intestino
di noi ragazzi era un problema largamente diffuso. Si diceva fosse determinato
dal fatto che, nel gioco, avevamo sempre le mani nella terra, e le mani stesse
non venivano adeguatamente lavate quando, poi, si mangiava, specie a merenda,
allorchè si correva frettolosamente in casa, si arraffava un pezzo di pane (il
più delle volte condito con olio e sale) e poi via di nuovo fuori a mangiarselo
con le mani ancora sporche di terra.
Il fatto sta, comunque, che più volte è
accaduto anche a me di "avere i vermi". La cosa era molto sgradevole
e faceva paura. Si narrava, infatti, forse per spaventarci, di bimbi cui i
vermi erano saliti fino alla gola e li avevano soffocati. In genere i genitori
si accorgevano che "avevamo i vermi", perchè si deperiva, si
diventava palliducci e smunti. Ma anche a seguito di fatti improvvisi
inconsueti. Come quando a me accadde di avere un episodio di sonnambulismo. Di
notte mi alzai in piedi sul letto, ad occhi aperti, dicendo delle cose, senza
esserne minimamente cosciente. La cosa non mi era mai accaduta (nè mi è più
accaduta in seguito) per cui la mamma rimase alquanto impressionata e decretò :
"Mario ha i vermi". Ed era, probabilmente vero. Così, ogni tanto,
bisognava prendere la medicina per i vermi. Era piuttosto disgustosa, per cui
si cercava di renderla bevibile aggiungendo del rosolio. Ma senza molto
successo, se ricordo bene. Per me era una cosa molto spiacevole prenderla, sia
per il suo orribile sapore ma anche perchè, dopo, bisognava pur andare di corpo
e "fare i vermi". E la cosa mi spaventava. L'idea di avere dei vermi,
spesso lunghi una ventina di centimetri, a contatto del mio corpo mi faceva
inorridire.
Una volta, avrò avuto sei o sette anni, ebbi
necessità di andare al gabinetto e andai in quello a pian terreno, subito fuori
dalla porta del salottino. Ero tranquillo perchè nessun segnale aveva fatto
sospettare che "avessi i vermi". Così cominciai tranquillamente a
"fare la cacca". Ma a un tratto mi resi conto che "la
cacca" non si staccava dal mio ano e non cadeva nel gabinetto come avrebbe
dovuto.
E, questo, malgrado mi sforzassi di
farlo accadere. Allora chinai la testa e guardai. Quello che vidi mi riempì
letteralmente di orrore. Tre enormi ascaridi intrecciati fra loro penzolavano
sotto di me, ed erano ben vivi giacchè si stavano muovendo. Cominciai a urlare
come se mi sgozzassero, e a chiamare la mamma disperatamente. E la mamma,
spaventatissima, arrivò subito chiedendomi cosa ci fosse. Io, sempre più
terrorizzato glielo dissi, e mi tendevo come per allontanarmi da quella cosa
orrenda... La mamma, allora, cercò di tranquillizzarmi e mi disse che ci
avrebbe pensato lei. E , infatti, prese un foglio di carta, con quello afferrò
i tre vermi e tirò finchè li estrasse dal mio intestino (ebbi la sgradevole
sensazione che qualcuno frugasse nelle mie budelle). A quel punto tirai il
fiato e, dopo essermi pulito, mi allontanai da quei tre enormi vermi che,
finalmente, sparirono nel water. Ma rimasi a lungo scosso da quell'avventura. E
quella volta credo che avrò preso la "medicina per i vermi" senza
protestare, pur di liberarmi da quell'ingombrante presenza.
Da quando posso ricordare, in casa
nostra c'è sempre stata una donna che aiutava la mamma nelle faccende di casa.
Era necessaria, sia perchè la mamma era impegnata con la bottega, sia perchè la
casa era grande, sia perchè non avevamo l'acqua in casa (a quell'epoca non
c'era un acquedotto pubblico capace di fornire acqua anche alle abitazioni, per
cui nessuno la aveva, salvo chi possedeva una sorgente e poteva farsi un
acquedotto privato). Questa domestica, infatti, era impegnata nel trasporto di
acqua dalla fontana a casa, trasporto che veniva effettuato per mezzo della
"secchia", grande recipiente di rame senza manici, che veniva
trasportato in equilibrio sulla testa, appoggiato sopra il "coroiolo",
che era una ciambella fatta con un pezzo di stoffa arrotolato, ovvero per mezzo
delle "paioline" o secchi di lamiera zingata. Sulla grande scaffa che
stava a destra dell'acquaio , formata fa una grande lastra di marmo c'erano
sempre la secchia e due paioline piene d'acqua. Immersa nell'acqua della
secchia stava sempre la "ramaiola", grande mestolo di rame lucido col
quale si attingeva l'acqua per i vari usi. In genere chi aveva sete beveva
direttamente dalla ramaiola. Questo rifornimento d'acqua veniva sempre mantenuto
costante, e, questo, comportava per la domestica diversi viaggi al giorno alla
fontana. La fontana più vicina, alla quale noi attingevamo, era vicina al
fiume, sotto il ponte della Mancina, e vi si accedeva per un viottolo ripido
che, appena dopo il passaggio a livello, scendeva verso il fiume. Oltre a ciò
la domestica puliva la casa e si occupava del bucato. La grande conca del
bucato era in cantina e il bucato si faceva così : dopo aver sistemato i panni
nella conca, questi venivano coperti con un grande telo che sporgeva fuori
dalla conca stessa. Sopra quel telo veniva versato un grosso quantitativo di
cenere, che veniva opportunamente sparsa e livellata.
A questo punto venivano messi a bollire
sul fuoco del camino dei grandi "laveggi" di bronzo pieni d'acqua. Quando
l'acqua era al bollore, il laveggio veniva portato in cantina e l'acqua
bollente versata sulla cenere. L'acqua, filtrando attraverso la cenere, il telo
e i panni da lavare, usciva, poi, da un foro situato vicino al fondo della
conca, e finiva in un recipiente collocato sotto. Questa acqua, chiamata
"lisciva", veniva poi riscaldata di nuovo e ancora versata sulla
cenere....e così via per diverse ore. Ed era questa lisciva che aveva un potere
pulente che sbiancava i panni. Alla fine i panni stessi dovevano essere
risciacquati in acqua corrente, per cui era la domestica che, messili in una
vaschetta di lamiera zingata, li portava alla "gora" dove erano
sempre molte donne che lavavano e risciacquavano i panni nella limpida acqua
proveniente dal fiume di Vinca. Mi pare che i compiti della domestica fossero
tutti qui. Da mangiare, infatti, ne facevano la nonna Mariù e la mamma. Le
domestiche che si sono succedute in casa nostra io le ho sempre percepite come
persone di famiglia. Infatti mangiavano alla nostra tavola, quando era freddo
si scaldavano con noi al caminetto, partecipando alla nostra conversazione e,
insomma, vivevano la nostra stessa vita. Non dormivano, però, da noi, poichè
erano del posto e, la sera, dopo aver lavato i piatti (mi pare che anche questo
fosse loro compito. Ma forse non sempre), rientravano a casa loro. Ricordo che
la prima domestica che abbiamo avuto, fin da quando abitavamo al “Ponte”, si
chiamava Marietta (Guido, però mi dice che prima di lei c’era stata una certa
Cristina che io non ricordo). Ricordo che essa, prima di andarsene, riceveva
dalla mamma, quasi tutte le sere, del cibo che non avevamo consumato, e
manifestava una infinita riconoscenza. Erano, infatti, anni difficili e quel
cibo contribuiva a nutrire i suoi familiari, specie i suoi nipotini, che erano
in difficoltà economiche.
Ricordo che era particolarmente felice
quando riceveva dei grossi pezzi di carne bollita (la mamma faceva spesso il
brodo, ma il lesso era poco amato e ne mangiavamo poco). La carne di bovino,
infatti, era certamente fuori dalla portata delle loro tasche. Questa Marietta
era una donna anziana, che viveva col figlio Treviglio (vecchio fascista amico
del babbo), la moglie di lui che si chiamava pure Marietta, e i nipoti Nevio,
Cesare, Nella e Maria. Nevio era il più grande e lo conoscevo poco, perchè è
stato qualche anno in un collegio di frati.
Cesare aveva diversi anni più di me, ma
spesso giocava con me e la sua compagnia mi era gradita. Nella aveva, se
ricordo bene, tre anni più di me e ho giocato spesso anche con lei. Ma non mi
divertivo troppo.
La stessa cosa devo dire per la Maria,
che doveva avere la mia età o poco meno. Talvolta questi ragazzi venivano a
casa nostra, ma a volte ero io che andavo a trovarli a casa loro. La loro casa
mi incuriosiva, soprattutto la cucina i cui muri, non essendo stati
evidentemente mai imbiancati, avevano assunto, per il fumo, quello stesso
colore nero lucido che assumono gli interni dei caminetti. E sovente, in un'aia
che era lì davanti, mi sono divertito molto con Cesarino. Ma un giorno accadde
una cosa che mi turbò molto. Ero andato, come altre volte, a cercare Cesarino,
e lo vidi in cima alla breve scala che dava accesso alla sua casa. Mi avvicinai
festosamente, ma Cesarino, alzando il braccio coll'indice teso, con viso serio
e voce rude mi disse : - Vai via da casa mia ! - Io pensai che scherzasse e
continuai ad avvicinarmi sorridendo, ma lui non mutò atteggiamento e mi ripetè
di andarmene. Allora rimasi interdetto, senza capire, mentre la mamma di
Cesarino gli diceva di non fare così. Ma lui rimase serio e duro e mi disse
che, come io avevo mandato via da casa sua la sorella, lui mandava via me da
casa sua. E mi ripetè di andarmene. E a me non rimase altro che girarmi e
tornarmene a casa avvilito e con un nodo in gola. In effetti era accaduto che,
qualche giorno avanti, io avevo mandato via la Maria, perchè con lei non mi
divertivo e anche perchè era un po' sporca. E lei, probabilmente, c'era rimasta
molto male e lo aveva raccontato ai suoi. Ora mi rendevo conto di essermi
comportato male con lei, e capivo il comportamento di Cesarino. Diciamo che fu
una lezione che mi fece bene. Purtroppo, però, i miei rapporti con Cesarino non
furono più come prima ed io non andai più da lui.
Un'altra volta, doveva essere il 1935, mio
padre dovette andare all'ospedale di Pontremoli ad operarsi di emorroidi (da
anni ne soffriva, ma ormai la sofferenza che gli procuravano era
insopportabile. Ricordo di averlo visto piangere dal dolore) e la mamma lo
accompagnò. Allora, per farmi compagnia la notte, fecero venire la Nella a
dormire con me. La cosa non mi dispiacque. Dormivamo entrambi nel letto grande
e la cosa mi piaceva. Però accaddero due cose spiacevoli. Una notte io stetti
male, mi venne una forte diarrea e sporcai il letto, cosa che mi fece
vergognare molto. L'altra cosa spiacevole fu che la Nella, che aveva una gran
testa di capelli neri e ricciuti, era piena di pidocchi e quando tornarono
mamma e papà dovettero constatare con dispiacere che anche la mia testa, ora,
pullulava di quei non graditi ospiti. E ci vollero le attente cure della mamma
per eliminarli.
Ma la Marietta era vecchia, per cui cominciò a
farsi sostituire ogni tanto dalla sua nuora, che lei chiamava "la me
nora", per cui anche noi la chiamavamo "Nora", anche per
distinguerla dall'altra, chiamandosi entrambe "Marietta". Finchè la
"Nora" la sostituì definitivamente. Di questa Nora non ho molti
ricordi. Essa era più seria e meno loquace della Marietta, ed a me non piaceva
molto. Di lei ricordo, però, un episodio curioso. Era accaduto che la nostra
gatta (credo di aver già detto che faceva i gattini due volte l'anno) quella
volta, dopo il parto (aveva partorito in bottega dietro il banco, in un cartone
con un po' di paglia) non si riprese e, dopo poco, morì. La cosa fece un gran
dispiacere a tutti noi, Nora compresa. Naturalmente morirono anche i tre o
quattro gattini appena nati, essendo venuti a mancare loro il latte e il calore
della madre. E, comunque, bisognava disfarsi degli sfortunati gatti. Così fu
dato incarico alla Nora di portare tutto nel fiume. Ed essa si caricò l'intero
scatolone sulla testa e si avviò, mentre la mamma ed io davamo l'estremo saluto
alla gatta guardando la Nora che la portava via. Ma la Nora aveva fatto appena
pochi passi che incontrò una donna, la quale volle sapere cosa avesse nello
scatolone, e lei glielo disse, e narrò il dramma della povera gatta morta di
parto e dei gattini che non avevano potuto sopravvivere. La donna fu
interessata e chiese altri particolari, poi volle vedere i poveri gatti morti,
e la Marietta dovette abbassare lo scatolone e mostrare il contenuto. Alla fine
potè rimettersi lo scatolone in capo e riprendere la via. Ma fece solo pochi
passi, prima di incontrare un'altra donna che volle sapere.....e la scena di prima
si ripetè. E poi si ripetè ancora e ancora, forse quattro o cinque volte, tanto
che per fare i cento metri o poco più per arrivare al fiume impiegò più di
mezz'ora. La cosa fu tanto buffa che ci fece ridere assai, attenuando così il
dolore per la perdita della gatta.
Negli anni successivi molte volte la
mamma ha ricordato questo fatto e ogni volta che lo narrava rideva ancora.
E venne il tempo che anche la Nora ci lasciò
per andare in pensione (Mio padre era uso pagare regolarmente i contributi
previdenziali dovuti). Allora venne la Maria, una donna giovane e allegra, che
mi piacque subito. Essa aveva appena sposato un giovane che lavorava a
Pantelleria (mi pare fosse già iniziata la guerra o stesse per iniziare) e che
insisteva affinchè ella lo raggiungesse. Ma lei aveva paura del viaggio, del
mare e non so di cos'altro...e, insomma, non avrebbe voluto andare. Però voleva
anche non dispiacere al marito, per cui viveva in una grande incertezza e ne
parlava spesso. A quel tempo c'era una donna anziana che veniva da noi ogni
sera a portarci il latte appena munto. Si chiamava Maribella ed era una donna
aperta e loquace che amava trattenersi un po' a chiacchierare. E così anche con
lei la Maria parlava del suo problema, dicendo che non sapeva cosa rispondere
alle insistenze del marito. Allora la Maribella, che capiva le sue paure, volle
consigliarla a tenere duro e a non andare, per cui le disse con fare deciso : -
Te gli devi scriver : Positivo, non viengo ! -
Cercando di dire la frase in corretto italiano,
aveva detto "viengo", ritenendolo la forma corretta. Anche questo
episodio, che abbiamo ricordato molte volte, ci fece ridere assai. Era sempre
la mamma che, donna allegra e scanzonata a quell'epoca, con un forte senso
dell'umorismo, faceva notare anche a noi il lato comico delle cose e,
raccontandole la sera al babbo, ce le faceva apparire in tutta la loro
comicità. Poi anche la Maria ci lasciò (forse andò davvero a Pantelleria) e
avemmo la Daria, ragazza un po’ timida che rimase poco e, dopo, la Fosca, che
aveva sposato un nostro vicino di casa, figlio del “Giannon”. Ma anche lei non
rimase a lungo. Infine avemmo la Zavia. Era, anche questa, una giovane donna,
cugina di Emanuele (il mio amico) un po' claudicante, ma gradevole di aspetto e
di comportamento. Essa, poi, mi era già familiare poichè la vedevo spesso al
"Mulin" (o Alla Gora) dove abitava, vicino alla casa di Emanuele. Ed
anche con lei, che mi pare sia stata l'ultima delle nostre domestiche, mi
trovavo bene. Dopo il trasferimento ad Aulla, non avendo più il negozio ed
avendo una casa più piccola, la mamma, dopo che la Zavia ci aveva seguito ad
Aulla ma, non trovandosi bene, se ne era ripartita dopo breve tempo, fece a
meno della domestica.
La nostra casa
era vicinissima alla ferrovia. Infatti quando fu costruita la ferrovia, negli
anni venti, una parte della casa dovette essere demolita per fargli posto.
Cosi` quel che rimase della casa era proprio vicinissimo alla ferrovia.
Praticamente da quel lato la casa aveva solo un marciapiedino largo un metro e,
poi, c'era un muro alto forse un metro e venti che segnava il confine con la
ferrovia. Era un bel muro di pietra che terminava, alla sommita`, con dei
lastroni di arenaria ben squadrati larghi quanto il muro e, quindi, una
quarantina di centimetri, lunghi sessanta o settanta e alti almeno dieci o do-
dici. Era, quella, la "murella della ferrovia". Non so perche` ma
quella murella esercitava un fascino particolare su tutti i ragazzi: era bello
starci seduti a chiacchierare, starci a cavalcioni, con una gamba che penzolava
verso la ferrovia e una che penzolava verso l'esterno.... Ma, soprattutto, era
bello correrci sopra ed anche fare i salti. Saltare dalla murella nel piazzale
della nostra casa era un esercizio piuttosto semplice. Piu` avanti, lungo la
strada che scendeva verso il passaggio a livello era un po' piu` impegnativo,
dato che la "murella" era un po' piu` alta. Ma l'esercizio veramente
temerario era quello si saltare sulla massicciata della ferrovia, che si
trovava a un livello di circa due metri piu` in basso.
Anch'io, verso
gli otto o nove anni, cominciai a frequentare abbastanza assiduamente la
murella, salendoci sopra e provando anche qualche salto. Qualche volta osai
provare anche il salto piu` difficile, quello sulla massicciata della ferrovia,
ma non lo feci spesso poiche` lo ritenevo un atto troppo temerario. In realta`,
pero`, non mi era molto facile stare sulla murella, poiche` la mia nonna
materna, nonna Mariu`, che era terrorizzata dall'idea che potessi cadere nella
ferrovia, magari quando passava il treno, era vigile e, se mi vedeva sulla
murella, cominciava a strillare come una disperata, con gli occhi fuori dalle
orbite, le mani protese, il viso rosso finche` non mi aveva costretto a
scendere. Per dir la verita` la nonna non aveva quasi nessuna autorita` su di
me ed io avrei potuto benissimo ignorare le sue richieste di scendere, ma
questo suo agitarsi chiassoso che richiamava l'attenzione di tutti mi metteva
in imbarazzo al punto che le ubbidivo per farla tacere.
Una volta,
dovevo avere sugli otto anni, mi trovai a non avere la nonna alle calcagna e,
quindi, nelle condizioni di poter godere tranquillamente la murella. Ci salii sopra
e cominciai a correre felice dal piazzale al passaggio a livello e poi indietro
e poi di nuovo, e ancora, e ancora... Ero ebbro di liberta`. Questa ebbrezza,
pero`, mi distrasse e dovetti commettere un errore, cioe` mettere un piede
fuori dalla murella. E`, questa, un'ipotesi che faccio, perche` non mi resi
affatto conto, allora, di cio`. Quello che provai fu una curiosissima
sensazione : un attimo prima stavo correndo sulla murella e un attimo dopo
sentii un forte colpo nella schiena e, davanti a me, vidi il...cielo. Dico
deliberatamente "davanti" e non "sopra" perche` in
quell'attimo non mi ero ancora accorto di aver cambiato posizione.
Un attimo dopo,
pero`, mi resi perfettamente conto che ero sdraiato supino nella strada (per
fortuna non ero caduto dalla parte della ferrovia), che il cielo era
"sopra" di me e che la botta sulla schiena era quella che avevo
ricevuto dal suolo cadendovi proprio con la schiena.
Mi prese il
panico. Tutte le cose tragiche....testa sanguinante, ossa rotte, ricoveri in
ospedale....che la nonna Mariu` mi prediceva di continuo, mi si affollarono
alla mente. Temetti di essermi ferito seriamente, immaginai la gente che
accorreva gridando, il medico, le cure dolorose, l'ospedale....e mi sgomentai.
Ma fu un attimo. Intorno a me c'era un perfetto silenzio. Mi guardai intorno :
nessuno.
Questo mi tranquillizzo` un po', mi alzai
senza fatica, ero un po' "rintronato" ma non sentivo grandi dolori.
Comunque dovevo controllare. Allora, come sempre quando avevo qualche problema,
mi diressi di corsa verso la fagiolaia che si trovava nell'orto, sul retro
della casa e mi imboscai fra i fagioli. Qui, al riparo da occhi indiscreti,
cominciai a far l'inventario dei danni subiti : la testa non mi doleva affatto.
La toccai, mi guardai le mani e non vidi tracce di sangue. Le braccia e le
gambe erano integre e funzionavano bene.
La botta sulla schiena era stata appena un po'
dolorosa li` per li`, ma ormai il dolore era passato. Tutto a posto dunque. Con
le mani spazzolai un po' gli abiti che risultavano impolverati e, quindi,
lasciai tranquillamente il mio rifugio fischiettando.
Quel giorno
Bertino, Emanuele ed io avevamo deciso di giocare alla guerra. Emanuele, o
meglio il Manuele, come lo chiamavamo noi, era di tre anni maggiore di noi, per
cui saremmo stati Bertino ed io insieme contro di lui. In cantina avevamo
materiali di tutti i tipi, per cui Bertino ed io costruimmo il nostro fortino
sotto il tavolino di marmo del giardino. Con delle casse da imballaggio lo
chiudemmo da tre lati e, sul davanti, collocammo due tubi da stufa che
guardavano verso il nemico. Quelli erano i nostri cannoni. Il Manuele, invece,
si accontentò di una fortificazione molto meno sofisticata. Prese una tavola,
la mise ritta a una diecina di metri dal tavolino e la puntellò con un bastone.
Quello fu il suo riparo. A questo punto entrammo nelle rispettive
fortificazioni e demmo inizio alla battaglia. Bertino ed io, ben riparati sotto
il tavolino, lanciavamo i sassolini del giardino attraverso i tubi da stufa,
riuscendo a fatica a farli andare poco oltre il tubo stesso. Manuele, invece,
aveva portato dietro il suo riparo una cassetta piena di cianfrusaglie e usava
quelle come proiettili. Erano oggetti pesanti, di ferro o di altro materiale,
che colpivano le nostre casse con grande fragore.
Noi, però, stavamo al sicuro nel nostro
fortino senza subire alcun danno. A un certo punto, però, Bertino, che era
dietro di me, ebbe la malaugurata idea di sollevarsi oltre il piano del
tavolino per dare un'occhiata. Purtroppo, proprio mentre i suoi occhi facevano
capolino sopra il piano di marmo, arrivò un vecchio ferro da stiro che il Manuele
aveva trovato insieme alle altre cianfrusaglie e aveva usato come proiettile.
Il ferro cadde sul tavolo di marmo e continuò la sua corsa in scivolata fino a
colpire, proprio con la punta, il povero Bertino fra l'occhio e il
sopracciglio, provocandogli un bel taglio.
Io udii il colpo del proiettile in arrivo e,
subito dopo, udii le grida di Bertino. Subito uscii fuori e vidi con orrore il
Bertino che con le mani si copriva il volto, mentre il sangue sgorgava copioso
arrossandogli tutto il viso e le mani. Anche Manuele, avvicinatosi, guardava
spaventato l'amico ferito. Intanto, attratte dalle grida di Bertino, erano
accorse la mamma e la nonna. La mamma prese subito in braccio il ferito e,
portatolo in casa, cercò di tamponargli alla meglio la ferita. Subito dopo
giunse l'Ida, la mamma di Bertino e, forse, anche la nonna. Già la mamma si era
resa conto che l'occhio non era rimasto offeso e lo disse alla Ida che,
comunque, era piuttosto spaventata. Le raccontammo brevemente cosa era
successo, dopo di che se ne andarono portando Bertino che, poi, fu medicato dal
dottore che, se non ricordo male,
dovette anche dargli un paio di punti. Il Manuele, intanto, si era dileguato e,
come poi sapemmo, era rimasto nascosto a lungo, fino a buio, facendo così
preoccupare anche la buona Rosina, sua madre, perchè aveva paura di essere
preso dai carabinieri.
Dal 1934 (se non
erro), fino al 1936 o ‘37, mio fratello Guido ha frequentato il Ginnasio nel
collegio dei frati di Soliera. Così, durante l'anno scolastico, non lo vedevo
quasi mai (solo raramente i miei genitori mi hanno portato a trovarlo. Quelle
volte si andava con la vecchia auto del Massimo, unico autista di piazza). I
miei rapporti con lui, però, sono sempre stati molto affettuosi. Lui, che ha
dieci anni esatti più di me, mi ha sempre dedicato molto tempo, facendomi
giocare in mille modi ed anche insegnandomi molte cose. Per via del negozio, in
cantina avevamo sempre una grande quantità di cassette da imballaggio e Guido
amava costruire, con quelle, una quantità di cose.
Avevamo sempre, per esempio, una quantità di
spade e pugnali fatti da lui con le tavolette delle cassette. Faceva la spade
in modo che sembrassero gladi romani. Aveva molta ammirazione, infatti, per gli
antichi romani. Al punto che mi costruiva dei soldatini di cartone, romani e
barbari, coi quali, poi, rappresentava battaglie, spiegandomi tutto ciò che
riguardava le armi e le macchine da guerra dei romani.
Ma fra le grandi costruzioni di tavole che
fece per farmi giocare, ne ricordo soprattutto tre : una torre, un dray o carro
australiano e una nave. La torre fu costruita in cantina, vicino alla pila di
pietra che era proprio davanti all'ingresso. Era una torre alta forse un paio
di metri, sulla quale si saliva mediante una scaletta. La cima della torre era
circondata da una specie di ringhiera, per non cadere. Io salivo sulla torre
per avvistare nemici in arrivo facendo la sentinella. Anche il dray fu
costruito in cantina. Guido aveva letto da poco, e mi aveva raccontato,
"Il continente misterioso" di Emilio Salgari, e aveva ricostruito il
carro come descritto nel libro. Era abbastanza grande e robusto da poterci
salire tutti e due. Qui abbiamo rivissuto le storie del romanzo di Salgari, più
e più volte, immaginando torme di australiani selvaggi che scendevano dalle
cataste di legna della cantina, che, per noi, erano boschi e montagne. Una
frase ricorrente, della quale ridevamo molto, era " Ecco gli australiani,
che vengono giù come micci !". La nave, invece, fu costruita nel
piazzaletto adiacente al giardino, sotto il terrazzo che proteggeva la porta di
ingresso. Questa costruzione mi colpì particolarmente. Essa, alta circa un
metro e lunga almeno due, aveva la forma a fuso delle barche, con una prora e
una poppa a punta. Con una scaletta si poteva salire sul ponte, che ci reggeva
bene tutti e due e che aveva un parapetto tutto intorno. Ma la cosa che trovavo
meravigliosa era il boccaporto, che si apriva sul ponte e attraverso il quale
si poteva scendere nella stiva, cioè sotto il ponte. Erano per me, queste
costruzioni, dei giocattoloni fantastici, coi quali mi divertivo immensamente.
Ma i giochi che facevamo insieme erano anche altri. Uno, in particolare, tanto
ci era gradito quanto sgradito era ai "grandi" per il baccano che
facevamo. Si trattava di questo : Guido mi assaliva camminando all'indietro e
mi spintonava urtandomi col deretano. Chiamavamo, questo, "dare di
culo". Allora io mi costruivo delle fortificazioni, accatastando le
poltroncine del salottino e salendoci sopra come su un castello. Dopo di che
invitavo Guido al combattimento gridando : "Dà di culo se sei bon, Vellon,
Vellon !" E Guido, "dando di culo", le colpiva finchè franava
tutto travolgendomi (erano di vimini, quindi leggerissime). Successivamente mi
costruì uno strano attrezzo che chiamammo "paraculo". Era una specie
di monopattino che si muoveva, spinto da me che potevo anche salirci sopra coi
piedi, su quattro rotelline. Davanti, al posto del manubrio, aveva una specie
di grande tenaglia di legno che io manovravo e con la quale dovevo cercare di
afferrare mio fratello quando mi assaliva a... marcia indietro. Era molto
divertente.
Un altro gioco che facevo spesso quando dovevo
rimanere in casa per il maltempo, era quello di scivolare con le sedie sul
pavimento. Era, questa, la causa per cui le nostre sedie di cucina erano tutte
come consumate sul retro. Questo gioco lo facevo da solo, ma spesso Guido mi
guardava incuriosito e divertito dalla grande abilità che avevo acquisito.
Funzionava così : Sdraiavo una sedia in modo che lo schienale appoggiasse sul
pavimento. Quindi salivo coi piedi sopra lo schienale e afferravo con le mani il
bastoncino poggiapiedi anteriore.
A questo punto, fingendo che la sedia fosse
una macchina (il sedile era il cruscotto), stando incoccolato e molleggiando
opportunamente sulle gambe, davo alla sedia una serie continua di spinte che la
facevano scivolare in avanti sul pavimento lucido. Tanto ormai sapevo ritmare
le spinte che il movimento era quasi continuo. Con opportune pressioni laterali
coi piedi e con le mani, poi, facevo agevolmente ogni tipo di curva, per cui
potevo percorrere lunghi tragitti, anche passando da una stanza all'altra e
aggirando tutti gli ostacoli. Il legno della spalliera e quello dei piedi
posteriori, che sfregavano contro il pavimento, ovviamente si usuravano e
mostravano evidenti e antiestetici segni di consunzione. Per cui a mia madre
non doveva piacere molto questa cosa. Però non me l'ha mai impedita, forse
perchè era un gioco che mi impegnava a lungo e mi divertiva assai e, quindi,
non aveva cuore di togliermelo. Oltre ai giochi, con Guido stavo molto
volentieri anche per farmi raccontare delle favole. Ma non si trattava di
favole note che, credo, egli non amava, bensì di favole inventate da lui
estemporaneamente. I personaggi, sempre i soliti, erano quattro fratelli :
Tintintin, molto astuto , Tontonton, molto forte, Conconcon, un po' sciocco e
Benbenben, di cui non ricordo bene le caratteristiche. Questi erano i nomi
abbreviati dei personaggi, che venivano usati quando mio fratello aveva voglia
di raccontare e gli venivano facilmente in mente storie da raccontare. Quando
non era così, allora i nomi venivano detti per intero, per cui Tintintin
diventava Tintintintiritiritiritiritiritiritiritin, e così gli altri.
In questo modo
bastava inventare pochi avvenimenti, tanto la favola diventava lunga col solo
nominare i personaggi due o tre volte. Io, naturalmente, ero più contento
quando i nomi erano abbreviati, perchè quelle storie mi piacevano veramente
tanto. Anche se gli strani esseri che le popolavano, nani (specie di orchi) e
tegame (specie di streghe) mi creavano delle paure anche notevoli. E' curiosa
l'origine del nome "tegama" per indicare un essere negativo e
pauroso. Era accaduto che una volta, quando ero molto piccolo (avevo, forse
quattro anni), avevo fatto uno strano sogno che mi aveva terrorizzato. Mi
trovavo nel breve spazio, allora senza case, fra il Ponte e il Riolo, ed ero
solo. A un tratto sui fili della luce che correvano, alti, lungo la strada, era
comparso un grosso tegame di alluminio a due manici (anche adesso ho chiara
l'immagine) che incombeva sopra di me. Io cercavo di fuggire lungo la strada,
ma il tegame, correndo sui fili, mi seguiva velocissimo ed era sempre
minaccioso sopra di me. Alla fine mi svegliai spaventatissimo e raccontai il
sogno. Nel racconto chiamai il tegame "tegama", al femminile, il che
rese il racconto del mio sogno ancora più incomprensibile. Infatti era
difficile immaginare che un tegame potesse avermi spaventato tanto. E Guido,
incuriosito, dovette farmelo raccontare più volte, finche` dovette immaginare
che io chiamavo "tegama", non si sa perchè, una specie di strega. E
così introdusse il personaggio nei suoi racconti. E ci fu la Tegama Nanina e
anche la Tegama detta Keana Beafù, e forse anche altre. A un certo punto, però.
Guido dovette rendersi conto che questi personaggi mi spaventavano troppo, per
cui volle aiutarmi a non temerli troppo e mi fornì delle formule magiche, che
chiamava scongiuri, capaci di tenere a bada nani e tegame. Una diceva : "
Un ippopototalamo si arresta sul pendio, erutta il viver mio, erutta il viver
mio" . E un'altra, un po' meno ermetica : "Passeggiam di fondo in
cima, abbasso la Tegama Nanina, passeggiam di cima in fondo, abbasso tutte le
Tegame del mondo". Con questi scongiuri mi difesi validamente dalla paura.
C'è un fatto curioso, che dimostra come ciò
sia vero. Dovevo avere non più di cinque anni, una volta che il babbo dovette
andare a Roma per il suo lavoro. La cosa era inconsueta e mi incuriosì molto. E
il babbo mi promise in regalo un cavallo a dondolo. Così attesi con molta
impazienza il suo ritorno. Ritornò, se non ricordo male, all'alba (forse era in
macchina con qualcuno ?) ed io mi svegliai quando lui, che evidentemente non
aveva dormito, si era appena infilato nel letto e tutti dormivano ancora.
Appena sveglio chiesi con insistenza di vedere i regali che papà mi aveva
portato. Ma era molto presto e la mamma mi disse di dormire ancora un po'. Ma
io, preso dall'eccitazione, non ci riuscivo e continuavo a dire che volevo
vedere i regali. Così, alla fine, la mamma mi disse che, se proprio volevo
vederli, mi alzassi da solo e scendessi a vederli. Io, che ancora avevo bisogno
di aiuto nel vestirmi, rimasi un po' perplesso ma, poi, il desiderio di vedere
il cavallino ebbe la meglio e, sceso dal letto, mi vestii alla meglio e scesi
al piano di sotto. In salottino vidi, bello oltre ogni immaginazione, il
cavallino a dondolo, bianco, con la sella e i finimenti rossi, e rossa anche la
base di legno dondolante. Sul tavolo, poi, c'erano dei sacchettini pieni di
caramelle e cioccolatini. Io ne presi uno, lo legai al collo del cavallino, poi
salii in groppa e cominciai a dondolare, al massimo della felicità. Ogni tanto
pescavo nel sacchettino e sgranocchiavo un cioccolatino o una caramella, e
dondolavo, dondolavo....
Ma, a un tratto, fui colpito dal grande
silenzio che c'era intorno a me. Nella casa non si udiva alcun rumore, e
neppure dall'esterno arrivavano segni di vita. Improvvisamente mi resi conto
che, nell'ampio pianterreno della casa non c'era nessuno all'infuori di me. Ero
solo ! Cominciai a provare una certa inquietudine. Il piacere dei doni ricevuti
improvvisamente si attenuava e il cavallino non bastava più a riempire la mia
timorosa solitudine. Lasciai il cavallino e andai nell'andito, ai piedi delle
scale, per sentirmi più vicino ai miei familiari che erano ancora di sopra. Ma
l'inquietudine non si placava. Le storie dei nani e delle tegame mi tornavano
alla mente e mi rendevano sempre più inquieto e timoroso. Tornare di sopra,
però, non volevo, perchè mi vergognavo di ammettere le mie paure. Così, per farmi
coraggio, mi armai infilando nella cintura spade e pugnali di legno (ne avevo
in abbondanza) e cominciai a passeggiare avanti e indietro per l'andito, senza
perdere di vista le scale, declamando a gran voce gli scongiuri :
"Passeggiam di fondo in cima....." con quel che segue. E così seppi
resistere alla paura. Finchè la mamma, disturbata dal mio vociare, si alzò e mi
invitò perentoriamente a stare zitto per non svegliare il papà che dormiva
ancora. Ed io fui ben lieto di obbedire, giacchè ora non ero più solo e la casa
tornava a sorridermi, rassicurante come sempre.
A proposito di brutti sogni, devo dire che mi
è capitato più volte di farne, e alcuni li ricordo molto bene, perchè mi
avevano letteralmente terrorizzato. Alcuni erano ricorrenti, come quello nel
quale io mi trovavo con la mamma davanti a una specie di trottola gigantesca,
grande come una giostra, che girava vorticosamente. A un tratto la mamma
entrava in questa enorme trottola, che aveva porte e finestre, e la trottola
cominciava a girare ed io sapevo che la mamma veniva tritata dentro a quel
meccanismo infernale. E` questo, un sogno, che ho fatto più volte, sempre
identico.
Ma quello che, forse, mi spaventò di più, fu
quello del vitello senza testa che mi inseguiva. Era accaduto che un giorno,
con altri ragazzi, ero andato al macello di Pilade a veder macellare un
vitello. Allora i vitelli venivano sgozzati con un coltellaccio, poi appesi,
decapitati e, successivamente, squartati e fatti a pezzi. Quella volta, però,
il veterinario dichiarò la carne non buona per la vendita, per cui il vitello,
che era già stato decapitato e appeso, venne calato a terra e, poi, sepolto in
una grande buca scavata poco lontano. Io assistei a tutte queste operazioni e,
evidentemente, rimasi impressionato dalla visione del vitello senza testa,
spiccata dal collo sanguinante. Così nella notte sognai questo vitello senza
testa, che mi inseguiva in un galoppo sfrenato. Mi svegliai terrorizzato e
chiesi di poter dormire nel letto grande fra mamma e papà. Ma la cosa non finì
lì. Anche nei giorni seguenti, specialmente la sera, spesso mi rannicchiavo in
braccio alla mamma, alla quale avevo raccontato il mio sogno con tutti i
particolari, e, affinchè mi dicesse parole rassicuranti sull'argomento, la
sollecitavo dicendo : " O mamma, ma quel vitello, eh !". E lei,
ridendo, finiva con lo sdrammatizzare la mia vicenda, come faceva sempre,
ridandomi serenità.
C'era, infine, anche un altro sogno, che ho
fatto almeno un paio di volte e che era abbastanza inquietante, ma che non mi terrorizzava
come quello del vitello. Forse perchè ero più grande. Mi trovavo nei pressi del
passaggio a livello quando, a un tratto, appariva un toro gigantesco, con delle
corna enormi, che mandava dalle froge sbuffi di fumo, il quale si lanciava al
mio inseguimento. Io fuggivo, ma lui mi si faceva sempre più vicino. Allora io
tentavo di arrampicarmi su una sbarra del passaggio a livello, ma non riuscivo
a farlo abbastanza velocemente. Così volgevo lo sguardo in basso e vedevo il
toro vicinissimo, che mi guardava con uno sguardo maligno e poi, piegando un
poco il capo, mi ficcava lentamente un corno nel ventre. E, qui, mi svegliavo
tutto sudato.
11 - LA MORTE DEL NONNO
GIOVANNI
Il nonno Giovanni,
padre della mamma, è morto nel 1938 come il mio nonno paterno Carlo. O, forse,
nel 1937. Mi pare,ad ogni modo, che sia morto prima il nonno Giovanni (devo
controllare queste date). Infatti doveva essere nei primi mesi dell'anno, era
ancora freddo, mentre dovette essere in primavera che accadde la disgrazia
dello zio Beniamino (ne parlo nel capitolo 8 - I parenti). E il nonno Carlo
morì nell'autunno, a Minucciano dove era andato ad abitare, in casa di Settimo.
Le cugine Anna e Mirella ci raccontavano che il nonno Carlo stava raccontando
loro una favola, allorchè volse il viso dall'altra parte e cominciò a
borbottare parole senza senso. Era stato colpito da un ictus e morì pochi
giorni dopo. Ma torniamo alla morte di nonno Giovanni. Di questa ho qualche
ricordo, perchè avvenne in casa nostra. Per la verità, però, non ricordo il
nonno morto e neppure il nonno ammalato grave. Probabilmente non me lo fecero
vedere per non turbarmi. Una delle ultime immagini che ho di lui è la seguente
: Eravamo in cucina e c'era la radio accesa. A un certo punto il nonno era in
piedi, col bastone in mano e, accompagnato dalla nonna, muoveva piccoli passi
tremolanti verso il magazzino, che doveva attraversare per raggiungere le scale
e salire in camera da letto. Ma aveva un viso preoccupato e, con una voce
incerta, diceva : - Ma come faremo a passare dal magazzino con tutta quella
gente che c'è ? - S'era fatto l'idea che le voci che uscivano dalla radio
fossero di gente che stava nel magazzino. Era, ormai, molto invecchiato e
malmesso, pur non avendo ancora ottant'anni. Quello che ricordo bene è che,
quando lui morì, Guido ed io avevamo l'influenza ed eravamo coricati entrambi
nel letto di mamma e papà (forse Guido aveva lasciato la sua cameretta alla
nonna). La camera dove ci trovavamo era adiacente a quella dove giaceva il
cadavere del nonno, dalla quale era separata da una porta.
La mamma e il
babbo passavano dalla nostra camera per andare nella camera del morto, ed
avevano visi addolorati. Naturalmente ci dettero la notizia della morte, ed io
appresi in quella circostanza, udendo una frase del babbo, che i morti si
chiamavano anche cadaveri. Solo che io intesi male e, anzichè cadavere, capii
"calavero". Allora chiesi a Guido : - O Guì, che è il calavero ? - Guido
che, malgrado il momento fosse poco adatto, aveva voglia di giocare con me,
assecondò il mio errore e si mise a spiegarmi cosa era un calavero. Solo che,
come era solito fare, mi imbastì storie fantastiche, descrivendo il calavero
come una specie di zombi, spaventandomi assai. E così, divertendosi alle mie
paure, a un tratto cominciò a dire : - Ecco il calavero che apre la porta....-
Al che io, sapendo che proprio dietro quella porta c'era il
"calavero" del nonno, riparai sotto le coperte, dove mi accucciai. E
Guido, proseguendo nel gioco, continuava a dire: -....ora il calavero sale
sopra l'armadio.....ora s'arrampica su per la tenda... - mentre io,
raggomitolato sotto le coperte, immaginavo pieno di terrore le evoluzioni del
"calavero" così pericolosamente vicine. Finalmente il
"calavero" fu fatto uscire ed io riemersi guardingo, mentre Guido si
sbellicava dalle risate.
E`, questo, un
ricordo piccolo piccolo, ma vivo, per lo spavento che mi presi. Ero in casa,
probabilmente era una brutta giornata ed io ero solo e non sapevo che fare.
Finalmente in bottega o in magazzino, trovai un tubo di latta (forse un pezzo
di ricambio di una solforatrice ?) che cominciai a usare come una trombetta.
Tenendo in bocca una estremità del tubo emettevo dei suoni che uscivano
dall'altra estremità curiosamente alterati e amplificati. Divertito dalla cosa,
cominciai a marciare per la casa a....suon di tromba. La nonna, che era sempre
terribilmente vigile, cominciò, con i suoi consueti toni drammatici, a
descrivermi il male che avrei potuto farmi con quell'oggetto, citando,
probabilmente, qualche fatto drammatico accaduto chissà dove e di cui era a
conoscenza (la nonna aveva sempre storie terribili da portare come esempio). Ma
io, come sempre, non mi curavo di quello che diceva, ed essa non aveva energia
sufficiente per farsi ubbidire. E continuavo a marciare. A un tratto, giunto
vicino ad una porta chiusa, non calcolai che la mia "trombetta" era
più lunga del mio braccio teso per aprire la porta. E, così, la trombetta urtò
la porta e mi si piantò in gola producendomi un taglietto. Il male non fu poi
così tremendo, per cui non mi sarei allarmato. Se non che in un attimo sentii
la bocca piena di liquido e, sputandolo, vidi che era sangue. La cosa era già
abbastanza spaventosa, ma valse a renderla ancora peggiore il viso terrorizzato
della nonna e il suo gridare : - Oddio ! Ve l'avevo detto ! Oddio il sangue ! -
Tanto che mi misi a piangere e ad urlare anch'io. Finchè arrivò la mamma,
sempre molto rassicurante, che mi guardò in gola, si rese conto che era poco
più di un graffio, mi fece fare qualche sciacquo con qualcosa di disinfettante,
finchè il sangue cessò di uscire e le ansie furono sedate.
13 - LA
CARRETTINA DI FERRI VECCHI
Quest'altro
piccolo ricordo risale al 1935, cioè a quando avevo cinque anni. Era iniziata
la campagna d'Africa e la Società delle Nazioni aveva imposto all'Italia le
sanzioni. Così in ogni paese d'Italia si procedeva alla raccolta delle fedi
nuziali ed anche alla raccolta di rottami di ferro. E anch'io, guidato da mio
padre che mi spiegava il significato di tutto questo, caricai di rottami di
ferro una mia carrettina ed andai, sempre accompagnato dal babbo, alla Mancina,
alle scuole, dove consegnai i miei rottami e, mi pare, assistei anche alla
cerimonia delle consegne delle fedi nuziali in oro, in cambio di fedi in
acciaio. Ricordo che ero molto fiero di questo mio atto. Però ero anche
preoccupato di dover fare un così lungo percorso con la carrettina,
avventurandomi in luoghi che non mi erano molto familiari.
E ricordo anche che i commenti e i complimenti
dei conoscenti che si fermavano al mio passaggio non mi facevano piacere, forse
perchè ero timido o forse perchè rendevano più lungo il mio viaggio. Comunque
tutto si concluse felicemente.
Nei primi tre anni della mia vita, quelli
trascorsi nella casa del Giannetti, non ho avuto amici. O, comunque, non
ricordo nessuna figura di bambino presente nei pochi episodi che rammento.
Guido dice che giocavo spesso con l’Anna Bini, nipote del medico condotto, ma
io la ricordo soltanto, e ne parlo, negli anni successivi.
Negli anni successivi, invece, i miei ricordi
cominciano a popolarsi di bambini, amici e parenti, con molti dei quali ho
coltivato, negli anni, una bella amicizia.
Purtroppo a Monzone mancava, all'epoca, una
istituzione che accogliesse i bambini da tre a sei anni, tipo asilo infantile o
scuola materna, per cui non ho avuto questa preziosa occasione di contatto con
i coetanei.
I miei genitori, però, specie mia madre, erano
persone socievoli, che avevano rapporti con molte persone, per cui ho potuto
avere contatti abbastanza frequenti con i bambini delle famiglie amiche. Anche
se, a ben ricordare, molte delle persone che avevano rapporti con i miei erano
adulti che venivano a casa nostra o perchè clienti del nostro negozio o perchè
avevano bisogno di parlare con mio padre per questioni di lavoro o di politica.
E, ovviamente, il più delle volte venivano da soli, spesso di sera, senza i
figli. Per cui, forse, in quel periodo ho conosciuto molti più adulti che
bambini.
Un ricordo piuttosto antico, comunque,
riguarda dei gradevoli pic-nic fatti d'estate lungo le rive del Lucido, verso
Equi, presso a poco sotto Aiola. C'era una bella selva di castagni ombrosa,
sulla riva sinistra del detto fiume, che arrivava molto vicina al letto del
fiume stesso. Quando era molto caldo, mia madre, con alcune amiche, andava a
cercare refrigerio vicino all'acqua e mi portava con sè. Sicuramente una delle
sue amiche era la mamma dell'Anna Bini, una mia coetanea che ricordo essere
stata presente in quelle scampagnate. Ma c'erano altre signore e altri bambini
che, però, non ricordo. Di molto gradevole ho il ricordo dell'ombra dei
castagni, della merenda, dei giochi sotto i castagni e anche nell'acqua.
L'acqua in quel punto era bassa e corrente e molto fresca. Tuttavia ci si
poteva sedere nell'acqua e anche sdraiarsi, facendosi scorrere addosso l'acqua
freschissima. Ed è a questo punto che il ricordo si fa poco gradevole. Infatti
accadeva che tutti si bagnavano e sollecitavano anche me a farlo. Io, però, non
riuscivo a sopportare il senso di gelo con cui l'acqua mi feriva le carni, per
cui mi sottraevo alle sollecitazioni e non mi tuffavo mai completamente.
Probabilmente ho qualcosa nel mio sistema di termoregolazione che non funziona
bene. Infatti sono riuscito a vincere faticosamente questa sensazione quasi
dolorosa soltanto molto più tardi ( a 13 anni circa) ed ancora oggi, quando
devo tuffarmi nell'acqua fredda, devo fare un grande sforzo per sopportare
questo senso di gelo che, ora come allora, mi ferisce le carni.
A proposito di pic-nic vicino al fiume ho un
ricordo vivo e molto gradevole di una cena fatta con tutta la mia famiglia (ad
esclusione, penso, dei nonni) vicino all'"acqua nera", una sorgente
ferruginosa, e precisamente sulla lingua di terra che divide il fiume di Equi
da quello di Vinca. Era un luogo ameno, con prati e terreni coltivati, fresco e
riposante. Fu in quell'occasione che scoprii i pomodori tagliati a fette e
conditi con olio e sale. La loro bontà mi sembrò così grande che non ho mai
dimenticato l'episodio. Mia madre e mio padre erano allegri e contenti a vedere
il mio appetito e il mio entusiasmo per i pomodori. Forse perchè i bambini, in
genere, non mangiano molta verdura. Fatto sta che i pomodori conditi sono
stati, da allora, un piatto golosissimo per me, specie d'estate, quando i
pomodori sono quelli coltivati nel mio orto.
L'Anna Bini, quindi, è stata una delle mie
prime amichette. Ma credo che anche Carlo Alberto Giorgi detto Bertino, nostro
vicino di casa e mio coetaneo sia stato mio amico fin dai primi anni dopo il
trasferimento a casa della Gemma. Sicuramente negli anni successivi (diciamo
dai sei anni in sù) è stata una delle presenze più assidue nella mia vita. Suo
padre era il Dino, il nostro sarto ( che, poi, aprì una sartoria anche ad
Aulla), che amava pavoneggiarsi nella sua elegante divisa da gerarca fascista
durante le cerimonie. Sua madre era la Ida, che ricordo come donna sempre
allegra e cordiale. Io frequentavo regolarmente la sua casa e lui la mia. Tutti
e due eravamo molto fieri dell'apparecchio radio che possedevamo ( fra i primi acquistati
in paese). Noi avevamo un Phonola e loro un Magnadyne. Il Bertino sosteneva che
il suo era migliore ed io mi davo da fare a sostenere che, al contrario, era
migliore il mio, però queste sue affermazioni mi creavano un po' di
inquietudine.
Nel 1936 andai a scuola per la prima volta.
Allora la scuola cominciava il 15 ottobre, quando il caldo dell'estate era
ormai un lontano ricordo e bisognava portare la giacchettina sopra la blusetta
nera. Naturalmente il Bertino era con me, essendo mio coetaneo.
Ovviamente l'andare a scuola mi mise a
contatto con moltissimi altri bambini e bambine. Malgrado questo, però, le mie
conoscenze non diventarono subito moltissime. Mi feci subito alcuni nuovi amici
e amiche, è vero, però la gran massa dei ragazzi frequentanti la scuola mi
rimase estranea. Probabilmente la disciplina era rigida per cui non si poteva
comunicare molto durante le lezioni. Ma c'era anche la mia timidezza che mi
impediva di fare facilmente nuove amicizie. Quando tutti eravamo davanti la
scuola in attesa dell'inizio delle lezioni, per esempio, l'occasione per
parlare e conoscere nuovi amici ci sarebbe stata, ma io me ne stavo appartato,
ammirato ma anche intimorito dai ragazzi più grandi che avevano molte abilità
che io non avevo (molti, ad esempio, sapevano camminare con le mani a terra e i
piedi in aria, come piccoli acrobati, e questa è sempre stata una abilità da me
molto ammirata e mai posseduta), che giocavano a soldi, cosa da me considerata
trasgressiva, che avevano un linguaggio aggressivo, pieno di parolacce, che
usavano disinvoltamente il dialetto, cosa che a me, a sei anni, non riusciva.
Insomma le mie relazioni sociali non fecero grandi progressi in quel primo anno
di scuola. Tuttavia, come ho detto, qualche nuova conoscenza la feci. In primo
luogo diventai molto amico di Francesco Cecchini (il France') che era figlio di
una negoziante di alimentari, l'Italia, donna che io trovavo bella ed elegante,
ma che mi appariva anche piuttosto severa e non molto incline alla cordialità.
Il padre del Francè si chiamava Solino e credo si occupasse soltanto della
amministrazione di alcune proprietà che avevano. Il Francè, insieme al Bertino,
diventò subito e rimase uno dei miei più cari amici. Anche la Pina, che abitava
alla Mancina proprio di fronte al Francè, divenne mia amica, forse perchè era
amica di Francesco. Sua madre era la Franca, una sarta per signora.
Un'altra bambina che divenne molto amica e che ha frequentato con una
certa assiduità anche la mia casa fu la Maria Grazia Pietrini, che era figlia
di un impiegato della locale segheria di marmo, carrarino. La trovavo carina e
molto disinvolta e, forse, mi lusingava l'interesse che mostrava per me, anche
se, a volte, mi metteva un po' in imbarazzo.
A scuola non ebbi problemi, poichè sapevo già
leggere e scrivere.
Negli anni precedenti, infatti, sfogliando
molti libri della nostra biblioteca (ricordo, in particolare, la "Storia
d'Italia" di Paolo Giudici che mio padre aveva comperato a fascicoli e
aveva poi fatto rilegare in cinque grandi volumi. Era ricchissima di
illustrazioni a colori a tutta pagina e amavo molto sfogliarla) ed anche
aiutato da mio fratello Guido che mi aveva perfino costruito un banchino di
legno, avevo imparato a cavarmela con l'alfabeto. Una occasione particolare di
esercizio, poi, fu rappresentata nel 1935 e 1936 dai bollettini di guerra
dell'impresa etiopica. Mio zio Settimo, da me adorato, partecipava a quella
guerra che, pertanto, suscitava il mio più vivo interesse. Credo che su quei
bollettini perfezionai la mia capacità di lettura. E così, come dicevo, a
scuola mi trovai bene. La mia maestra era la Casoletti, che era stata maestra
anche di mio fratello ed era considerata una brava maestra. Ne ho, infatti, un
ricordo buono, anche se non molto nitido. Un episodio, però, lo ricordo con
chiarezza : erano i primi giorni in cui avevamo iniziato ad usare la penna e
l'inchiostro. Usavamo i famosi pennini a punta di lancia, che intingevamo nel
calamaio di cui ogni banco era dotato. Con tali strumenti accadeva talvolta
che, se il pennino era stato intinto troppo, si caricava di un eccesso di
inchiostro che, fatalmente, finiva col cadere, grossa goccia nera, sul bianco
del quaderno, a formare la deprecata patacca. Anche a me quel giorno, mentre
scrivevo, cadde sulla pagina un gran gocciolone di inchiostro lasciandomi
costernato. Tentai di rimediare mettendomi a cancellare la macchia con la gomma
ma, fatalmente, il foglio si consumò troppo e, al posto della macchia, ci venne
un orribile buco. Questo fu troppo ed io scoppiai in un pianto dirotto. E fu la
buona maestra Casoletti che, in qualche modo, mi consolò e riuscì a calmarmi.
Negli anni successivi il numero dei miei amici
crebbe notevolmente. Cio` accadde principalmente, io credo, in virtu` del fatto
che io possedevo alcuni giocattoli che gli altri non avevano, in particolare
una automobile a pedali rossa, che mi fu regalata dal mio padrino Pietrino
Bernardini, ed anche perche` disponevo di spazi per giocare piuttosto
appetibili : la famosa cantina, il giardino e l'orto. Fatto sta che
cominciarono a frequentare la mia casa e i suoi dintorni anche ragazzi piu`
grandi di me, come l'Emanuele Cecchini che era del 1927, il Francesco Simonini,
pure del 1927 o 1928 e suo fratello Fernando che era addirittura del 1925.
L'Emanuele e` stato mio amico fedele per molti
anni (praticamente finche` non abbiamo lasciato Monzone).
Abitava "alla gora" (oppure si
diceva "al molino"), non molto distante da casa mia, presso una gora
che portava l'acqua alla segheria di marmo che si trovava in fondo alla
Mancina, e spesso andavo io a casa sua (la Rosina era sua madre, una buonissima
donna con un occhio strabico e la Silvia era la sua sorella maggiore : la
ricordo con le trecce bionde legate intorno alla testa). Abitavano li' presso
anche delle sue cugine, una delle quali era una mia coetanea: erano tre o
quattro, brunette e abbastanza carine. Vicino a casa sua c'era la bellissima
selva delle Angelini, luogo stupendo per i nostri giochi,ed anche una
collinetta di "tufo" dove andavamo a scavare, ogni Natale, un blocco
da cui ricavare la grotta di Betlemme per il presepe.
Manuele era un ragazzo molto paziente e
tollerante quando era di buon umore. A volte, però, era annoiato (io dicevo
"noioso) e, allora, preferivo evitarlo. Ricordo che, una volta, ero in
casa perchè il tempo era brutto e mi annoiavo. Stavo in bottega con la mamma e
guardavamo fuori dalla porta a vetri. A un tratto vedemmo, verso il passaggio a
livello, passare il Manuele e la mamma si offrì di chiamarlo affinchè venisse a
giocare con me. Ma io dissi : - No, non chiamarlo che oggi è
"noioso", vedi come tira via le gambe ? - Da quel suo incedere
dinoccolato (spesso lo paragonavamo a Pippo di Walt Disney) avevo intuito il
suo stato d'animo. Fernando e Francesco, invece, abitavano in cima a Riolo,
nella casa di Pilade, (fornaio e macellaio, di cui erano nipoti, essendo egli
fratello della madre,
almeno
credo) all'ultimo piano.
Quando ,poi, teatro dei nostri giochi era la
strada, in genere la ripida discesa del Riolo, molti altri ragazzi si
aggiungevano. Fu cosi` che finirono per sfasciare la mia automobilina a pedali
: io stavo alla guida ed essi mi spingevano sulla ripida salita. Giunti in
cima, con una gran spinta mi avviavano per la discesa, dopo di che in tre o
quattro si arrampicavano sulla automobilina lasciandosi fino in fondo,
allorche`, con una brusca sterzata, andavo verso il piazzale antistante la mia
casa. Era necessario, pero`, che uno dei ragazzi piu` grandi si ponesse davanti
alla macchina e la frenasse per impedire che finisse contro la
"murella" della ferrovia.
Piu` tardi cominciai a uscire per il paese e,
quindi, a frequentare anche altri ragazzi, che, pero`, furono solo amici
occasionali. Una certa amicizia nacque, in un certo periodo, per Ercolino, che
veniva a scuola con me e abitava al Ponte. Ancora, per un certo periodo, fu un grande
amico il "Toni", figlio del "Pallucola" che aveva due anni
meno di me ma era un ragazzino molto sveglio. A quell'epoca si univa a volte a
noi il "Maruncin", un ragazzino di cui non ricordo bene il nome
(forse Ettore), della famiglia dei "Maroni". Era, questo
"Maruncin", un ragazzino un po' allo sbando (la famiglia, in
difficoltà economiche, lo guardava poco) e spesso veniva alla porta di casa
nostra e chiedere il pane col "ciccin", cioè la carne. E accadeva
talvolta che, una volta ricevuto quanto chiedeva, buttava il pane e si mangiava
la carne. Ricordo di essere stato, con lui e col Toni, lungo la via di Vinca,
oltre l'"acqua salata", a cercar noci. Le facevamo cadere dalla
pianta, poi con un sasso facevamo saltare via il mallo e, rotto il guscio, mangiavamo
il gheriglio bianco e saporito. Ma il mallo, ancora troppo fresco, ci tingeva
le mani di scuro. E noi a bella posta ci tingevamo tutte le mani, da farle
diventare come quelle dei negretti. Poi, tutti fieri, cantavamo con una arietta
inventata: - La mano nera, zighin, La mano nera, zigon...- . Dell'amicizia con
il "Toni" ricordo due o tre cose divertenti. Una volta decidemmo di
"provare a fumare". Avevamo 30 centesimi ovvero 6 soldi, con i quali
potevamo comperare 2 "Nazionali" che costavano, appunto, 3 soldi
l'una. Dell'acquisto si incarico` il Toni che, poiche` andava spesso a
comperare sigarette per il padre o per i fratelli piu` grandi, non avrebbe
destato sospetti. Io lo attendevo nella selva delle Angelini, dove avremmo
consumato la trasgressione. Dopo poco il Toni torno` con tre invece che con due
sigarette. Alle mie richieste di spiegazione disse che aveva comperato le
"Popolari" che costavano due soldi l'una anziche` le
"Nazionali" perche` "cusci` arsparmian" (cosi`
risparmiamo). E lo disse con quella sua erre caratteristica, alla francese, e
la sua aria di bambino furbo. La cosa mi convinse poco, anche perche` ora
avremmo dovuto fumare una sigaretta e mezzo per ciascuno e le
"Popolari" erano particolarmente forti e cattive. Tentai di spiegargli
che avremmo effettivamente risparmiato se ne avesse comperato soltanto due, ma
capii che non capiva il ragionamento e ci rinunciai. Cosi`, con i fiammiferi
che avevamo, accendemmo le nostre orribili sigarette e cominciammo a fumarle.
Pur cercando di non respirare il fumo, tuttavia l'impresa fu decisamente
improba, anche perche`, finita la prima sigaretta, dovemmo fumare anche la
successiva mezza sigaretta che scrupolosamente ci eravamo divisi. Il risultato
fu che io cominciai ad avvertire una nausea sempre piu` forte e delle
vertigini, per cui salutai il Toni e feci ritorno a casa mia. Qui dissi a mia
madre quel che provavo, lei comincio` a preoccuparsi, e piu` si preoccupo`
allorche`, eravamo presso l'acquaio di cucina, io vomitai rumorosamente. Penso`
che mi avesse fatto male qualche cibo ed ebbe cura di me con molto affetto e
qualche sentimento di colpa, finche` tutto passo`. Io mi guardai bene dal
raccontargli quel che avevo fatto. Credo di averglielo raccontato solo molti
anni dopo.
Un altro ricordo divertente e` questo : Una
volta a mia madre, che gestiva un negozio di articoli casalinghi e da regalo,
fu rifilata una moneta da cinque lire d'argento che, poiche` aveva acquisito
una colorazione scura ed aveva un suono non perfettamente argentino (il suono
delle monete d'argento veniva controllato sul piano di marmo delle bilance a
due piatti, con i pesi di ottone, che usavano allora), venne da mia madre
considerata falsa e, quindi, da buttare. Allora io me la feci dare e la tenni
per giocare. Accadde, allora, che il Toni vide questa moneta e ritenne di
poterla.....rimettere in circolazione.
Con la sabbia la lucido` ben bene finche` ebbe
riacquistato un bel colore argento brillante, dopo di che ando` dall'Italia ,
che aveva un negozio di alimentari e, disinvoltamente, acquisto` qualche
piccola cosa (credo delle caramelle), pago` con le cinque lire rilucidate ed
ottenne regolarmente il resto. Subito venne da me che lo attendevo poco lontano
e mi consegno` la rilevante somma di cinque lire meno i pochi centesimi spesi
per le caramelle. Per avere un'idea della rilevanza di tale somma basti pensare
che, a quel tempo, la paga di un manovale era di dieci lire il giorno o poco
piu`. A quel punto io regalai una parte della somma al Toni, dopo di che ci
appartammo nella parte alta della selva delle Angelini e, in uno spazio
pianeggiante, tracciammo una riga in terra e cominciammo a giocare a soldi.
Era, per me, un'esperienza emozionante. Infatti il giocare a soldi era
considerata un'azione piuttosto trasgressiva ed io, probabilmente, non avevo
mai giocato prima, anche se sapevo come fare, per aver assistito alle
interminabili partite dei ragazzi piu` grandi. Il gioco consisteva nel porsi ad
una certa distanza dalla riga (forse due o tre metri) e nel lanciare la propria
moneta il piu` vicino possibile alla riga stessa. Quello che aveva fatto
arrivare la moneta piu` vicina aveva il diritto di tirare in aria le monete di
tutti i giocatori pronosticando, quando le monete, opportunamente lanciate,
stavano frullando in aria, testa o croce (ma noi non si diceva croce : si
diceva griffa, se ricordo bene). Le monete che cadevano secondo il pronostico
del lanciatore erano da lui vinte. Le altre venivano lanciate dal secondo
giocatore e cosi` via fino ad esaurimento.
Il gioco comincio` con notevole divertimento.
Dopo un po', pero`, mi accorsi con inquietudine che il mio gruzzolo stava
calando mentre quello del Toni stava crescendo proporzionalmente. Giocammo
ancora e poi ancora, ed io mi impegnai a fondo, ma l'abilita` del Toni, evidentemente
piu` allenato di me, ebbe la meglio, ed io mi ritrovai a giocare i miei ultimi
due soldi (giocavamo due soldi, cioe` dieci centesimi, per volta). Li giocai e,
con una certa tristezza, persi anche quelli. Il Toni, che noto` la mia
tristezza e che, dall'alto della sua ricchezza (certo non aveva mai posseduto
una tale somma) era in vena di generosita`, mi dette trenta centesimi e, con
solennita`, certo scimmiottando il padre o il Carlo`, suo fratello maggiore, mi
disse: - To` , ma non ghi spendr !- ( Tieni, ma non li spendere !).
A casa mostrai i miei trenta centesimi e
raccontai tutta l'avventura. Ebbi molti rimbrotti sia per aver spacciato soldi
falsi e poi per essermi fatto pelare a quel modo.
Altro ricordo legato al Toni e` quello della
pasta reale. Mia madre era usa, a quei tempi, fare frequentemente quel dolce a
base di uova che si chiamava e si chiama pasta reale. Probabilmente questo
accadeva quando le nostre galline facevano piu` uova di quante se ne
consumassero. In quelle circostanze, la mia merenda era costituita da una fetta
abbondante di pasta reale. Quel giorno ero uscito con la mia brava fetta di
pasta reale e, sul ponte della Mancina, incontrai il Toni (la sua casa era
proprio all'inizio del ponte). Naturalmente mi fermai a parlare con lui, e
intanto continuavo a mangiare la mia pasta reale. Evidentemente al Toni sara`
venuto voglia di assaggiarla ma, forse, non avra` avuto coraggio di chiedermene
un po'. Io, d'altra parte, non pensai minimamente di offrirgliela. Fatto sta
che, ad un tratto, il Toni disse : - Bona 'a patta riale co' vin ! - (Buona la
pasta reale col vino !). Parlava ancora cosi`, forse erano i primi anni della
nostra amicizia ed era ancora piccoletto. Ma qualche imperfezione di linguaggio
l'ha sempre mantenuta. A quel punto io avrei dovuto capire, ma, ahime`, non
capii e la pasta reale me la mangiai tutta da solo. Anche in questo caso,
quando raccontai la cosa ai miei, piu` che altro per ridere del parlare
infantile del Toni, mia madre mi sgrido` per la mia insensibilita`, ed io capii
e ci rimasi molto male. Ma non era stato egoismo. Proprio non ci avevo pensato.
Negli ultimi anni della nostra permanenza a
Monzone, infine, fui molto amico anche di un ragazzino mio coetaneo, capitato a
Monzone con la sua famiglia, allorche` vi fu trasferito il padre che era
maresciallo dei Carabinieri: Rino Meloni. Malgrado non abbia episodi molto
significativi da ricordare, tuttavia lo ricordo come un amico fedele e sincero,
col quale passavo gradevoli giornate, generalmente a casa sua, che era
l'appartamento del maresciallo, sopra la caserma.
Purtroppo il padre fu trasferito a
Montepescali in provincia di Grosseto (era gia` scoppiata la guerra. Quando
scoppio`, il 10 giugno del 1940, infatti, c'era ancora suo padre a Monzone. Lo
ricordo con sicurezza perche` fu lui che organizzo` un corteo di giovani e di
ragazzi che percorse il paese inneggiando alla guerra e a Mussolini e scandendo
insulti e minacce contro l'Inghilterra e la Francia. In quell'occasione mi
colpi` il fatto che lui gridava : - Che cosa fa l'Inghilterra ? - e noi
dovevamo gridare : - Schifo ! -). Tanta era la nostra amicizia che continuammo
a scriverci per un po'. Poi la guerra si fece piu` dura, noi ci trasferimmo ad
Aulla e ci perdemmo completamente di vista. Non ne ho piu` avuto notizie.
A proposito di questo dieci giugno ho anche
altri ricordi. Quell'anno io stavo frequentando la quarta elementare e, quando
fu trasmesso il famoso discorso di Mussolini che annunciava la nostra entrata
in guerra, io ero a scuola. Ricordo che l'apparecchio radio, che normalmente
stava in un vano del muro che ne consentiva l'utilizzo sia dalla nostra che
dalla classe adiacente (quel foro, poi, consentiva anche alle maestre di
scambiarsi qualche chiacchiera), quel giorno era stato collocato sulla finestra
aperta. Fuori dalla finestra, infatti, c'erano diverse donne che erano venute
per ascoltare. Ricordo ancora bene la frase "..le dichiarazioni di guerra
sono già state consegnate nelle mani degli ambasciatori di Francia e di Inghilterra".
E ricordo anche che una delle donne che era lì fuori, una carrarina moglie di
un dipendente della segheria di marmo, piangeva. Aveva un bambino in braccio e
piangeva, ed io osservavo un po' stupito quelle lacrime che le scendevano
abbondanti lungo le gote. Noi ragazzi, invece, non eravamo tristi, e infatti,
come ho detto sopra, uscimmo per manifestare, lungo le strade, il nostro
entusiasmo per quella che immaginavamo una avventura gloriosa per la nostra
Patria.
Nell'anno scolastico 1940/41 io
cominciai a frequentare la classe quinta nella suola elementare di Monzone. La
mia maestra era ancora la signora Pellini Panaiotti Elisa, con la quale avevo
un ottimo rapporto. Essa ci parlava molto anche dell'attualità e, quindi, della
guerra. Essa era una fascista entusiasta e ci entusiasmava parlandoci
dell'eroismo dei nostri soldati e di vari fatti guerreschi.
Seguivamo attentamente le vicende della guerra
anche studiando sulle carte geografiche appese alle pareti dell'aula i luoghi
ove le vicende belliche si stavano svolgendo. Questo, fra l'altro, aveva reso
estremamente gradevole lo studio della geografia, che aveva perso, per noi, il
suo carattere libresco e che vedevamo, invece, come strumento indispensabile
per conoscere quelle vicende della guerra che eravamo molto motivati a seguire.
Conoscevamo, così, perfettamente la geografia della Libia, dell'Africa
Orientale e Settentrionale, della Grecia, ed anche quella della Francia e dei
diversi mari dove operavano le flotte. E non trascuravamo di esaminare, nella
carta dell'Europa ma anche dell'Asia, l'immensità dell'Unione Sovietica che,
all'epoca, avendo un patto di non aggressione con la Germania, consideravamo quasi
come una potente alleata. Era accaduto, poi, che all'aprirsi della campagna di
Grecia, mio zio Settimo era partito volontario e vi partecipava col grado di
sergente maggiore, rendendomi, così, ancora più interessato alle vicende
belliche. Che, naturalmente, erano molto seguite anche in casa, dove si
ascoltavano regolarmente i bollettini di guerra, i Giornali Radio e i
"Commenti ai fatti del giorno", programma in cui famosi giornalisti
come Giovanni Ansaldo e Mario Appelius commentavano i principali avvenimenti.
Il programma era reso ancora più interessante dal fatto che il nemico cercava
di disturbare queste trasmissioni interferendo in esse. A tratti si udiva,
infatti, una voce lontana che si intrometteva cercando di confutare gli
argomenti del commentatore. Il quale, talvolta, accettava il dialogo in contraddittorio e rispondeva a tono. In
questo clima, quando, dopo i primi
successi iniziali, l'offensiva inglese penetrò in Cirenaica, io provai un po' di sconforto, ma la fede nella
riscossa e nella vittoria era ancora
tanta. Così io, suggestionato dalle belle poesie patriottiche che leggevo sul Corriere dei
Piccoli, volli cimentarmi in questa
prova e scrissi una poesia su queste vicende. Era una cosa ingenua, scritta da un bambino, ma la metrica
era rispettata e la rima anche. Così la
feci vedere alla maestra. Essa ne fu entusiasta. La fece leggere a destra e a manca e, infine, la
mandò alla direttrice che era a
Fivizzano. Essa pure mi scrisse elogiandomi, ma inviò pure la mia poesia al Federale di Massa. Il quale,
a sua volta, mi scrisse elogiandomi.
Ricordo che la sua lettera terminava con queste parole : "Continua così e
diventerai un vero italiano di Mussolini". La cosa mi fece un immenso piacere, anche perchè mi rese
molto popolare fra i miei amici e,
soprattutto, fra le mie amichette. Quell'anno era in classe con noi la figlia della maestra,
Adriana, che, pur avendo già fatta la
quinta ed essendo stata promossa (aveva un anno più di me), la frequentava una seconda volta, forse
perchè era complicato in tempo di guerra
andare a frequentare la scuola media chissà dove. Questa ragazza, molto sveglia ed estroversa, mi
dedicava molte attenzioni. Io
frequentavo la sua casa e lei la mia, e la sua compagnia mi
piaceva, anche se, talvolta, mi
mettevano in imbarazzo i suoi comportamenti da
signorinetta. Essa aveva una sorella signorina, chiamata Toa (forse Antonia ?), piuttosto piacente, che suonava
il piano, cantava e aveva anche
ambizioni di attrice (spesso andavamo in casa sua anche per imparare con il suo aiuto, delle canzoni da
cantare durante le recitine
scolastiche). Probabilmente Adriana tendeva ad imitare i comportamenti della sorella maggiore e, per
questo, pareva spesso più grande della
sua età. Accadde, comunque, che io finii per considerarla una mia fidanzatina.
Questo, naturalmente, non distraeva il mio
interesse per la guerra. Le due cose,
anzi, erano perfettamente compatibili. Per me, a quell'epoca, l'uomo adulto faceva l'amore e
faceva la guerra. Ed io volevo diventare
presto un uomo adulto.
Le lettere che lo zio Settimo ci scriveva,
anche rispondendo alle molte domande che
io gli ponevo, aveva accentuato al massimo il mio interesse per la campagna di Grecia. Al punto
che, piano piano, cominciai a pensare
sempre più seriamente alla possibilità di
parteciparvi. Pensavo che raggiungere Brindisi in treno non sarebbe stato un problema (avevo, nel salvadenari,
una sommetta che ritenevo sufficiente
per pagare il biglietto). Più complicato mi appariva l'attraversamento del mare, ma pensavo che
sarei riuscito a salire clandestinamente
su una nave per fare la breve traversata. Una volta in Grecia non ritenevo molto difficile
trovare lo zio Settimo (di cui avevo
l'indirizzo). Naturalmente non ne parlai in casa, ma avevo bisogno di un compagno con cui mettere a
punto il piano e, così. scelsi di
parlarne con un ragazzo della mia classe di nome Ercolino, che ritenni adatto e che, infatti, mi parve
interessato. A quel punto tutto sembrava
pronto. Per cui ritenni di dover salutare la mia fidanzata. E scrissi una lettera
"eroica" all'Adriana. La quale, però, spaventata, forse, da questi
propositi di fuga, la fece vedere a sua madre. Essa, che era già entusiasta
della mia poesia, lo ritenne un
componimento bellissimo e ne fu ancora più entusiasta. Così la
mattina dopo, a scuola, ecco che vedo
con spavento la maestra trarre fuori
dalla borsa la mia lettera. Mi feci piccolo piccolo perchè mi attendevo dei solenni rimproveri e sapevo che
la maestra infuriata era molto temibile.
Con mia sorpresa, invece, la maestra, sorridente, mi chiamò alla cattedra, mi baciò e mi ricoprì
letteralmente di elogi e di complimenti.
Poi, e fu il momento per me più imbarazzante, lesse alla classe la mia lettera, sottolineandone
ancora il patriottismo, la nobiltà dei
sentimenti e anche il valore "letterario". Io me ne stavo lì ad occhi bassi, tutto rosso per la
timidezza, mentre accanto a me
l'Adriana, tutt'altro che timida, se ne stava tutta beata a condividere la mia gloria. Dopo tutto era la
destinataria e l'ispiratrice della
lettera. Ma non finì lì. La maestra volle leggere la lettera anche ai miei genitori, che non mi
mossero rimproveri, ma non mostrarono
neppure quell'entusiasmo che avevano mostrato per la poesia. Forse erano preoccupati per i miei
propositi di fuga. Propositi che, in
realtà, non avevo abbandonato. Tanto è vero che, qualche giorno dopo, decisi di dare
realizzazione al mio progetto e aprii il
salvadenari. Purtroppo al suo interno non trovai quasi nulla. Evidentemente mia madre, per precauzione, li
aveva tolti. O, forse, li aveva presi
perche` le servivano degli spiccioli, con l'intenzione di rimetterli.... Fatto sta che, con tale scoperta,
il mio progetto dovette essere
definitivamente abbandonato per mancanza di
finanziamento.
Ed ecco la famosa poesia:
L’ITALIA
E IL MEDITERRANEO
L'Italia è destinata
del suo mare regina
ma ci vuol comandare
l'Inghilterra cretina
Con maniere gentili
l’Italia la pregò
di tornare ai suoi
posti
ma essa rifiutò
L’Italia allor sdegnata
Di tanta prepotenza
Gli dichiarò la guerra
E avanzò con violenza
Ma essa si fermò
in Egitto, e poi
per mancanza di mezzi
indietreggiammo noi
Gli abbiamo già lasciata
tutta la Cirenaica
e l'Inghilterra stupida
ride e felice sbraita
Ma riderà per poco
perché l'Italia forte
la scaccerà col motto
"La Vittoria o la
Morte"
Ed a guerra finita
L’Inghilterra cretina
Dovrà lasciar l’Italia
Del suo mare regina
Il Duce ha detto a
tutti
questo motto supremo
che è chiuso in tutti i
cuori
"VINCERE" e
vinceremo.
Monzone febbraio 1941
Fu nel 1939, credo, che si avvertì, a
Monzone, una forte scossa di terremoto. Io ero con altri ragazzi alla Mancina
e, precisamente, nel piazzaletto che si trova a fianco della casa delle
Angelini, proprio nei pressi della porta che dava accesso alla sala del
Dopolavoro. Penso fosse il pomeriggio di una domenica, perchè c'erano anche
molti adulti lì intorno, sia all'interno che all'esterno del Dopolavoro. A un
tratto si avvertì un forte boato ed io sentii chiaramente il rumore delle
tegole del tetto che, scosse, urtavano le une contro le altre con un fortissimo
rumore di cocci rotti. Qualcuno gridò : - Il terremoto ! - e subito ci fu un
fuggi fuggi generale. Anch'io, appena udito quel grido, mi resi conto di cosa
si trattasse e fuggii insieme agli altri. Non andammo lontano, però.
Attraversammo la strada, in quel punto abbastanza larga, e ci fermammo sull'altro
lato, proprio davanti al dopolavoro e all'adiacente caserma dei carabinieri. In
quel tratto, all'epoca, non c'erano case ma campi, divisi dalla strada da un
muretto con sopra una rete. Lì ci sentimmo al sicuro, giacchè anche gli adulti
usciti dal dopolavoro e dalle case vicine, si erano adunati tutti lì.
Ora la scossa era passata e non erano in vista
danni evidenti, però il ricordo del terremoto del 1920 era ancora molto vivo,
per cui la gente era piuttosto spaventata. E tanto più lo eravamo noi ragazzi,
che dei tremendi effetti di quel terremoto del 1920 sapevamo bene per i
racconti che più volte ci avevano fatto i nostri genitori. Stando lì
all'aperto, tutti insieme, tuttavia, il nostro spavento era tenuto sotto
controllo. Ma si avvicinava la sera e, alla fine, bisognò rientrare in casa.
Qui trovai la mamma e la nonna molto spaventate e preoccupate, e questo
accrebbe i miei timori. Il babbo e Guido, invece, non mostravano eccessivo
timore, e, questo, in qualche misura mi tranquillizzava. Però avevamo
ispezionato tutte le stanze della casa e avevamo scoperto, nel muro della sala,
una lunga crepa che prima non c'era e mi parve che quella preoccupasse un po'
anche papà. Quella sera, comunque, sia durante la cena che dopo (doveva essere
ancora inverno perchè eravamo intorno al fuoco) non si parlò d'altro. Guido
aveva preso il suo libro di scienze e leggeva quel che si diceva del terremoto.
Il babbo raccontava ancora una volta del terremoto del 1920, che lo colse a
Monzone, mentre la mamma e Guido appena nato (nacque il 4 agosto e il 20
settembre ci fu il terremoto. La parete dove era appoggiata la culla crollò ma
dalla parte opposta, così lui fu salvo) erano a Camporgiano che, dai giornali,
fu descritto come "raso al suolo". Alla fine la mamma disse che, per
sicurezza, lei ed io avremmo dormito in cucina. Così fece portare un materasso
sul nostro grande tavolo di cucina e lì fu preparato il letto. Io subito mi
coricai e, accucciato sotto le coperte, continuavo ad ascoltare Guido e papà
che erano ancora davanti al fuoco a chiacchierare. Questa soluzione mi
tranquillizzò un po' e, coricatasi anche la mamma, dormii fino al mattino. La
nonna, Guido e papà andarono tranquillamente a dormire nei loro letti. Non
ricordo se dormimmo in cucina solo quella notte o anche qualche notte
successiva. Certo è che l'inquietudine rimase per parecchio tempo. Anche perchè
ci furono ulteriori scosse di assestamento nei giorni successivi, che
mantenevano alta la tensione. Ricordo che una sera mi ero addormentato con la
testa sul grembo della mamma, quando, a un tratto, si avvertì una scossetta. Io
mi svegliai, malgrado che la mamma non si fosse mossa, proprio per risparmiarmi
la paura. Forse fu la scossa stessa a svegliarmi, però non me ne resi conto
bene. Tuttavia dall'atteggiamento un po' teso della nonna e anche dal
comportamento degli altri, che pure lo negavano, capii che era venuto di nuovo
il terremoto e la mia paura si aggravò ancora.
Poi, piano piano, finii col non pensarci più,
ma conservai un deciso timore per il terremoto, ora che lo avevo sentito
personalmente.
Qualche tempo dopo, credo fossimo già nel
1940, mentre eravamo nel cortile della scuola (non ricordo se in attesa di
entrare in classe o per l'ora di ricreazione), un enorme boato che udimmo ci
fece subito pensare a un nuovo terremoto. Subito dopo, però, ci accorgemmo che
la terra non aveva tremato e il boato veniva da una direzione ben definita,
cioè da nord, dalla parte di Aulla. All'epoca a Monzone non c'erano telefoni,
per cui non fu possibile avere subito delle informazioni. Ricordo che ne
parlammo a lungo anche in classe e una delle ipotesi fu che fosse saltato in
aria il polverificio di Pallerone. Purtroppo tale ipotesi risultò veritiera.
Era esploso proprio il polverificio di Pallerone causando anche alcuni morti.
La sera avemmo tutti i dettagli dal babbo che, da Aulla, era corso subito a
Pallerone a verificare l'accaduto.
Nel 1939 scoppiò la guerra fra la
grande Unione Sovietica e la piccola Finlandia. Naturalmente in casa se ne
parlava e se ne parlava anche a scuola. Ci apparve subito come la lotta eroica
di un piccolo popolo che difendeva il suo territorio e la sua indipendenza,
quasi la riproposizione della sfida fra David e Golia, e ci appassionò. Ma
quello che mi fece veramente appassionare a quella guerra furono le immagini
disegnate da Walter Molino sulla Domenica del Corriere. Ne ricordo una che
rappresentava i soldati finlandesi, tutti vestiti di bianco e con gli sci, che
sfrecciavano veloci e silenziosi e, pur inferiori di numero riuscivano a tenere
in scacco i sovietici. E un'altra che mostrava come gli eroici finlandesi
bloccavano i carri armati sovietici che attaccavano attraverso il lago Ladoga
ghiacciato. Con bombe a mano rompevano il ghiaccio e facevano sprofondare i
pesanti carri nell'acqua sottostante. Queste ed altre immagini, mi fecero
nascere una grande simpatia per questo popolo, tanto che, volendo fare qualcosa
per loro, decisi di "fare i nove venerdì". Si trattava di andare a
Monzone alto per nove venerdì di seguito a fare la comunione. Ciò mi avrebbe
consentito di chiedere a Dio una grazia speciale, ed io avrei chiesto,
naturalmente, la vittoria della Finlandia. La cosa comportò del sacrificio,
perchè dovevo alzarmi molto presto per essere in chiesa quasi all'alba. Per
fortuna c'era l'Erminia, una vecchietta che abitava vicino a noi, che, pure,
andava a fare la comunione ogni venerdì, così avevo una compagna di strada.
Ricordo che, fatta la comunione, mi
concentravo intensamente e chiedevo la grazia di "far vincere i
finlandesi". Poi ritornavo a casa, facevo colazione, quindi andavo a
scuola. Riuscii a tenere duro e a fare tutti e nove i venerdì. Mi deluse un po'
il fatto che la Finlandia non vinse la guerra, ma il papà mi diceva che, in
fondo, se l'erano cavata abbastanza onorevolmente. Credo, tuttavia, che la mia
fede cristiana ne risentisse un po'.
Il nostro orto, in inverno, era libero
da coltivazioni e diventava, quindi, un ottimo campo da gioco. Quasi ogni
giorno io ero lì con qualche amico a giocare a qualcosa. Qualche volta, se non
c'erano amici, giocavo anche da solo. A volte andavo fino in fondo e,
scavalcati i fili che lo delimitavano, risalivo fino all'aia di Pilade per poi
tornare a casa lungo la strada del Riolo. Una volta che mi trovavo lì da solo,
ebbi bisogno di andare al gabinetto. Ma, chissà perchè, mi venne voglia di
"fare la cacca" lì nell'orto. Così presi un foglio di giornale che
era lì intorno e ci feci la cacca sopra. Poi me ne venni via lasciando tutto
lì, tanto nell'orto non andava nessuno dei miei familiari in quel periodo. E mi
dimenticai di ciò che avevo lasciato. Qualche giorno dopo ero di nuovo
nell'orto a giocare con alcuni amici. Uno di questo era il Fernando, più grande
di me di cinque anni, ma assiduo frequentatore del mio orto. Egli, a un tratto,
notò la cacca sul giornale e la cosa gli parve bizzarra. Così cominciò a
scherzarci e a prendermi in giro perchè "facevo la cacca nei
giornali". Io, che mi vergognavo un po' di quella bizzarria che avevo
fatto, non gradii i suoi lazzi, così raccolsi, prendendolo per i lembi, il
giornale con la cacca dentro e lo scagliai verso di lui. L'intenzione era di
farlo scappare senza colpirlo. Ma egli non fu abbastanza svelto a scansarsi,
cosicchè fu colpito in pieno al capo e la cacca gli si spiaccicò sui capelli.
La sorpresa sua fu così forte che lo lasciò per un attimo sconcertato e come
paralizzato. Io, invece, spaventato per ciò che avevo fatto, capii subito che ci
sarebbe stata una forte reazione, per cui profittai del suo sconcerto e fuggii
il più velocemente possibile. Il Manuele, sempre fedele, mi seguì nella fuga.
Il Fernando, appena ripresosi, tentò di inseguirmi scagliando, furioso, delle
pietre. Ma ormai il mio vantaggio era incolmabile, cosicchè guadagnai
rapidamente la porta di casa ed entrai con Manuele. Appena la porta fu richiusa
si udì una gran botta. Era un sasso ben diretto che aveva colpito la porta. Ma,
ormai, Manuele ed io eravamo al sicuro. Andammo alla finestra dell'andito, ben
chiusa e munita di inferriata, e vedemmo passare il Fernà, piangente, con la
testa sporca di cacca. Manuele, a quel punto, scoppiò a ridere ed esclamò : -
Ghi ha messo i gradi - (gli ha messo i gradi). Aveva in testa, infatti, una
striscia di cacca fatta a "V", simile ai gradi da caporale o da
sergente. Io, però, non risi, e per parecchi giorni evitai di incontrare il
Fernà. Seppi, poi, che quel giorno era corso alla "gora" e si era
lavato ben bene tutta la testa.
Molto importanti sono state, nella mia
infanzia, le vacanze alla Casetta. La Casetta, poderetto da sempre posseduto
dalla mia famiglia e sul quale mio nonno Carlo aveva costruito, nel 1920, una
nuova casa (le vecchia andò, poi, distrutta col terremoto), era, per me, un
luogo mitico. Il babbo, infatti, mi raccontava sempre, ed io non mi stancavo
mai di ascoltarle, le sue "avventure" di bambino, che si erano
svolte, appunto, alla Casetta. Così conoscevo i luoghi anche prima di averli
visti e, quando li vedevo, mi emozionava il pensare che lì, proprio in quei
luoghi, si erano svolte le azioni di mio padre bambino. Egli aveva avuto una
infanzia difficile. Rimasto orfano appena nato (la madre Isolina morì di parto,
subito dopo la nascita di mio padre, il suo ottavo figlio maschio), col padre
che viveva quasi sempre all'estero (in Francia e in America), fu allevato da
due zie nubili, la Lucrezia e la Annunziata (detta Nonziata, poi abbreviato in
No'), insieme ai suoi fratelli. Era una famiglia unita, malgrado tutto, ma la vita dell'epoca era molto più difficile di
quella odierna. I fratelli maggiori, appena in età adolescenziale, emigravano
col padre in cerca di lavoro, cosicchè a casa restavano i più piccoli con le
due zie. Esse, con l'aiuto dei piccoli, cercavano di coltivare i loro terreni,
ma non riuscivano a farli rendere molto. D'altra parte era una famiglia troppo
grossa per poter vivere bene con i frutti del poderetto, specie dopo la morte
della nonna Isolina che, essendo maestra, finchè visse contribuì a mantenere la
famiglia. Così non rimase che la via dell'emigrazione. I ragazzi, mio padre e i
miei zii, erano dei gran cacciatori di frodo, sempre inseguiti dai carabinieri
che non riuscivano mai a prenderli. Così, con la caccia e con la pesca, si
procuravano un po' di proteine nobili. Tutte queste cose rendevano
affascinante, ai miei occhi, l'infanzia di mio padre, e così la Casetta, teatro
di questa infanzia avventurosa, era, per me, un luogo mitico. Credo che fu nel
1934 che, per la prima volta, mio padre decise di trascorrere i venti giorni di
ferie alla Casetta, dove viveva ancora mio nonno. Per andare da Monzone a
Camporgiano bisognava passare dal passo dei Carpinelli, non esistendo all'epoca
nè la ferrovia nè altre strade. Era una strada provinciale, sterrata e mal
tenuta. Ci spostavamo noleggiando l'auto del Massimo, unico autista che faceva
servizio pubblico a Monzone, e già questa era una avventura. Al ritorno,
invece, noleggiavamo la macchina del Nilo Santarini, che faceva servizio a
Camporgiano. La prima volta che arrivammo alla Casetta, entrammo dal cancello,
raggiungemmo la casa ed entrammo. Il nonno, che, evidentemente, non ci aspettava
così presto, ci guardò stupito e disse: - Come avete fatto a entrare, il cane
non vi ha sbranato ? - E ci spiegò che, oltre al vecchio Fido, buon cane peloso
e pacifico, aveva, ora, anche un cane-lupo da guardia molto cattivo, che
impediva a chiunque di entrare dal cancello. Stranamente al nostro ingresso non
aveva fatto obiezioni, forse sconcertato dalla nostra sicurezza o, forse,
rassicurato dal nostro odore che aveva trovato familiare. La casa mi piacque
subito moltissimo. Intorno c'era un verde lussureggiante, con tanti alberi
carichi di frutta, davanti un bel piazzaletto cementato e, all'interno, una
gradevole frescura.
La prima stanza a destra era un
salottino, di cui ricordo il lampadario, che era un semplice piatto, abbellito,
però, da una cortina di perline di vetro colorato che scendevano con un
grazioso effetto dal piatto, tutto intorno. Qui, la sera, spesso giocavamo a
carte con Jaccò, cioè Jacopo Pellegrinetti, fratello di mio nonno. La stanza
successiva, sempre sulla destra, era una cucina usata come dispensa. Ho ancora
nelle narici l'odore fortissimo di certe mele che il nonno conservava lì in
gran quantità, ammucchiate per terra. C'era, poi, uno scrigno, delle botti,
delle damigiane e molti attrezzi. La cucina era di fronte a questa, di là dal
corridoio. Ricordo la vetrina, che doveva essere l'unico mobile oltre al tavolo
e alle sedie, sulla cui base stava sempre un grande coppo di terracotta
smaltata pieno del latte portato dal contadino. Il coppo era sempre ben
coperto, perchè sulla stessa base stavano sempre alcuni gatti, specie quando si
stava mangiando seduti intorno al tavolo. Altri stavano tutti intorno, sulla
finestra o sulle sedie. Il nonno, infatti, aveva una diecina e forse più di
gatti. Essi dormivano nel sottoscala, da cui potevano entrare e uscire
liberamente attraverso un foro nel muro che dava sul retro della casa, sotto il
terrazzino. Al mattino, però, uscivano tutti insieme dalla porta, non appena
qualcuno gliela apriva, ed era uno spettacolo vedere questa torma di gatti che
dilagavano per la casa. Non ricordo cosa c’era nella stanza di fronte al
salottino.
Di sopra c'erano quattro camere da letto.
Anche il nonno Carlo mi piaceva, ancora bello diritto e giovanile (una volta lo
vidi con stupore che faceva ginnastica con una sedia, sulla quale si issava con
una gamba sola). Non ho mai potuto prendere molta confidenza con lui, però,
dato il suo carattere molto riservato.
Davanti al forno, che era a fianco della casa, c'era un enorme pianta di
sambuco, formata da quattro o cinque grandi tronchi alti alcuni metri. Guido
aveva legato delle corde tutto attorno a questi tronchi, a vari livelli, per
cui ci si poteva arrampicare su queste corde come su una scaletta , e si poteva
sostare in alto, sempre stando su queste corde robuste. Lassù immaginavamo
diverse avventure. Mi piaceva molto. Mi piaceva molto arrampicarmi dovunque.
Così anche nel "boschetto" che è lì vicino, mi arrampicavo, con
l'aiuto di Guido, sugli altissimi lecci e querce. Alla Roncaiana, che è un
casolare vicino, c'era una bella ragazza chiamata Berta, che veniva ad aiutare
la mamma nelle faccende domestiche. Essa mi faceva divertire portandomi a
cavalcioni. E anche questa cosa la ricordo con piacere. A volte veniva anche un
ragazzo un po' più grande di me, di nome Giordano e Guido lo coinvolgeva nei
nostri giochi. Mi aveva detto che quello era Scarabisci, un personaggio delle
favole di Rintintin. Lui stesso, così come Guido gli aveva detto di fare,
affermava di essere Scarabisci. Io non so se ci credevo veramente. Ma,
probabilmente, mi piaceva crederci per sentirmi immerso nel mondo della favola.
Una volta accadde una cosa che ci fece molto ridere. La mamma, che con me era
prodiga di "coccole", usava chiamarmi "Bì" , abbreviazione
di "bimbin", allora molto usata quando ci si rivolgeva a un bambino.
Inoltre mi parlava, per gioco, con linguaggio infantile. Così, per esempio,
chiamava "pepè" il caffè. E, quel giorno, volendomi dare un
cucchiaino di caffè (stranamente mi dava il caffè malgrado fossi ancora molto
piccolo), chiamò dall'interno della casa dicendo : - O bì, venite che la mamma
vi dà il pepè - E Giordano, servizievole, pensando non avessi udito, mi ripetè
il messaggio dicendo - Bì (credette fosse quello il mio nome) vai in casa che
la tua mamma ti deve dare il pepe -. Ma le cose che ricordo con maggior piacere
sono le passeggiate che facevamo fino al fiume Edron e lungo di esso, nella
fitta foresta di ontani. Papà mi prendeva a cavalcioni, ed io, fingendomi a
cavallo, con un bastoncino che fingevo essere una spada, colpivo le foglie
degli ontani, fingendo, così, di aprirmi la strada nella giungla. Guido, poi,
evocava le più belle avventure lette nei libri di Salgari e fingeva che noi le
stessimo vivendo. Ricordo due nomi : Cardozo e Mastro Diego, che ci attribuivamo
spesso. Erano personaggi di qualche romanzo salgariano che non ricordo quale
fosse (forse Il continente misterioso), ed io mi immedesimavo in queste
storie e mi divertivo immensamente. Ricordo anche con molta tenerezza certi
momenti trascorsi col babbo "in cima alla vigna". E', questo, un
luogo vicino alla casa dove spesso il babbo andava a prendere il sole a torso
nudo (diceva che gli faceva bene ai bronchi, irritati dal fumo).
In quei momenti mi piaceva stare con lui,
giocarci saltandogli addosso e ricevere la sue "coccole". Mio padre è
sempre stato molto affettuoso con me e, questo, mi ha sempre fatto molto bene.
Anche le partite a carte con Jaccò le ricordo
come momenti felici. La mamma ha continuato a ricordare per anni, ridendone
molto, un episodio curioso. Quella sera Jaccò aveva come compagno di gioco il
Placido, un ragazzotto figlio del "Main" (tale Mariani che abitava in
una baracca sulla strada provinciale, non lontano dalla Casetta) che dormiva
con Jaccò per fargli compagnia (accadde dopo la morte della Genoveffa, la
moglie di Jaccò). Il Plà doveva giocare ed era esitante sul da farsi. Così
Jaccò, impaziente a rabbioso come sempre, lo esortò dicendogli con voce
stizzita : - Via ! Via ! Via ! - Il Plà, allora, calò una carta e prese
qualcosa (si giocava a scopone). Mal gliene incolse ! A seguito della sua
mossa, infatti, gli avversari fecero scopa e la partita fu compromessa. Ed io
non so descrivere l'ira di Jaccò, che investì il povero Placido con male
parole. Il Plà, poveretto, con la sua voce calma,tentò di giustificarsi
dicendo: - Ma me lo avete detto voi di
prendere ! - Al che Jaccò si infuriò ancora di più, se possibile, e ribattè : -
Io ti ho detto "Via, Via !" per farti decidere a giocare ! - E il
Plà, desolato : - E io ho inteso "Pia" (cioè "Piglia") - .
Allora tutti scoppiammo in una risata e anche Jaccò si calmò.
Mi pare che le vacanze alla Casetta le abbiamo fatte per tre o per
quattro anni (non ricordo se si venne anche nel 1938, dopo che era accaduta la
disgrazia del Beniamino), ma Guido venne soltanto la prima volta. Comunque per
me sono state sempre molto belle, anche perchè era una occasione per passare
molto tempo, intere giornate, con mio padre. Normalmente, infatti, lo vedevo
solo la sera. Una volta, forse l'ultima, poichè ero ormai più grande, mio padre
decise che lui ed io saremmo venuti in motocicletta, mentre la mamma sarebbe
venuta in auto come al solito. Fu una gita che mi dette immenso piacere.
Infatti il babbo aveva portato l'occorrente per cucinare, che usava sempre quando
andava in montagna, e, giunti nei pressi del passo dei Carpinelli, trovammo una
selva pianeggiante e ben pulita e lì ponemmo il nostro piccolo accampamento.
Papà montò il piccolo fornello a spirito e mise a bollire l'acqua. Ricordo che
essa tardava a bollire, forse perchè
c'era un po' di brezza che portava via il calore della piccola fiamma,
tuttavia riuscimmo in qualche modo a far cuocere gli spaghetti che risultarono
ottimi (il ragù lo avevamo portato bello e pronto). Dopo aver pranzato con
molto gusto in quel luogo veramente ameno, ci riposammo un po' all'ombra dei
castagni, poi riprendemmo la strada e giungemmo felicemente alla Casetta. Le
strade di allora, però, erano piene di buche e di carreggiate profonde (allora
circolavano ancora molti più barrocci che auto e, questi, con le loro strette
ruote fasciate di ferro, segnavano profondamente le strade) e viaggiare in moto
non era agevole, anche perchè le motociclette di allora avevano sospensioni
molto rigide, per cui era normale che, dopo un viaggio in moto, la notte io
facessi la pipì a letto. Ciò a causa degli sballottamenti subiti durante il
viaggio. Una volta, addirittura, un sobbalzo più forte del solito mi sbalzò
così in alto che persi la presa e andai a finire seduto per terra. Papà si prese
un grande spavento, ma io non mi feci nessun male perchè a terra c'era un
tappeto di foglie che attutì il colpo. Anzi la cosa mi parve così buffa che
scoppiai in una irrefrenabile risata. E così il babbo, che si era subito
fermato ed era venuto verso di me pieno di preoccupazione, fu subito
tranquillizzato. Una cosa gradevole, dopo le vacanze alla Casetta, era anche il
ritorno a casa, dove trovavo due o tre numeri del Corriere dei Piccoli e
altrettanti della Domenica del Corriere, che leggevo con grande piacere.
Ricordo che una volta, mentre stavamo per lasciare Camporgiano (quella volta
stavamo partendo con una corriera, ma non ricordo che percorso facesse. Forse
arrivava a Piazza al Serchio. O forse a Minucciano ?) e c'era lo zio Azelio che
ci salutava, io ero triste per la fine della vacanza e dicevo che avrei voluto
rimanere ancora. Allora Azelio mi disse : - Rimani a casa mia, poi il papà
viene a riprenderti fra qualche giorno - Ed io, che mi divertivo assai anche
con il cugino Giannetto, dissi di sì. Mamma e papà, anche se un po' perplessi,
finirono per convincersi e stavano per darmi qualche soldo per piccole
necessità. Essi stavano già sulla corriera e papà si stava frugando in tasca
per cercare qualche moneta, quando Azelio disse : - Glieli do io - e mi porse
una lira che io presi e misi in tasca. Al momento della partenza della
corriera, però, un po' per il fatto che la mamma continuava a dirmi di partire
con loro, e un po' anche per il fatto che a casa mi aspettavano i suddetti
giornali di cui già pregustavo la lettura, cambiai improvvisamente idea e
saltai sulla corriera. Senza pensare di restituire la lira allo zio Azelio,
cosa che, in seguito, mi sembrò brutta e mi dispiacque assai. Da quegli anni, cioè il 1937 o il 1938, non
rividi più la Casetta fino al 1943, come dirò.
20 - LA TESTA ROTTA E LE
SPALLE BRUCIATE
Capitava ogni tanto, anzi abbastanza
spesso, che mi facessi male da qualche parte, come ho già avuto modo di
raccontare. Una volta mi ruppi la testa ed ecco come: Stavo giocando a
nascondino nella zona antistante la nostra casa che comprendeva tutta la zona a
fianco e dietro la casa di Giannon, la "barberia" (era una piccola
costruzione a quel tempo non più usata), la strada e la selva delle Angelini.
Il punto dove bisognava toccare per primi per essere "liberi" era la
murella della ferrovia, proprio dove finiva il nostro piazzale. Quella volta io
ero nascosto dietro la casa di Giannon e, a un certo punto, presi la corsa per
andare a toccare la murella prima del bambino che aveva "contato" e
che doveva trovarci. Correvo velocissimo e stavo per farcela.... ma, giunto
all'altra murella che divideva il piazzale dalla strada e che, in quel punto si
faceva bassa fino a finire allo stesso livello della strada, mi inciampai
clamorosamente e partii a tuffo verso la murella della ferrovia distante poco
più di due metri. Naturalmente la raggiunsi come un bolide ma, anzichè con le
mani, la toccai con la testa e in modo così energico che la testa mi rimbombò
tutta. Il dolore fu forte ed io mi sedetti sulla murella tenendomi la testa fra
le mani e piagnucolando un po'. Piano piano, però, il dolore cessò ed io mi rimisi
a giocare e non ci pensai più. Poco dopo la mamma mi chiamò a cena ed io andai.
Mentre ero seduto a tavola e la mamma era in piedi dietro di me per servirmi la
cena, io sentii qualcosa di liquido scorrermi lungo il collo e protestai
dicendo che la mamma mi aveva fatto cadere qualcosa addosso. La mamma disse che
non era possibile, ma io insistei e dissi : - Lo sento bene che qualcosa mi
cola per il collo, guarda qui ! - Allora la mamma guardò e vide che era sangue.
Subito allarmata posò il vassoio e volle sapere cosa avevo fatto.
Immediatamente mi ricordai della testata e lo dissi. Anche il babbo e la nonna
si erano allarmati e, insieme alla mamma esplorarono fra i miei capelli e
presto videro una feritina proprio al culmine del capo. Era cosa da poco, ma intanto
io mi ero preso un bello spavento. Comunque la mamma prese le forbici, tagliò i
capelli intorno alla ferita e la disinfettò. E, dopo qualche rimbrotto, tutto
tornò quieto.
Un'altra volta, era d'estate, io ero andato
con degli amici al fiume, dove era piacevole stare coi piedi nell'acqua fresca.
Qui rimanemmo a lungo, guardando degli uomini che pescavano, ed io non mi
accorsi che il sole stava bruciando la mia pelle. Così, quando tornai a casa,
le spalle e le braccia cominciarono a bruciarmi terribilmente, tanto che
cominciai a piangere disperatamente (dovevo avere sei o sette anni).
La mamma, allora, mi unse la pelle arrossata
con olio d'oliva, poi mi prese in braccio e mi consolò. Sarebbe stato bello
stare lì in braccio a godersi le coccole, ma il bruciore mi tormentava e mi
toglieva tutto il piacere. Ci vollero dei giorni perchè il fastidio passasse e,
alla fine, cambiai completamente la pelle.
21 -
MANUELE E IL FUOCO NELLA SCARPA
Il Manuele è stato certamente uno dei
miei amici più cari. Egli aveva tre anni più di me, ma era molto paziente e
trascorreva volentieri molto tempo con me. Talvolta a casa mia, talvolta a casa
sua. Quando andavo a casa sua, però, non stavamo mai in casa ma sempre fuori,
nei dintorni. La sua casa era subito sotto la "gora", che si
attraversava su un piccolo ponticello senza spallette. Sopra la
"gora" c'era un suo orticello che arrivava, salendo un poco, fino a
una collinetta di "tufo". Qui ogni anno scavavamo (usando la
"penna" di un martello) un blocco di tufo che, reso opportunamente
cavo, fungeva da grotta della natività nel presepio che facevamo in casa mia.
Una volta accadde una cosa buffa mentre cercavamo di estrarre il nostro blocco
di tufo. Col martello avevamo, ormai, scavato tutto intorno e anche dietro al
nostro blocco, che stava ormai per staccarsi. Manuele, stando davanti al
blocco, dava gli ultimi colpi di martello. A un tratto il blocco si staccò e,
essendo tondeggiante, prese a ruzzolare per il pendio. Manuele, che se lo vide
venire addosso, piantò lì il martello e, a passi lunghissimi (stralanci,
dicevamo) prese a correre inseguito dal blocco. Naturalmente appena giunto nel
piano il blocco si fermò e Manuele fu salvo. Ma fu buffissima questa sua fuga a
"stralanci". Egli aveva sempre degli scarponi enormi e pesanti, che
gli impedivano di fare passi molto frequenti e veloci. Così suppliva con la
lunghezza del passo.
Una volta eravamo nella selva, vicino al suo
orto, e, per gioco, avevamo acceso un focherello. Ma a un tratto Manuele guardò
di là dal fiume, dove era la caserma dei carabinieri, e gli parve di vedere
qualcuno che ci osservava. Così, senza dirmi nulla, saltò coi suoi piedoni sul
fuoco e cominciò a pestarlo per spengerlo, temendo una contravvenzione. Io, che
non avevo capito il motivo del suo comportamento frenetico, lo guardavo
esterrefatto e gli chiedevo spiegazioni senza, però, ottenere risposta. E
ancora più esterrefatto lo guardai (forse pensai fosse impazzito) quando,
improvvisamente, lo vidi partire di corsa e, a grandi stralanci, giungere alla
gora e saltarci dentro a piè pari. Solo allora parve calmarsi. Io mi avvicinai
mentre lui si tirava sù e si metteva a sedere sul ponticello lasciando penzolare
i suoi piedi grondanti e, finalmente, ebbi la spiegazione: temendo una
contravvenzione si era dato da fare per spengere il fuoco, ma una brace gli era
entrata in una scarpa. Da cui la corsa e il....pediluvio. La sera, a casa,
raccontavo con piacere le mie avventure del giorno e queste cose del Manuele
facevano ridere tutti di gusto. Dicevamo che Manuele, per la sua figura
allampanata e il suo modo di muoversi dinoccolato somigliava a Pippo, l'amico
di Topolino, e, questo, me lo rendeva sempre più simpatico.
Quel giorno, doveva essere nel 1938 o
nel 1939, era d'inverno ed io ero nell'orto sgombro di coltivazioni insieme al
Manuele. In quel periodo giocavamo spesso con la fionda, fatta da noi stessi
con un rametto a forcella, due elastici e un pezzo di cuoio su cui si
appoggiava l'oggetto (sasso o altro) da lanciare. Cosi`, chiacchierando, ci
venne in mente di costruire una fionda gigante, con la quale progettavamo di
lanciare grosse pietre a grande distanza. Pensavamo, addirittura, di poter
colpire la costa che sovrastava la strada di Equi, al di la` della ferrovia,
della strada di Vinca, del Sottogora e del fiume Lucido. Ci mettemmo a studiare
come fare e passammo subito alla realizzazione del progetto. Cosi` prendemmo in
cantina un grosso ramo che formava, a una estremita`, una grande forcella e,
fatto un buco nel terreno, ve lo piantammo saldamente, con la forcella in alto,
orientata in modo da poter lanciare i nostri proiettili nella direzione voluta.
Fatto questo, ci procurammo una vecchia camera d'aria di una ruota d'auto e ne
ricavammo due lunghe strisce di gomma. Queste le fissammo ai due rami della
forcella e legammo le estremita` opposte a un bel pezzo di cuoio ricavato, mi
pare, dalla tomaia di una vecchia scarpa. Dopo una buona oretta di intenso
lavoro, ci fermammo ad ammirare il risultato del nostro lavoro e ne fummo
soddisfatti. La forcella piantata a terra si sollevava per piu` di un metro, e
circa un metro era lunga ciascuna delle due strisce di gomma. Era, insomma,
quella fionda gigante che avevamo immaginato. Ora non restava che provarla.
Manuele ando` nella ferrovia che costeggiava l'orto e prese un bel sasso di
fiume (all'epoca le massicciate delle ferrovie erano fatte con ghiaione di
fiume) rotondo e grande come un pugno. Quello sarebbe stato il nostro primo
proiettile. Eravamo visibilmente emozionati e gia` ci figuravamo il proiettile
sibilare nell'aria, superare ferrovia, strade, campi, fiume e colpire la costa,
il nostro bersaglio. Sistemammo il sasso dentro il pezzo di cuoio, lo serrammo
con le mani, e, tirando entrambi, cominciammo a tendere le due grosse strisce
di gomma. Tiravamo all'impazzata, puntando i talloni nella terra morbida
dell'orto, tutti protesi all'indietro....Quando non ce la facemmo piu` a
tirare, a un segnale mollammo la presa e guardammo in alto, dove pensavamo di
vedere la pietra che correva veloce verso la costa. Ma non ci fu nessuna pietra
in volo. Essa, dopo aver a malapena superato la forcella, cadde a terra e li`
giacque. Noi rimanemmo immobili a fissarla, curvi per la delusione, e, per chi
ci avesse visti, credo saremmo stati uno spettacolo esilarante. Dopo poco,
pero`, anche noi ci guardammo in faccia e scoppiammo in una gran risata. Il
contrasto fra le nostre speranze e la realta` di quel sasso che aveva fatto
"plof" cosi` miseramente era troppo comico. Capimmo che avevamo
fatto, si`, una fionda gigante, ma per usarla ci sarebbe voluto un gigante. Noi
non ce l'avremmo mai fatta a tendere quelle grosse strisce di gomma. E non ci
pensammo piu`.
23 –
IL TONI E LE CINQUE LIRE FALSE
Il Toni, figlio più piccolo del
Pallucola, aveva due anni meno di me ma pareva ne avesse almeno quattro di
meno, tanto era piccolino. In famiglia, essendo il più piccolo, era molto
coccolato specie dal padre e lui, furbo matricolato, faceva la parte del
bambino piccolino, il che gli consentiva di avere facilmente il perdono per le
sue birichinate nonché per avere frequenti regalini. Quando voleva qualcosa dal
padre faceva la voce da bambinello piagnucoloso ed era difficile che non
rimediasse dieci o venti centesimi per comperare qualche caramella.
Fuori di casa, invece, il Toni cambiava
completamente. Invece che il piccolo, faceva il grande e trattava da pari a
pari anche coi ragazzi maggiori di età. Era furbo come una volpe e sapeva
trarre profitto da tutte le situazioni favorevoli senza mai lasciarsi sfuggire
le occasioni.
Era uno dei miei amici più frequentati, benchè
all’epoca io avessi nove o dieci anni e lui soltanto sette o otto. Eravamo
spesso in giro per la campagna a rubacchiare qualche frutto, specialmente noci.
Talvolta salivamo sul barroccio del suo fratello più grande, ormai uomo fatto,
il Carlò, quando andava a una cava sulla via di Vinca a caricare il quarzo per
uno stabilimento che lo lavorava.
Il cavallo – di nome Pippi – ogni tanto
si fermava di botto e cominciava a pisciare abbondantemente con un forte rumore
di scroscio, creando nella strada sterrata un vero e proprio ruscelletto di
pipì. E il Carlò, curiosamente, si
alzava in piedi e, dall’alto del barroccio, faceva anche lui, insieme al suo
cavallo, la sua brava abbondante pisciata.
Una volta mia madre venne in cucina dopo aver
chiuso la bottega e, costernata, ci mostrò una moneta da cinque lire dal
metallo annerito dicendo che era falsa e che qualcuno gliela aveva rifilata ma
non sapeva chi. In effetti le cinque lire erano d’argento e, in genere, avevano
un bel colore argenteo. Cosa che quella moneta lì proprio non aveva. Inoltre la
mamma l’aveva provata sul marmo della bilancia a piatti e aveva sentito che non
aveva il bel suono argentino che avrebbe dovuto avere. Fummo tutti un po’
costernati insieme alla mamma, ma senza farne una tragedia. E le cinque lire
false le presi io e me le misi in tasca per mostrarle ai miei amici.
Naturalmente le mostrai anche al Toni, che si mostrò subito molto interessato.
E mi disse che, se le davo a lui, le avrebbe lucidate e fatte ritornare come
nuove. Io non ebbi difficoltà a dargliele e lui mi assicutò che me le avrebbe
riportate il giorno dopo belle lucidate.
Il giorno dopo, puntuale, il Toni si presentò
con aria di trionfo mostrandomi le cinque lire perfettamente lucide, quasi
brillanti nel loro bel colore argentato. Io ero contento e stavo per rimettermi
in tasca le mie cinque lire rinnovate, quando il Toni mi fermò e mi disse: <
Se me le dai io le vado a cambiare e ti riporto i soldi>
< Ma sono false > obiettai io.
< Tu lascia fare a me> ribattè il
Toni e, afferrata la moneta, si diresse di corsa verso la Mancina.
Non passarono cinque minuti che eccoti il Toni
di ritorno con tre sigarette “Popolari” e una manciata di spiccioli. Si
trattava di cinque lire meno trenta centesimi, il costo delle sigarette.
Io, un po’ perplesso, intascai gli spiccioli e
dissi. < Ma perché hai comperato le “Popolari” ? Potevi prendere due
“Nazionali” >
<Sì> rispose il Toni con la sua buffa
erre moscia < Ma cuscì arrsparmian > cioè < così risparmiamo> .
In effetti invece delle due sigarette
“Nazionali” che io avrei preferito, ne aveva comperato tre allo stesso prezzo,
ma “Popolari”, cioè più scadenti.
Il fatto è che qualche volta, per imitare i
grandi, provavamo a fumare anche noi ragazzi, anzi bambini.
Così ci accingemmo a fumare le tre sigarette,
una e mezza per ciascuno. Andammo in un posto un po’ appartato della selva
delle Angelini e, accese le sigarette, le fumammo faticosamente e con notevole
disgusto. Quelle “popolari” erano veramente schifose ed io ero abbondantemente
nauseato. Il Toni pareva averle sopportate meglio.
Ed ecco che se ne uscì con una nuova proposta
apparentemente innocente: < Giochian a testa e griffa ? >
Bisogna sapere che fra i ragazzi del paese era
molto diffuso un gioco che si faceva con le monetine (generalmente quelle da
dieci centesimi). Il gioco era molto semplice: si tracciava nella terra una
riga lunga un paio di metri, poi, da una distanza di cinque o sei metri, ogni
giocatore (potevano essere anche in molti) lanciava la propria monetina
cercando di farla arrivare il più vicino possibile alla riga. Chi era andato
più vicino di tutti aveva diritto di lanciare per primo tutte le monete in aria
dopo aver dichiarato se voleva testa o griffa (cioè croce). Se aveva dichiarato
testa, tutte le monete che cadevano mostrando la testa erano sue. La stessa
cosa accadeva, ovviamente, se dichiarava griffa. Le monete rimanenti venivano
lanciate dagli altri giocatori secondo l’ordine di vicinanza alla riga. La
giocata finiva quando tutte le monete erano state vinte. E, allora, bisognava
ricominciare con nuove monete.
Io conoscevo bene quel gioco perché assistevo
pressochè quotidianamente ad accanite partite, giocate, in genere, da ragazzi
più grandi. Però non avevo mai giocato. Un po’ perché in genere io non portavo
mai soldi in tasca; ma certamente anche perché il gioco dei soldi era
considerato una brutta cosa dalla mamma e dalla nonna e, probabilmente, mi
scoraggiavano dallo stare insieme a quei ragazzi considerati un po’ troppo
monelli.
Così alla proposta del Toni rimasi un po’
perplesso. Ma la mia perplessità non durò a lungo. Probabilmente mi attirava
l’idea di fare quell’esperienza. D’altra parte non c’erano ragazzi grandi,
eravamo soltanto io e Toni e, per di più, eravamo in una selva dove non ci
vedeva nessuno. E per di più ancora, avevo in tasca una abbondantissima
quantità di monetine. Così accettai e, trovato un luogo pianeggiante,
tracciammo la nostra brava riga in terra e ci disponemmo alla dovuta distanza
per cominciare il gioco. L’astutissimo Toni, a quel punto, si fermò e disse:
< Ma io a ‘ni ho soldi > (Io non ho soldi)
< E allora ? >
< Alora mi gli presti te, po’ a t’
gli ardò > (Allora me li presti tu, poi te li ridò)
Altra perplessità da parte mia ma, alla fine,
gli consegnai alcune monetine e cominciammo il gioco. Mi resi subito conto che
il Toni era molto più abile di me. La monetina più vicina alla riga era quasi
sempre la sua e, quindi, era quasi sempre lui che lanciava in aria le monete
per primo. E cominciò a vincere. Non ho mai capito bene come facesse ma
sembrava che sapesse lanciare le monete in modo che mostrassero la faccia da
lui dichiarata.
Naturalmente non sempre ci riusciva e qualche
volta vincevo pure io. Ma non molto spesso. Così le monetine cominciarono a
passare lentamente dalla mia tasca alla sua. A un certo punto il Toni contò le
monete che gli avevo prestato e me le restituì. Ormai si era fatto il suo
gruzzoletto.
Per la verità il gioco mi divertiva e non
facevo gran caso alle perdite. Giocammo a lungo, accanitamente, finchè mi
accorsi che mi rimaneva una sola monetina da dieci centesimi. La constatazione
che avevo perso tutti i miei soldi non mi fece certo piacere. Un po’ mi dispiacque
ma non tanto. Mi ero divertito assai e questo mi bastava. Così giocai anche
l’ultima monetina e persi anche quella. Il Toni ora era il legittimo
proprietario di tutto il piccolo malloppo.
Facendo la parte della persona saggia dichiarò
che era ormai tempo di smettere di giocare. Io non obiettai anche perché era
ormai tardi e dovevo rientrare a casa.
A quel punto il Toni dovette provare un po’ di
rimorso per avermi così bellamente depredato, e fece una cosa che già all’epoca
mi parve buffa. Si levò solennemente di tasca alcune monetine – forse trenta
centesimi – e, consegnandomele, disse con sussiego: < To ! Questi gli en to.
Ma non gli spendr ! > (Tieni, questi sono tuoi, ma non li spendere !)
Era, probabilmente, la raccomandazione che gli
faceva il padre quando gli dava qualche spicciolo. E il fatto che egli la
facesse a me era veramente comico. Tuttavia intascai le monetine e, salutato il
Toni, feci ritorno a casa.
Rientrai ancora nauseato da quella orribile
“popolare” e mezzo e la nausea, invece di passarmi, crebbe sempre di più finchè
vomitai. La mamma se ne preoccupò molto temendo che mi fosse capitato un
disturbo di stomaco e che, magari, stessi per ammalarmi. Ed io mi guardai bene
dal confessare la storia delle sigarette.
Raccontai invece – la sera, quando c’era anche il babbo – la storia delle cinque lire. Ebbi anche qualche rimprovero per il fatto di aver spacciato una moneta falsa, ma sostanzialmente tutti si divertirono a sentire la storia del Toni che con fare paterno mi regalava trenta centesimi. La frase con cui me li aveva consegnati era troppo buffa. E ci facemmo tutti
della grandi risate.
TORNA
ALL’INDICE DELLE SEZIONI
2) Le
poesie
3) I
furtarelli
5) Lo
schiaffo al piccolo amico
7) Il
gioco dell’indiano catturato
Arrivati ad Aulla (come ho detto era il
10 aprile) fummo presi per alcuni giorni dai problemi legati alla nuova
sistemazione, e nessuno penso` alla scuola. Ma la pratica del mio trasferimento
era stata avviata dalla Direzione Didattica di Fivizzano per cui, alla scuola
di Aulla, non vedendomi arrivare, mi cercarono. Cosi` il babbo mi accompagno` a
scuola subito il mattino dopo. Arrivai un po` timoroso in questo palazzone un
po` tetro che a me, abituato alla scuoletta di Monzone (tre aule, tre
insegnanti) pareva immenso. Trovata la mia classe (frequentavo la quinta
elementare) mio padre mi presento` al maestro (ottima persona di cui, purtroppo,
non ricordo il nome) il quale mi accolse con molte feste e mi presento` ai
compagni con grande enfasi. E qui devo spiegare il perche` di questa
eccezionale accoglienza, che mi fece piacere ma mi mise anche in grande
imbarazzo. Quando ero ancora alla scuola di Monzone, la mia maestra, la ottima
Pellini Panaiotti Elisa, ci parlava spesso dell'attualita` e, quindi, della
guerra in atto. Noi eravamo molto partecipi (fra l'altro lo studio della storia
e della geografia ne era molto incentivato) ed io, che in quel periodo trovavo
piacevole cimentarmi nello scrivere delle semplici poesiole (ero diventato
sensibile alle rime e alla metrica), scrissi una poesia sulla guerra, che
riporto in calce. Quando questa poesia fu letta dalla maestra, alla quale
l'avevo mostrata, ella ne fu entusiasta, la lesse in classe, mi fece molti
elogi e la invio` anche alla Direttrice Didattica. Questa scrisse alla maestra
e a me, elogiando la mia poesia e, addirittura, la invio` al Federale di Massa
che, pure, mi scrisse una lettera di elogio. A seguito di tutto cio`, al
momento del mio trasferimento, insieme alla normale documentazione di rito, fu
inviata ad Aulla la mia poesia con tutti gli apprezzamenti che aveva provocato.
Questo fece si` che nella classe che mi attendeva si generasse un interesse per
me e una aspettativa particolare. Da cui le eccezionali accoglienze. E cosi` il
maestro lesse alla classe la mia poesia, io diventai molto popolare e tutti i
bambini volevano conoscermi. La mia permanenza in quella classe, pero`, fu di
breve durata, come diro`, per cui non feci a tempo a stringere delle vere
amicizie. Di tutti quei bambini ricordo soltanto un cognome : Ceschi. Si
trattava del figlio di un noto avvocato di Aulla che, poi, e` diventato giudice
e di cui ho avuto notizie da mio fratello che lo ha conosciuto bene a Massa ove
risiede. Egli ha detto a mio fratello che ricorda bene me e la mia poesia di
allora. D'altra parte di quel periodo di scuola ricordo pochissimo. L'unica
cosa nuova che mi impegno` un po' fu lo studio delle misure non decimali e
delle operazioni relative, cose che a Monzone non avevamo ancora affrontato.
Ho detto che rimasi poco in quella classe.
Accadde, infatti, che un mattino, mentre ero a scuola, comincio` a dolermi la
pancia. Sul momento la cosa era sopportabile, ma piu` passava il tempo e piu`
il dolore si faceva forte. Quando, finalmente, fu tempo di uscire, mi avviai
verso casa piegato in due per il dolore. Appena a casa andai al gabinetto
e.....lo usai. Avevo una forte diarrea. Il dolore, pero`, non accennava a
passare, per cui i miei mi misero a letto e chiamarono il dottore. Era un
vecchio medico condotto di nome (lo ricordero ?) che diagnostico` subito :
"ITTERIZIA". Infatti le mie feci erano di colore giallo chiaro, le
orine molto scure, il colorito del viso giallastro e il bianco degli occhi
macchiato di giallo. Mi mise a dieta molto stretta : mangiare poco e cose
strane : la piu` insopportabile era il "pancotto". Io mal sopportavo
quella dieta ed il medico, forse un po' troppo debole, mi concedeva delle
deroghe che, evidentemente, erano inopportune, perche` non miglioravo.
Passarono diversi giorni e la situazione era stazionaria, cosicche` i miei, pur
a malincuore perche` era un buon uomo, non chiamarono piu` il dottor (come si
chiamava ?) e chiamarono, al suo posto, il Dottor Lorenzetti.
Era, costui, un uomo allegro, che mi teneva
su` il morale con il suo scherzare (mi chiamava "il cinesino"
burlandosi del mio colore e, cosi` facendo, sdrammatizzava la situazione) e
che, preso atto delle mie antipatie alimentari, pur essendo inflessibile nel
vietare cio` che avrebbe potuto nuocere, mi trovo` una dieta gradevole. Ricordo
in particolare le enormi piattate di patate lesse e condite con olio crudo,
sulle quali veniva scodellato un uovo "in camicia" cioe` anche quello
lessato. Trovavo tutto cio` molto gustoso, quindi ricominciai a mangiare
normalmente e rapidamente migliorai fino a guarire. Erano, pero`, passate
alcune settimane e la scuola, nel frattempo, era finita. Un giorno il mio buon maestro
venne a casa a consegnarmi la pagella da cui risultavo promosso con ottimi
voti. Questo mi rallegro` assai e comincio` a farmi pensare alla Scuola Media
che avrei dovuto frequentare l'anno dopo, una volta superato l'esame di
ammissione che, avendo ormai perduto la sessione estiva, avrei dovuto sostenere
nella sessione autunnale. Finita la mia malattia, intanto, ricominciai a
uscire, ma, come ho detto, ero senza amici. Stavo molto con Rinaldo, di un anno
o due piu` piccolo di me, che abitava nell'altro appartamento della nostra
casa, ma tentavo anche di avere rapporti con altri. Ricordo che, una volta, mi
ero avvicinato a un gruppo di ragazzi che giocavano a pallone nei pressi di
casa mia. Mescolatomi a loro, tentavo di dare qualche calcio al pallone ma ci riuscivo
molto raramente perche` i ragazzi non lo lasciavano arrivare a me ed erano
evidentemente ostili. A un tratto il pallone sfuggi` al loro controllo e venne
direttamente verso di me. Me ne rallegrai e mi accinsi a dare, finalmente, un
bel calcio pieno e forte. Mi preparai e, al momento opportuno, sferrai un
calcio poderoso ma....mancai clamorosamente il pallone. Tutti i ragazzi
esplosero in una risata fragorosa e irridente, per cui io, umiliato e
scoraggiato, me ne venni via.
Per fortuna lavorava nell'ufficio di mio padre
(credo come apprendista volontario) un giovane di nome Vasco, col quale avevo
fatto amicizia e col quale facevo, quasi quotidianamente, delle belle gite in
bicicletta (lui veniva a lavorare in bicicletta da qualche paese vicino ed io avevo
la mia amatissima bicicletta). In genere l'ora in cui potevamo farlo era
durante la pausa del desinare. Mi pare che l'ufficio riaprisse alle 15, per cui
avevamo circa due ore di tempo a disposizione. Esploravamo tutti i dintorni,
spingendoci verso Terrarossa e Pontremoli, ovvero verso La Spezia, ovvero verso
la Lunigiana orientale (Pallerone, Soliera...), ovvero in stradine secondarie
dei dintorni. Un giorno avevamo preso la via di Pallerone ed io mi sentivo
particolarmente desideroso di pedalare. Cosi`, raggiunto Pallerone, io decisi
di proseguire e Vasco mi assecondo`.
Raggiungemmo ,cosi`, Serricciolo, poi Rometta,
poi la stazione di Soliera.....Vasco comincio` a preoccuparsi perche` non
avremmo fatto a tempo a tornare entro le 15, ma io, ormai, volevo proseguire
ancora e arrivare a Monzone (che, da Aulla, dista una ventina di chilometri).
Cosi` dicevo a Vasco, sfuggendogli avanti, -
Ancora un pezzetto, ancora un pezzetto ! - . Vasco, ormai disperato, cercava in
tutti i modi di farmi tornare indietro ma io non lo ascoltai finche` non
arrivammo a Monzone. Arrivai fino nei pressi della nostra vecchia casa e, nei
pressi della famosa "murella" trovai alcuni ragazzi ovviamente
conosciuti anche se non proprio amici e un paio di donne. Tutti rimasero stupiti
nel vedermi li` e nell'apprendere che ero venuto in bicicletta. Mi sentii un
po' l'eroe di quell'impresa. Non mi fece piacere, pero`, il fatto che tutti mi
trovarono molto ingrassato.
Ci fermammo pochi minuti, dopo di che
riprendemmo la via del ritorno. Per quanto veloci cercassimo di andare, non era
certo possibile arrivare in orario. E, infatti, arrivammo in grave ritardo ( mi
pare dopo le sedici) e trovammo mio padre e mia madre preoccupati assai.
Io raccontai fieramente la mia impresa
ma non fui affatto lodato. Mio padre specialmente era molto irritato, specie
con Vasco, che tentava, aiutato da me, di spiegare che non era stata colpa sua.
Questi rimproveri che il povero Vasco dovette subire per colpa mia mi
addolorarono molto. La cosa, pero`, non ebbe ulteriori conseguenze e anzi, in
seguito, sbollita l'ira e la preoccupazione, anche mio padre, mia madre e Guido
mostrarono stupore e apprezzamento per la mia impresa, che potei raccontare con
dovizia di particolari, come sempre mi e` piaciuto fare.
Con Rinaldo, invece, non ricordo di aver fatto
gite in bicicletta. Forse non la possedeva. Ricordo, invece, di aver fatto
piacevoli escursioni nelle campagne circostanti, sia verso il fiume Magra, sia
verso la fortezza di Aulla. In genere Rinaldo doveva fare l'erba per i suoi
conigli, ma avevamo molto tempo anche per divertirci. Nei pressi della nostra
casa c'era una grossa struttura per la trasformazione e la distribuzione di
energia elettrica alla linea ferroviaria, la Spezia-Parma che, essendo una
linea interna, veniva abbondantemente utilizzata per il trasporto di materiale
bellico (ricordo i lunghi treni merci carichi di carri armati) verso il porto
de La Spezia.
Tale struttura, che aveva le dimensioni di una
piccola centrale elettrica, era sorvegliata da sentinelle che facevano parte di
un piccolo distaccamento alloggiato in una baracca di legno. Il posto di
guardia di una sentinella era situato lungo una stradina secondaria, nei pressi
di un passaggio a livello che io e Rinaldo attraversavamo spesso nelle nostre
esplorazioni. Accadde, cosi`, che facemmo conoscenza e, poi, diventammo
veramente amici, di tutti i soldati del distaccamento. Ne ricordo in
particolare uno, siciliano, che si chiamava Gatto Giuseppe, col quale ho
continuato a scambiare lettere anche dopo che era stato trasferito. Quando lui
era di sentinella, ci fermavamo a lungo con lui a chiacchierare. Ci raccontava
cose della vita militare e cose della sua vita che ascoltavamo volentieri.
Eravamo molto incuriositi dal fatto che le sentinelle avevano, ogni giorno, una
"parola d'ordine" segreta, e avremmo voluto che ce la dicesse.
Saremmo stati, cosi`, partecipi di un segreto. Naturalmente non ce la disse
mai. Ci diceva, invece, quelle "scadute", cioe` quelle dei giorni
precedenti. Mi pare di ricordare che le nostre mamme ci facevano portare a
questi soldati dei piccoli regalini (credo cose da mangiare, forse dolci) ma
non ne sono tanto sicuro. Un giorno eravamo con Giuseppe che era di guardia e,
come al solito, chiacchieravamo con lui. Ammiravamo la compostezza di questo
soldato che, inappuntabilmente vestito con la divisa grigioverde, bustina in
testa, passeggiava avanti e indietro con molta calma e dignita`. Li` vicino,
pero`, c'era quel giorno un agricoltore che trafficava intorno alle sue api. Accadde,
cosi`, che queste api, infastidite dall'agricoltore (il quale era accuratamente
protetto da una maschera di rete e da vestiti adatti), si avventarono su di noi
che eravamo li` presso.
Ovviamente bisogno` difendersi smanettando e
dandosi degli schiaffi la` dove le api si posavano, per cui il povero Gatto
Giuseppe dovette perdere il suo "aplomb" e darsi a smanettare,
perdendo la bustina e con il fucile che gli ciondolava scompostamente da un
braccio. La cosa fu molto comica e ci ridemmo tutti e tre di gusto, anche se
dovemmo subire qualche puntura.
Nel corso dell'estate, poi, i miei decisero di
ritornare a Monzone a trascorrervi una ventina di giorni di vacanza (anche
perche` si era fatta l'ipotesi che la causa della mia itterizia fosse stato il
dispiacere per essere venuti via da Monzone). Credo fosse ai primi di
settembre. Affittammo un appartamento al Ponte, nella casa dell'Ernesta,
proprio di fronte alla casa del Giannetti dove io ero nato, e trascorremmo una
lieta vacanza. Io ritrovai tutti i miei amici con i quali passai giornate liete
di giochi all'aria aperta. Ero ancora un po' grassoccio ma stavo riprendento il
mio peso forma.
Inoltre ebbi la netta sensazione che stavo
diventando grande. Per la prima volta vidi me stesso non piu` come un bambino
ma come un ragazzo piu` grande (non conoscevo il termine
"pre-adolescente") e la cosa mi rese piu` sicuro : si aprivano nuove
prospettive alla mia vita.
Ai primi di ottobre mio padre, che aveva
provveduto a fare le pratiche necessarie, mi accompagno` a Pontremoli per
sostenere l'esame di ammissione alla scuola media. Era una cosa molto seria :
dettato, tema, compito di matematica....Duro`, fra scritti e orali, quasi una
settimana. Feci bene, come al solito, gli scritti di italiano e non male anche quelli
di matematica. Agli orali, pero`, non fui affatto brillante. Mi era di ostacolo
una certa accentuata timidezza ma, per quanto riguarda la matematica, ricordo
di essermi abbondantemente impappinato con dei numeri molto grossi (milioni,
miliardi) con i quali, probabilmente, avevamo lavorato poco alle elementari. Ad
ogni modo fui promosso e fui iscritto alla prima media a La Spezia. Da un anno
era in vigore la Riforma Bottai che aveva istituito la Scuola Media Unica,
dalla quale si poteva, poi, accedere, a tutte le scuole secondarie superiori.
Con l'inizio delle lezioni, verso la meta` di Ottobre, comincio` una nuova
interessante esperienza. Ritrovai il mio amico Bertino di Monzone e conobbi
altri amici. In particolare un bravo ragazzino di cui non ricordo il nome di
battesimo perche` ci chiamavamo per cognome. Il suo era Fontani, era di Aulla,
aveva un fratello maggiore che conosceva mio fratello, ma di lui non ho mai
piu` avuto notizie. All'epoca andavamo molto d'accordo e qualche volta ci
vedevamo anche fuori dalla scuola, a casa mia, per giocare insieme.
Rinaldo, naturalmente, continuavo a vederlo
pressoche` tutti i giorni e facevamo insieme molte cose. Andavamo molto spesso,
per esempio, a prendere l'acqua fresca ad una fontanina che era presso la stazione.
Per farlo entravamo direttamente nel
territorio della ferrovia per un passaggio che era vicino alla nostra casa (lo
usavamo anche ogni giorno per andare alla stazione a prendere il treno). Un
giorno stavamo ritornando a casa per quella stessa via portando un fiasco
d'acqua ciascuno. A un tratto, giocherelloni come eravamo, prendemmo a
camminare all'indietro cercando di farlo il piu` velocemente possibile.
Purtroppo io andai ad inciamparmi in una catasta di traversine e caddi
all'indietro. Il fiasco sbatte` violentemente contro le traversine , si ruppe e
un frammento di vetro mi taglio` ben bene un gomito. Il sangue usciva copioso
per cui, quella volta, dovetti parlare dei miei guai alla mamma che mi
disinfetto` e mi fascio` non senza avermi sgridato ben bene.
In casa nostra si e` sempre guardato
alla Poesia con molto rispetto e amore. Mio fratello Guido, di dieci anni piu`
anziano di me, spesso, la sera, davanti al fuoco, amava leggere le poesie che
studiava a scuola a mio padre, che lo apprezzava molto. E, naturalmente, tutti
ascoltavamo e le poesie e i commenti. Ero ancora abbastanza piccolo, quindi,
quando cominciai ad ascoltare con interesse quello che dicevano i grandi. Avro`
avuto, al massimo, sette o otto anni.
Ricordo, cosi`, di aver sentito e anche
apprezzato poesie come "Davanti a San Guido" o "Faida di
comune" di Carducci. Naturalmente anche a scuola imparavamo a memoria
molte poesie, e anche quelle erano sempre di mio gradimento. Ricordo, per
esempio, "Valentino" di Pascoli, "San Martino" di Carducci,
"I pastori" di D'Annunzio, "La pioggerellina di Marzo" di
Angelo Silvio Novaro, ecc. E anche il "Corriere dei Piccoli" di cui
ero affezionato lettore, pubblicava delle poesie che mi piacevano assai. In
questo clima, era abbastanza naturale che maturasse in me il desiderio di
scrivere delle poesie.
D'altra parte, eravamo, ormai, alla fine del
1940 ed io avevo preso a frequentare la quinta elementare, ora che c'era la
guerra, eravamo tutti molto attenti a quello che accadeva sui vari fronti.
Addirittura la nostra maestra, Elisa Panajotti Pellini, ci stimolava allo
studio della geografia facendoci vedere sulle grandi carte geografiche appese alle
pareti dell'aula, le localita` dove si combatteva o di cui, comunque, si
parlava. E, questo fatto, mi forni` i "contenuti" delle poesie che
avrei potuto scrivere. Cosi` un giorno (erano gli ultimi mesi del 1940 o i
primi del 1941) presi carta e penna e scrissi la seguente poesia in agili
settenari ordinati in quartine a rima alternata:
L’ITALIA E IL MEDITERRANEO
L'Italia e` destinata
del suo mare regina
ma ci vuol comandare
l'Inghilterra cretina
Con maniere gentili
l’Italia la pregò
di tornare ai suoi
posti
ma essa rifiutò
L’Italia allor sdegnata
Di tanta prepotenza
Gli dichiarò la guerra
E avanzò con violenza
Ma essa si fermò
in Egitto, e poi
per mancanza di mezzi
indietreggiammo noi
Gli abbiamo gia` lasciata
tutta la Cirenaica
e l'Inghilterra stupida
ride e felice sbraita
Ma ridera` per poco
perche` l'Italia forte
la scaccera` col motto
"La Vittoria o la
Morte"
Ed a guerra finita
L’Inghilterra cretina
Dovrà lasciar l’Italia
Del suo mare regina
Il Duce ha detto a
tutti
questo motto supremo
che e` chiuso in tutti
i cuori
"VINCERE" e
vinceremo.
La metrica era rispettata, la rima abbastanza.
Insomma mi parve presentabile e la lessi in casa. Ci fu sorpresa, soprattutto
per il rigoroso rispetto della metrica, e la poesia fu apprezzata. Allora mi
feci coraggio e la presentai alla maestra. Fu una cosa clamorosa e inaspettata.
La maestra ne fu entusiasta, la lesse a tutti i ragazzi e alle sue colleghe, mi
elogio` fino a mettermi in imbarazzo e, infine, decise di mandare la poesia
alla direttrice che stava a Fivizzano. La direttrice mi scrisse una lettera
entusiasta e invio` la poesia al Federale, il quale, a sua volta, mi scrisse
complimentandosi. Concludeva la sua lettera: "Continua cosi` e sarai un
vero italiano di Mussolini". Ne fui molto fiero.
Il fatto e` che quando, in aprile del 1941, ci
trasferimmo ad Aulla, insieme ai miei documenti scolastici furono inviate le
copie delle suddette corrispondenze, per cui, quando arrivai nella mia classe
ad Aulla, fui accolto come un piccolo fenomeno, come ho gia` raccontato.
E tutti volevano la mia poesia. Che io,
nell'ufficio di papa`, scrivevo a macchina su delle striscie di carta
assorbente bianca (chissa` perche` !?) e poi distribuivo con l'aiuto di
Rinaldo, l'amico che abitava nell'altro appartamento della casa di Valettini,
dove abitavamo anche noi. Avevo anche fatto un mini-libretto con alcune altre
poesie, oltre la su riportata. Trascrivo qui di seguito il contenuto di quel
libretto, che conservo ancora in soffitto, insieme alle mie pagelle dell'epoca
e alle mie tessere di "Figlio della Lupa" e di "Balilla".
L’AEREOPLANO IL CANNONE
L’uccello rombante decolla Un cannone squassato lì
giace
poi volge la prora ad oriente. su una tomba con delle
granate
Tre punti compaion nel cielo, volto ha al cielo il suo muso
di ac-
con coraggio ei li assal
prontamente ciaio
I
tre punti ingranditi si buttan
par che parli e che dica:”ASCOLTATE”
vomitando la morte sul nostro Una volta già anch’io
combattiedi
ma questi virando li schiva seppi cosa vol dire
battaglia
e dei tre pronto è a abbattere un mostro. Fra urla d’assalto, bagliori
Gli altri due solidali e feroci fra scoppi e fragor di
battaglia.
si gettano e sparano forte. Con i fanti battiedi, indi
vinsi
Colpisce l’eroico caccia li difesi, poi caddi con loro
La falce che getta la morte. E con lor dalla nostra
Vittoria
L’apparecchio colpito s’infiamma, fui anch’io coronato d’alloro.
il pilota colpito si piega Ora giaccio e non posso
sparare
l’aereoplano precipita inerte più non posso pugnar come
allora
nel mare ove l’uomo si annega ma la tomba del fante italiano
L’apparecchio scompare fra i
flutti pur squassato difender
so ancora
Gli altri due se ne vanno con
boria
Ma l’eroe che morì per la Patria
Canta all’aer un canto di gloria.
ROMA IMPERIALE AL MIO GATTO
RICO
L’uragano è scoppiato sul mondo Io possiedo un bel gatto
Francia,Italia,Germania,Inghilterra fedel, chiamato Rico.
Accanite si batton per vincere Sarà buono e indulgente
Ne rintrona già tutta la terra ma non capisce un fico.
L’uragano s’infiamma, si espande Capisce solamente
Dall’Asia,all’Europa,all’America se vede del buon cibo
Ne rimbomba, ne è quasi squassata oppur se sente odore
L’intera nostra superficie sferica di qualche topo vivo.
Il ciclone continua con forza Esso non fa mai niente
Ma sui colli fatali di Roma dormicchia tutto il giorno
Questa sembra che parli e che
dica: e poi mi viene incontro
- Son io sola la grande padrona - quando a casa ritorno.
Però io amo molto
questo caro gattino
benchè sia un po’ poltrone
e forse
anche cretino
Perché mi è fedel molto
e se morisse guai !
Piangerei proprio tanto
Da non finire mai
Per questo amato gatto
a me fedele e caro
rifiuterei perfino
mille lire in denaro.
Perché a volte nel mondo
più che il denaro vale
un cuore
affezionato
e un’anima leale.
Durante il mio soggiorno ad Aulla, sia
in Aulla stessa, sia a La Spezia dove andavo a frequentare la prima media tutti
i giorni col treno, insieme ad alcuni amici, cominciai a commettere dei piccoli
furtarelli.
Cominciammo a La Spezia, alla stazione. Un
giorno in cui dovevamo aspettare un po' il nostro treno, ci avvicinammo
all'edicola e, mentre alcuni miei amici stavano davanti all'edicola stessa e
sfogliavano chiassosamente dei giornali, richiamando l'attenta vigilanza
dell'edicolante, io, che stavo di lato e guardavo qualcosa li` appeso,
apparentemente buono buono, in realta` sfilavo con destrezza un giornale per
ragazzi che era li` esposto e, arrotolatolo, lo facevo sparire sotto la giacca.
Dopo di che ci allontanammo e ci mettemmo a leggere allegramente il
giornaletto.
La cosa parve cosi` facile e divertente che
divento` quasi una abitudine. In effetti lo facemmo diverse altre volte e
rubammo, cosi`, forse una decina di giornaletti. Probabilmente la cosa fini`
quando fini` la scuola.
La cosa, pero`, mi aveva, in qualche modo,
messo su una brutta via.
Infatti raccontai la cosa a Rinaldo, che ne fu
ammirato. Cosi` un giorno che eravamo andati a comperare qualcosa da un
appaltino piuttosto anziano, notammo che questi stava quasi sempre nella sua
cucina che era proprio dietro il negozio e veniva in negozio ogni volta che
udiva il campanello che suonava aprendo la porta. E notammo anche che, quasi
sempre, ci metteva un po' ad arrivare, essendo forse lento per l'eta`. Cosi`
una volta, dopo essere entrati ed esserci avvicinati al banco di vendita,
poiche` l'appaltino tardava ad arrivare, arraffammo alcuni "bocchini"
per fumatori che stavano sul banco e ce li mettemmo in tasca. E anche questa
cosa la trovammo divertente e la facemmo piu` volte. Per fortuna, pero`, questa
volta venne a saperlo mio fratello, che mi sgrido` molto e mi convinse a non
fare piu` certe cose. Ando` cosi` : ne` io ne` Rinaldo fumavamo, per cui non
sapevamo che farcene di questi "bocchini". Allora un giorno li
mostrai a mio fratello, che fumava, e gli dissi di scegliersene uno. Ovviamente
si stupi` nel vedere tutti quei "bocchini" e volle sapere da dove
venivano. Ed io glielo dissi, e gli raccontai anche del furtarelli di
giornaletti. Lui si fece molto serio e mi fece capire la gravita` di queste
bravate. Me ne resi subito conto e il giorno stesso tornai da quell'appaltino
e, approfittando del suo solito ritardo nel venire in negozio, rimisi al loro
posto tutti i "bocchini".
A quell'epoca, era l'anno scolastico
1941/1942, ad Aulla non c'era scuola media. Le piu` vicine erano Pontremoli o
La Spezia. Forse perche` i collegamenti ferroviari erano piu` agevoli i miei mi
avevano iscritto a La Spezia. Partivamo con un treno alle ore 7 circa, che
arrivava a La Spezia, mi pare, verso le 7 e mezzo e ci consentiva di arrivare a
scuola, in Piazza S.Agostino, per le 8. Mi pare, infatti, che la scuola
iniziasse a quell'ora. Per il ritorno avevamo un treno verso le 13, che ci scaricava
ad Aulla alle 13,30 circa. Alcune volte, pero`, uscivamo piu` tardi per cui
mangiavamo a La Spezia, al Dopolavoro Ferroviario, e rientravamo con un treno
successivo, nel primo pomeriggio. Alzarmi presto non mi piaceva affatto, pero`
i ricordi di quel periodo sono, nel complesso, positivi. Il viaggio in treno,
insieme a molti studenti e studentesse anche piu` grandi di noi, era piacevole
e ci faceva sentire "grandi" (infatti cominciammo a fumare le prime
sigarette). Inoltre La Spezia era, per me, una grande citta` ed una citta`
importante (effettivamente il porto di La Spezia aveva, in tempo di guerra, una
notevole importanza). A volte ci fermavamo tutto il pomeriggio per vedere
qualche spettacolo cinematografico o di varieta` (ho visto, qui, il mio primo
spettacolo di varieta` (come avanspettacolo), con una soubrette che mi parve
bellissima e che cantava "La nebbia portata - dal vento , discende dal
ciel - sonnolento....") e tutto questo era, per me, novita` eccitante.
A proposito di quella volta della soubrette
debbo raccontare l'inconveniente che ci successe. Lo spettacolo era al Teatro
Civico e noi, per risparmiare, avevamo preso il biglietto per il loggione. Ma
da lassù vedevamo il palcoscenico molto lontano. Ora si da il caso che la
struttura del teatro, a scalinata, consentisse di passare dal loggione alla
sottostante galleria scavalcando semplicemente la transenna divisoria. Cosa che
noi tentammo, per vedere la nostra soubrette più da vicino. Ma una
"maschera" ci aveva visto, cosicchè venne a pizzicarci (mi pare
fossimo Bertino, Fontani ed io) e a buttarci fuori senza pietà. Per fortuna
avevamo ancora qualche soldo, che ci consentì di acquistare nuovi biglietti per
rientrare e vederci, così, il resto dello spettacolo. Ma....dal loggione.
Altro motivo di interesse e di eccitazione
erano, per me, le librerie, in particolare la grande libreria dei Fratelli
Cavalca, in Via Prione, vicino a Piazza S. Agostino. Tutte le mattine, passando
proprio li` davanti, mi soffermavo davanti alle sue vetrine, a concupire gli
albi di Topolino della mia infanzia, che Mondadori ristampava, e i libri di
Emilio Salgari, editi da Nerbini. Cominciai ad aguzzare l'ingegno per poter
possedere gli uni e gli altri. Eravamo in tempo di guerra, la vita era dura e
non potevo chiedere soldi in casa per queste cose che erano da considerarsi
superflue dovendosi pensare soprattutto all'alimentazione che si faceva sempre
piu` cara. Cosi` cominciai a saltare qualche pasto al Dopolavoro Ferroviario,
risparmiandone il prezzo relativo, che mia madre regolarmente mi consegnava.
Ma, non mangiando, risparmiavo anche il bollino della tessera annonaria (quasi
tutti i generi erano tesserati, a cominciare dal pane) che, ben presto, trovai
da vendere a buon prezzo a miei amici di La Spezia (specie ad uno che si
chiamava Pani). In seguito riuscii a fare ancora meglio : vendevo i bollini
regolarmente, ricavandone un bel po' e mettevo da parte il ricavato. Coi soldi
che mi dava mia madre, invece, andavo a mangiare al Dopolavoro ferroviario e
prendevo soltanto cio' che potevo avere senza tessera. In genere erano delle
gran zuppe di verdura e ancora verdure per secondo. Cosi` cominciai ad
acquistare sia gli albi di Topolino (sono riuscito a conservarli in gran parte
fino ad oggi), sia i libri di Salgari. Mio fratello Guido era molto divertito
dai miei traffici ed anche interessato agli acquisti che facevo. Se non ricordo
male anche lui acquistava qualche albo o qualche libro, ovvero mi dava dei
soldi per aiutarmi. So che queste collezioni che si andavano via via
accrescendo facevano piacere ad entrambi.
Era il nostro segreto.
Per la verita' ci fu un periodo in cui fui
distratto da questo obiettivo dall'arrivo ad Aulla di un circo che aveva una
pista circolare entro cui si potevano guidare delle automobiline elettriche con
le quattro ruote come le auto vere (diverse dalle auto-scontro che si vedono
ora nei luna park). Questa cosa mi appassiono` al punto che i miei soldi
finivano quasi tutti li`. Per fortuna la cosa passo` ed io ripresi i miei
acquisti di albi e di libri.
Altra esperienza interessante fu, per me,
anche vedere il mare, che non avevo mai visto (prima di allora i luoghi che io
conoscevo oltre Monzone erano: Minucciano, ove vivevano i miei zii e le mie
cugine, Camporgiano, ove andavamo in villeggiatura e dove viveva mio zio Azelio
e, fino al 1938, mio nonno Carlo, Gragnola, paese vicino a Monzone ove era la
farmacia, Aulla ove allora vivevo e, un po', Pontremoli ove avevo sostenuto
l'esame di ammissione. Vicino a Monzone c'era anche Equi Terme, che conoscevo
un poco. E basta.). Il mare mi affascino` subito, con i suoi vaporetti e, viste
da lontano, le sue possenti navi da guerra, ma, soprattutto, con il suo
orizzonte sconfinato. E mi affascina ancora, destandomi, come allora, strani
umori e sensazioni. Anzitutto mi da` un grande senso di liberta`, di
possibilita` di fare. Poi stuzzica il mio senso di avventura e mi fa immaginare
possibili vicende avventurose. Anche il mio senso estetico si appaga nella
semplicita` di questo quadro fatto di cielo e mare separati quasi
impercettibilmente dalla linea dell'orizzonte, di questo quadro pressoche`
monocromatico, arricchito solo dai gradevoli improvvisi imprevedibili luccichii
delle onde. Mi da` anche, pero`, un profondo senso di malinconia che non mi sono
mai completamente spiegato. Forse e` la consapevolezza che al di la` di
quell'orizzonte sconfinato ci sono luoghi che non vedro` mai, genti che non
avro` mai l'opportunita` di conoscere, avventure che non riusciro` mai a
vivere.
L'anno scolastico a La Spezia fu positivo
anche dal punto di vista scolastico. Malgrado che i primi giorni di scuola mi
sentissi sopraffatto da tutti quei libri (alle elementari c'erano solo due
libri), rapidamente imparai ad usarli e ad apprezzarli. Ho conservato fino ad
oggi alcuni di quei libri: La grammatica latina di Riccardo Rubrichi, l'Analisi
logica di Campanini e Carboni, l'antologia italiana ("Per nuovi
destini" di Castellini e Peloso), l'antologia latina "Alma
Mater", e anche i libri di storia e geografia. Di professori ricordo
soltanto la professoressa Andolcetti, di lettere, che mi apprezzava assai e il
professore di Lavoro, che doveva essere un falegname, di cui non ricordo il
nome e che ci faceva fare simpatici lavoretti con il legno. Ricordo un piccolo
scafo di legno che io feci e che ho conservato a lungo.
Durante il corso dell'anno scolastico, guidati
dai piu` grandi, cominciammo, a volte, a "salare" (a marinare) la
scuola. Ce ne andavamo, allora, "ai colli" da dove si godeva una
magnifica vista del porto militare ove stazionavano le maggiori unita` della
nostra flotta che noi avevamo imparato a riconoscere. E, in quelle occasioni,
cominciavamo ad apprezzare le bellezze acerbe delle ragazzine che volentieri si
univano a noi. Con la primavera arrivo` anche il caldo. Ho conservato memoria
del disagio che ci causava il caldo quando, verso le ore tredici, salivamo sui
vagoni del treno per Parma che doveva riportarci a casa e che da qualche ora
stazionava sotto il sole. Curiosa la strategia che avevamo adottato per sentire
meno caldo: negli scompartimenti ancora vuoti (arrivavamo alla stazione prima
dell'orario di partenza) salivamo, arrampicandoci, sulle scaffe porta bagagli
ove, essendo vicino al tetto di lamiera, il caldo era addirittura
insopportabile. Dopo essere rimasti qualche minuto in quel forno ne
discendevamo e, ovviamente, trovavamo in basso una temperatura che, a confronto
della precedente, sembrava addirittura fresca. Assurdita` di ragazzini.
Come ho detto piu` indietro il viaggio in treno era abbastanza gradevole.
Capitavano, pero`, anche degli episodi poco piacevoli. Ne ricordo alcuni.
Poiche` la mattina partivamo presto, la mamma
si preoccupava di coprirmi a dovere. Cosi` mi compero` anche un berrettino di
velluto blu che mi piaceva assai e che portavo volentieri. Un giorno, pero`, mi
sporsi dal finestrino senza averlo ben calzato in testa e il vento della corsa
me lo rapi` e lo fece volare chissa` dove. Me ne dispiacque assai e mi costo`
anche molti rimproveri poiche` il berrettino era stato appena acquistato ed era
stato pagato anche abbastanza caro. Comunque il berretto non c'era piu` e
occorreva provvedere. Cosi` la mamma ne acquisto` un altro uguale identico e la
cosa mi rallegro` assai. Malauguratamente, pero`, l'esperienza non mi aveva
reso saggio e l'abitudine di sporgermi dal finestrino per farmi carezzare
dall'aria fresca e vedere gli altri che, a loro volta si sporgevano, non
l'avevo perduta. Cosi`, dopo pochi giorni, si ripete` la tragedia del
berrettino portato via dal vento. E, questa volta, la cosa fu ancora piu`
dolorosa perche` gli altri ragazzi che, come me, si sporgevano, videro la scena
e ne risero molto, ed anche perche` il berrettino rimase a lungo vicino alla
massicciata della ferrovia, nel tratto fra La Spezia e Migliarina, e ogni giorno
lo vedevo e ne soffrivo (avevo anche meditato di fare a piedi quel tratto ma
non ebbi mai il coraggio di farlo e, alla fine, il berretto spari`). E`
evidente che i rimproveri furono ancora piu` duri, pero` la mamma era convinta
che dovessi coprirmi la testa, cosi` torno` per la terza volta a comperare il
berretto. Purtroppo, pero`, quelli di velluto blu non c'erano piu`, per cui me
ne compero` uno di una stoffa marroncina con dei disegni, molto meno elegante
degli altri due e che proprio non mi piaceva. Quello non riuscii mai a
perderlo.
Quella mia mania di sporgermi e di sporgere
anche le braccia mi costo`, un'altra volta, un bel po' di male a un dito.
Accadde, infatti, che tenni il braccio proteso anche quando il treno entro`
nella galleria di Caprigliola e il dito medio della mano sinistra urto`
violentemente (la linea era gia` elettrificata e i treni procedevano abbastanza
veloci) contro un sasso sporgente. Il dolore fu acutissimo e il dito mi rimase
gonfio e tumefatto per alcuni giorni.
Per fortuna non ci furono altre conseguenze.
Il terzo episodio sgradevole legato al mio
viaggiare e` il seguente:
Un mattino, albeggiava appena, vedendo
arrivare il treno per La Spezia sul quale dovevo salire e che arrivava nel
secondo binario, attraversai il primo binario dove mi trovavo, senza utilizzare
il passaggio apposito. Lo feci di corsa e mi inciampai in un binario, cadendo
malamente in avanti. Naturalmente cercai di ripararmi ma, avendo anche la borsa
che mi impacciava, andai a sbattere violentemente lo stomaco proprio nello
spigolo del marciapiedi opposto. Mi rialzai subito ma la gran botta mi aveva
messo una grande agitazione di stomaco. Addirittura mi sembrava di dover
vomitare (avevo da poco colazionato) e mi sentivo tutto scombussolato. A quel
tempo prendeva quel treno anche mio padre, che era stato trasferito a Massa.
Mentre il treno arrivava, mio padre, che non si era accorto della mia caduta,
mi vide cosi` pallido che si spavento` temendo che stessi per svenire e mi chiese
come stessi. Io, che evitavo sempre finche` possibile di raccontare i miei
guai, dissi che stavo bene e che non avevo nulla. Mio padre, pero`, mi stette
vicino fino a Santo Stefano, dove scendeva per cambiare treno. Nel frattempo,
pero`, mi ero ripreso, per cui se ne ando` tranquillizzato, pensando di aver
visto male.
5 - LO
SCHIAFFO AL PICCOLO AMICO
Una volta stavo giocando nel cortile
davanti alla mia casa con alcuni amici. Mi pare che si stesse giocando a calcio
ma non ne sono sicuro.
Fatto sta che io avevo, in quel contesto, una
posizione di leader e davo ordini a destra e a manca. Uno dei miei amici era un
morettino piccolo piccolo di cui, purtroppo, non ricordo il nome. Eravamo amici
veramente ed io non nutrivo per lui assolutamente nessuna antipatia, ma quel
giorno, chissa` come, ebbi con lui una discussione perche` egli non fece
qualcosa che gli avevo detto di fare e, a un certo punto, gli detti un sonoro
schiaffo sul viso. Ricordo ancora il viso stupito e smarrito del ragazzo a quel
colpo inatteso. Subito io fui pentitissimo per quell'atto inconsulto, tanto
piu` che il morettino si era messo a piangere. Così gli chiesi scusa
ripetutamente, veramente e fortemente dispiaciuto del mio gesto, e insistei
finche` lui smise di piangere e mi perdono`. Fui molto felice che fosse tornata
la pace, anche perche` avevo subito percepito la disapprovazione di tutti gli
altri anche se non avevano detto parola. E da quella volta ho sempre cercato di
controllare i miei scatti d'ira, riuscendoci quasi sempre.
Dopo che mio padre si fu arruolato
nella Milmart e fu destinato a La Spezia per la difesa contraerea, attendevo
con ansia i suoi ritorni a casa in permesso, cosa che, data la vicinanza,
accadeva non troppo di rado. Quando veniva stava molto con me, e facevamo anche
delle belle passeggiate nella collina che iniziava quasi subito al di la` della
Via della Rocca, vicina a via del Forte. E, spesso, portavamo la pistola e
facevamo un po` di tirassegno. Una volta, doveva essere di inverno, eravamo
andati per una delle solite passeggiate e papa` era in divisa e con un ampio
pastrano. Stavamo camminando lungo un poggio, io avanti e lui dietro. A un
tratto udii un rumore dietro di me e mi voltai. Quel che vidi mi spavento`: dal
poggio stava ruzzolando giu` una specie di palla grigioverde che sicuramente
era il mio papa` benche` non si vedessero ne` la testa ne` le braccia. Temetti
che si fosse fatto chissa` che male. Invece, appena giunto in fondo al poggio
ripido ma erboso, ecco che si rialzo` sano e salvo e mi tranquillizzo`subito.
Subito dopo io dissi di questa palla che avevo visto e ne ridemmo molto. In
effetti quella di cadere in un modo che lo ha sempre preservato da farsi male,
e` stata una singolare caratteristica del babbo. Non appena si sente cadere,
egli istintivamente si raggomitola tutto salvando la testa e ruzzola, come una
palla, appunto, evitando urti troppo duri.
7 - IL
GIOCO DELL'INDIANO CATTURATO
Spesso nel piazzale del convento dove
stava il mio amico Roni si radunavano anche molti altri ragazzi, alcuni che
conoscevo e altri no.
Facevamo anche delle memorabili partite a
calcio ed io ero considerato un discreto calciatore. Solo che giocavo con le
scarpe normali che portavo addosso e che, essendo tempo di guerra, erano
prodotte con materiale cosiddetto "autarchico" e, quindi, erano poco
buone. Cosi` accadeva spesso che la suola si staccasse dalla tomaia creandomi
non poco impaccio. Una volta mi accadde mentre stavo giocando ed io continuai
malgrado tutto. A un certo punto fronteggiai un avversario che stava avanzando
col pallone e mi accinsi decisamente a colpire il pallone con un fortissimo
destro. Il mio aspetto impetuoso spavento` l'avversario che, temendo di essere
colpito dal pallone, abbandono` l'impresa e si giro`. Purtroppo la mia scarpa con
la suola penzoloni mi fece fare una tremenda "sbucciata" e il
pallone, mancato, rimase li`. Per fortuna l'avversario era girato ed io ebbi
agio di colpirlo in seconda battuta, ma la figuraccia fu notevole.
Ricordo che la mamma si disperava nel vedermi
le scarpe rovinate, cosi` imparai a ripararle da solo. Fissavo alla meglio la
tomaia alla
suola piantandoci delle
"semenze". Era un lavoro brutto e che durava
poco, ma a quel tempo andava bene lo
stesso.
Quello che voglio raccontare, pero`, non
riguarda il calcio, ma un gioco nel quale mi trovai coinvolto in qualita` di
vittima.
Quel giorno, arrivato nel solito piazzale, ci
trovai una banda di ragazzi che non conoscevo, salvo alcuni conosciuti solo di
vista.
Alcuni erano piu` grandi di me e
avevano l'aria poco raccomandabile.
Io mi fermai a vedere cosa facevano e vidi che
fingevano di essere indiani, ma non sapevano bene che svolgimento dare al
gioco. A un tratto uno di essi mi guardo` e lancio` l'idea : - Catturiamo il
viso pallido e leghiamolo al palo della tortura !- Naturalmente il viso pallido ero io. Li` per
li` la cosa non mi dispiacque e la interpretai come un invito a partecipare al
gioco. Pero` mi resi presto conto che essi non mi trattavano da amico. Infatti
mi strattonarono violentemente e finsero di legarmi a un palo della luce che
era li`.
Io dovevo tenere le mani dietro il palo come
fossero legate, e se le muovevo me le rimettevano dietro sgarbatamente. Loro
facevano cerchio intorno al palo e insultavano il viso pallido. Ma io sentivo
che in loro c'era cattiveria e che le offese le dicevano proprio a me. In piu`
ogni tanto mi strattonavano e mi davano qualche scapaccione. Io per un po' mi
sforzai di considerarlo un gioco e cercavo di fare la faccia sorridente.
Finche` uno dei piu` maligni dei ragazzi (uno che conoscevo di vista, piu` o meno della mia eta`) mi indico` e
disse: - Guardate che faccia da ebete! - La cosa mi offese e mi irrito`
profondamente. Ma non osai reagire subito. Pero` capii che me ne dovevo andare.
Avevo gia` provato un paio di volte, quando ancora pensavo di giocare, ma non
ero riuscito a sfuggire al cerchio di ragazzi che mi stava intorno. Cosi` stavo
aspettando una opportunita` migliore, e rimasi immobile. Per un po` la
sarabanda continuo` con una certa vivacita`, ma dopo un po' la cosa comincio`
ad annoiare e i ragazzi cominciarono a distrarsi. Era il momento che aspettavo.
Calcolai bene il momento e, come vidi che il cerchio si era un po` allentato e
l'attenzione era piu` scarsa, con un balzo fui fuori dal cerchio e corsi via
come un razzo (correvo molto veloce). Subito i ragazzi mi furono dietro, ma,
vista la mia velocita`, si scoraggiarono quasi subito. Finalmente soltanto uno
m'era rimasto dietro, proprio il piu` maligno, quello che mi aveva detto
"faccia da ebete". Io, che tenevo d'occhio i miei inseguitori, mi
resi conto prima li lui stesso che era rimasto solo. Allora mi fermai e mi
girai di scatto per affrontarlo e fargli pagare cara la sua offesa. E gli
gridai con voce feroce : - Vieni qua ! -. Credo che il mio aspetto, per l'ira
che mi ardeva dentro, fosse terribile. Lo lessi nel viso del maligno, sconvolto
da un vero e proprio accesso di terrore. Egli infatti si era reso conto
all'improvviso di essere solo davanti a un nemico assetato di vendetta. E non resse.
Si rigiro` precipitosamente
e si dette a una fuga disperata. Io non
lo seguii. Mi considerai pago della paura che gli avevo fatto.
Durante l'inverno 1942/43 fui affetto
da uno strano guaio. Al mattino, quando mi svegliavo, mi trovavo con un piede,
mi pare il destro, che mi rimaneva storto, piegato verso l'interno. E se
cercavo di appoggiarlo a terra mi faceva un male cane, perche` non sopportava di
riprendere la posizione normale. Era, evidentemente, un fatto reumatico. La
cosa, pero`, non preoccupo` nessuno. Forse la mamma credeva che me lo
inventassi. Fatto sta che non fu consultato nessun medico ed io non feci alcuna
cura. Anche perche`, nel corso della mattinata, durante la scuola, il dolore mi
passava ed io potevo di nuovo appoggiare il piede normalmente. Cosi` per buona
parte dell'inverno mi portai questo fastidio, che mi costringeva, al mattino,
andando a scuola, a camminare dentro le cunette al bordo della strada,
appoggiando il piede sulla parte in pendenza della cunetta, il che mi
consentiva di appoggiarlo tenendolo piegato. Ma a tratti le cunette non
c'erano, ed io dovevo arrancare zoppicando dolorosamente. Finche`, giunto a
scuola, tiravo un sospiro di sollievo e mi sedevo al banco. E qui, durante la
mattinata, tutto ritornava a posto.
TORNA
ALL’INDICE DELLE SEZIONI
1) Il Coppetti e l’”Io bescovosone”
1 - IL COPPETTI E L'
"IO BESCOVOSONE"
Nell'estate del 1943, appena giunto a
Camporgiano, avevo stretto una forte amicizia con il Walter Luccarini, che
aveva due anni piu` di me e gia` lavorava come "boccia" in galleria.
Lo aspettavo sempre verso le cinque e mezzo pomeridiane quando tornava dal
lavoro e andavo con lui che aveva sempre dei lavoretti da fare, o alla
"iara" intorno alle fagiolaie o a fare l'erba per i conigli o portare
al pascolo la capra. Egli aveva un fratello che aveva solo un anno meno di me,
ma era ancora poco cresciuto e lo consideravamo un bimbo piccolo. Si chiamava
Bruno ma, per soprannome, lo chiamavano tutti "Coppetti" (Walter,
invece, aveva per soprannome "Valletto"). Malgrado, come ho detto, lo
considerassimo piccolo, spesso veniva con noi. Della capra, infatti, se ne
occupava quasi sempre lui. Aveva un modo tutto suo di esclamare, di fronte a
situazioni gravi, o pericolose, o, comunque, fuori del normale. Egli usava
esclamare : - Io be ! - in caso di eccezionalita` minima. Se il caso era piu`
rilevante, invece, usava:- Io bescovo !-
E, in casi di gravità eccezionale, la sua esclamazione diventava un : -
Io bescovoso! - Una volta avevamo portato la capra sopra le mura, allora
disabitate, ed eravamo entrati nel vecchio carcere, semidiroccato (dove ora
c'e` la casa dei Guasparini) per governare i conigli che stavano li` dentro.
Appena dentro io mi incuriiosii e cominciai a girare quelle che una volta erano
le celle cercando di decifrare le frasi che i carcerati avevano inciso
nell'intonaco delle pareti. Ricordo che ci trovai anche il nome di Satti
Francesco (il "Rumito"), che, evidentemente, aveva fatto un po' di
carcere, chissa` perche`. A un certo punto, per salire in una cella al piano
superiore (eravamo scesi al piano seminterrato saltando su un mucchio di
detriti), poiche` le scale non c'erano piu`, bisognava aggrapparsi con le mani
al pavimento di sopra e issarsi su`, passando per l'ampio foro che il
pavimento, in quel punto crollato, aveva lasciato. Per fortuna i detriti del
pavimento crollato avevano formato un monticello di detriti a forma di cono,
salendo sul quale si arrivava, con le mani, vicino al sovrastante pavimento,
la` dove ancora non era crollato. Cosi` bastava un modesto balzo per afferrarsi
e issarsi su`. Prima Walter, poi io, salimmo senza troppa difficolta`. Ma
quando tocco` al Bruno, che era molto piu` basso di noi, accadde che egli, pur
saltando in alto piu` che poteva, non arrivo` ad afferrarsi e ricadde. Ma
invece di ricadere sulla punta del cono, cadde sul lato, la` dove la montagnola
di detriti era molto ripida e andava a finire, attraverso l'apertura di un vano
che si trovava proprio li` sotto, in un locale buio del piano seminterrato.
Ovviamente i piedi gli scivolarono sul ripido declivio, cadde prima seduto poi
sdraiato e, con le braccia ancora alzate, scivolo` veloce e scomparve
nell'antro buio, andandosi a fermare in fondo alla montagnola di detriti. Non
si fece alcun male e risali` subito senza problemi, ma quando si senti`
scivolare verso quel buio inesplorato, temendo chissa` cosa, si senti` perduto
e la sua esclamazione fu: - "Io bescovosone"-, Evidentemente quella situazione era stata
percepita da lui come una situazione di gravita` estrema. E fu l'unica volta
che l'ho udito usare quella super esclamazione.
2
- IL BOMBARDAMENTO DEL PONTE
Dopo il bombardamento alla ferrovia
dell'Ascensione (che io non vidi perche` ero a Minucciano dal Settimo) dovemmo
cominciare ad abituarci anche ai bombardamenti. Ogni tanto arrivava una
squadriglia di caccia bombardieri americani che si gettavano in picchiata
mitragliando e, alla fine della picchiata, sganciavano due bombe da 250 chili
l'una.
Fino ad ora il paese di Camporgiano non era
stato ancora bombardato giacche` l'obiettivo pareva essere la ferrovia che
passa sotto il paese. Tuttavia stavamo tutti bene in guardia, aspettandoci il
peggio.
Una volta, era l’11 luglio, stavo passeggiando
per il paese con i miei amici. Mi pare ci fosse il Renato Grassi, il Raffello
Crudeli, il Luciano Di Gregorio e il Leo Cardosi. Forse anche il Vezio
Bartolomasi. Eravamo proprio davanti alla Pretura quando udimmo e vedemmo, nel
cielo sopra la scalinata, una squadriglia di aerei sicuramente nemici
(raramente si vedeva qualche aereo italiano o tedesco) che volava a media
altezza. A un tratto qualcuno di noi noto` che uno degli aerei sembrava fermo.
Ci mettemmo, allora, tutti ad osservare questa curiosa cosa. Dopo pochi secondi
vedemmo l'aereo che diventava piu` grande e sentimmo il rumore come di sirena
che facevano gli aerei in picchiata. L'aereo ci sembrava fermo perche` stava
scendendo in picchiata proprio verso di noi. In un attimo ci mettemmo a correre
e imboccammo la via Colle Aprico per allontanarci dall'abitato. Correndo
affannosamente risalimmo la strada e, giunti nei pressi della casa Tomei,
seguendo il Leo che era avanti, io e qualche altro uscimmo dalla strada verso
la campagna e ci ritrovammo dietro la casa Tomei. Proprio in quell'attimo
cominciarono a risuonare i colpi della mitraglia ed io mi resi conto di essere
andati nel posto sbagliato. L'aereo, infatti, stava proprio venendo verso di
noi ed era quasi al termine della picchiata. Alzai lo sguardo e lo vidi
vicinissimo, e vidi le fiammelle degli spari e gridai: "A terra, a terra
!" buttandomi giu` dietro un poggio. Anche il Leo guardo` l'aereo e lessi
il terrore nei suoi occhi. Poi si butto` a terra vicino a me. Sentii subito
dopo, proprio sopra la testa, lo sferragliamento che denunciava lo sgancio
delle bombe. Allora sollevai il ventre da terra, come ci avevano insegnato, aprii
la bocca e mi tappai le orecchie. Mi aspettavo il finimondo, convinto che le
bombe sarebbero cadute li` vicino. Invece il boato, per quanto forte, giunse da
piu` lontano. Le bombe erano cadute vicinissime al ponte della ferrovia detto
"del Nutini", che si trova piu` in basso e che era il vero obiettivo.
Seguirono altre picchiate e altre esplosioni ma piu` lontane, sempre vicine
alla ferrovia. Poi gli aerei se ne andarono e noi ci ritrovammo tutti insieme
(Il Crudeli e altri avevano proseguito per la strada e si erano rifugiati nel
fosso che e` un po' oltre) a commentare l'accaduto. Poi, come sempre, andammo a
vedere dove erano esplose le bombe che, ancora una volta, avevano mancato il
bersaglio.
Verso l'inizio d'estate del 1944, se
ben ricordo, in localita` "Le Piane", dove ora e` il vivaio forestale
e un tempo, invece, era una bellissima selva di castagni (dove spesso in estate
cantavano il "Maggio") i tedeschi installarono un grande autoparco,
dove molti veicoli di mille specie venivano ricoverati e riparati quando
occorreva. I tedeschi non avevano quasi nessun contatto con la popolazione,
salvo che con quelli che abitavano nei pressi, forse, e non davano nessuna
noia. Qualche volta si andava lungo la strada a passeggiare ma dalla strada non
si vedeva quasi nulla, perche` lungo la strada e anche dentro l'autoparco
c'erano siepi di rami di castagno che impedivano la vista. Molte delle vetture
dovevano essere state requisite qua e la`, per cui in molti casi non era
possibile reperire pezzi di ricambio. Cosi` accadeva che molti veicoli (camion,
auto e moto) ancora in buono stato ma non riparabili per mancanza di ricambi,
venivano gettati nello strapiombo che c'e` proprio al termine della piana,
presso la curva detta "della Camillotta". Lo strapiombo, che scende
fin quasi al fiume Serchio, era cosi` pieno pieno di questi veicoli, vero
cimitero delle macchine. Alla fine della guerra furono in molti che, pescando
fra quei rottami, riuscirono a rimettere insieme un'auto, forse anche un
camioncino, e diverse motociclette.
Inoltre le poche officine meccaniche
dell'epoca recuperarono molti pezzi che consentirono loro di lavorare,
riparando alla meglio i pochi e sgangherati veicoli che ricominciavano a
circolare. E quel che rimase fu recuperato come ferro vecchio. Fatto sta che
nel giro di pochi mesi non ci rimase piu` nulla.
In realtà mi fu chiaro fin dall’estate del 1943 che la fanciullezza era finita e che cominciava una nuova fase della mia vita. Fu l’interesse che cominciai a provare per le ragazze e l’interesse che le ragazze dimostravano di provare per me. Avevo soltanto tredici anni ma ero ormai completamente sviluppato sessualmente, avevo una voce da uomo e anche una statura, ormai, da adulto. Ed ero un bel ragazzo. Inoltre venivo da fuori, quindi ero una novità. Così cominciai a notare gli sguardi interessati delle ragazze e anch’io cominciai ad osservarle con molto interesse. Cominciai a conoscerne qualcuna e ad intrattenermi con piacere con loro, chiacchierando e scherzando. Ero molto amico di due fratelli di nome Walter e Bruno che abitavano in una zona tranquilla vicino alla casa dove abitavo e quasi ogni giorno andavo a casa loro a chiacchierare e a giocare. Vicino alla loro casa c’era la casa della loro cugina Leda che, all’epoca, aveva diciotto anni e quasi ogni giorno veniva a trovarla un’amica di nome Ivana, che era veramente una bella ragazza. Essa aveva sedici anni ma aveva l’aspetto di una donna fatta ed io mi sentivo troppo piccolo in confronto a lei. Tuttavia anche con lei parlavamo e scherzavamo piacevolmente. Un giorno, però, accadde un fatto. Mentre eravamo, come al solito, davanti alla casa a chiacchierare, essa si avvicinò all’amica Leda e le disse sottovoce riferendosi a me: - E’ un bel ragazzo - . Bruno la sentì e, ripetendo le sue parole cominciò a prenderla in giro. Essa disse che non era vero, ma il rossore che le invase il volto la tradiva. Io rimasi piuttosto stupito, ma, naturalmente, mi fece piacere. Tuttavia non osai mai, con lei, spingermi oltre l’amicizia, considerandola, appunto, troppo grande per me. Cosa che non accadde, invece, con un’altra ragazzina che pure aveva due anni più di me essendo quindicenne, ma era più bassa di me di statura e mostrava per me un interesse particolare. Così nacque fra noi una relazione adolescenziale piuttosto acerba ma che ci attraeva, fatta di incontri concordati in luoghi appartati, di baci e di tenerezze. Naturalmente ci vedevamo anche in luoghi pubblici e il nostro rapporto divenne noto a tutti, creando un certo stupore data la mia giovane età e creando, soprattutto, irritazione e preoccupazione per mia madre che giudicava questa cosa assolutamente inopportuna. La cosa, però, continuò fino a quando le vicende della guerra ci divisero. Essa, infatti, a causa dei bombardamenti sfollò dal paese e non ci vedemmo più. Si chiamava Rosetta e, dopo la fine della guerra, ci ritrovammo e vivemmo una relazione molto più matura. Che, però, si concluse definitivamente nel 1948, quando io avevo diciotto anni e lei venti.
Quel giorno, mi pare fosse di
pomeriggio, ero in casa con mia madre e mia nonna. Eravamo nella ombrosa e
accogliente cucina in casa della Editta. Improvvisamente irruppero l'Editta e
la Rita con la sconvolgente notizia che "era finita la guerra". Esse
pensarono immediatamente alla fine dei pericoli per gli uomini che erano al
fronte e alla fine dei disagi che la guerra causava a tutti e, come ad un segnale,
ciascuna di loro prese una sedia, la inclino` a mo` di inginocchiatoio e, tutte
insieme, cominciarono a recitare preghiere di ringraziamento. La mia reazione,
invece, fu affatto diversa. Sapevo, infatti, che la guerra non andava bene per
noi, per cui “guerra finita" non poteva che significare "guerra
persa". E questo fu il mio primo pensiero. Di conseguenza trovai assurdo
che quelle quattro donne mostrassero
gioia per questa che io consideravo una sventura e, in modo brusco e villano,
presi a calci le loro sedie e, bestemmiando, le insultai per quel loro
comportamento, lasciandole esterrefatte. Poi me ne andai. Scesi in piazza e
subito mi accostai ai "capannelli" di gente che commentava
l'avvenimento. Avevano i giornali e cosi`, piano piano, cominciammo a renderci
conto che la guerra non era affatto finita e che, invece, nubi nerissime si
addensavano sul nostro futuro.
Naturalmente fummo subito in apprensione per
la sorte di Guido e del babbo. Di Guido avemmo notizie dopo qualche giorno: una
cartolina della Croce Rossa ci comunicava che Guido era stato portato in
Polonia prigioniero dei tedeschi. Il babbo, invece, ci fece avere presto sue
notizie.
Da Minucciano, dove era giunto a piedi,
ci fece sapere che la mattina dopo sarebbe arrivato col treno delle dieci. Il
mattino dopo ero alla stazione ad aspettarlo.
Appena fu sceso dal treno ci
abbracciammo in silenzio e in silenzio arrivammo a casa. Dopo che ebbe salutato
la mamma e la nonna, venne in camera mia, ci sedemmo sul letto ed io, con un
groppo alla gola gli chiesi : - Papa`, ma allora abbiam perso la guerra ? - Mio
padre mi guardo` con gli occhi lucidi e mi rispose con voce alterata: - Si`,
purtroppo -. Dopo di che scoppiammo entrambi in singhiozzi e ci abbracciammo,
mentre mia madre cercava di calmarci. Ho sempre ricordato – e ancora ricordo –
con emozione quel sentimento intenso di dolore per la sventura della Patria.
Amavo appassionatamente la mia Patria ed ero abituato fin dall’infanzia, a
considerarla invincibile: con i suoi eroi aveva vinto le guerre del
risorgimento, aveva vinto la guerra di Libia, aveva vinto la prima guerra
mondiale, aveva vinto la guerra d’Africa, aveva vinto la guerra di Spagna.. E
ora questa grande sventura della sconfitta che mi gettava nella disperazione.
Ma soprattutto ricordo quell’intima condivisione del dolore con mio padre. Sono
convinto che in quell’attimo nacque fra noi un ulteriore particolare legame che
rese ancora più profondi i già solidi legami esistenti.
TORNA
ALL’INDICE DELLE SEZIONI
1)
Lo sfollamento a Minucciano
2)
Il caffellatte e il pane americano
8)
La pentola bruciata e la polenta senza sale
13)
Le vittime dei giochi pericolosi
1 – LO SFOLLAMENTO
A MINUCCIANO
Cercavamo anche di mantenere, malgrado
tutto, un certo buon umore e a volte, la sera, Anna, Mirella ed io andavamo
nella stanza adiacente la cucina, ci mascheravamo in modo buffo, poi uscivamo
in cucina per far ridere un po’ anche le nostre mamme e la nonna. C’era un gran
bisogno di sdrammatizzare un po’, per quanto possibile, la nostra situazione.
Cominciavamo ad essere un po’ stufi della nostra alimentazione, tutt’ altro che
variata e abbondante, ma, invece di lamentarci e abbatterci, facemmo una
canzone che cantavamo, in modo un po’ irriverente, sull’aria dell’inno della
Divisione “San Marco”. Le parole erano le seguenti:
1° strofa Noi bevevamo il vin di scelta
E mangiavamo il pan di grano
E con le mani sempre in mano
Trascorrevamo i nostri dì
Ma finimmo il vin di scelta
E finimmo la farina
La polenta ogni mattina
Anche noi dovemmo far
Dovemmo far
Ritornello Polenta polenta
Non vorrei mai più mangiare
Ma se ‘un voglio digiunare
Quella lì oppur digiunar
2° strofa Della polenta siamo stufi
ma se ritornano i bei tempi
voglio sciuparmi tutti i denti
la roba buona per mangiar
Mangeremo tutti i dolci
Paste e cioccolatini
Caramelle e croccantini
(Fino a fare indigestion
indigestion) (?) (memoria incerta)
Ritornello Polenta polenta
……………………………………
L'alimentazione, in
effetti, era il problema piu` grosso, poiche` non c'era pressoche` nulla da
acquistare e non sapevamo quanto sarebbe durata la guerra. Le nostre scorte
alimentari consistevano in quanto segue : Dal contadino che allora avevamo alla
Casetta (il Carlin) avevamo avuto la nostra parte di grano e di granturco (non
ricordo quanto fosse ma, certo, non superava o superava di poco il mezzo
quintale) e la Delfa ne aveva avuto altrettanta. Inoltre quell'anno era stata
una eccezionale annata di castagne, per cui avevamo una buona scorta di farina
di "neccio" (certamente oltre il quintale). Inoltre, quando ancora
era vivo lo zio Settimo, la mamma aveva acquistato un maialino che lo zio
Settimo avrebbe allevato. Alla fine avremmo diviso il maiale ingrassato. Questo
avrebbe dovuto accadere verso il Natale del 1945. Ma il rischio che o i
tedeschi o i partigiani ce lo sequestrassero, ci indusse a macellarlo molto
prima (credo nel marzo o addirittura a fine febbraio). Il povero maialino
pesava appena cinquanta chili, tuttavia fu "cucinato" e ne ricavammo
lardo prezioso, strutto, prosciutti e insaccati vari che costituirono il
condimento (insieme a un po' di olio che, con il sale, ottenevamo dai massesi
in cambio di farina di castagne) e il "companatico" fino alla fine
della guerra. L'incertezza sulla durata del conflitto ci indusse a un drastico
razionamento delle nostre scorte per cui la nostra razione alimentare era la
seguente : Al mattino un piatto di "manafregoli" (polenta tenera di
farina di castagne) con pochi cucchiai di latte (trovavamo da acquistarne un
quarto di litro il giorno, da dividere in sei parti), a mezzogiorno polenta di
"neccio" con i prodotti ricavati dal maiale. Solo la domenica la
polenta era di granturco. A merenda, come ho gia` detto, patate e sale (un
giorno scoprii la Delfa che condiva le patate delle sue figlie con un po'
d'olio e ci rimasi molto male), a cena un piatto di minestrone con patate e
fagioli e basta. La farina di grano, infatti, non era sufficiente per fare
anche il pane, per cui veniva utilizzata solo per fare la pasta.
2 - Il caffellatte e il pane americano
La guerra era stata lunga e difficile. In qualche modo avevamo sempre avuto notizie del babbo che riusciva a farci pervenire le sue lettere spedendole a La Spezia all’avvocato Nutini che, poi, riusciva a farcele avere per mezzo di un operaio che frequentemente veniva in Garfagnana a piedi. E, con lo stesso mezo noi facevamo avere a lui lòe nostre lettere. Ma di Guido, che si era ripresentato a Camporgiano poco prima del Natale 1944, non avevamo saputo più nulla. Solo dopo una sempre più angosciosa attesa, e mentre la mamma ed io stavamo per partire alla sua ricerca, egli era ricomparso a Minucciano, dove noi eravamo sfollati, lacero e stanco, ma felice di essersi ricongiunto con noi.
Quasi subito, dopo il suo arrivo, decidemmo di far ritorno a Campporgiano dove il babbo ci stava aspettando alla Casetta a casa di Azelio.
Alla Casetta fummo ospitati tutti da Azelio ma in condizioni disagiate perché in casa c’erano anche i contadini e Azelio aveva solo tre stanze. Così non ricordo bene come si sistemarono il babbo e la mamma, forse in capannina, mentre io e Guido dormivamo con Leone (non ricordo Giannetto che, forse, era già tornato nei carabinieri) nello stesso letto. Ma si trattò di pochi giorni. Poi, avuta in affitto la “casina del Rumito” (si trattava di un edificio situato nella vigna dell’Arnaldo che aveva al piano terra la cantina e al primo piano una stanza abbastanza grande dotata di caminetto) la arredammo in modo sommario e ne facemmo la noistra cucina di giorno e la camera di Guido e mia per la notte.
Fu così che, finalmente, sentimmo di avere una casa tutta per noi (anche se la mamma, il babbo e la nonna, che nel frattempo era venuta insieme alla Delfina e alle sue figlie dormivano ancora in capannina).
E di questa riconquistata casa ho un ricordo bellissimo. Fu la prima volta che ci sedemmo intorno a un tavolo mamma, papà, Guido ed io e nessun altro dopo la bufera della guerra. Della casa prendemmo possesso in un pomeriggio del maggio 1945 e, quindi, la prima volta che ci sedemmo a tavola tutti insieme fu per la cena.
Una nostra vecchia abitudine (all’epoca piuttosto diffusa) ci faceva prediligere, per il pasto serale, una bella tazzona si caffellatte nella quale inzuppare pane in abbondanza. E anche quella sera fu così. La mamma aveva acquistato una grande forma di pane (credo da un chilo) fatto con farina bianchissima che arrivava dall’America e molto lievitato, tanto che era alto in maniera inconsueta. Nel nostro vecchio e malandato laveggino avevamo scaldato il latte delle nostre mucche con il caffè (forse di orzo) e la mamma ne riempì le nostre tazze. Poi divise la forma di pane in quattro con un taglio in croce e ne dette una per ciascuno. A quel punto, religiosamente, spezzettammo il pane e lo immergemmo nella tazza, facendone una enorme zuppa che mangiammo avidamente. L’atmosfera era magica: saranno state le sette di sera e la luce entrava abbondante dalle due finestre. Eravamo tutti sorridenti e fiduciosi nell’avvenire. Eravamo contenti di quella piccola casa fatta di un’unica stanza, priva di acqua corrente e perfino di acquaio, ma nostra. La sera scese lentamente e c’era una grande quiete e una grande serenità. Dopo la cena stavamo seduti sulla soglia della porta aperta sulla campagna dove impazzava il canto dei grilli. Eravamo soli e avevamo davanti un avvenire incerto e difficile. Ma eravamo uniti, tutti e quattro salvi e dentro il mio cuore c’era una felicità immensa.
Quando rientrammo alla Casetta dopo lo
sfollamento a Minucciano, erano i primi giorni di Maggio del 1945, per alcuni
giorni fummo ospiti dello zio Azelio, sistemati alla bell'e meglio, in attesa
di una sistemazione indipendente. La mamma e il babbo, e poi anche la nonna
(essa venne qualche giorno dopo, insieme alla Delfa) dormivano nella
"capannina" su due letti di ferro che erano del nonno Carlo, Guido ed
io dormivamo nello stesso letto a due piazze con Leone e Giannetto. La
sistemazione si ebbe qualche giorno dopo, allorche` il Ruggero Micotti
acconsenti` ad affittarci la casina a due piani di una sola stanza ogni piano,
sotto cantina e sopra stanza abbastanza grande con caminetto. Nella stanza di
sopra facemmo la cucina, ma nella stessa stanza dovevamo anche dormire Guido ed
io. Per Guido fu rimediato un lettuccio di ferro, che stava nell'angolo sud e
non dava noia alla cucina, ma un altro letto per me avrebbe reso la cucina
impraticabile.
Cosi` decidemmo di costruire una branda
pieghevole che potesse, di giorno, essere chiusa e sistemata dietro il letto di
Guido. Avevamo il telo di un'amaca militare (della Marina) che aveva portato il
babbo e avevamo un'ampia piattaforma di tavole che Guido ed io avevamo trovato
nella galleria del Poggio che era piena di residuati di guerra di ogni tipo e
che volevamo utilizzare per farci una piattaforma da collocare sopra la grande
quercia che si trovava sotto la vigna del "Rumito" ove era la nostra
casina (che noi chiamavamo "bungalow"). Avremmo poi costruito una
scala di corda retrattile e quello sarebbe stato il nostro rifugio segreto. Ma
l'impellenza delle necessita` quotidiane ci obbligo` a rinunciare al nostro
sogno per utilizzare parte del legname per costruire la mia branda. Fatte
quattro robuste "gambe" le fissammo a due a due a "X" con
un perno nel mezzo in modo che potessero aprirsi e chiudersi. Poi le collegammo
con due assi lunghe poco meno di due metri e, a tali assi, fissammo saldamente
il telo di amaca. Ne venne una branda ampia e comoda, ma piuttosto
mastodontica, tanto che la chiamammo subito "il brandone". Ogni sera
la aprivo, vi ponevo sopra un vecchio e rattoppato materazzo di lana (comodo e
caldo, pero`) che di giorno stava sul letto di Guido, poi con lenzuola e coperte
preparavo il letto per la notte e ci dormivo divinamente. Al mattino occorreva
fare l'operazione inversa. Dopo un po' di tempo, pero`, cominciai a trovare
eccessivamente grande e pesante il brandone, e anche troppo alto (era alto
circa un metro da terra). E poiche` e` destino che nella vita non ci si debba
accontentare mai, ecco che un giorno mi decisi a ridurre le dimensioni del
brandone. Lo sfeci, segai un pezzo a ogni "gamba", spostai il perno e
rimontai il tutto. Ora l'altezza era giusta, circa mezzo metro da terra, ma
conseguentemente si era ridotta anche l'ampiezza, cosicche`, abituato al mio
ampio e comodo brandone, mi ritrovai ristretto in un brandino largo poco piu`
di mezzo metro e, quindi, dormii malissimo. Decisi allora di correre ai ripari
e rifare il brandone come prima. Pero` non avevamo legname adatto per fare
quattro "gambe" nuove, cosicche` cercai di aggiuntare i pezzi che
avevo tagliato. Feci il lavoro meglio che potevo, ma le gambe aggiuntate non
potevano avere la solidita` di prima. Cosi` da allora dovetti sostenere il
brandone con due sedie: una da capo e una da piedi. E mi rammaricai a lungo di
non avere piu` il bel brandone solido che avevo all'inizio. E pensare che in
quel brandone ho dovuto dormire fino al 10 marzo 1947, cioè per quasi due anni.
Nell'immediato dopoguerra la campagna era ancora densamente abitata e ricca di giovani. Alla Casetta vivevano ben 22 persone : 10 erano i nostri contadini, 4 la famiglia di Azelio, 5 la nostra famiglia e 3 la famiglia della Delfa. Nella sua casina, poi, c'era Jacco`. A Battifollo viveva la vecchia madre con 6 figli (4 maschi e due femmine), alla Roncaiana viveva la vecchia Gina con tre figli (Alfredo, Cesare e Marina), una nuora moglie di Alfredo e i loro due figli, a casa del Peppe Suffredini viveva lui con la moglie Milly, i suoi due vecchi genitori e i suoi tre figli, a casa della “Crema” (Clementina) viveva lei col marito e i tre figli e poco sopra, nella sua baracca, ora distrutta, viveva il "Main", un tale Mariani con la moglie e i suoi sei figli. Infine in localita` Santa Lucia, sulla strada allora provinciale (ora statale), luogo anche detto "dal Gregorio", distante
dalla Casetta poco piu` di cento metri
in linea d'aria e, quindi, considerato della stessa zona, c'erano tre case
abitate: quella, appunto, del Gregorio, ove viveva lui con la moglie e tre
figlie, dette "balie asciutte", quella detta "della
Nonzia", abitata come affittuaria dalla Nonzia stessa con le sue due
figlie e da un'altra famiglia venuta da poco ad abitare li`: gli Orsi e, poco
piu` sotto, la casa della "Ovaia", anziana vedova che viveva li` con
la figlia.
Gli Orsi, originari di Camporgiano, avevano vissuto a lungo in Filicaia,
per cui io non li conoscevo prima. Era una grossa famiglia composta dal padre,
dalla madre (Martina, sorella della Crema, dette "delle Merchiore") e
da sei figli : Ermete, che era Capo in Marina, Ilvano, con la passione del
gioco d'azzardo, Lamberto, il piu` rozzo
ma grande lavoratore, la Noemi, unica femmina, il Silvio, che aveva un
paio di occhialini rappezzati alla meglio e il Renzino, che era il piu`
piccolo. Con questi ragazzi nacque subito molta amicizia. Ci vedevamo spesso e facevamo delle cose insieme. La piu`
notevole fu il vino di mele. Papa` Orsi
aveva ideato, nel terreno della Crema (e, quindi, d'accordo con quella famiglia) un torchio primitivo.
Su una piattaforma rotonda di legno
aveva collocato il cesto del torchio, e,
fin qui, era tutto normale. L'idea originale era stata quella di sostituire alla vite che serve per pigiare
cio` che e` nel cesto, vite che non
c'era, l'ingombrante meccanismo che ora descrivero`. A una certa distanza dal cesto c'era un muro. Alla base
di questo muro, in un foro appositamente
scavato, era stata infilata l'estremita` di un grosso e lungo palo, quasi un trave, che passava sopra
il cesto e sporgeva dall'altra parte per
un paio di metri. A questa seconda estremita` era stato fissato il capo di una robusta fune,
l'altro capo della quale era fissata ad
una specie di argano sottostante. Il tutto funzionava cosi`: dopo aver riempito il cesto di cio` che
si voleva torchiare, su di esso veniva
posto un robusto disco di legno a mo' di coperchio, e sopra il disco veniva posto un robusto ceppo
di legno lungo circa mezzo metro. Il
palo di cui prima ho detto veniva appoggiato sopra il ceppo, dopo di che, azionando l'argano, si
tirava in basso il palo.
Naturalmente veniva spinto in basso anche il ceppo e il disco di legno e
cio` che era nel cesto veniva, cosi`, spremuto a dovere. Per fare il vino di
mele facevamo cosi` : Anzitutto bisognava procurarsi le mele, cosi` partivamo
con un sacco ciascuno (io il vino lo facevo in societa` con l'Osvaldo e il
Gianfranco, figli del Carlin, nostro contadino) e raccoglievamo tutte le mele
che trovavamo sotto le piante sia nostre che di altri proprietari. Le mele "raccolte
sotto", infatti, erano di chi le prendeva e i proprietari non obiettavano.
Si trattava di mele spesso bacate (all'epoca nessuno usava veleni sulle piante)
ma mature e buone. Fatta la raccolta bisognava pestarle per romperle e far
uscire il succo. Per farlo usavamo un grosso pestello fatto con un ceppo di
legno cui erano inchiodati due bastoni verticali da usarsi come manici.
Mettevamo una certa quantita` di mele in una pila di pietra, poi col pestello
le rompevamo a dovere. Quindi le mele cosi` pestate venivano raccolte in
recipienti e portate al torchio per la spremitura. Il liquido che ne usciva era
un mosto di color marrone dall'aspetto per nulla rassicurante. Esso veniva
posto direttamente nelle damigiane e lasciato fermentare per alcuni giorni. A quel
punto veniva travasato piano piano, perche` non si risollevasse la posa che si
era formata in fondo alla damigiana, e ne usciva un liquido dorato, ancora
dolce e frizzante, di gradevolissimo aspetto e sapore. Ne facemmo una damigiana
da 50 litri per ciascuno e anche qualche fiasco in piu` che bevemmo in famiglia
dove fu molto apprezzato. A quel punto all'Osvaldo venne in mente che, forse,
avremmo potuto venderlo e farci qualche soldo. L'idea sembro` buona, tanto piu`
che, se avessimo trovato clienti, avremmo potuto produrne fin che volevamo. A
quel tempo, infatti, le piante di melo erano moltissime, sia nel nostro podere
che nei dintorni. Cosi` un mattino Osvaldo ed io partimmo tutti speranzosi e, a
piedi, andammo a Vagli, offrendo a tutti i negozi il nostro prodotto. Ma non
avemmo nessuna fortuna. Il "vin di meli" decisamente non aveva
mercato. Cosi` ci rassegnammo e cominciammo a bere anche il vino della
damigiana. Per un po' continuo` ad essere dolce e frizzante ma, continuando la
fermentazione, il dolce spari` e rimase un vinello piuttosto acido e non buono.
Credo che finimmo per buttarlo via, anche perche` quell'anno era venuto molto
buono il vino di uva del podere e bevevamo quello.
L'estate del 1945 fu un'estate bella e
molto calda. Guido ed io in quei primi mesi dopo la bufera della guerra, ci
godevamo la ritrovata possibilita` di stare insieme e non c'eravamo ancora
posti il problema di come continuare i nostri studi. Parlavamo molto, giocavamo
a vari giochi ma, soprattutto, facevamo molta attivita` fisica. Fra le altre
cose, quasi ogni pomeriggio andavamo al fiume, alla "Grotta bianca",
sotto Battifollo, a fare il bagno. Poiche`, pero`, prendevamo la via del fiume
subito dopo pranzo, prima di fare il bagno facevamo quello che noi avevamo
chiamato "arborismo". Scendevamo fino al Serchio prima di arrivare a
Battifollo e ci inoltravamo in una stupenda ontanaia che si trovava un po' piu`
a monte della "Grotta bianca". Era un boschetto di ontani molto folto
ed ombroso, ricco di giovani piante alte e flessibili, che noi usavamo come
"pertiche" di una palestra per fare molte "salite della
pertica". Ma la cosa interessante era che queste piante, una volta che
avevamo raggiunto una certa altezza, si piegavano sotto il nostro peso
consentendoci di "planare" fino a terra. Ma a volte, poiche`, come ho
detto, le piante erano molto fitte, prima di toccare terra passavamo vicini ad
un'altra pianta, cosicche` avevamo la possibilita` di lasciare la prima,
afferrare la seconda e procedere cosi`, di pianta in pianta, lungo il bosco,
come delle scimmie o come degli emuli di Tarzan. Questo era il nostro
"arborismo", ed era effettivamente una bella ginnastica. Con qualche
inconveniente, pero`. Una volta, mentre,
lasciato un ramo, mi ero slanciato per afferrarne un altro, mancai
clamorosamente la presa e caddi pesantemente in basso.
Destino volle che andassi a cadere, battendoci
proprio la coccige, su quel che restava di un albero tagliato. Non mi ruppi
nessun osso ma il dolore fu veramente lancinante. Rimasi a piagnucolare per un
bel po', malgrado gli interventi consolatori di Guido.
Ma alla fine, come Dio volle, il dolore acuto
passo` e mi rimase solo una forte dolenzia. Cosi`, essendo ormai l'ora di fare
il bagno, ci avviammo verso il "bozzo" ed io contavo che il fresco
dell'acqua avrebbe fatto bene al mio "osso sacro" dolorante. Cosi`,
giunti al "bozzo", subito salii sulla grotta per fare un bel tuffo.
Ma, proprio mentre stavo per tuffarmi, i piedi mi scivolarono sulla grotta
bagnata ed io battei una nuova, tremenda "culata" sulla roccia, assai
piu` dura del legno. Ovviamente il dolore all'osso sacro fu rinverdito, ma il
fresco dell'acqua, dove ero finito, dovette lenirlo piuttosto bene. Infatti il dolore se ne ando` piu` presto ed
anche quel giorno ci godemmo il piacere del bagno in un'acqua che, allora, era
di una limpidezza cristallina, tanto che, andando sott'acqua, si poteva vedere
ad alcuni metri di distanza. Ed era piacevole rimanervi immersi per ore.
Come credo di aver gia` detto, nella
tarda estate del 1945 io, con altri quattro ragazzi, fondai una sezione del
partito dell"Uomo Qualunque" che, all'epoca, era l'unico che parlava
di pacificazione anche con i fascisti. Ed io fui eletto segretario.
In conseguenza di cio`, dopo un po' di tempo,
mi pare fosse gia` autunno, un bel giorno vedo comparire al
"bungalow" il maresciallo dei carabinieri. Non era piu` quello che ci
aveva contestato il furto delle traversine della ferrovia, tuttavia rimasi
sorpreso e molto sospettoso. Temevo qualcosa di sgradevole.
Ero solo ed ero fuori, davanti alla casina.
Egli mi saluto` ed io lo salutai. Mi chiese se ero io Mario Pellegrinetti ed io
dissi di si`.
Chiese ancora se ero il segretario della
sezione dell'Uomo Qualunque ed io risposi ancora di si`. Allora mi disse che
doveva farmi alcune domande. Al che mi sentii in dovere di farlo entrare in
casa e gli indicai la scala che portava al nostro monolocale. Ma lui mi disse
che facessi strada io. Io sapevo di avere dietro i pantaloni una
"toppa" mezza scucita che, penzolando, scopriva le mutande, e mi vergognavo
a mostrarla. Cosi` insistei per farlo salire per primo ma lui declino`
fermamente l'invito e mi prego` di precederlo. A quel punto non avevo altra
scelta per cui mi avviai per le scale. Non sapendo come nascondere la mia
"toppa", pensai di salire rapidamente le scale per lasciare al
maresciallo meno tempo per vederla. E cosi` feci. E mentre salivo sentivo la
toppa sventolare e garrire come una bandiera. Ero molto imbarazzato, tuttavia,
arrivato in cima alla scala e fatto accomodare il maresciallo, risposi alle sue
domande che erano solo domande formali circa gli scopi che ci prefiggevamo e
roba del genere.
In definitiva nulla di preoccupante. Mentre
rispondevo, pero`, mi capito` di girare lo sguardo verso il letto e....mi si
drizzarono i capelli: nell'angolo dietro al letto spuntava, visibilissimo, il
moschetto del babbo, che avevamo conservato fino ad allora. Pensai che se lo
avesse visto sarebbe stato grave, forse mi avrebbe arrestato o chi sa che cosa,
e stetti sulle spine fino a che il maresciallo, ottenute le mie risposte, mi
saluto` e se ne ando`. Non lo vide ? Fece finta di non vederlo ? Non lo sapremo
mai. La sera raccontai tutto mentre eravamo a cena e commentammo a lungo
l'accaduto. La storia della bandiera al sedere ci fece ridere a lungo. Il
babbo, pero`, non rideva troppo. Io so che soffriva per le nostre condizioni
economiche che non gli consentivano di dare alla sua famiglia quel benessere
che le aveva dato in passato.
In tempo di guerra, i tedeschi prima e gli
alpini della Monterosa poi, avevano utilizzato la galleria sotto la Capriola,
dove il treno non passava piu` da tempo, come rifugio e deposito di munizioni e
di altro. Quando si ritirarono non fecero a tempo a portar via tutto quel che
c'era, per cui la galleria rigurgitava di materiale bellico di ogni tipo.
Abbondantissimi i proiettili da cannone calibro 75 prolungato che erano
proiettili lunghi una quarantina di centimetri, collocati su un bossolo lungo
circa un metro. Tali proiettili erano collocati dentro a delle casse di buon
legno, ciascuna delle quali ne conteneva tre. Molta gente andava a razzolare in
galleria, portando via quello che poteva servire a qualcosa. E anche noi
ragazzi della Casetta andavamo spesso a cercare in quella galleria. Ho gia`
detto, parlando del "brandone", della grande piattaforma di legno che
avevamo preso Guido ed io. Inoltre avevamo preso tre casse (riuscimmo a
prendere solo quelle perche`, essendo di ottimo legno, tutti le prendevano,
lasciando i proiettili contenuti abbandonati in terra alla rinfusa) che,
essendo noi senza mobili, ci servirono come como`, collocate una sopra l'altra
nella camera di mamma e papa`. Ed ancora io avevo portato a casa molti fasci di
polvere da sparo. Si`, ho detto proprio "fasci". Infatti dentro ai
bossoli c'era la carica di "balistite" lavorata a stecche nere,
simili a lunghe stecche di quelle che si usano per lavorare a maglia. Tali
stecche erano contenute in sacchetti di seta. Cosi` di queste stecche io facevo
un bel fascello e lo portavo a casa dove le stecche venivano usate per
accendere il fuoco. I sacchetti di seta, invece, li usavamo come calze. Non
erano sagomati per i piedi, e` vero, e recavano delle scritte indelebili, ma
erano belli lunghi e consentivano di farci due o tre risvolte in modo da
nascondere le scritte. Insomma la galleria era una miniera di cose.
Un certo giorno ci andammo Gianfranco ed io.
All'ingresso della galleria (che, nei pressi della stazione e` molto ampia)
c'era uno dei soliti paraschegge fatto di due pareti di legno costruite con le
traversine alla distanza di circa un metro l'una dall'altra e con lo spazio
interno riempito di pietrisco. Tale paraschegge era alto circa due metri e
occupava circa meta` dell'imbocco della galleria. Noi, superato il paraschegge,
entrammo nel deposito dei proiettili da
cannone. Ce n'erano a dozzine,
ammonticchiati alla rinfusa. Alcuni erano integri (proiettile ancora collocato
sul bossolo), altri erano sfatti (bossolo e proiettile separati) e dovunque
c'erano mucchi di balistite a stecche. Per togliere il proiettile dal bossolo
si afferrava il bossolo alla base con le due mani, lo si sollevava e si batteva
sullo spigolo di pietra della banchina in modo che lo spigolo battesse proprio
un poco sotto l'estremita` del bossolo, dove finiva la parte del proiettile
inserita nel bossolo stesso. In questo modo il proiettile, che era pesante, era
sollecitato ad uscire dal bossolo. Se il colpo era bel assestato poteva bastare
anche un solo colpo. Ma e` facile immaginare il rischio che si correva. Se, per
errore, avesse battuto violentemente a terra la spoletta del proiettile, questo
avrebbe potuto esplodere con conseguenze drammatiche. Eppure lo abbiamo fatto
decine di volte. Ma quel giorno Gianfranco invento` un gioco ancora piu`
pericoloso. Avevamo scoperto che, percuotendo con un grosso bullone (di quelli
che fissano le rotaie alle traversine) la capsula di innesco situata sul retro
del bossolo, questa esplodeva producendo una fiammata che usciva fin fuori del
lungo bossolo e una sorta di sordo boato. Cosi` quel giorno Gianfranco prendeva
tutti i bossoli vuoti che trovava e li "sparava" percuotendoli col
bullone. La cosa pareva divertirlo molto, per cui continuava a farlo. Il guaio
fu che lo faceva senza prestare la minima attenzione alla polvere da sparo
sparsa per ogni dove. Cosicche`, a un certo punto, la fiammata di un bossolo
ando` ad incendiare la polvere da sparo che si trovava li` sotto. Fu subito
chiaro che sarebbe successo un disastro, con tutta la polvere che era li` in
giro e con tutti i proiettili che c'erano mescolati, per cui facemmo l'unica
cosa ragionevole a quel punto : ci mettemmo a correre all'impazzata e, usciti
da quella galleria, ci dirigemmo velocemente verso l'altra breve galleria che
dovevamo percorrere per tornare a casa. Mentre stavamo per raggiungerla, ne
stava uscendo lo zio Azelio e ci sorprese il suo sguardo atterrito, che fissava
qualcosa dietro di noi. Istintivamente ci voltammo e vedemmo quel che vedeva
lui : fiamme altissime uscivano dalla galleria e salivano in alto, dopo aver
invaso l'intera vasta imboccatura della galleria stessa. La nostra corsa, se
possibile, divenne ancora piu` veloce. Passammo accanto allo zio che forse ci disse
qualcosa ma al quale noi non dicemmo nulla, impegnati come eravamo a scappare.
E proprio in quel momento udimmo le prime esplosioni: i proiettili avevano
cominciato a scoppiare. Attraversata
velocemente la breve galleria ed allontanatici, cosi`, dal rischio immediato,
cominciammo a preoccuparci delle conseguenze che quella vicenda avrebbe potuto
procurarci. E ci venne l'istinto di nasconderci da qualche parte. Cosi`, invece
di attraversare il ponte che si trova subito dopo la galleria, uscimmo dalla ferrovia
e ci precipitammo giu` per la ripida costa che scende verso il fiume Edron.
Scendendo a precipizio, a un tratto ci trovammo proprio addosso ad una grossa
bomba di aereo che era li` caduta qualche mese prima ed era esplosa soltanto in
parte. L'involucro era lacerato e si vedeva l'interno pieno di tritolo giallo,
in parte anche fuoriuscito e sparso li` intorno (successivamente ci ricorderemo
di quella scoperta e torneremo a recuperare il tritolo che ci servira` per
altre imprese, cioe` fare bombe per i pesci o far saltare vecchi ceppi di
alberi tagliati).
Superata anche la bomba, scendemmo fino al
fiume, lo attraversammo e ci imboscammo nei fitti boschi di ontano che
coprivano le rive.
Rimanemmo laggiu` per tutto il giorno,
ascoltando, con angoscia, le esplosioni che continuarono per tutto il giorno.
Infatti si era incendiato anche il paraschegge che, bruciando, aveva lasciato
un grosso braciere il calore del quale continuava a portare via via qualche
proiettile non ancora esploso alla temperatura necessaria per esplodere.
Immaginavamo che i carabinieri ci stessero cercando e sobbalzavamo ad ogni
fruscio. Finalmente, a sera, tornammo prudentemente a casa e qui, salvo i
rimbrotti dei nostri familiari, trovammo tutto tranquillo. Sapemmo, poi, che
per un pelo era stata evitata una disgrazia. Nell'appartamento della stazione
di Poggio, infatti, vicinissimo alla galleria esplosa, viveva un cantoniere con
la moglie (certo Benedetti). Essa, che era in casa, al momento delle prime
esplosioni immagino` che fosse scoppiata una nuova guerra fra Russi e Americani
(se ne parlava in quel periodo), per cui, istintivamente, usci` di casa
correndo per andarsi a riparare proprio nella galleria che stava bruciando. Fu
fermata, terrorizzata, dalle forti esplosioni proprio mentre stava per superare
il paraschegge che gia` stava bruciando. E cosi`, per fortuna, se la dette
subito a gambe senza subire danni. Noi per qualche giorno rimanemmo timorosi
che qualcuno sarebbe venuto a cercarci, ma non successe nulla. Purtroppo a quel
tempo c'erano residuati bellici dappertutto ed episodi legati alla disinvoltura
con cui i ragazzi maneggiavano quei materiali erano all'ordine del giorno.
8 - LA
PENTOLA BRUCIATA E LA POLENTA SENZA SALE
Durante tutto il 1945 e, forse, fino
agli inizi del 1946, la mamma dovette andare diverse volte a Massa per cercare
di vendere quel poco che avevamo recuperato nella nostra casa e quel poco di
oro che aveva salvato dalla guerra, per sopravvivere. Quando questo accadeva
essa stava fuori almeno un paio di giorni, per cui della cucina dovevo
occuparmi io, specie a mezzogiorno, dato che papa` non rientrava per il pranzo.
Ed io avevo imparato a fare diverse cose : sapevo spianare e fare i taglierini,
sapevo fare il minestrone, la polenta e la frittata e, forse, anche altre cose.
Cio` era sufficiente per un pranzo decente. La sera mangiavamo, in genere,
caffe` e latte e, mi pare, un uovo fritto. E, poi, la sera c'era il babbo.
Tutto bene, quindi. Salvo che, talvolta, mi
capitava di dimenticare qualcosa. Soprattutto due "dimenticanze"
clamorose vale la pena di raccontare.
La prima: Un giorno avevo deciso di fare un
bel minestrone di fagioli. Cosi`, all'ora giusta, misi l'acqua e i fagioli nella
pentola e misi la pentola sopra un bel fuoco che avevo acceso nel caminetto.
Dopo di che, sapendo che ci sarebbe stato da
aspettare un bel po', scesi le scale e, nel piazzaletto antistante il nostro
"bungalow", cominciai a tirare di scherma con Guido. I nostri
fioretti erano dei rami sottili di frassino, flessibilissimi, cui avevamo
applicato una protezione per le mani e, sulla punta, una pallottolina di stoffa
morbida ad evitare graffi o pericolosi colpi sugli occhi. La cosa ci
appassionava molto, per cui rimanemmo a lungo occupati. Finalmente mi ricordai
dei fagioli e corsi di sopra. Ahime` : l'acqua era evaporata completamente e i
fagioli giacevano, carbonizzati in parte, sul fondo.
Ma la cosa piu` grave era che il fondo della
pentola, di alluminio, era semi-fuso per cui la pentola non teneva piu` i
liquidi per alcuni fori che si erano prodotti. E qui devo fare una parentesi
per parlare di quella pentola. Bisogna sapere che noi non possedevamo piu`
pressoche` nulla anche come attrezzatura di cucina. Cosi` accadde che, quando
andammo a vivere per conto nostro nel "bungalow" dovemmo rimediare
qualcosa qua e la`. Ma non avevamo rimediato una pentola.
Il babbo, allora, trovo` una vecchia pentola
del nonno, ormai usata come vaso da fiori per via del fondo pieno di buchi. La
prese, la ripuli` e, con un vecchio coperchio di alluminio, gli rifece il
fondo.
Quel fondo, appunto, che ora ci ritrovavamo
mezzo fuso.
Ma non ci perdemmo di coraggio. Gli anni di
guerra e le varie difficili situazioni vissute in quegli anni ci avevano
abituato a fronteggiare ogni emergenza. Cosi` vuotai i fagioli sul tavolino e
corsi di sotto dove il babbo teneva i suoi attrezzi. Qui, individuati i fori,
li riparai con delle toppe di alluminio, imbullonate come vedevo fare al babbo.
Poi ci misi di nuovo l'acqua e vidi con sollievo che le mie toppe
"tenevano". Allora, con Guido, grattammo dai fagioli la parte
carbonizzata e li ributtammo in pentola. Qui finirono di cuocere con le patate
che subito dopo ci misi e, questa volta, sotto la nostra costante sorveglianza.
Intanto io avevo preparato, su un fornelletto a carbone, un ottimo soffritto a
base di lardo pestato, cipolla e prezzemolo e, al momento opportuno lo buttai
in pentola.
Poi ci cuocemmo i taglierini spianati in
precedenza e, all'ora di pranzo, forse con un po' di ritardo, ci mettemmo a
tavola e ci divorammo il nostro minestrone.
Per la verita` sapeva un po' di fumo, ma, a parte cio`, era gustoso e
saporito come sempre.
La seconda forse meno grave dimenticanza fu
quando feci una ottima polenta di "neccio" ma dimenticai il sale.
Dopo averla cotta a puntino, rovesciai il
paiolo sul "tavoletto" con gesto energico e sicuro (ormai ero
diventato abile), poi con l'archetto di legno preparai le fette. A quel punto
sia Guido che io mettemmo le fette nel piatto e ci accingemmo a mangiare la
polenta con la frittata di cipolle che, mi pare, avevo preparato. Ma al primo
boccone fu evidente che avevo dimenticato di salare l'acqua. Ora la polenta di
farina di castagne e`, come e` noto, dolce, ma e` il sale che si mette
nell'acqua che esalta e rende gradevole quel dolce. Senza sale il dolce della
polenta e`, al gusto, come sbiadito e, insomma, sgradevole. Ne` si puo`
rimediare come con altri cibi, mettendoci sopra una spolveratina di sale, perche`
allora il sapore salato contrasta col sapore dolce, facendo una combinazione di
gusti ancora piu` sgradevole. Cosi` la pensavo io che, dopo qualche boccone,
rinunciai con rammarico a quella bella polenta calda e mangiai solo la frittata
con un po' di pane. Guido, invece, prese la cosa con filosofia e, sparso un po'
di sale sulle fette, se la mangio` tranquillamente.
Jacco`, cioe` Jacopo Pellegrinetti, era
fratello del mio nonno paterno Carlo. Egli aveva vissuto tutto il periodo della
guerra da solo, nella sua casetta, senza prendere neppure in considerazione
l'idea di trasferirsi in galleria al sicuro dalle incursioni aeree, come
avevano fatto lo zio Azelio e i contadini, insieme ad altri della zona. Per
nulla impressionato dai bombardamenti americani, egli aveva assistito
tranquillamente, stando seduto sotto la lunga pergola d'uva che correva davanti
alla sua casa, anche ai bombardamenti del ponte della ferrovia che, in linea
d'aria, non dista piu` di duecento metri.
Dopo la guerra la figlia Anna (e, piu` tardi
anche la Francesca rientrata dall'America) lo costrinse a passare l'inverno a
Fornaci di Barga dove viveva. Ma l'estate egli tornava nella sua casetta dove
viveva tranquillamente da solo. Era un tipo che a noi era molto simpatico.
Amava raccontare lunghe favole che tutti ascoltavamo volentieri. E anche storie
complicate della sua vita militare o della sua emigrazione in Francia. Poi
amava moltissimo giocare a carte e spesso facevamo con lui lunghe e
appassionanti partite. Aveva un certo fare irascibile e, specie giocando a
carte, si arrabbiava per gli errori degli altri e li rilevava con fare
stizzito. Fumava la pipa e la teneva sempre in bocca anche quando era spenta,
reggendola fra i denti con qualche difficolta` per i denti che gli mancavano.
Ed era molto buffo quando si arrabbiava, perche` nell'inveire, puntualmente la
pipa gli sfuggiva dai denti e gli cadeva, e lui smanettava nel tentativo di
afferrarla in aria, cosa che quasi mai gli riusciva. E, allora, doveva
recuperarla e noi lo aiutavamo a raccoglierla da terra. Col passare degli anni
era diventato non proprio smemorato ma un po' distratto, ed aveva certe
espressioni che ci facevano ridere a crepapelle quando ce le raccontavamo. Una
volta mi raccontava di un suo litigio col fratello Carlo, mio nonno, col quale
non e` mai andato molto d'accordo. Nel terminare il suo racconto assunse
un'aria assorta, assorbito, evidentemente, dai ricordi e concluse dicendo: -
Piu` tardi mio fratello Carlo torno` per fare la pace, ma io ero morto !!! - Io
spalancai gli occhi e lui, allora, subito si riprese e frettolosamente disse: -
Cioe`, no, non ero morto, ero partito per la Francia ! .
Un'altra volta, al tempo che mio padre era
venuto in licenza e per qualche sera dormi` con lui, accadde che, dopo aver
giocato a carte tutta la sera, andarono a letto e lui, come era solito dire,
" si chiuse in meditazione" e disse le sue preghiere che
comprendevano anche una preghiera per i defunti. A un certo punto, nel
dormiveglia, dovettero confonderglisi le preghiere col ricordo delle partite
giocate, per cui chiamo` mio padre e gli disse con aria preoccupata: - O
Cesare, ma se io busso a bastoni, i poveri morti come devono rispondermi ? - Al
che mio padre gli rispose qualcosa che lo tranquillizzo`. E si addormentarono
tranquilli.
Un altro episodio buffo accadde a Fornaci, d'inverno. Sua figlia Anna
aveva l'abitudine di tenere in casa, in una tazza, dei fermenti lattici vivi.
Come e` noto ogni mattina si puo` usare il latte reso acido dai fermenti, dopo
di che i fermenti stessi, ben risciacquati, devono essere di nuovo coperti con
latte fresco. Una mattina Jacco`, vide la tazza di latte e, dimenticandosi dei
fermenti, gli venne voglia di bersela. E se la bevve inghiottendo, insieme al
latte, anche i fermenti. Quando Anna se ne accorse si preoccupo`, ma Jacco` no.
E, infatti, non ebbe nessun tipo di disturbo.
Prima di andare a stare a Fornaci
d'inverno, Jacco` aveva anche un pollaio con due o tre galline. Di esse era
molto fiero e specie di una vantava la grande virtu` di fare piu` di un uovo al
giorno. In realta` era qualche gallina del Carlin (il contadino nostro) che
andava a far l'uovo nel pollaio di Jacco`, ma Jacco` non lo avrebbe mai ammesso
e continuo` sempre a credere che fosse la sua gallina a fare piu` di un uovo al
giorno.
Questa gallina, insieme alle altre ma piu`
delle altre, razzolava volentieri davanti alla casa di Jacco` e sovente entrava
anche in casa cercando qualcosa da beccare. All'epoca era una cosa normale e
Jacco` la lasciava fare tranquillamente. Ma quando si stava giocando a carte ed
egli aveva bisogno di tranquillita` per concentrarsi non la sopportava per il
gracchiare sgraziato che quella faceva. Cosi` una volta che questa gallina fece
il suo versaccio, Jacco` si volto` irato verso di lei e gli grido` : - Sta
zitta ! - Ora accadde che la gallina, sorpresa da quel grido, tacque davvero, e
Jacco` se ne compiacque. Egli, infatti, pensava di essere capace di farsi
intendere da tutti gli animali, perfino dalle lucertole che, a suo dire, quando
le chiamava gli salivano sulle ginocchia. Ma la gallina, passato l'attimo di
stupore, ricomincio` il suo verso. E Jacco`, ancora piu` irritato, di nuovo : -
Sta zitta !! E si ripete` la cosa di prima, che la gallina tacque per un po' e
poi ricominciava. Alla fine Jacco` si alzo`, afferro` la gallina e la
sculaccio` ben bene, ripetendogli che doveva stare zitta. Poi la depose e la
gallina penso` bene di andarsene, offesa da quel trattamento. E la partita
pote` proseguire.
Ho gia` parlato delle stecche di
balistite che prendevamo in grosse quantita` nella galleria del Poggio. Con
essa spesso facevamo dei giochi bizzarri e anche pericolosi. Una volta avevamo
per le mani, non so da dove venisse, un lungo tubo di ferro con una curvatura
che lo faceva somigliare a un "J". Quella sera lo portammo nella
ferrovia li` vicino, lo sistemammo, sostenendolo in qualche modo, a mo' di cannone
puntato verso l'alto, lo empimmo di stecche di polvere e accendemmo la polvere
dall'estremita` curva che stava in basso, non sapendo cosa sarebbe successo. La
polvere si incendio` e, dalla bocca del "cannone" cominciarono a
uscire frammenti accesi che venivano scagliati in alto per poi ricadere a
qualche metro di distanza, con effetto da fuochi artificiali che ci piacque
molto. Quando la polvere era quasi esaurita, poi, il "cannone"
mandava una breve fiammata dalla parte posteriore ed emetteva uno strano suono,
simile a un sordo ruggito.E anche questo ci divertiva assai. E cosi`
continuavamo il gioco. Ora accadde che il Silvio e il Renzino Orsi, che
abitavano nella casa della Nonzia, sulla strada proprio sopra di noi, videro
quegli spettacolari fuochi d'artificio e corsero giu` per vederli da vicino,
anche se era ormai notte. Scesero sulla ferrovia un po' piu` in basso e poi
vennero verso di noi. Quando erano ormai vicini, ecco che noi demmo fuoco ad
una nuova carica. E i due malcapitati vennero investiti dall'ondata di
"lapilli" che ricadevano proprio addosso a loro. Ho ancora presente
nella memoria la faccia spaventata del Silvio, che allora avra` avuto una
diecina d'anni e portava un paio di occhialini malandati, tutti rabberciati con
filo di ferro. Di fronte a quella pioggia di fuoco egli prese per mano il
fratellino piu` piccolo e, fatto dietro front si mise a correre all'impazzata
lungo la ferrovia, saltellando da una traversina all'altra. Alla luce del
nostro fuoco li vedemmo per un po', finche` sparirono nell'oscurita`. E non
tornarono.
12 - I
"BENGALA" DELLA PRETURA
Un altro immenso deposito di residuati
bellici, questa volta americani, era nei locali della ex pretura, in una stanza
cui si accedeva dall'esterno e che era sempre aperta, e non so come mai nessuno
pensasse di chiuderla. C'erano molte bombe che noi chiamavamo
"tromboncini", di quelle che si sparano col fucile e c'erano molti
"bengala", cioe` specie di piccoli mortai con una carica di lancio
capace di sparare a grande altezza il "bengala" (costituito da una
quantita` di fosforo che, accendendosi e rimanendo in aria appeso al suo
paracadute, illuminava a giorno una vasta zona. Questi aggeggi venivano piazzati
davanti alle postazioni militari e nascosti nel terreno. A lato essi avevano un
percussore che faceva partire la carica mediante un detonatore, e che si
azionava tirando un anello. Gli anelli di due "bengala" situati a una
certa distanza uno dall'altro, venivano collegati con una sottile cordicella
nascosta fra l'erba. Se una pattuglia nemica, di notte, tentava di avanzare
furtiva, era molto probabile che, inciampandosi qualcuno nella cordicella che,
tirata, faceva scattare i percussori, i bengala partissero e la scena venisse
illuminata a giorno rendendo la pattuglia perfettamente visibile.
Ora accadde che qualcuno si accorse che ogni
pezzo conteneva, opportunamente ripiegato, un abbastanza ampio paracadute di
seta.
Nel giro di qualche giorno tutti i paracadute
furono portati via per farne camicie e altro. Ma rimase il resto. Che continuo`
ad attirare alcuni assidui visitatori, fra cui Giacomo, altro figlio del
Carlin, ed io. Giacomo, che era piu` grande di me e dei suoi fratelli
(veramente il maschio piu` grande era il Berto, ma lui era un adulto e non
aveva rapporti con noi ragazzi), era l'esperto di esplosivi. Era sempre con lui
che andavamo a gettare le bombe nel fiume per prendere i pesci. E in quel
deposito Giacomo ed io avevamo trovato il modo di procurarci i preziosi
detonatori, indispensabili per far esplodere le cariche di tritolo. Ne erano
muniti i "tromboncini". Occorreva svitarne la coda e staccarli dal
supporto al quale erano fissati, il che facevamo battendoli leggermente contro
qualcosa di solido finche` si troncavano nel punto di attacco. Era una
operazione da artificeri, che noi facevamo con assoluta disinvoltura ed
incoscienza. E ci sentivamo ricchi quando possedevamo una decina di detonatori.
A proposito di Giacomo e degli esplosivi devo aprire qui una parentesi per
raccontare di quando andammo, di notte, al cimitero di San Romano, dove avevamo
saputo c'erano, chiusi nella cappellina, alcuni "panzer-faust" ,
terribili bombe anticarro, (i "bazooka" tedeschi). Penetrammo nella
cappellina da una piccola finestrella rotonda posta in alto e portammo via due
"panzer-faust" che, poi, facemmo esplodere nel fiume provocando
stragi di pesci. Erano esplosioni
tremende.
Ma tornando ai bengala diro` che, a un certo
punto, cominciammo a portar via anche i bengala stessi, per poi spararli, la
sera, come fuochi di artificio. Ma erano pericolosi perche`, non avendo piu` i
paracadute, dopo essere saliti molto in alto ed essersi accesi, ripiombavano a
terra velocemente e ancora accesi, rischiando di provocare incendi.
Per spararli li fissavamo al suolo e poi, legata una cordicella
all'anello del percussore, davamo uno strappo alla cordicella.
Ora accadde che una volta alcuni ragazzi, fra
cui il Luciano Di Gregorio, il Crudeli e il Vasco Rocchiccioli detto Dodi,
avevano preso dei bengala e li sparavano sotto il muretto dove ora c'e` la casa
che fu del Gino Fiorani falegname. O meglio : i bengala stavano sotto il
muretto e i ragazzi stavano sopra e, da lassu`, tiravano la cordicella. Era una
bella misura di sicurezza. Purtroppo accadde che, una volta, tirata la
cordicella, il bengala non parti`. Allora, dopo aver provato piu` volte, alcuni
ragazzi scesero sotto il muro per vedere come mai la cosa non funzionava. Il
Luciano e il Dodi si misero a trafficare intorno all'ordigno in maniera del
tutto imprudente. E accadde il disastro. Improvvisamente il bengala parti`. Al
Dodi feri` una mano, ma in modo lieve (certo non tale da giustificare le grida
e le scene di disperazione dello stesso), al Luciano, invece, giacche` stava
chino sull'ordigno, colpi` di striscio la testa, portandogli via una bella
fetta di cuoio capelluto. Egli, pero`, rimase calmo e si lascio` accompagnare
dal dottor Bertolini (vecchio medico in pensione), che abitava proprio li`
vicino e che lo curo`. Non so se poi ando` a farsi ricucire all'ospedale o se
fece tutto il dottor Bertolini. Comunque la cosa fini` abbastanza bene.
Prima di concludere, debbo raccontare di un
altro uso che facevamo dei "bengala", ovvero, in questo caso, di una
parte di essi.
Il percussore di cui ho parlato si poteva
svitare e utilizzare separatamente, giacche` era ricaricabile. Ora bisogna
sapere che a quel tempo erano disponibili in quantita` illimitata cartucce di
ogni tipo, specialmente cartucce per moschetto e per mitraglia. Molte di queste
erano dotate di proiettili traccianti (avevano all'interno una carica di
fosforo che si accendeva al momento dello sparo). Bisogna anche sapere che,
durante i bombardamenti in tempo di guerra, era stata colpita anche la fabbrica
di tessuti di Castelnuovo, dopo di che essa era stata saccheggiata.
Circolavano, cosi`, molto numerosi, dei tubicini conici di cartone pressato
molto resistente, che erano i "rocchetti" su cui stavano arrotolati i
filati che usava la fabbrica e che erano stati, appunto, portati via.
E qualcuno invento` il seguente
"gioco". Alle cartucce veniva tolto il proiettile tracciante per
poterle svuotare della polvere da sparo che contenevano. Quindi il proiettile
veniva di nuovo inserito in cima al bossolo. Questa cartuccia cosi` trattata
veniva inserita in uno dei tubicini di cui sopra dalla parte larga e spinta
finche` si fissava la` dove il tubicino, che era conico, si andava
restringendo. A questopunto si inseriva il percussore pronto a scattare e,
tenendo in mano questa strana arma con la sinistra, la si puntava in alto e,
tirando l'anello del percussore con la destra, si faceva partire il colpo.
L'ago del percussore batteva con precisione
sulla capsula situata sul fondo del bossolo facendola esplodere e questa pur
debole esplosione riusciva ad accendere il fosforo e a far partire il
proiettile che riusciva a percorrere una traiettoria di una trentina di metri e
anche piu`, lasciandosi dietro una scia di fuoco molto suggestiva. Sempre,
pero`, col rischio di incendiare qualcosa, giacche` il fosforo non si esauriva
nella breve traiettoria e continuava a bruciare anche dopo essere caduto a
terra. Una volta accadde a me che lanciai uno di quei proiettili dalle scale
del "bungalow" verso il boschetto e questo, ricadendo, incendio`
dell'erba secca, costringendomi a correre per spengerla prima che si generasse
un incendio di vaste proporzioni.
Un'ultima memoria, per dare l'idea di come i
ragazzi trattassero con eccessiva disinvoltura gli esplosivi e quindi,
veramente, "scherzassero col fuoco". Accadde che un ragazzo, mi pare
fosse il Renato Accorsini detto il Matoletti, porse ad un altro ragazzo, non
ricordo piu` chi fosse, forse il Lorenzo Fortini, una cartuccia non svuotata
della carica di polvere, da sparare col tubicino di cartone.
Questi, ignaro, la sparo`. Ci fu, ovviamente,
una forte esplosione e il tubicino di cartone fu semidistrutto mentre il
percussore veniva scagliato via. Per miracolo la mano che reggeva il tubicino
non subi` gravi danni. E tutti risero del bello scherzo. Cose da matti !
13 - LE
VITTIME DEI GIOCHI PERICOLOSI
Fortuna volle che, malgrado le
eccessive confidenze con gli esplosivi, non accadessero disgrazie mortali in
quell'immediato dopoguerra. Ci furono, pero`, dei ragazzi che si ferirono piu`
o meno gravemente.
Oltre al caso del Luciano Di Gregorio
di cui ho parlato, ricordo due casi accaduti alla Casetta o nei pressi.
Un giorno l'Osvaldo Comparini stava svuotando
dei proiettili di carabina americana insieme al fratello piu` piccolo
Gianfranco.
Osvaldo li reggeva con una pinza
tenendoli inclinati e Gianfranco, con un martello, li colpiva a circa meta` del
bossolo per far uscire il proiettile. Poi recuperavano la fine polvere da sparo
che avrebbero utilizzato per caricare un vecchio fucile a bacchetta che
possedevano.
A un tratto, forse a causa di una scintilla
provocata dal martello
contro il metallo, o forse perche` la
martellata ando` a colpire la capsula, una cartuccia esplose con fragore e le
piccole schegge di ottone del bossolo sibilarono intorno. L'Osvaldo, che
avverti` un colpo alla spalla destra, grido` melodrammaticamente : - Oddio,
sono colpito al cuore ! - Di questo lo canzonammo a lungo, anche perche` era
stato colpito alla spalla destra e non certo al cuore. Pero` una piccola
scheggia gli si era effettivamente conficcata nella spalla e dovettero portarlo
dal medico a farla togliere.
Un altro episodio simile accadde allo
"Scalocchio", dove abitava il "marmista" con la famiglia
(moglie, una figlia e tre figli). Il piu` grande di questi figli, che all'epoca
aveva dieci o undici anni, era il Domenico Mazzei, che ora e` il nostro medico.
Anche lui stava facendo, non so con che tecnica, quello che faceva l'Osvaldo,
ed anche a lui esplose una cartuccia. Ma la sua ferita fu piu` grave. Credo che
egli fosse “incoccolato” mentre trafficava con le cartucce (credo fossero di
moschetto), fatto sta che le schegge lo colpirono al ventre, mettendo
addirittura alla luce le budella. Il padre, che non aveva altri mezzi, lo
carico` sulla "canna" della bicicletta e lo porto` dal medico.
Qualcuno di noi vide passare questo ragazzo col padre e rimase sconvolto
udendolo dire, con rassegnazione : - Addio, ragazzi, credo che non ci rivedremo
piu`...- o qualcosa del genere.
Per fortuna non erano lesi organi interni ed
egli guari` senza altre conseguenze.
Un tempo era abbastanza diffusa
l'abitudine di costituire fra amici delle provvisorie societa` filodrammatiche
per mettere in scena una commedia da rappresentare nel locale Teatro Colombini che
oggi, purtroppo, non esiste piu`. Cosi` quell'inverno, non ricordo di chi fu
l'iniziativa, sia io che Guido fummo coinvolti in una di tali iniziative. Io
ero ancora troppo giovane, ma, anche per ragioni, diciamo cosi`,
"politiche" (ero il segretario della locale sezione dell'Uomo
Qualunque), fui cooptato.
Non ricordo neppure quale fosse il titolo
della commedia. Ricordo con piacere, pero`, le lunghe serate passate a casa di
Marta Telloli, che allora, sposata da poco e molto giovane (aveva 22 anni) abitava
nella casa dove ora abitano la Clara e il Lambe`, al primo piano, mentre al
piano terra abitavano, allora, i genitori di Clara e Tosca con le loro figlie.
L'atmosfera era allegra e piacevole, anche perche` eravamo in maggioranza, se
non addirittura nella totalita`, ex fascisti o simpatizzanti. C'erano, infatti,
i fratelli di Marta (sicuramente il Renzo e l'Umberto, ma forse anche l'Athos),
suo marito, il Crudeli Raffaello, la Tosca e, mi pare, anche la Colomba
Rocchiccioli. Cosi`, oltre che provare la commedia, si parlava molto e mi
scaldava il cuore constatare che eravamo un bel gruppo di amici con gli stessi
ideali.
La mia carriera di aspirante attore fu breve.
Infatti ero ancora troppo timido e dicevo le battute frettolosamente e con
imbarazzo, per cui, dopo le prime prove, convenni con gli altri che non ero
adatto e lasciai la parte. Pero` continuai a frequentare la casa di Marta dove
mi trovavo bene per le ragioni che ho detto.
Almeno fino a che venne la buona stagione e, allora, stavo fuori con gli
amici. Mi pare che la commedia venne, poi, rappresentata, ma non riesco ad
avere ricordi del fatto.
Ho gia` parlato altrove di questo
nostro simpatico gattino, che fu nostro fedele compagno durante la permanenza
al "bungalow". Lo avevo preso piccolissimo dal Raffaello Crudeli e lo
avevamo allevato circondandolo di molto affetto. Quando eravamo a Monzone
avevamo sempre avuto molti gatti per casa, per cui, questo riavere dopo tanto
un gatto ci faceva sentire ancora di piu` il piacere di essere di nuovo tutti
insieme in una nostra casa, anche se precaria. Non gli avevamo mai dato un vero
nome, avendolo sempre chiamato semplicemente "Micino". Un giorno,
pero`, mentre io e Guido giocavamo a parlare sostituendo un'unica vocale a
tutte le vocali delle parole che pronunciavamo, e proprio mentre parlavamo
sostituendo tutte le vocali con la "o", ecco che parlammo del micino
che, naturalmente, divento` ol mocono. La cosa ci suono` bene, per cui, da quel
momento, decidemmo che il nome del gatto sarebbe stato "Olmokono".
Olmokono la faceva da padrone in casa nostra. Quando eravamo seduti alla
nostra scrivania, anche quando Guido aveva qualcuno a lezione, Olmokono saliva
sul tavolo e, con la coda bella diritta si strofinava ai nostri visi
pretendendo attenzione e carezze. Il fatto e` che, a volte, entrava in casa con
le zampe sporche di terra, per cui lasciava le sue impronte su libri e
quaderni. Guido ha ancora il suo vecchio Atlante Geografico con impresse le
impronte di Olmokono.
Al "bungalow" la sua vita era
splendida. Poteva entrare e uscire a suo piacimento dal nostro monolocale
(d'estate la porta era sempre aperta e d'inverno qualcuno era sempre in casa,
pronto a farlo entrare o uscire al suo miagolio). All'esterno aveva tutta la
vigna come terreno di caccia e di giochi, ma poteva pure addentrarsi nel
boschetto o altrove. Però non si allontanava mai molto, perche` li` eravamo
isolati e nessuno lo disturbava mai.
Ricordo che quando passavamo lungo i filari
della vigna, per andare a prendere acqua o per passeggiare, lui ci tendeva i
suoi agguati. Ci seguiva furtivo, nascosto dietro un filare e, al momento
opportuno, ci balzava davanti a sorpresa (cosi`, almeno, credeva lui, e noi
glielo lasciavamo credere anche quando, invece, ci eravamo gia` accorti di lui)
e si godeva le feste che gli facevamo.
Ho gia` raccontato altrove della sua
disavventura, quando si avveleno` mangiando, probabilmente, un topo ucciso col
veleno. Dalla quale, pero`, si era rimesso ottimamente.
Il guaio fu quando, il 10 marzo del 1947,
traslocammo alla casetta, abbandonando il "bungalow". Purtroppo la
casetta era super abitata (la nostra famiglia, la famiglia della Delfa e la
famiglia del contadino) per cui Olmokono vi fece solo fugaci apparizioni. Non
veniva regolarmente neppure per mangiare, per cui cominciammo a portargliene al
"bungalow", nei dintorni del quale egli continuo` a rimanere. Ma un
giorno, avendogli portato da mangiare, lo chiamavo, e lui non arrivava. Eppure
di solito al primo richiamo sbucava subito dalla vigna o dalla siepe. Dopo
averlo chiamato a lungo, presi a cercarlo li` in giro. Ed ecco che lo trovai
sdraiato in un posticino che si era trovato dentro la siepe dietro il
"bungalow". Mi avvicinai ed egli mi guardo` socchiudendo gli occhi
amichevolmente, ma emise soltanto un debolissimo: - Meo -. Annuso` il cibo ma
non ne mangio` che poche boccate svogliate. E non si alzo`. Era evidente che
stava male. Io non sapevo che fare. Avrei voluto portarlo a casa, ma sapevo che
lui non gradiva la nuova dimora. Cosi`, visto che il luogo dove si trovava era
ben riparato, lo lasciai li` sperando che guarisse. E per qualche giorno lo
trovai sempre li`, nella stessa posizione. Mangiava poco e rimaneva
sdraiato. Ma un brutto giorno non lo
trovai piu`. Li` per li` sperai che fosse guarito e che si fosse alzato. Ma per
quanto cercassi non riuscii a trovarlo. E non lo vedemmo mai piu`. O era andato
a morire da qualche altra parte, o era stato catturato e divorato da una volpe
o da qualche altro carnivoro selvatico. E` superfluo dire che ne fummo tutti
molto addolorati. Fu quasi come perdere uno di famiglia. E` cosi` che ci si
allena a sopportare i dolori della vita.
Al tempo in cui frequentavo la casa
della Rosetta, la frequentava, talvolta, un certo Brogino di Castelnuovo, di
professione maialaio, grande ubriacone, buontempone, frequentatore delle feste
da ballo che si facevano nella cooperativa gestita dal padre di Rosetta, il
Fortunato. In genere era con un amico e avevano una chitarra. Cosi`, quando
capitava in casa di Rosetta, si suonava la chitarra e si cantava. Era un tipo
abbastanza divertente, ma a noi non faceva molto piacere il suo arrivo, perche`
non trovava mai la strada per andarsene.
Anche quella sera era andata cosi`, e fra il
bere e il cantare si era fatto tardissimo. Percio` quando, finalmente, se ne
andarono, era tempo che anch'io me ne andassi e, cosi`, uscii con loro.
Il Brogino viaggiava con un vecchio camioncino
su cui usava caricare i maiali che andava a vendere. Ed io, proprio per l'ora
tarda, decisi di farmi portare da lui fino alla Roncaiana. Lui e il suo amico
salirono nella cabina di guida ma io, un po' perche` la cabina era angusta e un
po' perche` non mi fidavo dell'autista ubriaco fradicio, rimasi in piedi sul
predellino pensando che, se il camioncino fosse andato fuori strada, io avrei
sempre potuto saltare giu`.
Partimmo e le cose andarono abbastanza bene
fino a Sant'Antonio. Da li` in su il camioncino prese a procedere un po' a zig
zag, ma non in modo pericoloso. Dopo la "salitina" (circa cento metri
dopo S.Antonio una volta la strada presentava una breve salita piu` ripida del pezzo precedente, per
poi riprendere con la pendenza di prima. Coi lavori di asfaltatura quella
"salitina" e` stata eliminata e la pendenza, ora, e` uniforme), pero`
allo "zig" verso il muro non segui` un adeguato "zag" verso
il centro della strada e il camioncino si avvicino` pericolosamente al muretto.
Io sperai che si sarebbe riportato in carreggiata, ma questo tardava ad
avvenire e il muretto si faceva sempre piu` vicino, tanto che la siepe che era
sopra il muretto cominciava a sfregarmi le spalle e la schiena.
A
quel punto io non avevo piu` spazio per saltare via, per cui mi strinsi il piu`
possibile al camioncino per non sfregare nel muro. Ma a un certo punto, forse a
causa di una parte di muro piu` sporgente (era un vecchio muro "a
secco"), il contatto avvenne e, mentre il camioncino proseguiva la corsa
io rimasi incastrato fra il muro e il camioncino e, dopo un paio di rotazioni a
trottola, piombai a terra. Ero piuttosto spaventato e pensai di avere del male
serio. Mi rialzai subito in piedi e, con sollievo, constatai che, salvo qualche
ammaccatura e scorticatura nelle gambe, non avevo altro.
Intanto quelli del camioncino si erano accorti
della mia caduta e si erano fermati. Scesero preoccupatissimi e parvero
sollevati quando mi videro in piedi sano e salvo. Erano sinceramente
dispiaciuti e volevano farmi salire per portarmi a casa. Ma io, come e` facile
immaginare, declinai decisamente l'invito e li invitai a partire senza di me.
Il che, alla fine, fecero, ed io vidi sparire con sollievo il maledetto
camioncino col suo maledettissimo autista ubriaco.
Fin dal 1945 il babbo aveva costruito,
proprio nel luogo dove ora e` quella specie di baracca in muratura e lamiera,
un pollaio, nel quale allevavamo polli e, in apposite gabbie di legno, anche
conigli.
Quando l'uva non era ancora abbastanza grossa
da far gola alle galline e, in genere, quando nella campagna non c'erano danni
da fare, i polli venivano lasciati liberi di razzolare dovunque. E,
naturalmente, essi razzolavano volentieri intorno alla casa e anche dentro (la
porta era sempre aperta), in cerca di qualche residuo di cibo. Erano abituati
alla presenza degli umani e non avevano paura di nessuno, cosi` era facile
vederseli arrivare vicinissimi quando si era all'aperto seduti in un prato,
oppure in casa addirittura sotto il tavolo o in qualunque altro luogo. Fra
tutti i nostri pollastri, il piu` ardito era uno che dalla struttura pareva un
gallo, pero` non aveva messo la cresta. Si diceva, allora, che quello era un
caso in cui il sesso non era venuto ben definito, per cui quella bestia non era
ne` un gallo, ne` una gallina, bensi` un "gallistro". Benche` fosse
ancora giovane, era diventato gigantesco, soprattutto alto, tanto che, quando
io studiavo seduto sugli scalini vicini al pero e lui mi veniva accanto, la sua
testa era al pari della mia. E mi guardava coi suoi occhi sfrontati, per nulla
spaventati. E anche se cercavo di spaventarlo con grida o gesti delle mani, lui
non si spaventava affatto e, al massimo, si allontanava di un passo.
Quando entrava in casa bisognava stare attenti
perche` riusciva a beccare anche la roba che era sul tavolo, se solo sporgeva
appena.
A quel tempo avevamo la cucina dove ora e` il
salotto e cucinavamo su una di quelle stufette di ghisa basse. Era alta da
terra non piu` di una quarantina di centimetri e aveva, sopra, due fori chiusi
da vari cerchi di ghisa, che si toglievano quando si doveva mettere una pentola
a bollire. Un giorno la mamma aveva appena buttato i taglierini nella pentola
al bollore quando entro` in cucina il "gallistro". Il bordo della
pentola era ad una altezza di circa sessanta centimetri da terra e un pollo
normale non lo avrebbe certo potuto raggiungere. Ma il "gallistro"
era piu` alto della pentola e osservava con grande interesse i taglierini che
apparivano e sparivano nell'acqua al bollore. A un certo punto ritenne che
quella fosse roba buona da mangiare e, voracissimo com'era, non ebbe timore di
tuffare rapidamente il becco nell'acqua bollente per cogliere un bel taglierino
in via di cottura. In un'attimo il taglierino fu divorato e gia` il
"gallistro" si approntava a far una nuova pesca. Ma la mamma,
accortasene, riusci`, sia pur a fatica, ad espellere dalla cucina quello che
ormai consideravamo piu` uno struzzo che un pollo.
18 - RITA, LA FIDANZATINA
Nell’estate del 1945, finita la guerra, si
scatenò, come dopo tutte le guerre, la mania del ballo. In ogni occasione o,
magari, anche se non c’era nessuna occasione particolare, ovunque, al chiuso o
all’aperto, si organizzavano feste da ballo. Io, insieme a mia cugina Anna e
aiutati da Guido che sapeva ballare, avevo imparato, alla meglio, a ballare il
valzer e il tango. Ma non osavo presentarmi a una festa da ballo perché ero
vestito malamente e non avevo che un paio di scarponi malconci. Per la verità
qualche volta andai anch’io a ballare. Ma non in paese, dove c’era un teatro e
la gente era vestita decorosamente. Seppi da qualcuno che in un piccolissimo
borgo chiamato Molino della Rocca (erano poche case intorno ad un mulino)
venivano organizzate modestissime feste da ballo in un’aia e anche all’interno
di una casa. Il borgo era abitato da gente modesta, modestamente vestita per
cui ritenni che sarebbe passato inosservato anche il mio modestissimo vestire.
Così cominciai a frequentare quelle festicciole e ballai in pubblico per la
prima volta in vita mia. Addirittura accadde che mi feci una fidanzatina, Si
chiamava Rita ed aveva la mia età o, forse, anche un po’ meno. Ma aveva una
gran voglia di avere un fidanzato per cui fu subito disponibile ad amoreggiare
con me. E, addirittura, voleva che il nostro fidanzamento fosse una cosa seria.
Ed io per un po’ l’assecondai, tanto che mi chiese perfino un anello. Ed io
glielo regalai. Era un vecchio anello di metallo non pregiato (forse alluminio)
che avevo trovato da qualche parte, ma essa lo apprezzò moltissimo e considerò
il nostro fidanzamento ancora più seriamente. Era una ragazza graziosa e mi
piaceva la sua compagnia, però, al contrario di lei, la consideravo una cosa
senza importanza e mi creava qualche preoccupazione quella sua insistenza a
volerla considerare una cosa molto seria. Tuttavia continuai per qualche tempo
a frequentarla anche se la cosa mi creava qualche imbarazzo. Ricordo che il
giorno della fiera a Camporgiano essa venne e volle passeggiare per il paese
tenendomi a braccetto, il che mi imbarazzò alquanto. Finchè un giorno, mentre
ero a far legna con i figli del contadino, mi ferii a un piede con l’accetta.
Questo fatto mi impedì per un certo tempo di andare a trovare la Rita al Molino
della Rocca, dove bisognava andare a piedi. Poi il piede guarì, ma io al Molino
della Rocca non andai più. E così, molto semplicemente e senza drammi, il mio
fidanzamento finì. E fu un sollievo.
TORNA
ALL’INDICE DELLE SEZIONI
I RICORDI DELLA GIOVINEZZA
Sommario:
1)
Il
mio ingresso in politica
2)
Il
comizio di Ravenni (All’armi !)
4)
La
visita di Giorgio Almirante
La caduta del Fascismo del 25 luglio 1943 fece sì che io
cominciassi a occuparmi di politica. Particolarmente mi aveva colpito la
sparizione dei fascetti dalle mostrine del
bavero della divisa del babbo e il suo dispiacere per questo. Egli li aveva
conservati e li aveva portati a casa quando era venuto in permesso. Ed io ne
avevo preso uno e me lo ero messo all’occhiello come un distintivo. Un giorno
qualcuno me lo contestò ed io difesi la mia scelta. Fu la mia prima discussino
politica. Non avevo ancora tredici anni.
Poi la guerra finì ed
io avvertii dolore e risentimento e, soprattutto, voglia di rivalsa. Così
nell’estate del 1945, a pochi mesi dalla fine del conflitto, insieme ad altri
quattro ragazzi (Domenico Guasparini, Celso Micotti, Osvaldo Comparini e la mia
cugina Anna Pellegrinetti) fondai una sezione dell’ “Uomo Qualunque” , nuovo
movimento politico di stampo liberale ma che sosteneva, in qualche modo, il
diritto degli ex fascisti a fare politica. Per oltre un anno ne fui segretario.
Dopo qualche tempo, però, cominciò a uscire un giornale, "La Rivolta Ideale", diretta da Tonelli, che aveva come motto "Vivere ardendo e non sentire il male" che mi pare sia di Gaspara Stampa. Su di esso leggemmo i primi scritti di Almirante, che ci entusiasmarono. Cosi`, dopo che nel dicembre 1948 fu costituito il Movimento Sociale Italiano, maturammo la decisione di uscire dall'Uomo Qualunque e di costituire una sezione M.S.I. Eravamo in sette: mio fratello Guido, ex ufficiale della Divisione San Marco, Vincenzo Grassi, ex ufficiale della G.N.R., Raffaello Crudeli, ex marò della Divisione San Marco, Silvio Santarini, ex prigioniero degli inglesi, non collaboratore, Aristide Rocchiccioli, ex prigioniero non collaboratore degli americani,Renzo Telloli, ex partigiano (ma con un fratello ex G.N.R) ed io, magro diciassettenne determinato a fare la mia parte. Non era ancora stata costituita la federazione di Lucca, cosicche` inviammo i verbali a Firenze. Quando, poi, la federazione si costitui`, vi entrammo in contatto e conoscemmo Danilo Ravenni, scoprendo che era stato prigioniero negli U.S.A. con Aristide. Erano tempi di grande entusiasmo. Certamente a quell'epoca ci sentivamo ancora fascisti e forse pensavamo che tutto non era ancora perduto. Nel corso del 1948, le iscrizioni furono moltissime (dall'Uomo Qualunque uscirono tutti ad eccezione del Domenico Guasparini) e la nostra attivita` era frenetica. Trovammo adesioni anche nei paesi vicini e a Puglianella promuovemmo la costituzione di una nuova sezione. L'animatore era Natalino Cardosi, reduce della R.S.I. Io cercai proseliti fra i giovani e ne trovai molti, tanto che costituimmo una "Sezione studenti e lavoratori", cosi` si chiamavano allora le organizzazioni giovanili del M.S.I., e ne fui il segretario fino al 1950, quando andai militare. Avemmo anche una sede, nella casa dell'Angiolo, di fronte alla casa dei Girolami, che frequentavamo con assiduita` per il lavoro politico ma anche per ritrovarci insieme e fare qualche bella partita a poker. Tutto questo contribuiva a maturarmi.
2 - IL COMIZIO DI RAVENNI (ALL'ARMI)
Durante la campagna elettorale per le
politiche del 18 aprile, un giorno venne a Camporgiano Danilo Ravenni per
tenere un comizio in piazza. Ottenemmo dal Vincenzo Luccarini il permesso di
usare il balcone della casa dove lui abitava (l'attuale sede della Cassa di
Risparmio), montammo un impianto di amplificazione (non ricordo se lo avevamo
procurato noi o se lo aveva portato Ravenni da Lucca) e, con un vecchio
grammofono, cominciammo a fare della musica per attirare gente al comizio.
Avevamo rimediato vecchi dischi, fra i quali c'erano anche canzoni fasciste
che, ovviamente, non potevano essere suonate.
Suonavamo, comunque, inni patriottici come
"La canzone del Piave", l'"Inno a Roma" e cosi` via.
A un certo punto fu messo un disco (non
ricordo se ero io o qualcun altro l'incaricato) e la musica comincio`. A tutti
noi si drizzarono i capelli in testa: dall'altoparlante, a volume altissimo, la
voce proruppe : - All'armi ! All'armi ! - e ciascuno di noi penso` che, per
errore, era stato messo l'inno "All'armi siam Fascisti". E certo
qualcuno stava per staccare tutto quando il canto continuo` : -... si scopron
le tombe, si levano i morti......- . Era, infatti, l'"Inno di Garibaldi".
E tutti tirammo un sospiro di sollievo.
Certamente durante quella campagna elettorale
avemmo altri comizi a Camporgiano, quasi certamente quello del Prof. Marcello
Nardi di Viareggio che, come Ravenni, era candidato. Era, egli, un oratore
molto bravo, tipo Almirante, e lo ammiravamo molto. Quello che ricordo bene fu
il comizio di Almirante a Castelnuovo. Parlo` dal balcone dell'albergo "IL
GLOBO", che allora era in piazza Umberto ed era gestito dai Pedri, gente
di destra. Io, fin da quella prima volta, rimasi affascinato dallo sguardo
limpido di quegli occhi chiari che esprimevano una grande determinazione. Era
una figura quasi ascetica, vestito alla meno peggio, con le scarpe dal tacco
molto consumato, e diceva delle cose entusiasmanti. La sensazione esaltante era
che ci eravamo risollevati dalla sconfitta, che potevamo ancora combattere, che
i nostri ideali erano ancora ben vivi. Ed eravamo tutti decisi a difenderli a
costo della vita. Paragonare quel nostro modo di fare politica ai modi attuali
genera veramente un grande sconforto. Ora tutto e` carrierismo, affarismo,
cinico opportunismo.
Come ho detto piu` sopra a fine Luglio
seppi di essermi diplomato. Insieme a me si era diplomato Adalberto Cucurnia,
l'amico che avevo trovato a Barga fin dall'anno prima. Egli, carrarino, era
stato sfollato a Sillico in tempo di guerra, in casa del maestro Bianchi, che
fu assassinato dai partigiani a guerra finita e , giovanissimo,
ne aveva sposato la figlia Marida (ella aveva la mia eta`, mentre lui era del
1927). E a Sillico passavano le vacanze estive.
Quell'anno, per festeggiare la promozione,
aveva invitato alcuni amici (avevano una casa molto grande) per il 10 agosto, San Lorenzo, patrono del
paese. Ed io ero della combriccola insieme a Pietro Redini, al figlio
dell'allora preside Arrighi e a qualcun altro che non ricordo.
Passammo lassu` alcuni giorni (io raggiunsi
Sillico a piedi dalla stazione di Fosciandora, passando avventurosamente per i
boschi) in grande allegria, facendoci molti scherzi, trattati con molta
cordialita` non solo da Marida e da suo fratello che conoscevo ormai bene, ma
anche da sua madre, signora molto dolce, e dai genitori di lui. Suo padre era
fascista, epurato, aveva combattuto in Africa Settentrionale e aveva fatto la
prigionia, e mi mostrava molta simpatia. Un giorno venne a trovarli l'On.
Biagioni, originario di Sillico e amico di famiglia. Allora io mi vestii da
fascista, usando divise che avevano in casa e mi presentai al Biagioni che fu
spiritoso e stette allo scherzo (sapeva che era in casa di fascisti). Insomma
fu una gradevolissima vacanza.
Terminata la quale, felice ed euforico,
rientrai a casa. Ed ecco la sorpresa : qui trovai il vecchio amico d'infanzia
Francesco Cecchini (il France`), che era venuto a trovarmi in Lambretta e
voleva portarmi a Monzone a casa sua. Io acconsentii subito volentierissimo, ma
la mamma voleva che le dessi il tempo di lavare la mia unica camicia che avevo
indosso e che, ovviamente, non era piu` di bucato. Ricordo che era una camicia
col collo alla "Robespierre" (come si diceva allora), di colore rosa,
e doveva essere la prima camicia nuova che io avevo avuto dopo la guerra. Ma io
volli partire e la mamma si limito` a dare alla camicia una semplice stiratina.
Subito dopo saltammo in groppa alla Lambretta e partimmo felicissimi. Dopo poco
piu` di un'ora ( le strade allora erano tutte sterrate e in pessime condizioni)
fummo a Monzone dove fui accolto dai genitori del France`,dall'altro grande
amico Carlo Alberto Giorgi (il Bertino) e dalla sua famiglia, nonche` da altri
conoscenti con molto affetto.
Dormivo a casa del France` ma mangiavo anche altrove, invitato da Bertino
e, forse, anche da altri. Mi fermai diversi giorni, credo almeno una settimana,
e fu un'altra bellissima vacanza. Oltre alle belle chiacchierate che facevamo
rievocando la nostra infanzia, oltre alle passeggiate per rivedere i vecchi
luoghi, insieme al Ninetto Damiani, un po' piu` anziano di noi ma nostro amico
e possessore di una vecchia motocicletta facemmo anche alcune gite nei paesi
vicini e andammo a ballare a Gragnola, dove io, che ero molto euforico, mi
detti da fare con una ragazzina trovata al ballo.
A Gragnola ci andammo anche un'altra volta.
Quella volta eravamo saliti sul cassone di un camion che andava laggiu` e, da
la` sopra, scorsi nel fiume che fiancheggia la strada (il Lucido) il cadavere
di una donna. Appena arrivati a Gragnola avvertimmo subito qualcuno. Poi
sapemmo che era una signora anziana che era morta mentre stava lavando dei
panni ed era stata trascinata dalla corrente. Quella cosa non fu piacevole, ma
non riusci` certo ad appannare la felicita` di quella vacanza. Ricordo che la
Ida, la mamma di Bertino, un giorno che ero a casa sua volle per forza lavarmi
e stirarmi la camicia che, ormai, era proprio indecente. Ricordo che vidi anche
la mamma di Lisetta, allora fidanzata di Guido, ma non ricordo se vidi Lisetta.
Anche da questa vacanza ritornai felice e
soddisfatto. Le vacanze erano una cosa che da molti anni non avevo piu` potuto
permettermi.
Quest'anno, invece, fra i giorni passati a
Barga per l'esame, quelli passati a Sillico e quelli passati a Monzone, ero
stato per molti giorni lontano da casa, ed ora ci ritornavo felice, malgrado le
nostre condizioni economiche fossero ancora precarie, perche` tutto sommato
vivere alla Casetta mi piaceva e perche`, dopo la laurea di Guido e il mio
diploma, l'avvenire prometteva di essere piu` roseo.
4
– LA VISITA DI GIORGIO ALMIRANTE
La campagna elettorale per le elezioni
del 18 aprile 1948 fu faticosa ma esaltante. Malgrado fossimo soltanto in
sette, ci prodigammo portando la voce e i manifesti del nuovo partito in tutta
la Garfagnana. Avemmo un discreto successo e, soprattutto, risvegliammo dal
timoroso letargo molti ex fascisti, promuovendo la costituzione di molte altre
sezioni.
Il M.S.I. in campo nazionale ottenne un
po' più di mezzo milione di voti ed elesse cinque deputati e un senatore. In
quelle condizioni e con i pochissimi mezzi che avevamo fu obiettivamente un bel
successo e ne fummo galvanizzati. Dopo poco tempo l'instancabile Giorgio Almirante,
segretario del partito e ora anche deputato, preannunciò una visita alla nostra
sezione. Egli, con l’intercessione di Ravenni, volle premiare la nostra sezione
per la precocità della nostra costituzione (16 marzo 1947) e per il nostro
attivismo. La cosa ci elettrizzò. Ripulimmo la nostra sede e attendemmo
impazienti il giorno della visita. Arrivò un mattino verso le nove, con la
corriera, insieme a Ravenni. Appena sceso in piazza andò dal barbiere, il Remo
Morandi, buon ragazzo ma comunista, il quale lo riconobbe con grande stupore e
gli fece la barba. Tutti furono stupiti nel vederlo arrivare così
tranquillamente con un mezzo pubblico (evidentemente i nostri mezzi erano
ancora pochissimi. Ricordo anche l'abbigliamento modesto e le scarpe col tacco
consumato) e il Remo non dimenticò mai più quell'esperienza. Subito dopo
Almirante e Danilo Ravenni vennero in sede dove la Paola, fidanzata del Vincè,
gli preparò una cioccolata calda che fu molto gradita. Eravamo tutti entusiasti
e commossi. Dopo che avemmo parlato un po' fra noi, aprimmo la porta della sede
affinchè chi lo desiderava, del pubblico, potesse conferire con il deputato
Almirante. Naturalmente avevamo fatto sapere in precedenza a tutti di questa
possibilità. E quale non fu il nostro
stupore quando vedemmo entrare, con il cappello in mano, un gruppo di soci di
una cooperativa operaia che aveva ricostruito il ponte di Petrognano ma ancora
non aveva avuto i soldi. Erano tutti comunisti, ma erano anche dei poveracci
che avevano bisogno di quei soldi per vivere. Almirante li accolse gentilmente,
ascoltò il loro problema e si impegnò a sollecitare le cose a Roma. Cosa che
fece, facendo giungere entro breve tempo alla cooperativa quanto gli era
dovuto. Fu, quello, per noi, un motivo di grande soddisfazione.
Almirante ebbe sempre una certa predilezione
per la nostra sezione e diverse volte tornò, negli anni successivi, a
visitarla, fermandosi anche a pranzo o a cena. Una volta – in quel momento ero
io il segretario – notò con piacere che alla cena in suo onore erano presenti
diverse donne. E da allora, ogni volta che lo incontravo, mi chiedeva
sorridendo : - Come stanno le tue donne ? – Ed io rimanevo sempre piacevolmente
sorpreso del fatto che si ricordasse così lucidamente di noi.
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