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4 e 5 incontro

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22 e 29/3/2014 – 4 e 5° INCONTRO MINISTRI DELLA COMUNIONE – DIACONO G. BRUNO

Condivisione sugli interrogativi postici:
 E a te, nel deserto della vita, come ti tenta il demonio?
 Il diavolo tenta usando anche la Parola e Paternità di Dio (“se sei il Figlio di Dio”), ti accorgi di questo?
 E tu come gli rispondi?  combatti? Con quali armi?
PASTORALE INTEGRATA E
MINISTERI DELLA COMUNIONE E DELLA CONSOLAZIONE
L’Eucaristia ai malati deve essere situata in un contesto più ricco, deve essere un punto di vertice che va coltivato in varie maniere. Va impostata una pastorale che operi a ritmo permanente e su misura di tutte le fragilità. Serve una “rete” che parte dalla parrocchia e va verso chiunque si lascia raggiungere con la propria accogliente disponibilità. Possono, forse, scarseggiare le persone, preparate e motivate, da inviare a rendere presente la comunità cristiana ma non mancano le persone con sofferenze di vario genere e con miglioramenti da fare nella loro vita cristiana, personale, comunitaria e familiare.
Nella società odierna si incontrano varie situazioni ma sopratutto famiglie curve sui loro problemi e sbilanciate su altri versanti rispetto alla vita cristiana. In genere, la cultura attuale sogna un’umanità perfetta, con la possibilità di un corpo perfetto, di un figlio perfetto, di una eliminazione totale del dolore, di una salute piena e perfino con la pretesa di vincere la morte, gestendola in proprio, anticipandola (eutanasia) o procrastinandola (accanimento terapeutico). E in parrocchia? non serve proprio a nessuno fare da spettatori impotenti! I nostri fratelli più “piccoli”, ed anche noi, abbiamo bisogno della preghiera, rettitudine, maturità di vita cristiana e di dedizione ai  fratelli sofferenti: sono le premesse che cambiano la vita in noi e, poi, anche nei portatori di disagio a cui siamo chiamati ad avvicinarci. Oggi si parla sempre più di “pastorale integrata”: è un discorso che deve divenire una prassi. Il servizio dei Ministri straordinari, facendo così, viene a situarsi in un intreccio di iniziative a favore dei malati. È importante non lasciare questo servizio isolato, scoordinato, senza gli opportuni legami con la comunità e con le sue singole componenti. Tutto questo sviluppa la vita cristiana di tutti e in questo modo, la comunione ai malati diventa il vertice di un vasto movimento a loro favore.

Dice Giovanni Paolo II (Salvifici Doloris, n.30) “Tutti coloro che soffrono sono stati chiamati una volta per sempre a diventare partecipi «delle sofferenze di Cristo». Così, come tutti sono stati chiamati a «completare» con la propria sofferenza «quello che manca ai patimenti di Cristo». Cristo allo stesso tempo ha insegnato all’uomo a fare del bene con la sofferenza e a fare del bene a chi soffre. In questo duplice aspetto egli ha svelato fino in fondo il senso della sofferenza”. Scrive San Paolo Col 1,24 “sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa”.

Il Ministro straordinario della comunione è chiamato ad essere se stesso! Non sostituisce nessuno: né il sacerdote, né lo psicologo, né l’assistente sociale! Egli però può incontrare situazioni difficili. L’infermità improvvisa, invalidante e permanente potrebbe creare nelle persone un senso di sconforto molto grave. Una specie di pre-morte. Ne derivano chiusura, sfiducia, depressione, amarezza per la presa di distanza di amici e, forse di familiari. Dopo un’assidua vita in parrocchia, forse anche la parrocchia sembra svanita. Questi momenti sono ardui, rischiosi, per il malato e anche per il Ministro.  Occorre aggrapparsi al Vangelo e darne testimonianza. Dio per rivelarsi a noi s’è rivestito di fragilità. Gesù a Betlemme, sul Calvario. Sua Madre è l’umile Serva. La Risurrezione, pane e vino dell’Eucaristia. Gesù ha riservato grandi spazi ai deboli, ai poveri, ai malati, alle «pietre scartate», ai disabili, ai disprezzati. Cristo si muove nella debolezza e nell’umiltà. Perché? La fragilità è una costante della vita umana. Talora, è la dominante. Gesù l’ha scelta. E nei momenti più atroci, sul Getsemani e sulla croce, s’è riaffidato al Padre: “Nelle tue mani, o Padre, consegno il mio spirito”. È la strada sicura. Seguiamo Gesù e ci consegniamo a Lui illuminati dalla trepida lanterna della speranza pasquale.

Ricevere la “comunione”, fare comunione con Gesù Risorto, non deve essere un «rito» momentaneo, esteriore ma sia come fare «un pieno» di vita; sia un dono di risurrezione interiore. La Comunione eucaristica domenicale va realmente vissuta come l’incontro che stringe in fortissima comunione di vita con il Signore risorto. “Chi mangia di me, anch’egli vivrà per me” (Gv 6,57). L’incontro con Cristo risorto moltiplica e qualifica la vita del malato. Nella fede viva la fragilità sarà trasfigurata dalla Grazia (come sul Tabor). La fragilità da problema angosciante, se impastata nella Grazia pasquale, susciterà nel paziente e in chi condivide quel cammino, un indicibile amore che fa delle proprie vite un dono. La fragilità, offerta a Cristo, prende i colori che ha nella vita di Cristo e illuminata dalla luce pasquale, risplende e diviene diffusione di amore, per “completare quanto manca alla passione di Cristo”(Col 1,24). Ecco, fratello, la grande importanza del servizio che svolgi o svolgerai come Ministro straordinario. Questo ministero messo in atto dalla carità della Chiesa, si allarga a tutta la vita del malato. L’incontro di Cristo diviene comunione con Lui. In comunione con Lui, la vita si trasforma realmente. Ma devi far sì che l’incontro sia così vero e toccante da ricostruire nell’amicizia e nel dono scambievole con Cristo, la vita del malato. Questo, in qualità di Ministro devi saperlo, devi volerlo aiutando e incoraggiando il malato con parole adatte e con la tua preghiera segreta.

Il Documento dei Vescovi italiani alle nostre Chiese, dopo il Convegno di Verona  2007 definisce la comunità cristiana “Una comunità forte delle sue membra in apparenza più deboli” (n. 12). Ma anche quelle «membra» hanno bisogno della forza proveniente dall’appartenenza comunitaria. Il malato in una parrocchia viva, non è né un numero, né uno zero. È, e deve essere considerato, un discepolo di Cristo a pieno titolo. Una persona cresciuta anche nella conoscenza degli aspetti vari della vita della comunità. Un tale itinerario creerà dei problemi? Ma non importa. Certo, vanno tenuti presenti le capacità, l’età, l’estensione dei limiti imposti dalla menomazione, ecc. ma questa aria nuova farà molto bene nei polmoni di tutta la comunità. Il malato diviene presenza significativa nella comunità. Cresce il valore della sua testimonianza e fa crescere quella degli altri. Avvia o potenzia un’aggiornata pastorale per i malati e per tutta la vasta fascia della sofferenza, facilmente dimenticata. Acquista pieno valore, personale e comunitario, il servizio del Ministro Straordinario, che porta la comunione eucaristica agli impediti, ogni domenica.

La sofferenza in misura variabile e in tempi imprevedibili entra in casa, senza bussare: specialmente nella malattia o nella vecchiaia s’imprime nei volti, nelle ossa, e nei cuori. C’è da restarne stravolti. Si fa acuto il bisogno di essere confortati, consolati, per non appesantire il respiro della fede. Il ministro della comunione deve prendersi a cuore le persone che versano in queste condizioni. Questo ministero così si abbina con una sorta di ministero della consolazione ministero della consolazione. Gesù ha incontrato spesso persone malate, disabili o comunque ferite nella loro vita mostrando un cuore sempre accogliente, capace di piena partecipazione. Poi, ha mandato lo Spirito consolatore, che dimora nei credenti e dà loro la grazia di spandere luce nelle giornate buie dei fratelli, quando la tristezza schiaccia e distrugge tutte le forze, la fede corre rischi e la speranza geme. Lo Spirito «consola» con un dono custodito nella coscienza del ministro. Il ministero della consolazione e il ministero della comunione non coincidono, ma in questi casi, interagiscono. Lo S.S. consegna la sua consolazione e dona conforto e sostegno mediante l’azione del ministro. Così avviene un ritorno di serenità nella persona che sta per ricevere il Cristo risorto. Tu, in qualità di ministro, presti te stesso a Gesù per farsi presente in una stanza di sofferenza; presti te stesso allo Spirito per trasmettere serenità, solidarietà, speranza e amore nel profondo di un’anima calpestata dalla sofferenza o dalla paura. Per questo serve matura discrezione. Parole false, mai. Parole facili e vuote, mai. Un fare scanzonato o contorto offende. Questi modi ricacciano il malato nella sua solitudine e lo inaspriscono. Invece: umiltà, senza misure; tanta densità di vita; amore limpido, senza stancarsi; e la fede, tutta. È lo S.S. che consola i cuori affranti. Lui ispira gesti e parole. Lo S.S., per il servizio del ministro, porta “dolcissimo sollievo, che invade nell’intimo il cuore”. Per questo occorre che lo S.S. ti renda consapevole che non hai nulla di tuo da dare, ma un Altro opera per mezzo di te. Nel tuo servizio sarai docile strumento dello S.S. se rimani vicino alla preghiera. Se lo stato d’animo del malato lo richiede imbastisci tutto l’incontro sulla consolazione, scegliendo una lettura biblica adatta con poche parole di commento e una breve “preghiera dei fedeli” armonizzate alla consolazione. Così, spesso, le amarezze che rigavano di lacrime un volto diventeranno il segno di commossa partecipazione alla Pasqua di Gesù. E lo Spirito farà maturare “il suo frutto: amore, gioia, pace” nel cuore.
A questo punto, si riceve come caldo abbraccio la comunione con Cristo, Lui che ha chiamato a Sé tutti gli “affaticati ed oppressi”; che accoglie le nostre pene per trasfondervi un palpito di speranza. E lo Spirito si dona come “luce dei cuori”, dissipa gli incubi e riscalda di confidenza il rapporto con il Padre e con le persone.

Quando un Ministro porta l’Eucaristia ad un malato desidera trovarlo sereno, accogliente e con segni visibili del cuore aperto. Ma s’incontrano talvolta situazioni non facili. I lunghi silenzi, la solitudine hanno prodotto qualche lacerazione nell’animo. Silenzi e solitudine quando sono routine quotidiana possono generare pessimismo e nervi tesi. Silenzi, solitudine, abbandono affettivo scottano tra le mani. Ma, se raggiunti da una calda presenza di Cristo quei lunghi silenzi nascondono il tesoro.
Gesù è il Maestro, guardiamo a Lui! Nei momenti della sua Passione ha custodito il suo cuore in un intenso silenzio. È stato abbandonato e tradito da un discepolo. C’erano vicino a lui molte persone astiose e nemiche. Lui si mantiene in silenzio. È circondato dalla folla, ma lo accompagnano con il cuore commosso solo Maria, Giovanni e poche donne. Gesù sta in raccoglimento. Anche sulla croce resta in preghiera. Il silenzio gestito sull’esempio di Gesù trasmette messaggi ricchi, umani e divini. Il malato, cronico o occasionale, l’anziano e il disabile alla motorietà ha bisogno di scoprire il silenzio come risorsa, da sfruttare al meglio. Questo non è compito diretto del Ministro ma quando il Signore ci manda accanto a chi è nel buio, bisogna donare un bagliore di luce. Con l’aiuto di Maria, con il tempo e la pazienza l’oscurità desolata deve colorarsi del mistero di Cristo. Ci affianchiamo alle persone: con Cristo le aiutiamo a fare posto alla novità che arricchisce silenzi e solitudine. Quando il sole scalda forte, dissipa la nebbia.

Insieme alla preghiera, al ministro serve tatto e pazienza. Non è da demolire la televisione o la lettura. Ma certa televisione devastante e letture velenose, sì. Bisogna risanare il terreno prima di seminare il grano. Talora, i sacrifici si fanno per cose senza senso. Qui c’è di mezzo Cristo e la sua Pasqua che mette radici in noi, trasformando tutto. Al malato si possono indicare, secondo le situazioni personali, trasmissioni radio o televisive, come Telepace, Radio Maria, Sat2000, Tele Padre Pio, ecc..; indicare ottimi siti Internet o prestare CD o DVD. Tutto osare per spazzare via quel grigiore uggioso che soffoca la vita e non lascia spazio né a Cristo né alla persona. Certa tv è inquinante! A noi preme far di tutto perché il malato, come persona e come cristiano, si senta importante. È un chiamato alla santità nella condizione che gli è propria. In quella condizione al malato va dato un aiuto del Signore, per il bene suo e per fare del bene a tutti. Questo è “far comunione” con Cristo. Dobbiamo scuotere, risvegliare la fede, far passare il suo tempo da peso schiacciante a tesoro prezioso, secondo le vie del Vangelo. Questo garantisce che non si porta la comunione ad un fratello dal cuore angustiato o desertificato ma a un tralcio vivo che fa molto frutto. I suoi giorni diventano ricchezza per lui e per tutti e l’angoscia si tinge dei colori del Mistero di Cristo.

Nell’eucarestia vi è un amore da testimoniare: è un gesto che richiede tempo e dedizione, non fugace e muta consegna! Il servizio del ministro straordinario della comunione è molto diverso da ogni altro. C’è coinvolto il suo tempo e la disponibilità umana, fatta di cortesia e di rispetto. È chiamata in causa la fede, stampata nella propria vita. È prendersi a cuore una o più persone ammalate della propria parrocchia, e farsi accanto a loro rappresentante della comunità. Questo rimanda alla testimonianza e alla parola, perchè animino l’incontro con il Signore. È questa la cornice unica, sempre nuova e indispensabile in cui, dalla Messa parrocchiale, si porta l’Eucaristia ai malati.

L’ascolto della Parola apre la strada all’Eucaristia. È la comunione con la Parola nella fede che prepara l’incontro con Cristo. È intrattenersi sul Vangelo che ravviva il desiderio. Un cuore ospita più degnamente Gesù quando è stato raggiunto, purificato e riacceso dalla Parola ascoltata e accolta con amore. Questa accoglienza personalizzata sotto l’azione dello Spirito Santo predispone un uomo o una donna a ricevere la comunione eucaristica con vera intensità. Comunione non limitata a un momento, ma s’estende a tutta la vita e la permea di amore nei vari comportamenti. Il Ministro sappia bene quale lettura farà, l’abbia letta, riletta, capita, pregata e sia capace di presentarla al malato, non come una chiacchierata, ma come il dono non generico di Gesù a lui, quel giorno. Al malato va fatto un servizio degno, ricco di proprietà e bellezza. E a Cristo va offerto il servizio con tutto il meglio di noi stessi. In questo impegno non si gioca né al ribasso, né al risparmio di sé. Al malato va fatto il dono della Parola, con interventi brevi, con espressioni semplici, vive, vibranti di calore pasquale e di amore a Cristo. Così, ministro e malato vivono quel rito con intima consolazione. Ci sono malati già pronti. Altri saranno da scuotere e da educare verso una maturità da conquistare. Per tutti, il momento della comunione eucaristica deve diventare reale comunione di vita con il Signore. L’Eucaristia è «memoria viva» di ciò che ha fatto Lui, e, seguendolo, viene di fare dono della propria vita, per amore a Lui e ai fratelli. Cristo che si fa dono sino alla croce ha molto da dire a tutti. Specialmente a malati, che lottano tra dono nell’amore o naufragio nella disperazione e nella non-fede. Occorre procedere piano. Pazienza e dolcezza sono necessarie per coltivare la relazione con il malato e suscitare attesa e desiderio. Proprio in tutto questo vedo l’ennesima conferma della delicatezza e della complessità dell’azione del ministro straordinario. Certamente, siamo molto lontani da una fugace e distratta consegna del Corpo del Signore ad un malato più lambito che visitato.

Gesù va portato in cuore prima che nelle mani: se Gesù non è portato con cuore pieno, si trova a disagio anche nelle nostre mani. Forse, anche il malato percepisce il disagio e lo riceve con le labbra, ma non con il cuore. Il ministro si faccia aiutare per formarsi così da formare il malato o l’anziano o il disabile a compiere un considerevole miglioramento nella sua vita cristiana. Con qualche malato si dovrà partire da una religiosità sbandata su derive devozionali poco accettabili; oppure, da un vissuto rimasto o tornato pagano. Bisogna fare il possibile per mettere ordine nella vita spirituale dei malati. Il centro c’è: Cristo nella sua Pasqua, da vivere ogni settimana, nel Giorno del Signore. Poi, la preghiera come intima apertura del cuore al Signore, che deve prendere il ritmo della quotidianità. Le devozioni non sono da scartare, ma da far convergere decisamente alla centralità di Cristo. S. Rita, S. Padre Pio, i pellegrinaggi, il primo venerdì del mese, Maria: tutto deve portare diritto a Lui. Nell’Anno liturgico, dall’avvento alla Pasqua, i malati devono essere accompagnati a seguire il Signore con amore e gratitudine.

Ricevere la comunione in casa ogni domenica; essere affetti da patologie di vario genere senza prevedibile scadenza: tutto potrebbe degenerare in abitudine consumata e tesa. Ma non deve essere così. Il ministro sia attento e ingegnoso. La comunione nei vari tempi e circostanze, si colora di novità. L’infermità, l’inabilità e il dolore, nei vari tempi dell’Anno liturgico, prendono sfumature nuove, in sintonia con Cristo. Cristo risorto, portato dal ministro, viene a dare amore, fiducia e serenità a ogni cuore che gli si apre. Lui stesso «semina» le beatitudini e le fa crescere nei cuori assetati di consolazione. La speranza è una risorsa primaria, sempre da rialimentare. Il ministro faccia lievitare con le parole della fede, tutti i fermenti positivi, perché i malati aprano la loro vita a consapevole fecondità nella parrocchia e per un contagio salutare verso altri malati.

Occorre Offrire un aiuto per la “confessione”. Per mezzo del sacramento della Penitenza  Cristo si pone sulle spalle la pecora smarrita per riportarla all’ovile, e lo Spirito Santo santifica nuovamente il suo tempio o intensifica in esso la sua presenza. Il Sacramento della Riconciliazione libera il malato dai peccati e lo rende disponibile ad unire le sue pene alla passione di Cristo. Qualche malato potrebbe avere bisogno di assaporare questo sacramento che ricolma di misericordia, dona gioia e rilancia una ripresa. È nato “la sera di quello stesso giorno”, quello della risurrezione di Cristo: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Alitò sugli apostoli e disse: “Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi; a chi non li rimetterete resteranno non rimessi” (Gv 20,22-23). A volte Gesù nei racconti evangelici, dice: “Ti sono rimessi i tuoi peccati”. Questo oggi lo compie con ognuno di noi, nel sacramento della Penitenza. È un abbraccio del suo amore gratuito con il mio cuore pentito dei peccati vari.
Con rispettosa delicatezza, il Ministro della comunione tocchi questo discorso. E vi entri, se la porta si apre. Nel malato si potrebbero nascondere ombre da dissipare. E paure segrete da rimuovere. Anche disaffezione, pigrizie e radicati sospetti da dissolvere. A volte s’annida vergogna dei peccati, perché gravi, nascosti e mai confessati. Forse, s’arrestò tutto a causa di un’infelice esperienza, lontana di anni. Finché non ci si fissa su Cristo, ma sul prete o sui peccati propri, tutto arranca. Gesù ha per archivio il suo cuore misericordioso e la sua memoria si chiama «misericordia infinita». Se questo penetra in cuore, lo riempie di commozione e di gratitudine.
Forse il Ministro della comunione dovrà fare un’altra cosa: sollecitare o ricordare al parroco di far visita a quel malato o a quell’anziano. Oppure, quando il parroco proprio non potesse, bisognerà domandare a un altro sacerdote di compiere questo gesto di squisita carità verso i malati.

L’Unzione dei malati è infine un Sacramento da valorizzare. È un discorso da capire bene. In realtà, responsabile della celebrazione del sacramento dell’Unzione è il Parroco o il pastore. Il Ministro straordinario non deve commettere nessuna “invasione di campo”, ma tenersi pronto affinché nelle frequenti visite al malato, parli di questo sacramento. Spieghi che ha cambiato nome e destinazione pastorale. Si chiamava “Estrema Unzione” e si rimandava al momento del trapasso. Suscitava apprensione nel malato e sconforto nei familiari, perché era l’avviso della fine imminente. Il Concilio Vaticano II ha rivalutato l’aspetto più proprio del sacramento. Quando un malato è in condizioni serie, o sta per subire un intervento grave, o è indebolito da avanzata anzianità, la Comunità cristiana riunita dal Parroco, gli si stringe intorno, per pregare e per celebrare la santa Unzione. Con il sacramento Gesù riversa grazia, forza, sostegno sul malato, che, a sua volta, riversa sofferenze e trepidazione nella passione redentrice del Signore. Occorre rettificare storture nel malato o nell’anziano, mettere a punto la sua fede e ne viene una fecondità preziosa alle sue giornate. Il sacramento può essere conferito più di una volta ed è un dono di grazia da desiderare e non da scongiurare. Il Ministro provveda ad avvisare il Parroco quando avviene un aggravamento nelle condizioni del malato.

Per la sua importanza: la carità e le direttive della Chiesa hanno messo in piedi un’organica pastorale per i malati. È ricca, articolata e coinvolge malati e Comunità. Il Ministro deve conoscerla e promuoverla, secondo le sue competenze. In questo percorso spirituale, il sacramento della Penitenza precede; poi, se è il caso, segue il sacramento dell’Unzione; il centro è l’Eucaristia, che porta al vertice la comunione con Cristo e con le membra del suo corpo. È bene poi, privilegiare per l’Unzione, la celebrazione comunitaria in parrocchia o in cattedrale. Ciò riesce più difficile in corsia; in casa si potrà celebrare la Messa inserendovi il sacramento, alla presenza di parenti e persone della Comunità. Poi, il malato va aiutato, con vicinanza delicata, a “sfruttare” il sacramento ricevuto, perchè in lui si moltiplichi la grazia e la malattia diventi una stagione di santificazione.
Quando il presbitero “unge” il malato sulla fronte e sulle mani, dice queste parole: “Per questa santa Unzione e la sua piissima misericordia, ti aiuti il Signore con la grazia dello Spirito Santo.”. Poi aggiunge: “E, liberandoti dai peccati, ti salvi e nella sua bontà ti sollevi.”.
Il sacramento dell’Unzione, preparato bene, celebrato bene e ben interiorizzato, porta il malato a una più calda esperienza con il Cristo crocifisso e risorto ed anche con la propria comunità di cui si sente parte viva e feconda e non inutile o dimenticata. Proprio tutto ciò, se è nei disegni di Dio, può portare ad una ripresa psichica e fisica del malato.


Allegato per la meditazione:  29/3/2014  al 5° INCONTRO MINISTRI DELLA COMUNIONE

PAPA FRANCESCO - UDIENZA GENERALE - Mercoledì, 5 febbraio 2014
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!   Oggi vi parlerò dell'Eucaristia. L'Eucaristia si colloca nel cuore dell’«iniziazione cristiana», insieme al Battesimo e alla Confermazione, e costituisce la sorgente della vita stessa della Chiesa. Da questo Sacramento dell’amore, infatti, scaturisce ogni autentico cammino di fede, di comunione e di testimonianza.
Quello che vediamo quando ci raduniamo per celebrare l’Eucaristia, la Messa, ci fa già intuire che cosa stiamo per vivere. Al centro dello spazio destinato alla celebrazione si trova l’altare, che è una mensa, ricoperta da una tovaglia, e questo ci fa pensare ad un banchetto. Sulla mensa c’è una croce, ad indicare che su quell’altare si offre il sacrificio di Cristo: è Lui il cibo spirituale che lì si riceve, sotto i segni del pane e del vino. Accanto alla mensa c’è l’ambone, cioè il luogo da cui si proclama la Parola di Dio: e questo indica che lì ci si raduna per ascoltare il Signore che parla mediante le Sacre Scritture, e dunque il cibo che si riceve è anche la sua Parola.
Parola e Pane nella Messa diventano un tutt’uno, come nell’Ultima Cena, quando tutte le parole di Gesù, tutti i segni che aveva fatto, si condensarono nel gesto di spezzare il pane e di offrire il calice, anticipo del sacrificio della croce, e in quelle parole: “Prendete, mangiate, questo è il mio corpo … Prendete, bevete, questo è il mio sangue”.
Il gesto di Gesù compiuto nell’Ultima Cena è l’estremo ringraziamento al Padre per il suo amore, per la sua misericordia. “Ringraziamento” in greco si dice “eucaristia”. E per questo il Sacramento si chiama Eucaristia: è il supremo ringraziamento al Padre, che ci ha amato tanto da darci il suo Figlio per amore. Ecco perché il termine Eucaristia riassume tutto quel gesto, che è gesto di Dio e dell’uomo insieme, gesto di Gesù, vero Dio e vero uomo.
Dunque la celebrazione eucaristica è ben più di un semplice banchetto: è proprio il memoriale della Pasqua di Gesù, il mistero centrale della salvezza. «Memoriale» non significa solo un ricordo, un semplice ricordo, ma vuol dire che ogni volta che celebriamo questo Sacramento partecipiamo al mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo. L’Eucaristia costituisce il vertice dell’azione di salvezza di Dio: il Signore Gesù, facendosi pane spezzato per noi, riversa infatti su di noi tutta la sua misericordia e il suo amore, così da rinnovare il nostro cuore, la nostra esistenza e il nostro modo di relazionarci con Lui e con i fratelli. È per questo che comunemente, quando ci si accosta a questo Sacramento, si dice di «ricevere la Comunione», di «fare la Comunione»: questo significa che nella potenza dello Spirito Santo, la partecipazione alla mensa eucaristica ci conforma in modo unico e profondo a Cristo, facendoci pregustare già ora la piena comunione col Padre che caratterizzerà il banchetto celeste, dove con tutti i Santi avremo la gioia di contemplare Dio faccia a faccia.
Cari amici, non ringrazieremo mai abbastanza il Signore per il dono che ci ha fatto con l’Eucaristia! E' un dono tanto grande e per questo è tanto importante andare a Messa la domenica. Andare a Messa non solo per pregare, ma per ricevere la Comunione, questo pane che è il corpo di Gesù Cristo che ci salva, ci perdona, ci unisce al Padre. E' bello fare questo! E tutte le domeniche andiamo a Messa, perché è il giorno proprio della risurrezione del Signore. Per questo la domenica è tanto importante per noi. E con l'Eucaristia sentiamo questa appartenenza proprio alla Chiesa, al Popolo di Dio, al Corpo di Dio, a Gesù Cristo. Non finiremo mai di coglierne tutto il valore e la ricchezza. Chiediamogli allora che questo Sacramento possa continuare a mantenere viva nella Chiesa la sua presenza e a plasmare le nostre comunità nella carità e nella comunione, secondo il cuore del Padre.
PAPA FRANCESCO - UDIENZA GENERALE - Mercoledì, 12 febbraio 2014
Cari fratelli e sorelle, buongiorno.  Nell’ultima catechesi ho messo in luce come l’Eucaristia ci introduce nella comunione reale con Gesù e il suo mistero. Ora possiamo porci alcune domande in merito al rapporto tra l’Eucaristia che celebriamo e la nostra vita, come Chiesa e come singoli cristiani. Come viviamo l’Eucaristia? Quando andiamo a Messa la domenica, come la viviamo? È solo un momento di festa, è una tradizione consolidata, è un’occasione per ritrovarsi o per sentirsi a posto, oppure è qualcosa di più?
Ci sono dei segnali molto concreti per capire come viviamo tutto questo, come viviamo l’Eucaristia; segnali che ci dicono se noi viviamo bene l’Eucaristia o non la viviamo tanto bene. Il primo indizio è il nostro modo di guardare e considerare gli altri. Nell’Eucaristia Cristo attua sempre nuovamente il dono di sé che ha fatto sulla Croce. Tutta la sua vita è un atto di totale condivisione di sé per amore; perciò Egli amava stare con i discepoli e con le persone che aveva modo di conoscere. Questo significava per Lui condividere i loro desideri, i loro problemi, quello che agitava la loro anima e la loro vita. Ora noi, quando partecipiamo alla Santa Messa, ci ritroviamo con uomini e donne di ogni genere: giovani, anziani, bambini; poveri e benestanti; originari del posto e forestieri; accompagnati dai familiari e soli… Ma l’Eucaristia che celebro, mi porta a sentirli tutti, davvero come fratelli e sorelle? Fa crescere in me la capacità di gioire con chi gioisce e di piangere con chi piange? Mi spinge ad andare verso i poveri, i malati, gli emarginati? Mi aiuta a riconoscere in loro il volto di Gesù? Tutti noi andiamo a Messa perché amiamo Gesù e vogliamo condividere, nell’Eucaristia, la sua passione e la sua risurrezione. Ma amiamo, come vuole Gesù, quei fratelli e quelle sorelle più bisognosi? Per esempio, a Roma in questi giorni abbiamo visto tanti disagi sociali o per la piaggia, che ha fatto tanti danni a quartieri interi, o per la mancanza di lavoro, conseguenza della crisi economica in tutto il mondo. Mi domando, e ognuno di noi si domandi: Io che vado a Messa, come vivo questo? Mi preoccupo di aiutare, di avvicinarmi, di pregare per coloro che hanno questo problema? Oppure sono un po’ indifferente? O forse mi preoccupo di chiacchierare: Hai visto com’è vestita quella, o come com’è vestito quello? A volte si fa questo, dopo la Messa, e non si deve fare! Dobbiamo preoccuparci dei nostri fratelli e delle nostre sorelle che hanno bisogno a causa di una malattia, di un problema. Oggi, ci farà bene pensare a questi nostri fratelli e sorelle che hanno questi problemi qui a Roma: problemi per la tragedia provocata dalla pioggia e problemi sociali e del lavoro. Chiediamo a Gesù, che riceviamo nell’Eucaristia, che ci aiuti ad aiutarli.
Un secondo indizio, molto importante, è la grazia di sentirsi perdonati e pronti a perdonare. A volte qualcuno chiede: «Perché si dovrebbe andare in chiesa, visto che chi partecipa abitualmente alla Santa Messa è peccatore come gli altri?». Quante volte lo abbiamo sentito! In realtà, chi celebra l’Eucaristia non lo fa perché si ritiene o vuole apparire migliore degli altri, ma proprio perché si riconosce sempre bisognoso di essere accolto e rigenerato dalla misericordia di Dio, fatta carne in Gesù Cristo. Se ognuno di noi non si sente bisognoso della misericordia di Dio, non si sente peccatore, è meglio che non vada a Messa! Noi andiamo a Messa perché siamo peccatori e vogliamo ricevere il perdono di Dio, partecipare alla redenzione di Gesù, al suo perdono. Quel “Confesso” che diciamo all’inizio non è un “pro forma”, è un vero atto di penitenza! Io sono peccatore e lo confesso, così comincia la Messa! Non dobbiamo mai dimenticare che l’Ultima Cena di Gesù ha avuto luogo «nella notte in cui veniva tradito» (1 Cor 11,23). In quel pane e in quel vino che offriamo e attorno ai quali ci raduniamo si rinnova ogni volta il dono del corpo e del sangue di Cristo per la remissione dei nostri peccati. Dobbiamo andare a Messa umilmente, come peccatori e il Signore ci riconcilia.
Un ultimo indizio prezioso ci viene offerto dal rapporto tra la celebrazione eucaristica e la vita delle nostre comunità cristiane. Bisogna sempre tenere presente che l’Eucaristia non è qualcosa che facciamo noi; non è una nostra commemorazione di quello che Gesù ha detto e fatto. No. È proprio un’azione di Cristo! È Cristo che lì agisce, che è sull’altare. E’ un dono di Cristo, il quale si rende presente e ci raccoglie attorno a sé, per nutrirci della sua Parola e della sua vita. Questo significa che la missione e l’identità stessa della Chiesa sgorgano da lì, dall’Eucaristia, e lì sempre prendono forma. Una celebrazione può risultare anche impeccabile dal punto di vista esteriore, bellissima, ma se non ci conduce all’incontro con Gesù Cristo, rischia di non portare alcun nutrimento al nostro cuore e alla nostra vita. Attraverso l’Eucaristia, invece, Cristo vuole entrare nella nostra esistenza e permearla della sua grazia, così che in ogni comunità cristiana ci sia coerenza tra liturgia e vita.
Il cuore si riempie di fiducia e di speranza pensando alle parole di Gesù riportate nel Vangelo: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,54). Viviamo l’Eucaristia con spirito di fede, di preghiera, di perdono, di penitenza, di gioia comunitaria, di preoccupazione per i bisognosi e per i bisogni di tanti fratelli e sorelle, nella certezza che il Signore compirà quello che ci ha promesso: la vita eterna.
PAPA FRANCESCO - UDIENZA GENERALE - Mercoledì,  19 febbraio 2014
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!   Attraverso i Sacramenti dell’iniziazione cristiana, il Battesimo, la Confermazione e l’Eucaristia, l’uomo riceve la vita nuova in Cristo. Ora, tutti lo sappiamo, noi portiamo questa vita «in vasi di creta» (2 Cor 4,7), siamo ancora sottomessi alla tentazione, alla sofferenza, alla morte e, a causa del peccato, possiamo persino perdere la nuova vita. Per questo il Signore Gesù ha voluto che la Chiesa continui la sua opera di salvezza anche verso le proprie membra, in particolare con il Sacramento della Riconciliazione e quello dell’Unzione degli infermi, che possono essere uniti sotto il nome di «Sacramenti di guarigione». Il Sacramento della Riconciliazione è un Sacramento di guarigione. Quando io vado a confessarmi è per guarirmi, guarirmi l'anima, guarirmi il cuore e qualcosa che ho fatto che non va bene. L’icona biblica che li esprime al meglio, nel loro profondo legame, è l’episodio del perdono e della guarigione del paralitico, dove il Signore Gesù si rivela allo stesso tempo medico delle anime e dei corpi (Mc 2,1-12; Mt 9,1-8; Lc 5,17-26).
1. Il Sacramento della Penitenza e della Riconciliazione scaturisce direttamente dal mistero pasquale. Infatti, la stessa sera di Pasqua il Signore apparve ai discepoli, chiusi nel cenacolo, e, dopo aver rivolto loro il saluto «Pace a voi!», soffiò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati» (Gv 20,21-23). Questo passo ci svela la dinamica più profonda che è contenuta in questo Sacramento. Anzitutto, il fatto che il perdono dei nostri peccati non è qualcosa che possiamo darci noi. Io non posso dire: mi perdono i peccati. Il perdono si chiede, si chiede a un altro e nella Confessione chiediamo il perdono a Gesù. Il perdono non è frutto dei nostri sforzi, ma è un regalo, è un dono dello Spirito Santo, che ci ricolma del lavacro di misericordia e di grazia che sgorga incessantemente dal cuore spalancato del Cristo crocifisso e risorto. In 2° luogo, ci ricorda che solo se ci lasciamo riconciliare nel Signore Gesù col Padre e con i fratelli possiamo essere veramente nella pace. E questo lo abbiamo sentito tutti nel cuore quando andiamo a confessarci, con un peso nell'anima, un po' di tristezza; e quando riceviamo il perdono di Gesù siamo in pace, con quella pace dell'anima tanto bella che soltanto Gesù può dare, soltanto Lui.
2. Nel tempo, la celebrazione di questo Sacramento è passata da una forma pubblica - perché all'inizio si faceva pubblicamente - a quella personale, alla forma riservata della Confessione. Questo però non deve far perdere la matrice ecclesiale, che costituisce il contesto vitale. Infatti, è la comunità cristiana il luogo in cui si rende presente lo Spirito, il quale rinnova i cuori nell’amore di Dio e fa di tutti i fratelli una cosa sola, in Cristo Gesù. Ecco allora perché non basta chiedere perdono al Signore nella propria mente e nel proprio cuore, ma è necessario confessare umilmente e fiduciosamente i propri peccati al ministro della Chiesa. Nella celebrazione di questo Sacramento, il sacerdote non rappresenta soltanto Dio, ma tutta la comunità, che si riconosce nella fragilità di ogni suo membro, che ascolta commossa il suo pentimento, che si riconcilia con lui, che lo rincuora e lo accompagna nel cammino di conversione e maturazione umana e cristiana. Uno può dire: io mi confesso soltanto con Dio. Sì, tu puoi dire a Dio “perdonami”, e dire i tuoi peccati, ma i nostri peccati sono anche contro i fratelli, contro la Chiesa. Per questo è necessario chiedere perdono alla Chiesa, ai fratelli, nella persona del sacerdote. “Ma padre, io mi vergogno...”. Anche la vergogna è buona, è salute avere un po' di vergogna, perché vergognarsi è salutare. Quando una persona non ha vergogna, nel mio Paese diciamo che è un “senza vergogna”: un “sin verguenza”. Ma anche la vergogna fa bene, perché ci fa più umili, e il sacerdote riceve con amore e con tenerezza questa confessione e in nome di Dio perdona. Anche dal punto di vista umano, per sfogarsi, è buono parlare con il fratello e dire al sacerdote queste cose, che sono tanto pesanti nel mio cuore. E uno sente che si sfoga davanti a Dio, con la Chiesa, con il fratello. Non avere paura della Confessione! Uno, quando è in coda per confessarsi, sente tutte queste cose, anche la vergogna, ma poi quando finisce la Confessione esce libero, grande, bello, perdonato, bianco, felice. E' questo il bello della Confessione! Io vorrei domandarvi - ma non ditelo a voce alta, ognuno si risponda nel suo cuore -: quando è stata l'ultima volta che ti sei confessato, che ti sei confessata? Ognuno ci pensi… Sono due giorni, due settimane, due anni, vent’anni, quarant’anni? Ognuno faccia il conto, ma ognuno si dica: quando è stata l'ultima volta che io mi sono confessato? E se è passato tanto tempo, non perdere un giorno di più, vai, che il sacerdote sarà buono. E' Gesù lì, e Gesù è più buono dei preti, Gesù ti riceve, ti riceve con tanto amore. Sii coraggioso e vai alla Confessione!
3. Cari amici, celebrare il Sacramento della Riconciliazione significa essere avvolti in un abbraccio caloroso: è l’abbraccio dell’infinita misericordia del Padre. Ricordiamo quella bella, bella parabola del figlio che se n'è andato da casa sua con i soldi dell'eredità; ha sprecato tutti i soldi, e poi, quando non aveva più niente, ha deciso di tornare a casa, non come figlio, ma come servo. Tanta colpa aveva nel suo cuore e tanta vergogna. La sorpresa è stata che quando incominciò a parlare, a chiedere perdono, il padre non lo lasciò parlare, lo abbracciò, lo baciò e fece festa. Ma io vi dico: ogni volta che noi ci confessiamo, Dio ci abbraccia, Dio fa festa! Andiamo avanti su questa strada.
PAPA FRANCESCO - UDIENZA GENERALE - Mercoledì, 26 febbraio 2014
Cari fratelli e sorelle, buongiorno.   Oggi vorrei parlarvi del Sacramento dell’Unzione degli infermi, che ci permette di toccare con mano la compassione di Dio per l’uomo. In passato veniva chiamato “Estrema unzione”, perché era inteso come conforto spirituale nell’imminenza della morte. Parlare invece di “Unzione degli infermi” ci aiuta ad allargare lo sguardo all’esperienza della malattia e della sofferenza, nell’orizzonte della misericordia di Dio.
1. C’è un’icona biblica che esprime in tutta la sua profondità il mistero che traspare nell’Unzione degli infermi: è la parabola del «buon samaritano» (Lc 10,30-35). Ogni volta che celebriamo tale Sacramento, il Signore Gesù, nella persona del sacerdote, si fa vicino a chi soffre ed è gravemente malato, o anziano. Dice la parabola che il buon samaritano si prende cura dell’uomo sofferente versando sulle sue ferite olio e vino. L’olio ci fa pensare a quello che viene benedetto dal Vescovo ogni anno, nella Messa crismale del Giovedì Santo, proprio in vista dell’Unzione degli infermi. Il vino, invece, è segno dell’amore e della grazia di Cristo che scaturiscono dal dono della sua vita per noi e si esprimono in tutta la loro ricchezza nella vita sacramentale della Chiesa. Infine, la persona sofferente viene affidata a un albergatore, affinché possa continuare a prendersi cura di lei, senza badare a spese. Ora, chi è questo albergatore? È la Chiesa, la comunità cristiana, siamo noi, ai quali ogni giorno il Signore Gesù affida coloro che sono afflitti, nel corpo e nello spirito, perché possiamo continuare a riversare su di loro, senza misura, tutta la sua misericordia e la salvezza.
2. Questo mandato è ribadito in modo esplicito e preciso nella Lettera di Giacomo, dove raccomanda: «Chi è malato, chiami presso di sé i presbiteri della Chiesa ed essi preghino su di lui, ungendolo con olio nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo solleverà e, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati» (5,14-15). Si tratta quindi di una prassi che era in atto già al tempo degli Apostoli. Gesù infatti ha insegnato ai suoi discepoli ad avere la sua stessa predilezione per i malati e per i sofferenti e ha trasmesso loro la capacità e il compito di continuare ad elargire nel suo nome e secondo il suo cuore sollievo e pace, attraverso la grazia speciale di tale Sacramento. Questo però non ci deve fare scadere nella ricerca ossessiva del miracolo o nella presunzione di poter ottenere sempre e comunque la guarigione. Ma è la sicurezza della vicinanza di Gesù al malato e anche all’anziano, perché ogni anziano, ogni persona di più di 65 anni, può ricevere questo Sacramento, mediante il quale è Gesù stesso che ci avvicina.
Ma quando c'è un malato a volte si pensa: “chiamiamo il sacerdote perché venga”; “No, poi porta malafortuna, non chiamiamolo”, oppure “poi si spaventa l’ammalato”. Perché si pensa questo? Perché c’è un po’ l’idea che dopo il sacerdote arrivano le pompe funebri. E questo non è vero. Il sacerdote viene per aiutare il malato o l’anziano; per questo è tanto importante la visita dei sacerdoti ai malati. Bisogna chiamare il sacerdote presso il malato e dire: “venga, gli dia l’unzione, lo benedica”. È Gesù stesso che arriva per sollevare il malato, per dargli forza, per dargli speranza, per aiutarlo; anche per perdonargli i peccati. E questo è bellissimo! E non bisogna pensare che questo sia un tabù, perché è sempre bello sapere che nel momento del dolore e della malattia noi non siamo soli: il sacerdote e coloro che sono presenti durante l’Unzione degli infermi rappresentano infatti tutta la comunità cristiana che, come un unico corpo si stringe attorno a chi soffre e ai familiari, alimentando in essi la fede e la speranza, e sostenendoli con la preghiera e il calore fraterno. Ma il conforto più grande deriva dal fatto che a rendersi presente nel Sacramento è lo stesso Signore Gesù, che ci prende per mano, ci accarezza come faceva con gli ammalati e ci ricorda che ormai gli apparteniamo e che nulla - neppure il male e la morte - potrà mai separarci da Lui. Abbiamo questa abitudine di chiamare il sacerdote perché ai nostri malati – non dico ammalati di influenza, di 3-4 gg, ma quando è una malattia seria – e anche ai nostri anziani, venga e dia loro questo Sacramento, questo conforto, questa forza di Gesù per andare avanti? Facciamolo!
PAPA FRANCESCO - UDIENZA GENERALE - Mercoledì, 26 marzo 2014
Cari fratelli e sorelle,   abbiamo già avuto modo di rimarcare che i tre Sacramenti del Battesimo, della Confermazione e dell’Eucaristia costituiscono insieme il mistero della «iniziazione cristiana», un unico grande evento di grazia che ci rigenera in Cristo. È questa la vocazione fondamentale che accomuna tutti nella Chiesa, come discepoli del Signore Gesù. Ci sono poi due Sacramenti che corrispondono a due vocazioni specifiche: si tratta dell’Ordine e del Matrimonio. Essi costituiscono due grandi vie attraverso le quali il cristiano può fare della propria vita un dono d’amore, sull’esempio e nel nome di Cristo, e così cooperare all’edificazione della Chiesa.
L’Ordine, scandito nei tre gradi di episcopato, presbiterato e diaconato, è il Sacramento che abilita all’esercizio del ministero, affidato dal Signore Gesù agli Apostoli, di pascere il suo gregge, nella potenza del suo Spirito e secondo il suo cuore. Pascere il gregge di Gesù non con la potenza della forza umana o con la propria potenza, ma quella dello Spirito e secondo il suo cuore, il cuore di Gesù che è un cuore di amore. Il sacerdote, il vescovo, il diacono deve pascere il gregge del Signore con amore. Se non lo fa con amore non serve. E in tal senso, i ministri che vengono scelti e consacrati per questo servizio prolungano nel tempo la presenza di Gesù, se lo fanno col potere dello Spirito Santo in nome di Dio e con amore.
1. Un primo aspetto. Coloro che vengono ordinati sono posti a capo della comunità. Sono “A capo” sì, però per Gesù significa porre la propria autorità al servizio, come Lui stesso ha mostrato e ha insegnato ai discepoli con queste parole: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt20,25-28; Mc 10,42-45). Un vescovo che non è al servizio della comunità non fa bene; un sacerdote, un prete che non è al servizio della sua comunità non fa bene, sbaglia.
2. Un’altra caratteristica che deriva sempre da questa unione sacramentale con Cristo è l’amore appassionato per la Chiesa. Pensiamo a quel passo della Lettera agli Efesini in cui san Paolo dice che Cristo «ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché» (5,25-27). In forza dell’Ordine il ministro dedica tutto se stesso alla propria comunità e la ama con tutto il cuore: è la sua famiglia. Il vescovo, il sacerdote amano la Chiesa nella propria comunità, l'amano fortemente. Come? Come Cristo ama la Chiesa. Lo stesso dirà san Paolo del matrimonio: lo sposo ama sua moglie come Cristo ama la Chiesa. È un mistero grande d’amore: questo del ministero sacerdotale e quello del matrimonio, due Sacramenti che sono la strada per la quale le persone vanno abitualmente al Signore.
3. Un ultimo aspetto. L’apostolo Paolo raccomanda al discepolo Timoteo di non trascurare, anzi, di ravvivare sempre il dono che è in lui. Il dono che gli è stato dato per l’imposizione delle mani (cfr 1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6). Quando non si alimenta il ministero, il ministero del vescovo, il ministero del sacerdote con la preghiera, con l’ascolto della Parola di Dio, e con la celebrazione quotidiana dell’Eucaristia e anche con una frequentazione del Sacramento della Penitenza, si finisce inevitabilmente per perdere di vista il senso autentico del proprio servizio e la gioia che deriva da una profonda comunione con Gesù.
4. Il vescovo che non prega, il vescovo che non ascolta la Parola di Dio, che non celebra tutti i giorni, che non va a confessarsi regolarmente, e lo stesso il sacerdote che non fa queste cose, alla lunga perdono l’unione con Gesù e diventano di una mediocrità che non fa bene alla Chiesa.


 
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