I
Ancora
una volta il sole inondava la città scacciando l’oscurità anche dagli angoli
più remoti delle case. Eppure quella luce non portava chiarezza ma solo altri
dubbi che laceravano come rasoi i sogni ancora freschi sui cuscini.
Era
mattino.Ognuno aveva il suo caffé-latte nella tazza, il proprio lavandino con
lo spazzolino da denti per lavarsi. Ognuno la divisa pronta da indossare. Tutti
riprendevano in fretta la loro identità, quasi temendo che altri potessero
rubarla e senza accorgersi minimamente di quanta solitudine scaturisse da quei
gesti quotidiani. Così, al momento di annodarsi la cravatta o rifacendo con
rapidi colpi di rossetto la linea delle labbra, l’operazione era finalmente
terminata e si poteva tranquillamente scendere per strada, sicuri di essere ben
protetti dal proprio guscio. Intanto nelle camere da letto ormai vuote i
propositi e i sussurri della notte prima erano volati via, rintanandosi come
uccelli notturni nei loro nascondigli segreti, al riparo dalla luce e dal
frastuono. Ancora una volta la realtà riprendeva a dominare l’esistenza di
ognuno. Ma era veramente così?
Quel
mattino era uno come tanti e Andrea non avrebbe avuto alcun motivo per
ricordarlo se non per un pensiero strano che aveva ostacolato seriamente il suo
consueto ritorno nel reale.
Andrea
non ha niente di particolarmente interessante. Sulla quarantina,è sposato con
due figli e sufficientemente inserito nella sua attività professionale di
ingegnere. Finora nella vita è andato avanti con alti e bassi, ma sempre
attento a separare i sogni dal reale. Anche lui ha avuto le sue ambizioni ma da
tempo ha imparato a proprie spese che non sempre i desideri si realizzano e che
bisogna accettare l’esistenza per quello che é. O almeno così è stato
finora.
Eppure
quel mattino Andrea si sente diverso e per quanti sforzi faccia di fronte allo
specchio per ritrovare nei gesti abituali la solita fisionomia, un pensiero
continua ad assillarlo. Ed è proprio quel pensiero che ce lo rende
interessante, riscattandolo dalla monotonia quotidiana.
Ora ha finito di radersi. Sa che é tardi e che dovrebbe decidersi a uscire dal bagno per vestirsi. Tuttavia continua ad indugiare, quasi sperando in qualche atto dimenticato. Intanto nella sua mente risuona ancora l’eco remota del canto di un uccello. L’ha sentito per caso la notte precedente quando si é svegliato per andare a bere un bicchier d’acqua in cucina. Il verso si stagliava preciso nel silenzio perché a quell’ora erano ormai cessati gli schiamazzi dei nottambuli più ostinati e non erano ancora iniziati i rumori dei primi che andavano a lavorare. E’ un’ora segreta che ha ogni grande città, quasi una tregua, breve ma intensa.
Andrea
non ha nessuna competenza in fatto di uccelli eppure é certo che non si tratti
di un volatile notturno, anzi a giudicare dal verso gli sembra possa trattarsi
di un canarino. In cucina ha bevuto attaccandosi alla bottiglia presa dal
frigorifero. Il sonno gli é passato di colpo e incuriosito ha aperto la
finestra che dà sul parco, per ascoltare meglio.
Siamo in ottobre, fuori fa fresco ma non é ancora freddo, così lui può rimanere tranquillamente affacciato per qualche minuto. Il buio é rischiarato dalle luci della strada e l’aria é quasi leggera, tanto che si avverte appena l’odore acre e profondo degli scarichi. Il canto riprende dopo pochi istanti, ripetendo con qualche variazione il motivo di fondo. Poi sopraggiunge il rombo di un autobus e l’uccello si interrompe di colpo; ma non appena il veicolo si allontana, il volatile prontamente riattacca.
Poco
dopo Andrea é ritornato a letto cercando senza riuscirci di riprendere sonno.
Anche dalla sua stanza, con gli stipiti accostati e la tenda tirata, sente
l’uccello ripetere testardamente il suo motivo. Solo quando la notte comincia
a rischiararsi e le prime auto tornano a sfrecciare per strada, l’animale
finalmente si interrompe e Andrea può riprendere a dormire, riparandosi tra i
rumori consueti.
Ma
al risveglio l’incertezza é tornata a impadronirsi di lui.Da quel momento non
lo ha più lasciato e anche ora, mentre si infila la giacca e si sistema il nodo
della cravatta, niente gli sembra più reale, perfino i gesti di sua moglie, così
rapidi e precisi. Qualcosa deve trasparire dal suo viso se lei mentre sta
rifacendo il letto, ad un tratto si interrompe per guardarlo e chiedergli
cos’abbia. Andrea abbozza un vago sorriso e un cenno del capo, poi la saluta e
se ne va a lavorare.
In auto, mentre procede a sbalzi, ingabbiato come tanti suoi simili in una enorme carovana, avrebbe tutto il tempo per pensare. Eppure cerca di sottrarsi,soffermando la sua attenzione su particolari ben noti del percorso. Sa bene che, aggrappandosi in ogni modo al consueto, sta tentando di sfuggire a quel pensiero spiacevole. Ma ogni tentativo é vano e alla fine é costretto ad affrontarlo. La decisione lo fa sentire subito meglio, tanto da sopportare senza reazioni un’auto che gli taglia la strada costringendolo a una brusca frenata.
Andrea
sa che l’uccello che ha sentito non é un volatile notturno. Ha scelto
quell’ora insolita per cantare solo per il silenzio e l’aria più
respirabile. In altri termini le avverse condizioni ambientali hanno costretto
l’animale a invertire i suoi ritmi vitali. Ne deduce che quel canto non ha
semplicemente una funzione di richiamo ma é in effetti una manifestazione
insopprimibile, senza la quale l’animale non potrebbe sopravvivere. Inoltre
l’uccello ha bisogno del silenzio non solo per cantare ma anche per potersi
ascoltare mentre canta. In definitiva, anche se apparentemente sembra che sia
stata la realtà a cambiare il suo modo di vivere, é proprio il contrario,
perché l’uccello ha modificato la realtà, adattandola alle proprie esigenze.
Quella
sera al ritorno dal lavoro Andrea ha sfogliato il vocabolario alla ricerca di
una definizione e alla voce realtà ha letto: ”condizione
effettiva e materiale delle cose. Esistenza reale dell’oggetto,
che concerne la cosa (res) o le cose in sé, non la persona.” Gli
è parso di capire che secondo il vocabolario la realtà sarebbe qualità
intrinseca del mondo materiale. Non dovrebbe quindi poter essere influenzata dal
soggetto che la percepisce.
Andrea ha chiuso il volume di scatto e dentro di sé ha udito di nuovo forte e chiaro il canto dell’uccello, ma di un’ottava più alto,quasi a volerlo schernire.
II
Immerso
fino al collo nel tepore del suo letto,con l’ultima sigaretta a metà sul
posacenere e il bicchiere vuoto, Renato ascoltava dentro di sé voci lontane ma
solo a tratti ne vedeva i visi.
Laggiù,
ne era quasi certo,anche se a quell’ora spesso i pensieri incespicavano in
caute congetture, doveva esserci la città e, ripensandoci, lui immaginava
vetrine scintillanti, acrobati che si lanciavano da un tetto all’altro e
un’infinita altra varietà di spettacoli. Dappertutto saltimbanchi, clowns,
giocolieri e quelli che sembravano spettatori, perché per lo più rimanevano
fermi ad osservare o al massimo si lasciavano scappare un sorriso vagamente
imbarazzato, talvolta uscivano dal loro torpore per prender parte al gioco.
Questa
era in quel momento la sua visione,ma non poteva negare di averne avute anche
altre notevolmente diverse. Nella sua vita aveva visto molte città e ormai nei
ricordi non sapeva più distinguere l’una dall’altra. O forse non ne aveva
viste poi tante, forse era lui che aveva vissuto troppe vite, come si ostinava a
ripetergli Beatrice quando beveva troppo e si lasciava andare alle elucubrazioni
senza riuscire a fare l’amore. Ma
- si sa- Beatrice é una donna con troppa fantasia, capace di farti credere una
fioriera persino una cassa da morto!
L’idea
di possibili altre vite gli rammentò di colpo l’ultima ma scoperta e ciò lo
fece sorridere. Poi si bloccò, temendo che anche quel ricordo potesse essere un
sogno.
”Al
diavolo!”- concluse- “Con la testa confusa che mi ritrovo bisognerebbe che
scrivessi tutte le cose che mi sono accadute veramente.”
Comunque
quella storia aveva precisi riferimenti con la realtà e quindi doveva
essere vera, a meno che anche Beatrice non appartenesse al mondo dei sogni.
Da bambino, in un’altra casa, lontano da questa città, e in un altro letto,avvolto nelle coperte fino alle orecchie per difendersi dal freddo, aveva avuto un sogno ricorrente. Anche adesso continuava a considerano come il più bello che avesse mai fatto, perciò gli era rimasto impresso nella memoria.
Sognava, non sentendosene affatto sorpreso, che dal limite del suo giardino, dove in realtà c’era solo un reticolato che lo separava da quello del vicino, lui potesse vedere il mare. Al risveglio la consapevolezza del reale non riusciva a cancellare un vago senso di felicità.
In quell’epoca la sua famiglia viveva nell’entroterra e lui aveva visto il mare solo in poche occasioni d’estate, quando suo padre decideva di lasciar perdere il lavoro per un pò e li conduceva in auto fino alla costa.
Negli anni della maturità si era trasferito in quella città di mare e sebbene avesse ripensato spesso al suo sogno infantile non gli era mai più capitato di farlo, tanto che aveva finito per considerarlo solo l’espressione di un bambino troppo fantasioso.
Poi la domenica precedente Beatrice lo aveva convinto a non prendere la bicicletta per farsi condurre in auto verso i suoi luoghi natali.
Avevano passato la mattinata pigramente, gironzolando tra fiere di paese, cattedrali e antiche mura diroccate. Il ristorante dove andare era stato deciso dopo molte discussioni.Infatti quel nome fin troppo pretenzioso - Miramare - lo aveva infastidito non poco e aveva ceduto solo per le insistenze di Beatrice, convinta chissà perché che lì si dovesse mangiar bene.
Dopo molte curve e qualche incertezza, peraltro facilmente fugata dalle rassicuranti indicazioni dei locali, erano giunti in un largo piazzale circondato da colline. Il ristorante, vistoso e volgare, ne occupava quasi l’intera superficie.
Quando scesero dall’auto, parcheggiata facilmente nel posteggio semideserto, Beatrice continuava ad ostentare la sua sicurezza,senza smontarsi nemmeno di fronte alle scale di marmo tirato a lucido e la facciata piena di stucchi. Renato invece si era guardato in giro un po’ indeciso e poi le aveva chiesto di fare due passi prima di entrare.
In quel momento due cani si avvicinarono festosi,dividendosi subito dopo come per tacita intesa per annusarli. Beatrice perse di colpo la sua aria sicura e un pò impaurita cominciò ad allontanarsi dall’animale. Ogni tanto si fermava per guardarsi indietro, nella speranza di averlo seminato. Ma il cane, ritenendo quel comportamento un piacevole gioco, continuava ovviamente a venirle dietro. Solo quando Renato le ebbe ripetuto più volte che l’unico modo per essere lasciata in pace era di proseguire ignorando l’animale, lei si decise a dargli retta.
Senza accorgersene, erano arrivati al limite dello spiazzale. Sotto di loro la collina digradava bruscamente fino alla pianura. Più lontano, ma ben riconoscibile, inaspettatamente si vedeva il mare. Renato si fermò di colpo, visibilmente sorpreso. Spiegò a Beatrice che non avrebbe mai immaginato che da quel posto si potesse realmente vederlo, come prometteva l’insegna del ristorante. Era vissuto tanti anni nei paraggi senza sapere una cosa simile!
Poi riprese a guardare e scoprì la curva dolce del golfo, il monte che lo sovrastava, perfino l’isola ben nota. Conosceva bene il panorama, dal momento che poteva osservano ogni giorno in città,eppure i contorni ora gli sembravano più nitidi. Anche il mare aveva un colore diverso e il profilo dell’isola scivolava in esso più dolcemente.
Beatrice gli stava stringendo la mano e lo guardava. Non sembrava per niente sorpresa o forse non gliene importava granché. Indovinava nello sguardo di lei solo il desiderio di mangiare e fare l’amore. Mormorata ancora una frase di meraviglia, si avviò insieme con lei verso il ristorante.
Solo più tardi, mentre era in bagno a lavarsi le mani, comprese la vera ragione del suo stupore; quel paesaggio era identico a quello del sogno, perfino nella prospettiva. E ora, dopo più di trent’anni, lo aveva ritrovato!
Non ricordava di essere mai stato in quel posto prima di allora o forse c’era già stato, ma in un passato lontano, prima di questa vita.
Dopo mangiato salirono in una stanza fredda che guardava verso il mare. Renato, anziché fare subito l’amore, volle uscire sul terrazzino per osservarlo ancora. Era quasi l’imbrunire e laggiù nella pianura si accendevano le prime luci. Fu solo allora che si accorse della città con i suoi infiniti tentacoli in ogni direzione e di come si protendesse fino alla costa. Era la città da dove erano venuti e dove tra poco sarebbero tornati. Eppure non era mai comparsa nel suo sogno,anzi non l’aveva nemmeno supposta e ora la sua presenza sembrava fuori luogo.
Cominciava a far freddo. Dentro Beatrice era già a letto e lo aspettava. Renato chiuse piano il balcone e abbassò le tapparelle solo in parte, perché non voleva cancellare del tutto quella presenza rassicurante. Fece l’amore rapidamente e il suo piacere fu come remoto. Alle sue spalle continuava a sentire il mare con la sua isola e contemporaneamente vedeva se stesso che in sogno li contemplava. Quando finirono,le disse di essere stanco e di voler dormire un pò. Non era affatto vero che avesse sonno, eppure inaspettatamente si addormentò di colpo,vinto da una strana dolcezza.
Al risveglio non ricordava di aver sognato, anche se gli sarebbe piaciuto ritrovare l’antica visione. Di una cosa comunque fu certo - ed era una certezza confortante mentre stringeva di nuovo Beatrice e si preparava ad amarla ancora-- quel paesaggio era identico al sogno, lontano e irraggiungibile come un miraggio.
Poco dopo si rivestirono e se ne
andarono in tutta fretta verso una città e un mare che sembravano uguali ma che
non potevano essere gli stessi.
III
Anche
quel mattino al risveglio c’era il sole. Perfino la montagna mostrava decisa
il suo profilo fino alla cima e laggiù nella valle si potevano chiaramente
distinguere le bestie che pascolavano alla ricerca di qualche filo d’erba. Del
resto il grande sacerdote l’aveva previsto e più di una volta durante la
festa di mezza estate aveva ripetuto con aria grave che il prossimo inverno
sarebbe stato assai mite con poca pioggia e quasi niente neve.
Lui
come gli altri aveva accolto la predizione con molto scetticismo e insieme una
punta di speranza. Tutti ricordavano fin
troppo per poterli rimpiangere il vento gelido nelle notti invernali e la
pioggia sferzante durante le battute al cinghiale. Fingendo una considerazione
che non provava, lui aveva osservato che sarebbero stati grati agli Dei per una
simile fortuna. Ma il sacerdote, nient’affatto soddisfatto, aveva ribattuto
che al contrario dovevano considerano un segno della collera divina e una
punizione per i loro peccati. Nel pronunziare ciò - lo ricordava bene-
aveva posato a lungo lo sguardo su di lui, tanto da costringerlo a girare
il viso da un’altra parte.
Bevve
il latte con il miele scaldato sul fuoco e si avviò lentamente verso la stalla.
Dappertutto c’era un silenzio triste, solo a tratti
interrotto da un latrato lontano. Gli uomini erano già tutti al lavoro
nei campi o sulle colline a pascolare le greggi, oppure a caccia nei boschi. Ma
lui era un capo e nei tempi di pace non gli restava molto da fare se non
inaugurare nei giorni stabiliti feste e riti di espiazione o sollevare in alto
al di sopra di tutti l’ultimo nato maschio
della tribù.
Dentro
la stalla il cavallo lo stava aspettando impaziente,scalpitando e dimenando la
coda, come se nemmeno lui potesse più rinunciare a quell’abitudine. Poi,
quando si lasciarono alle spalle il villaggio e iniziarono a inerpicarsi per la
solita strada,gli sembrò che anche il cuore dell’animale si facesse leggero
come il suo.
Ai
lati del sentiero colline dal profilo dolce e le cime brulle si alternavano a
piccole vallate ricoperte di alberi. Si stavano dirigendo ad ovest verso il
rilievo più alto che segnava il confine del suo territorio. La strada si faceva
sempre più ripida e stretta,gli alberi diradavano rivelando qua e là grotte e
massi, mentre il vento rinforzava fischiandogli nelle orecchie. Alla fine la
salita terminò di colpo e il sentiero si allargò in un’ampia area
pianeggiante. Ora poteva scendere dal cavallo e lasciare che l’animale si
riposasse mentre lui percorreva a piedi il tratto fino al limite estremo.
Si
sedette sul solito masso rotondo sul ciglio dell’altopiano e poi guardò a
ovest verso la pianura verde e ancora più lontano verso la distesa azzurra che
ormai sapeva essere il mare.Molti anni erano passati dal giorno che da bambino,
seduto sulla stessa pietra, aveva visto per la prima volta quella larga striscia
di azzurro che si perdeva all’orizzonte confondendosi col cielo e l’isola
che da essa si sollevava.
“Che
strana montagna”, aveva pensato allora. “Sembra quasi che qualcuno l’abbia
rovesciata di fianco.” Ma poi gli avevano spiegato che la pianura azzurra era
in realtà una grande massa d’acqua che si estendeva fino ai confini del
mondo. E gli avevano anche raccontato che la montagna era una terra che sporgeva
isolata in mezzo all’acqua.
Lui
conosceva già i fiumi. Sapeva che questi nascevano dai monti e che l’acqua vi
scorreva impetuosa lanciandosi verso la pianura. Spesso aveva notato tronchi e
carcasse di animali galleggiare in essi seguendo la corrente, mentre un sasso
gettatovi dentro rapidamente si inabissava. Poi una volta aveva visto una roccia
affiorare in mezzo all’acqua, immobile e solida al punto che un tronco
nell’urtarla si era spezzato in due. Così aveva capito che anche la terra in
mezzo al mare era solidamente ancorata sul fondo come quel masso.
Quel
giorno una foschia lieve velava la valle e celava alla vista l’isola e il
mare. Sotto di lui macchie di vegetazione e più vicino la stradina ripida e
sinuosa che risaliva la collina dove l’aveva vista per la prima volta. Il
cavallo intanto gli si era avvicinato e gli stava leccando la mano. Lui ricambiò
l’affettuosità accarezzandolo ma senza distogliersi dai suoi pensieri.
Aveva
tenuto per sé una piccola parte del sale che lei gli aveva dato,conservandolo
in un sacchetto di pelle che si era appeso al collo senza più privarsene. Da
allora aveva sentito scorrere il tempo sempre più lentamente e in ogni attimo
di silenzio tornava il viso di lei mentre saliva il pendio e gli si avvicinava a
passi rapidi e decisi. Poi rivedeva la donna sollevare la mano e aprire il
palmo, mentre gli uomini che la seguivano si fermavano di colpo di fronte a quel
gesto a metà strada tra comando e segno di pace.
Lei
non aveva avuto alcun timore per i suoi capelli grigi né per il bastone di capo
che stringeva né per le rughe raggiate intorno agli occhi. Era questo che gli
era piaciuto di più e quando il vento le aveva denudato il
capo,rivelando i suoi capelli, lui aveva sorriso scoprendoli solo un pò più
scuri del grano maturo.
“Che
vuoi donna?” le aveva chiesto e subito uno scatto improvviso aveva animato i
soldati alle sue spalle, mentre il rumore del ferro si mescolava a quello delle
pietre smosse. Ma lei aveva alzato di nuovo la mano,questa volta
voltandosi indietro,e i suoi uomini erano tornati tranquilli. Dietro di
lui il pastore e suo figlio
rimanevano immobili e silenziosi. Ad un tratto si sentì nell’aria come il
rumore di un tuono lontano.
La
donna parlava piano, aiutandosi ogni tanto con gesti armoniosi che alzavano
l’orlo della sua veste azzurra. Le caviglie,sottili e dorate, erano cinte da
strani sandali di pelle intrecciata.Gli sembrò quasi che fossero quelle corde a
tenerla attaccata alla terra e che senza di esse lei si sarebbe potuta sollevare
come una nuvola. Parlava piano ma lui continuava a non comprenderla e nemmeno
gliene importava, tanto era affascinato dalla sua presenza. Poi anche lui parlò
ancora e la sua voce era bassa e profonda come toro che muggisce nella stalla
quando le ripeté:
“Che
vuoi,donna?”
Ma
questa volta era una domanda del tutto diversa perché ora lui voleva sapere
cosa dovesse fare per compiacerla. Lei non rispose e stavolta non ci fu nessun
rumore alle sue spalle. Allora anche lui alzò piano la mano senza curarsi del
bastone che gli scivolava lungo il fianco fino a cadere a terra con un suono
secco di ramo spezzato.
La
donna si avvicinò ancora di più, pose il palmo della mano di fronte al suo
senza toccarlo e gli sorrise. Poi guardò le pecore del pastore che pascolavano
nei paraggi e si toccò il seno. Infine piegò le braccia e iniziò ad oscillare
ritmicamente, cantando sottovoce una nenia triste.
Fu
così che lui capì che desiderava latte per suo figlio e per gli altri figli
della sua gente. Chiamò a sé il giovane pastore e gli chiese di portare quanto
più latte possibile.
Le
aveva dato tutto il latte che poteva e forse anche di più, se davvero aveva
indovinato lo sguardo del pastore, ma finse di non accorgersene e lasciò che
questi aprisse con dita impazienti il sacchetto che la donna gli aveva offerto
in cambio. Né fece caso al grido di stupore del giovane quando scoprì che
conteneva sale. Poi la guardò di nuovo mentre piegava il capo, sfiorandogli la
mano in segno di saluto, per voltarsi subito dopo e ritornare leggera giù per
il sentiero,quasi che scivolasse. Lui non parlò né parlò il pastore, tutto
intento a leccarsi le dita, né tanto meno il vecchio cieco. Solo quando la
donna fu così lontana che non poté più distinguere la sua veste azzurra,
finalmente si decise a distogliere lo sguardo. Per un istante si specchiò negli
occhi del vecchio e vi lesse la stessa felice malinconia.
C’erano
tanti modi per nascondersi dietro le parole e Andrea ogni giorno ne imparava uno
nuovo. Ormai sapeva che ogni cosa poteva diventare il contrario e già da molti
anni non cercava più di leggere sui visi della gente i sentimenti. Ora poteva
mimetizzarsi alla perfezione nell’infido sottobosco cittadino, conosceva le
sue miserie più segrete, i silenzi che volevano sembrare espressivi ma che non
significavano nulla e le risate piene che nascondevano solo angoscia.
Al
pari degli altri temeva più di ogni altra cosa la solitudine e aveva inventato
mille trucchi per scacciarla. Naturalmente possedeva una tv a 99 canali, il
walkman ad alta fedeltà, l’impianto stereo con telecomando e anche un
guardaroba alla moda per meglio confondersi con gli altri.
E’
notte ormai. Lui se ne sta a letto con la luce spenta ma non riesce a dormire.
Si sente nervoso perché sa di aspettare qualcosa di
insulso, qualcosa che non dovrebbe più stupire uno come lui,ingegnere
navigato, abituato ormai a non dover più attendere nemmeno davanti alla porta
dei più potenti. Eppure – deve ammetterlo -
lui é in attesa del canto di un uccellino e si sta innervosendo non
sentendolo arrivare. I minuti passano e poi anche la lancetta piccola
dell’orologio sul comodino si sposta di una tacca. E’ l’una di notte e non
si avverte ancora nessun canto.Alla fine Andrea si alza e va in cucina a fumare.
Per scacciare il silenzio accende la
tv e si lascia cullare dalla musica soffice che accompagna le immagini.
Se
Andrea in quel momento si fosse affacciato alla finestra e se avesse saputo
distinguere tra i suoi fantasmi e i
rumori striduli delle cose che nascono e muoiono nell’oscurità della
notte,certo sarebbe riuscito a vedere quella nebbiolina sottile che avvolgeva il
lampione e si insinuava tra gli
alberi del parco. E se l’avesse osservata,forse avrebbe capito che quella
strana foschia in realtà non era nebbia né smog e nemmeno polvere, perché a
ben guardare si poteva percepire in essa una debole luminosità vagamente
azzurrina,solo a tratti offuscata dai fari delle auto. E se poi avesse
finalmente alzato gli occhi al cielo, anche dalla finestra e solo con un piccolo
sforzo di muscoli oculari e cervicali, un niente in confronto a quanto era
costretto a fare durante il giorno per tenersi in equilibrio, forse avrebbe
potuto anche vedere la luna.
Ma
Andrea se ne sta seduto davanti al televisore con una sigaretta tra le dita e
gli occhi fissi sullo schermo. Solo quando le immagini scompaiono e nella stanza
si diffonde una tenue luce lattiginosa, improvvisamente si ricorda della luna.
Si alza di scatto e apre la finestra con mani impazienti. Ma é troppo tardi,
perché ormai la luna doveva aver capito che anche quella notte in quella strana
città non c’era nessuno disposto a cercarla e così si era rintanata dietro
una nuvola compiacente, aspettando che essa scivolasse lontano, portandosi con sé
tutti i suoi strani bagliori che sembravano vulcani ma che - ormai lo sapeva
bene - erano solo ciminiere di fabbriche dove il sudore scorreva come lacrime
sulla faccia degli uomini condannati per sempre ad un lavoro inutile.
L’uccellino
ormai gli sembra un ricordo lontano,anzi un sogno travolto da un’oscurità
troppo fitta per poterla squarciare, sia pure con la fiamma di un desiderio. Ben
altre sono le certezze e anche il sogno deve nascondersi tra le pieghe del
cuscino, lasciando il posto a cose che abbiano più spessore e facciano sentire
il loro peso fino a far male, se cadono all’improvviso dal piano dove sono
appoggiate. Andrea accosta lentamente gli stipiti e ridendo tra sé torna a
letto a dormire. Fuori la luce sottile della vita continua debolmente a
palpitare senza curarsi di lui.
Poiché é necessario che ciascuno abbia un nome, dovremo darne uno anche a lui e non importa se non gli piacerà. In fondo un nome non significa niente se non per chi lo impone e colui che lo subisce finisce con l’abituarsi, considerandolo un semplice richiamo.
Il primo nome che mi é passato per la mente é quello di Renato. Mi sembra che esprimi bene l’idea della rinascita ma forse é un’allegoria troppo scontata. Del resto ognuno si costruisce da sé la propria immagine. Viviamo una vita fatta di immagini e compriamo il settimanale non tanto per leggere gli articoli quanto per confrontarci con la pubblicità. Ci sembra perfino di non aver più bisogno dei musei perché l’arte ci viene incontro continuamente sugli schermi dei cinema e i manifesti per strada. L’arte ci viene addosso sorridendo e anche questo é un sorriso enigmatico. Ma ora restituiamogli questi pensieri perché in effetti sono suoi e immaginiamo che per un istante fossimo riusciti a penetrare nel suo nascondiglio segreto. Me lo immagino mentre volta la testa verso di me, per niente stupito nel vedermi,eppure con l’aria guardinga di chi ha capito di aver di fronte un ladro.Anche quando lo saluto con un vago sorriso imbarazzato e per rompere il ghiaccio gli dico: “Ciao Renato”, perché in fondo l’allegoria mi piace e so che lui non ha mezzi per convincermi del contrario,continua a guardarmi come se niente fosse, accettandomi così come si accetta un rumore imprevisto che viene dalla strada o una farfalla notturna - che dicono porti bene – e nessuno,nemmeno Renato, oserebbe scacciare.
Renato,come suol dirsi,é un uomo di poche parole e ama la solitudine,convinto che possa aiutarlo a ritrovare i frammenti di se stesso.Quando io sono entrato la porta non ha cigolato e l’ho accostata piano per non fare rumore. Sapevo già di trovarlo in poltrona con un libro tra le mani e il bicchiere posato a terra di lato,per non disturbare chi gli si fosse avvicinato. Renato riceve molte visite e sa bene come accogliere gli ospiti di riguardo; riesce a metterti a tuo agio senza bisogno delle solite frasi di circostanza.
Non mi invita nemmeno a sedere, tanto sa che non io farei,altrimenti implicitamente dovrei accettare tutti i fantasmi che vagano nella stanza. Forse anch’io mi trasformerei in uno di loro. Allora Renato smetterebbe all’improvviso di vedermi e diverrei anch’io un altro assillo della sua memoria. Renato mi sta di nuovo guardando e nel suo sguardo ora leggo inquietudine. “Quarant’anni sono un’età difficile. Per abituarmici credo ce ne vorranno altri venti.” dice con aria grave, quasi smarrita; in quel momento é di nuovo il ragazzo di allora, alle prese con primi problemi della vita.
Vorrei avvicinarmi a lui e per non dargli troppo fastidio avanzo a piccoli passi fino al divano, stando attento a non calpestare vecchi copertoni di bicicletta, pagine di libro strappate e ingiallite, pezzi di foto sbiadite e tutti gli altri suoi frammenti di passato.
Quando lo raggiungo é come se arrivassi da lontano dopo un viaggio estenuante. Renato non si stupisce e non mostra di accorgersi quanta fatica mi siano costati quei pochi passi. Si limita a guardarmi dritto in faccia, inondandomi con il fumo denso del suo toscano.
Ma io so come sciogliere la sua indifferenza. Lo guardo e,con aria apparentemente distratta, gli dico: “Renato, parlami di quel mare.”
E come per magia il suo sguardo subito si illumina. Devo muovermi rapidamente per la stanza a rincorrere i suoi pensieri che cercano di volar via dalla finestra. Mio malgrado riesco ad afferrarne uno solo, forse più indeciso o forse più sincero, e d’improvviso mi trovo immerso nell’azzurro senza alcuna difesa.
“Quando io sono nato volevo essere un uccello. Ne ho il temperamento e una volta anche le ali. Un tempo quelle montagne intorno avrebbero potuto anche aiutarmi a volare. Ma troppo presto fui preso da mani forti e voci suadenti che mi ripetevano l’inutilità del volo e mi convinsero che era molto più bello guardare il cielo dal basso, lasciando ad altri il compito di inseguire le nubi. Le ali piano piano mi si accartocciarono e ormai solo per brevi tratti,in primavera nelle giornate di vento,io potevo sollevarmi appena più su del pergolato e dei rami del fico. Altre volte mi bastava un riflesso del sole al tramonto sul muro di pietra o il respiro ansante del mio coniglio inselvatichito, se mi riusciva di prenderlo. Mi sollevavo di poco e solo per qualche istante, eppure mi bastava per vedere il mare.”
Renato non ha molte parole da offrirmi, specie quando sonnecchia sulla poltrona e la mano gli pende di lato, inerte e pallida come di marmo. Ma stavolta io posso indovinare i suoi pensieri e vorrei correre insieme a lui,inseguendo quell’antica storia d’amore che avvicinò il mare alla montagna. Una storia uguale tante altre, eppure così affascinante nonostante la sua prevedibilità. Solo ora comprendo lo struggimento di zitelle e adolescenti quando guardano rapite alla tv l’ennesimo episodio del loro teleromanzo preferito. D’ora in poi - lo prometto - non le deriderò più.
Afferrandomi alla spalliera della poltrona per non volare via,ricaccio dentro la mia realtà che vorrebbe invadere la stanza e mi soffermo a guardarlo. E d’improvviso mi accorgo che dietro le sue spalle fanno capolino due ali.
Ormai
le cose che non capiva erano molte; certo più di quanto avrebbe mai potuto
ammettere nei discorsi alla sua gente e con il gran sacerdote. Solo quando era
solo - e ciò negli ultimi tempi accadeva sempre più spesso - poteva
lasciarsi andare a chiedersi le ragioni.In quelle circostanze inseguiva la sua
storia definitivamente conclusa,afferrandone ogni volta qualche altro brandello.
Con
la coda dell’occhio vide avvicinarsi suo figlio e subito si scosse.Si voltò
verso di lui e gli sorrise,mentre il ragazzo gli andava mostrando con aria
trionfante il suo primo trofeo di caccia.
La
lepre era abbastanza grossa e sulla lunga coda si notavano gocce di sangue
rappreso e frammenti di foglie,a testimonianza della strenua lotta
dell’animale.
Seppe
dirgli le parole di elogio che il ragazzo si aspettava e gli strinse forte le
braccia,quasi a voler saggiare la potenza dei suoi muscoli. E invece avrebbe
voluto spiegargli che c’era ben altro al mondo da scoprire.Avrebbe voluto
anche invitarlo a scendere con lui dalle montagne per inseguire il sole quando
va a dormire.Ma quel momento non era ancora arrivato e forse non sarebbe mai
arrivato.Nel frattempo si erano avvicinati anche i suoi compagni rimanendo a
guardare la preda con invidia malcelata.Alla fine tutti si allontanarono con
gridi di gioia,dirigendosi verso il villaggio.
Ora
era di nuovo solo e la sua mente poteva ritornare ai pensieri di prima,mentre le
mani riprendevano ad affilare la lama del coltello.
La
donna era tornata altre volte a chiedere latte
e ogni volta lui era là ad aspettarla, seduto sulla solita pietra sul
ciglio del dirupo.Anche adesso non sapeva spiegarselo,eppure era sempre riuscito
a prevedere con esattezza il momento delle sue visite.Dopo il primo incontro non
ci furono più uomini armati a scortarla ma solo altre donne,meno giovani e
belle di lei,che la seguivano a poca distanza portando vasi di terracotta,mentre
lei saliva spedita su per il sentiero. Il suo portamento e la deferenza
dimostratale dalle accompagnatrici, facevano supporre che fosse
di rango elevato.
Ogni volta in cambio del latte lei offriva altro sale, ben sapendo quanto bisogno ne avesse il popolo della montagna.Durante quei brevi incontri si esprimeva a gesti, non comprendendo affatto la sua lingua.Comunque gli era parso di capire che lei e la sua gente vivessero poco distante. Senza dubbio dovevano essere degli stranieri, perché la loro lingua e le vesti che indossavano gli erano del tutto sconosciute.
Un giorno insieme con il sale lei gli aveva offerto anche un cesto con degli strani pesci molto grossi e dal colore dorato. La donna aveva notato la sua curiosità e si era voltata indicandogli con la mano un punto lontano. Quel giorno non c’era foschia e si distingueva chiaramente la pianura e il mare. Non ebbe difficoltà a comprendere che quei pesci provenivano dal mare e che forse il loro particolare profumo era quello del mare. A gesti cercò di farle capire che lui il mare non l’aveva mai visto da vicino. Avrebbe voluto anche spiegarle che mai a memoria d’uomo il suo popolo era sceso dalle montagne se non per combattere gli invasori e che in quelle occasioni non c’era mai stato il tempo di arrivare fino ad esso.
Tra di loro circolavano tante leggende; c’era perfino chi sosteneva che ci fossero uomini capaci di attraversarlo servendosi di strane tavole di legno. Ma non aveva modo di spiegarle tutto ciò né di chiederle se lei ne sapesse di più. Sorridendole con aria impacciata, si era limitato a guardare nella direzione indicata dal suo dito.
Quella volta nel salutarlo lei gli aveva sfiorato la mano un pò più a lungo e nel discendere per il sentiero si era voltata a guardarlo ripetutamente. Lui era restato in piedi sul ciglio e solo allora si era accorto che quel distacco lo rendeva così triste da spingerlo quasi a superare il confine del suo territorio per seguirla. Comunque era riuscito a trattenersi e poco dopo in groppa al suo cavallo si era avviato al villaggio. Era quasi il tramonto e sulle colline si potevano vedere le greggi rientrare ai ricoveri,mentre gli uomini nei campi si accingevano a interrompere il lavoro per tornare a casa. Molti di loro lo salutarono ma lui rispose con aria distratta. Quando giunse al villaggio, i primi fuochi erano già stati accesi e si sentiva nell’aria l’odore dell’agnello arrostito.
Per la prima volta pensò al vino, alla carne e alla sua donna che lo attendeva senza pregustarne alcun piacere. Smontato da cavallo, si fermò un istante fuori casa e si girò a ovest verso la collina dalla quale era sceso e che gli ultimi riflessi del sole stavano incendiando. Tutto gli sembrò estraneo, se non quel sole, ormai al limite dell’orizzonte, che stava per immergersi nella distesa azzurra. In quel momento desiderava solo di essere ancora lassù; ma poi si scosse e spinse con decisione la pesante porta di legno. Dentro faceva caldo e sulla tavola era già pronta la cena. Accarezzò il capo di suo figlio e cinse le spalle di sua moglie in segno di saluto. Sapeva che quella sera tutto si sarebbe svolto in fretta e che poi avrebbe potuto anche dormire, sperando di sognare e forse perfino di capire.
VII
Da
più di un’ora Andrea era costretto a sorbirsi il roboante discorso del
Direttore che continuava a ripetergli con perifrasi diverse e la stessa aria
enfatica, la necessità di creare nuovi spazi per l’edilizia abitativa. Ormai
la città era satura e non restava che l’entroterra per soddisfare le esigenze
sempre più pressanti della popolazione. Ciò inoltre avrebbe “innegabilmente
favorito il rilancio economico di zone cronicamente depresse e, perché no,anche
la nascita di un turismo alternativo e intelligente, lontano da arenili
affollati e mari inquinati.” Nelle aree interne c’erano tante bellezze
naturali da “valorizzare” e la “creazione dei necessari supporti e delle
indispensabili attrezzature di base avrebbe certamente incoraggiato un flusso
crescente di operatori turistici e utenti”. Il progetto era ormai quasi pronto
e dalle alte sfere si era già saputo che il grosso finanziamento pubblico non
sarebbe tardato ad arrivare. La loro Società, che “già si era distinta nella
fase di ricostruzione del dopoguerra e negli anni ruggenti della crescita
urbana” non poteva lasciarsi sfuggire un’occasione simile. Andrea avrebbe
diretto un lotto di lavori ormai in procinto di iniziare e lui era sicuro che
“avrebbe saputo egregiamente superare le difficoltà tecniche che
inevitabilmente sarebbero insorte.
Poi
il Direttore si era alzato per mostrargli il plastico che faceva bella mostra di
sé sul grande tavolo accanto alla scrivania. Spiccavano i numerosi spazi liberi
riservati al verde, le strutture ricreative e i servizi, ma Andrea sapeva
benissimo che una volta costruiti i palazzi non ci sarebbero stati più soldi
per il resto. Le aree libere sarebbero state presto invase dalle erbacce e dai
rifiuti, mentre le strade si sarebbero quasi subito trasformate in enormi
pantani per la scadente pavimentazione e la mancanza di fognature efficienti.
Un’occhiata distratta alla piantina che aveva in mano gli fu sufficiente per
accorgersi che piccoli ma efficaci ritocchi al progetto iniziale, cui lui stesso
aveva collaborato, erano riusciti a stravolgerlo fino a trasformarlo in quello
di un ennesimo quartiere-dormitorio. Sapeva anche che,una volta iniziati i
lavori, si sarebbero introdotte ulteriori modifiche allo scopo di ridurre ancora
di più i costi, anche a scapito della sicurezza e della vivibilità. In poche
parole,era perfettamente cosciente che la Società si accingeva a compiere anche
nell’entroterra lo scempio e la distruzione già operati nella zona costiera.
Tuttavia,
l’idea di rifiutare l’incarico o almeno di contestarne gli scopi non lo
sfiorò nemmeno. Con una parte di sé si limitò semplicemente a registrare con
esattezza le vere finalità del progetto, mentre con l’altra rimaneva ben
attento ad assimilare le disposizioni che gli impartiva il Direttore per poterle
mettere correttamente in pratica. Da molto tempo ormai aveva imparato che anche
lui come ogni altro poteva essere sostituito senza difficoltà e che decine se
non centinaia di colleghi sarebbero stati ben felici di succedergli.
Andrea
ricordava bene la zona avendovi effettuato un sopralluogo pochi mesi prima in
compagnia di altri tecnici. Quel giorno,dopo aver attraversato l’immenso
agglomerato della periferia della città, si erano inerpicati per una strada
stretta e piena di tornanti fino alla
cima di una collina. Da lassù si poteva dominare tutta la pianura fino alla
costa e si vedeva anche il mare. L’abitato si estendeva a perdita d’occhio
quasi senza soluzione di continuità.
A
vederlo così, tutto sembrava ordinato,con i blocchi dei caseggiati ben
squadrati e le strade che si intersecavano o confluivano in piazze rotonde.
Anche gli spazi verdi apparivano numerosi. Ma Andrea aveva attraversato spesso
quella giungla e sapeva bene che i palazzi mostravano le facciate corrose dallo
smog e contenevano abitazioni per lo più fatiscenti,mentre le vie erano quasi
costantemente intasate da fiumi di auto e le piazze solo grandi contenitori di
veicoli posteggiati dappertutto. Anche il verde era solo un’illusione
ottica,perché da vicino ci si rendeva conto che si trattava solo di discariche
abusive per rifiuti e scorie.
In
quell’occasione qualcuno gli aveva fatto osservare che forse sarebbe stato
più opportuno spianare quelle inutili colline fino a ridurle a un immenso
altopiano. Per fortuna la zona era quasi disabitata e il lavoro si sarebbe fatto
in fretta a colpi di ruspa e di esplosivo.
Né
lui né gli altri avevano provato alcun dubbio o senso di colpa per la violenza
che proponevano. Si erano limitati ad un’arida quanto pacata discussione circa
le modalità tecniche. Avevano perfino azzardato dei preventivi, non gia per
interesse personale, dal momento che era la Società a pagare e che questa si
sarebbe a sua volta ampiamente rifatta con i finanziamenti pubblici,ma per puro
amore della speculazione. In fin dei conti quello era il loro lavoro e senza
dubbio c’era molta più soddisfazione nel progettare un’opera che nel
realizzarla, tenuto conto degli imprevisti, i problemi con le maestranze e le
proteste che certamente avrebbero sollevato quei rompiscatole degli
ambientalisti.
Come
Dio volle, il Direttore terminò il suo discorso. Andrea nel salutarlo guardò
per l’ultima volta il plastico. Ormai esso non era più un semplice modello in
miniatura ma una cosa concreta, capace quasi di vita autonoma. Al momento di
uscire, anche se in apparenza non lo dimostrò, si inchinò mentalmente come
di fronte a una immagine sacra. Almeno per quanto gli riguardava, era nato un
nuovo simulacro della civiltà urbana.
Quando
s’era accorto che le parole sul foglio finivano per assumere sempre un
significato diverso da quello voluto, Renato aveva smesso di scrivere. Ciò era
accaduto molti anni prima e da allora si era gettato anima e corpo in una lotta
impari contro la realtà, cercando con ogni mezzo di difendersi dai tranelli che
essa gli tendeva.
Il
momento più difficile era il risveglio perché ogni volta la realtà tentava
furiosamente di catturarlo con immagini e voci.Perciò aveva smesso di guardare,
senza curarsi delle cose che gli scivolavano davanti agli occhi come un
paesaggio dal finestrino. e aveva anche smesso di ascoltare, fino al punto da
non capire se i suoni che gli arrivavano alle orecchie fossero veramente rumori
o soltanto la voce del silenzio.
Però
la memoria gli si era come rafforzata, tanto che ormai riusciva perfettamente a
ricordare tutte le parole che non aveva mai detto e perfino quelle che non aveva
mai scritto, non dubitando affatto che potessero non essere reali ma solo
il frutto di immaginazione sfrenata, corrotta dai troppi anni di solitudine.Le
riteneva al contrario verità indiscutibili che erano potute riaffiorare
solo in virtù della rigida disciplina che si era imposto per affrancarsi
da ogni tentazione dell’effimero.
Ogni
tanto ricordava ancora - e nel ricordarlo non poteva fare a meno di
provare un brivido lungo la schiena- quanto era stata pesante da portare
la consapevolezza del tempo, perché per ogni cosa che cresceva inevitabilmente
ce ne era un altra che diminuiva.Non ci
aveva messo molto a capire che il problema stava proprio nei
legami che tenevano unite le cose e che bastava semplicemente reciderli
per liberarsi. Da allora si era dato da fare per tagliare in ogni aspetto della
sua esistenza la catena che teneva uniti gli eventi.
Aveva
molte donne e ad ognuna dava ciò che lei desiderava, semplicemente per pura intuizione e senza calcolo. E con ognuna sapeva
essere se stesso e anche qualcosa di più.Forse esse lo amavano per la
sua diversità o almeno così sembrava loro quando si smarrivano nella quieta
profondità dei suoi occhi o nei paesaggi
che andava delineando tra le nuvole dense del suo sigaro. In effetti nessuna
aveva capito che Renato le conquistava per
la sua capacità di non aver bisogno di parole e che,se non aveva futuro, in
fondo aveva molti passati, anche se a ben guardare si indovinava in tutti il
medesimo finale.Lui stesso aveva capito da un pezzo che ciascuna vita non si
distingue dalle altre se non nei
minuti particolari e che nell’esistenza e nel volto di tutti esistono
necessariamente un’enorme quantità di punti in comune. Riuscire ad
individuarli completamente avrebbe significato che non c’era nient’altro da
scoprire e che si poteva tranquillamente morire senza rimpianti.
Quella
mattina Renato si era alzato di buon’ora non già per
qualche assillo particolare o per necessità di lavoro,giacché da
molto tempo era riuscito a sottrarsi alle incombenze quotidiane, avendo
in odio qualunque attività ripetitiva o comunque non del tutto spontanea.
Perfino lavarsi e vestirsi stavano diventando per lui gesti intollerabili; più
di una volta si era interrotto bruscamente a metà, cercando disperatamente la
maniera per liberarsi anche da quel problema. Ogni volta intuiva di
essere vicino alla soluzione, perché anche in quel caso sarebbe bastato
interrompere le connessioni che legavano i gesti,solo che non sapeva bene dove
fossero e quindi dove affondare il suo bisturi impietoso. Così pure quella
mattina finì con l’accettare l’imposizione,considerandola solo una tregua,
sicuro che prima o poi sarebbe riuscito ad affrancarsi anche da quella schiavitù.
Tuttavia, quasi a voler riaffermare la propria superiorità,lasciò che i minuti
scorressero inutili, distanziando tra loro le varie
fasi.Contemporaneamente sentiva crescere dentro un desiderio del tutto diverso e
si scoprì a raccontarsi ciò che in fondo aveva sempre creduto di sapere. Ma la
voce ora aveva un timbro diverso e anche il suo viso allo specchio gli sembrava
cambiato.
Renato
si scordò completamente di ciò che stava facendo e dimenticò anche il luogo e
il momento. Mentre la sua mano teneva il pennello, rimanendo a mezz’aria e con
un tremito così sottile che solo avvicinandosi molto si sarebbe potuto notare,
mentre il sapone sul viso andava lentamente solidificandosi e si rapprendeva,
lasciando intravedere zigomi e guance ancora ispide, sentì una presenza
profonda invadere la stanza, così come fa il mare quando sale la marea.
Contemporaneamente la realtà cominciò pian piano a ritirarsi, denudando ogni
oggetto fino a privarlo del proprio significato esteriore. Anche i rumori
all’esterno cessarono di colpo o forse non ebbero più modo di entrare,
essendo rimasti privi di ogni appiglio plausibile dove potersi aggrappare,mentre
la luce diventò finalmente trasparente mano a mano che scomparivano le scorie
accumulate dall’usura del tempo.
Forse
nemmeno Renato era ben consapevole di quanto stava accadendo sebbene fosse ormai
abituato a quegli arrivi improvvisi Forse anche lui ebbe un attimo di esitazione
e perfino di panico nel comprendere che c’era ora un’altra presenza; e fu
proprio questa nuova presenza che seppe compiere ciò che a lui non era mai
riuscito, perché improvvisamente gli oggetti si trasformarono d’incanto fino
a diventare ciò che avrebbero voluto essere o che
erano stati una volta.
Il
legno,svilito in cornici e incastri, ritornò albero e l’acqua,
soffocata in tubi e strozzature, ridiventò fiume, mentre le mattonelle si
sgretolarono mostrando l’argilla di cui erano fatte. Ma poi anche quella realtà
divenne insufficiente a contenere tutto.
Renato
si accorse di essere all’aperto e di allontanarsi da quella città troppo
sporca. Ora volava al di sopra dei tetti ma non tanto da non poter essere visto,
e se nessuno lo notò non fu certo per la distanza,perché la sua sagoma
vagamente rapace si stagliava perfettamente
anche in quel cielo grigio per lo smog. Semplicemente in quel momento a
nessuno era venuto in mente di sollevare gli
occhi al cielo.
Quel
giorno lei indossava una veste rossa e i lunghi capelli ondeggiavano liberamente
sotto la brezza. L’inverno era quasi finito e sulle falde delle montagne la
prima erba cominciava interrompere il grigio dei sassi.
Aveva
deciso di seguirla all’improvviso e quando lei e le altre si furono
allontanate, legò il cavallo a un albero, avviandosi giù per il sentiero con
passo sicuro, incurante dei pericoli che avrebbe potuto correre.
Le
donne procedevano tranquille senza voltarsi mai indietro e ne avvertiva
chiaramente le voci e le risate. D’altronde in caso di necessità c’erano
ogni tanto dei cespugli ad offrirgli riparo. Comunque non ce ne fu bisogno perché
il gruppo continuò a scendere spedito, senza dar segni di essersi accorto di
nulla. Dopo un pò la discesa terminò e lui si fece più cauto. Ormai si
trovava in pieno territorio straniero; diede loro il tempo di distanziarsi
nascondendosi dietro un albero e quando furono sufficientemente lontane riprese
l’inseguimento. Notò che si dirigevano verso un boschetto poco distante e
immaginò che là si trovasse il loro insediamento. Ora che la sua curiosità
poteva ritenersi appagata,non gli restava che tornarsene a casa.Stava quasi per
farlo quando udì all’improvviso i latrati di un cane.Il gruppo,incitato dal
richiamo dell’animale, prese a muoversi più rapido,ma dopo un breve tratto,
mentre le altre proseguivano,lei si arrestò di colpo, chinandosi come
nell’atto di raccogliere qualcosa.In quel momento lui era allo scoperto ma non
pensava affatto di poter essere avvistato. Eppure la donna, inaspettatamente,nel
rialzarsi si girò di colpo nella sua direzione. Sebbene la distanza fosse
notevole, fu certo di essere stato visto e riconosciuto, ma,un pò per la
sorpresa e un pò per l’imbarazzo, rimase fermo a guardarla.
Subito
dopo giunse dalle compagne un breve
grido di richiamo e la donna si scosse, riprendendo il cammino verso casa.
Anche lui udì chiaramente la voce; fu così che comprese che quel suono breve e sconosciuto era il nome di lei. Per paura di dimenticarla, ripeté mentalmente quella strana parola più di una volta e continuò a ripeterla anche dopo risalendo rapidamente il pendio. Nemmeno per un istante dubitò che quello potesse non essere il suo nome ma solo un comune richiamo. Raggiunse il cavallo che era quasi il tramonto, mentre un immenso sole rosso inondava di riflessi la vallata.
Lo
vedo chiaramente e non mi stupisco affatto che si avvii a passi incerti verso
l’animale per poi riprendere svogliatamente la strada verso il villaggio,
comunicando anche alla bestia attraverso le redini la stessa penosa sensazione.
Comprendo perfettamente che se continua ad indugiare non é certo per caso ma
per la difficoltà di conciliare con se stesso lo spiraglio del nuovo mondo
appena intravisto. Riesco perfino a immaginare sulla sua testa una grande nuvola
scura con ali di vento che gli confonde i pensieri facendoli ondeggiare come
campo di grano.
Renato
ora mi sta guardando con aria truce; forse é arrabbiato credendo che voglia
rubargli la storia o quanto meno anticiparne i tempi. Del resto lui sa che io ho
l’innegabile vantaggio di conoscere già il nome di lei e teme che possa
rovinare tutto rivelandolo prematuramente.
“Anch’io
una volta ho provato quella stessa incertezza, al punto da dimenticare me
stesso. Ma questa é un’altra storia e non credo valga la pena di
raccontarla.” mi dice poi, convinto che io abbia bisogno di una spiegazione.
Intanto il guerriero sembra aver risolto il suo problema; approfittando di questo piccolo intoppo tra noi, ha raggiunto la sua casa. Renato e io lo ritroviamo accanto al fuoco quasi morente,avvolto nel mantello come se avesse freddo. Sua moglie e il figlio dormono poco distanti e ogni tanto piccoli e improvvisi bagliori illuminano i loro visi sereni. Poi la brace si spegne e lui finalmente si decide ad andare a dormire. Cautamente solleva le pelli di pecora e si stende accanto a loro. Chiude gli occhi e con un filo di voce quasi impercettibile sussurra una sola breve parola “Iris”.
Contemporaneamente una scintilla rischiara inaspettatamente la
stanza, ma dura solo un attimo e tutto ritorna buio e silenzio.
“Come
vorrei che il silenzio di questa notte non finisse mai” sospira Renato tra le
pieghe della sua camicia leggera, fin troppo leggera per quel posto di montagna.
Lo ascolto, fingendomi distratto per non dargli soggezione, mentre una parte di
me resta comunque attenta, cercando di ricordare.
“Un
giorno, tra le note morenti del sole, ma lontano da qui, ti racconterò il
resto. Ora é tardi e devo andare a dormire, anche se non ne ho voglia. Così,solo
per dare alla mia vita una parvenza d’ordine.” mi sussurra, fiaccato da
troppe battaglie perse, ma non del tutto vinto.
“Cosa
vuoi che ti dica” gli rispondo “Se proprio ci tieni, andiamo a casa. Del
resto anch’io sono stanco e non ho più voglia di volare. Indovino nella notte
che sta esplodendo quaggiù oscure immensità difficili da attraversare. Per
giunta anche il tempo che dovremmo risalire ora mi sembra enorme. Meglio andare
a dormire.”
Quasi
per magia o forse per dispetto, ci ritroviamo entrambi là donde siamo partiti.
Lui nel suo cesso e io sulla pagina greve di segni da decifrare.
Se
qualcuno vent’anni prima gli avesse detto che il suo impegno negli studi lo
avrebbe condotto solo a una vita monotona e priva di aspirazioni, Andrea si
sarebbe messo a ridere, celando a mala pena
il proprio compatimento. In verità un suo amico che
aveva abbandonato la scuola dopo il diploma di maturità, dedicandosi al
commercio sulle orme paterne, aveva già tentato di dirgli qualcosa di
simile. Eppure Andrea non si era fatto impressionare da tutto il denaro che
l’amico diceva di guadagnare quasi senza sforzo,sicuro che la sua futura
professione gli avrebbe procurato non solo agiatezza ma anche prestigio e dignità.
Era convinto che queste cose fossero indissolubilmente unite e che quindi,se
avesse imparato a far bene l’ingegnere,non poteva marcargli il successo in
ogni senso.Forte di questa convinzione frequentò con scrupolo i corsi
universitari.Dedicava allo studio molte ore al giorno e solo nei fine settimana
si concedeva qualche svago. In quel periodo le donne furono per lui un interesse
solo marginale, non già perché non gli interessassero bensì perché
temeva che potessero distrarlo.Quindi le sue esperienze in materia poterono
contarsi sulle dita di una sola mano.
In quegli anni l’Università era lacerata dalla contestazione studentesca e non passava giorno che non venisse occupato un Istituto o che non vi si svolgesse un’assemblea. Andrea si teneva accuratamente fuori da ogni manifestazione,prefiggendosi come unico scopo il conseguimento della laurea al più presto possibile. Delle altre questioni non si interessava minimamente anche se non riusciva a reprimere un vago senso di invidia ogni volta che incontrava nei corridoi dell’Università quei suoi colleghi barbuti, quasi sempre circondati da belle ragazze, impegnati tra loro o con i docenti in interminabili discussioni che non sembravano approdare mai a nulla. Andrea non aveva alcuna dimestichezza con essi, anzi provava disagio anche al solo guardarli, nonostante questi lo ignorassero ostentatamente.
In fatto di studio si considerava un conservatore e non condivideva affatto il progressivo sovvertimento delle regole tipico quel periodo. Ciò comunque non gli impedì di approfittare delle novità se gli tornava utile; e così,quando si istituirono anche nella sua Facoltà piani dì studio diversificati,ne adottò subito uno,consigliato dalla Facoltà stessa,che gli consentiva di eliminare alcuni degli esami più noiosi. Tuttavia,intuendo che le cose prima o poi sarebbero cambiate,astutamente presentò un piano che copriva l’intero corso di laurea e una volta ricevuta l’approvazione si guardò bene dal chiedere ulteriori modifiche.
I
fatti gli dettero ragione perché negli anni successivi i professori, resisi
conto dei propri errori, si adoperarono per ripristinare gradualmente il vecchio
ordinamento. Il suo piano tuttavia, ormai approvato, rimase valido. Il problema
sorse al momento di discutere la tesi e sostenere l’esame finale,perché i
docenti costatarono che quel corso di studi era ormai fuori legge. Comunque,
avendolo essi stessi consigliato e ratificato, non poterono impedirgli di
laurearsi e per giunta a pieni voti.
Dopo
la laurea Andrea si dette subito da fare, continuando a frequentare
l’Università come volontario e aggregandosi ad uno studio professionale
specializzato in edilizia. Tutto ciò senza alcuna retribuzione o riconoscimento
di carriera. Per giunta ogni sera, quando tornava a casa stanco e affamato, dopo
una breve pausa per rifocillarsi, si metteva a studiare per chiarire i problemi
e i dubbi sorti durante la giornata. In quel periodo in effetti di incertezze ne
aveva molte, tanto che spesso gli capitava di vergognarsi di fronte ai colleghi
anziani che pareva ne sapessero sempre più di lui. Mai gli sfiorò l’idea che
l’alterigia e la sufficienza da loro ostentata potesse invece celare
un’ignoranza superiore alla sua. Purtroppo non aveva ancora capito che
l’esperienza professionale consente spesso di raggiungere apparentemente
l’obiettivo anche senza una completa conoscenza dei presupposti teorici,
servendosi semplicemente di mezzi che empiricamente erano risultati efficaci.
Soprattutto non sapeva ancora che nella carriera raramente competenza e
successo vanno di pari passo. D’altronde, se avesse compreso già da
allora queste due banali verità, forse avrebbe abbandonato fin dall’inizio
quella strada per dedicarsi come quel suo amico ad attività più redditizie.
In
quel periodo Andrea viveva come in sogno, con la differenza che in sogno non ci
si sente mai depressi. Le donne continuarono ad essere per lui quasi un
miraggio, mancandogli tempo e denaro per frequentarle. Per di più non era mai
stato bello e la pinguedine che cominciava ad affliggerlo per la vita troppo
sedentaria non migliorava
certo il suo aspetto.
Poi
un giorno aveva conosciuto Barbara e da quel momento tutto gli era
sembrato più facile. S’erano sposati non appena era riuscito a farsi assumere
da una grossa Società che si occupava di progettazione e costruzioni edilizie.
Ottenere
quell’impiego gli sembrò al momento un colpo di fortuna.Si era presentato al
colloquio dopo aver letto l’inserzione sul giornale e aveva atteso insieme con
molti altri aspiranti in una sala di un bianco luminoso e freddo. Dietro una
scrivania,anch’essa bianca, un’impiegata li scrutava accigliata, forse al
pensiero che quel giorno sarebbe stata costretta a trattenersi oltre l’orario
finché la selezione non fosse terminata. Ma Andrea non si lasciò intimidire
dal suo atteggiamento né tantomeno da quello degli esaminatori quando
finalmente arrivò al loro cospetto.
Fu
invitato senza preamboli ad accomodarsi di fronte ad una grande scrivania di
cristallo, dietro la quale sedevano tre uomini. Dopo un attimo di silenzio che
ad Andrea sembrò interminabile e che occupò a guardarsi le mani, tenute
rigidamente appoggiate al ripiano del tavolo, mentre il personaggio al centro
continuava a scorrere velocemente il suo scarno curriculum, gli vennero
formulate una serie di domande tecniche che giudicò un pò banali ma alle quali
si sforzò di rispondere esaurientemente. Due degli esaminatori, peraltro
ostentatamente annoiati, sembrarono ritenersi soddisfatti, ma quello di mezzo,
più anziano e dagli occhi mobili e attenti, non fu dello stesso parere. “E’
un pò poco per ottenere un posto del genere. Davvero é tutto qui quello che
sa?” gli chiese con un sorrisetto ironico.
Li
per lì l’osservazione gli parve una provocazione. Solo molti anni dopo
avrebbe saputo che era stato invece da parte di costui un vero gesto di
simpatia,il primo della giornata, perché solo in quel momento le compresse che
aveva ingerito stavano cominciando a calmare la sua forte emicrania. Poi, senza
lasciargli il tempo di replicare (e questa fu una fortuna perché evitò che
Andrea gli rispondesse sgarbatamente come era sua intenzione), gli porse dei
fogli arrotolati chiedendogli di esaminarli.
Era
un progetto di ristrutturazione del centro storico della città, che non
differiva di molto dai tanti che gli era capitato di vedere; come tutti gli
altri si basava sul presupposto che per risanare il quartiere fosse sufficiente
intervenire sulle strutture edilizie.
Il
piccoletto lo guardava in silenzio mentre lui continuava a fissare i disegni
fingendo un grande interesse, ma quando Andrea sollevò la testa e i loro occhi
si incontrarono gli sembrò di leggere nel suo sguardo un lampo di ironia. Ormai
si era reso conto che gli altri due esaminatori non contavano granché e che se
voleva quel posto doveva far colpo proprio sull’uomo seduto al centro (solo in
seguito avrebbe saputo che questi era proprio il Direttore della Società). Così,
quando costui gli rinnovò l’invito ad esprimere il proprio parere sul
progetto, Andrea rimase per un istante interdetto su quale potesse essere la
risposta migliore. Gli era sempre piaciuto il gioco d’azzardo e si rendeva
conto che in quel momento lui stava per giocarsi tutto in una mossa sola. Se
fosse andata male sarebbe rimasto disoccupato,viceversa,se quella che aveva in
mente era davvero la risposta che l’interlocutore si aspettava, avrebbe
sicuramente ottenuto quell’impiego.
Il
Direttore continuava a guardarlo ma la sua espressione da divertita si stava
trasformando in impaziente. Non c’era più tempo per pensare; seguendo il suo
istinto e puntellandosi ai braccioli poltroncina per rendere la sua fuga più
rapida se l’avessero cacciato, gli rispose d’un fiato: “Questo progetto
come tutti gli altri gioverebbe solo alla Società che si fosse aggiudicata
l’appalto.”
L’ometto
per un lungo istante lo guardò dritto in faccia senza parlare,poi si voltò
prima verso uno e poi verso l’altro esaminatore e alla fine scoppiò in una
fragorosa risata. Subito dopo gli altri due si unirono a lui ma ormai fuori
tempo perché il Direttore li bloccò con un cenno imperioso e,rivolgendosi ad
Andrea, disse: “Non c’é dubbio.Il posto é suo. Ora può andare.”