BIOGRAFIA DI ANTONIO DECI DA ORTE
Nato a Orte, Viterbo, dopo il 1560 e moto a Roma il 19 Agosto 1597.Lo storico ortano Don Lando Leoncini scrive del “molto illustre et R.mo Sig. Filippo Cocovagino, quale ancorché nobilmente nato andò nondimeno fanciullo con privata fortuna a Roma, con la sagacità e prontezza del suo impegno divenne clerico e poi beneficiato e ultimamente canonico e Camerlengo di S. Pietro in vaticano et 45 anni visse Prete in quella chiesa et fè assai commoda ricchezza”. Ebbe la Prelatura di Protonotario Apostolico, fu sotto il maestro di casa di Gregorio XIII tutto il suo pontificato. Questo Filippo Cocovagino adottò i due fratelli Cintio e Antonio di casa Deci di Orte, ai quali diede il suo cognome.
Fece studiare Cintio a Roma Filosofia e Teologia e gli diede poi il suo beneficiato di S. Pietro e tutti i benefici semplici; mentre Antonio studiò a Perugia diritto Civile e Canonico tanto che in età assai acerba “a pena spontava la barba” che col favore di Papa Gregorio lo mandò Generale Auditore di tutta la Provincia della Marca ed essendosi devoluta a quel tempo la giurisdizione di “Mattelica” dalli signori Ottone alla R.da Camera Apostolica fu buon motivo del Papa mandarlo a “regere quel logo” che in quei tempi per le discordie civili era in pericoloso stato. Ebbe poi Antonio il Presidentato di Ripatransone , “l’offitio” di Fabriano con tutti i suoi castelli e ville, poi quella Rocca contrada con tutti i lochi vicini, ebbe poi il Governo di Visso dove fu per due anni, elezione di S. Severino e del capitanato di Todi. Nelle Marche e in Umbria il Deci rimase fino al 1595. Poi venne nominato, da Francesco Colonna, Principe di Palestrina, Auditore e Sopraintendente nei suoi due stati. Rimase in questo incarico per due anni.
Le fonti di ricerca su Antonio Deci, sono: “La fabrica d’Orta” del Leoncini (1548/1634) e “De Antiquitatibus Hortae” di Giusto Fontanini (1723) e moltissimi siti su Internet. Dalle notizie del Leoncini si ha l’impressione che il Deci era il personaggio presso il quale la comunità cittadina faceva alloggiare le personalità di rilievo in visita ad Orte, nel suo bel palazzo, oggi in via Plebiscito, di proprietà della famiglia Zuppante, un tempo dei conti Celiani e, prima di Antonio Deci.
Il Leoncini e Deci furono contemporanei, si conoscevano personalmente, tanto che nel manoscritto del Leoncini c’è una lettera scrittagli da Deci :
Le succitate notizia desunte dal Leoncini ci indurrebbero a credere che la vita del Deci sia trascorsa tutta in mezzo alle faccende politiche e amministrative, inter leges et arma (tra le leggi e le armi).
Ma non fu così. La lettera premessa all’edizione dell’Acripanda nel 1592 apre uno spiraglio per conoscere meglio la sua personalità.
Il Deci ci appare come un tipico signore rinascimentale, occupato nella politica, ma anche desideroso di riservare a sé momenti di solitudine per dedicarsi allo studio e alla poesia.
La tragedia, si legge in essa, nata nell’ozio di una estate fra libri di leggese ne stava negletta quando ardita mano, alle tenebre pietosamente togliendola, la portò a Firenze e la consegnò allo stampatore Sermartelli, che si firma Corifilo, pastor Tiberino.
Questi la lesse, rimase, dice, incantato, ma per aver la certezza che al suo giudizio non facesse velo la grande amicizia che lo legava all’autore, la fece leggere all’eccellentissimo signor Don Giovanni Medici, che non si limitò a lodarla, ma volle sentire il parere anche di molti intendenti che fu ampiamente favorevole.
Il Sermartelli. Allora, non ebbe più dubbi: la mandò fuori, dedicandola, sapendo in ciò conformarsi molto alla volontà dell’autore, al signor Fabio Orsini dei Marchesi di Lementana.
La lettera è datata da Firenze il 4 ottobre 1591: tenendo conto delle vicende del testo in essa narrate, l’Acripanda dovrebbe essere stata composta nell’estate del 1589 o ’90, portata a Firenze nell’estate del ’91, stampata nell’inverno del ’91-’92 e pubblicata nel 1592.
Non si può stabilire con certezza dove essa sia stata composta. È certo che il Deci, pur nei molteplici impegni del proprio ufficio, faceva delle frequenti puntate a Orte, dove, oltre ai parenti e agli amici, (in una poesia, riportata dal Leoncini, egli esprime i commossi sentimenti del proprio animo nel rivedere le amene contrade e nel ripercorrere le strade e le piazze della sua città nella quale, in quell’anno, egli dice, mancavano tanti volti di amici, partiti al seguito di Alessandro Farnese a combattere nelle guerra di Fiandra), aveva una splendida casa in contrada Sant’Angelo, una casa in campagna, nella zona che ancor oggi porta il nome di Costa Deci, e infine sulla strada per Vasanello, il palazzotto che era stato già proprietà della famiglia Turriani.
Non è pertanto da escludersi che proprio in questa villa, dalle tipiche caratteristiche del palazzotto signorile trecentesco, egli venissi a passare “l’ozio della state”, e qui abbia composto la tragedia, che poi portò con sé nelle Marche fra i suoi libri di legge, per ripulirla e rifinirla nelle brevi pause di tempo che l’attività di magistrato gli consentiva.
L’Acripanda segue rigorosamente la struttura della tragedia classica: è divisa in cinque atti, è composta di 5557 endecasillabi sciolti, ogni atto si chiude con un coro, in endecasillabi e settenari, cantato dalle Vergini di Menfi, con considerazioni e riflessioni morali che rappresentano il punto di vista dell’autore, in questo anticipando il coro manzoniano.
Ai tre personaggi principali, Ursimanno, re d’Egitto, Acripanda, sua seconda moglie, e il re d’Arabia, figlio di Orselia, prima moglie di Ursimanno e da questi uccisa, fanno contorno consiglieri e messi, camerieri e nutrici e frequenti apparizioni dell’Obra di Orselia e dei gemelli di Ursimanno e di Acripanda.
La struttura esteriore della tragedia è conforme ai modelli greci, come aveva stabilito il Trissino. Ma il contenuto accentuatamente fosco e i monologhi e le sentenze di cui sono intessuti, l’accostano alla tragedia di tipo senechiano, quasi che il Deci abbia voluto operare una fusione fra i due indirizzi.
Nella collocazione dell’azione egli volle poi seguire l’innovazione introdotta dal Tasso. La tragedia classica, ispirata per lo più ai miti della religione greca o agli episodi dei poemi omerici e ciclici, si svolgeva normalmente il Grecia o in Asia Minore. Il Trissino l’aveva trasportata nel mondo romano e il Ruccellai nel mondo barbarico medievale.
Il Tasso, per primo, la collocò, al di fuori dell’abituale mondo tragico, nell’Europa del Nord, dove le passioni, nel chiuso della reggia avvolta nelle brume tenebrose, divampano più forti e più accese.
Il Deci ne seguì l’esempio:pose il centro dell’azione della sua tragedia a Menfi: la passione amorosa, la libido e la sete di vendetta. La trama, in conseguenza, risulta più fosca che mai. Anzi, nell’ambito della tragedia dell’orribile, il Deci apportò una novità assoluta. Fino allora le atrocità che costituivano la materia trattata erano state narrate: nunzi e messaggeri si susseguivano ad arricchire il racconto con particolari sempre più lugubri.
Gli spettatori ricreavano, momento per momento, i fatti, ma non li vedevano: era colpita la fantasia, non gli occhi. Il Deci accolse l’osservazione del Girali Cinzio, che i fatti avrebbero avuto un effetto tragico ben più profondo se fossero sottoposti alla vista diretta dello spettatore, e per primo osò quello che gli altri non avevano osato.
Raccolse tutti gli orrori possibili e li portò sulla scena: un marito che per amore colpevole uccide la moglie alla presenza di un figlio ancora bambino, un giovane che per vendicare la madre uccide il padre, fa a pezzi due bambini innocenti, oltraggia il cadavere di una regina suicida, il tutto sullo sfondo di una città saccheggiata e in fiamme.
L’Acripanda ebbe indubbiamente un successo notevole. L’edizione di Firenze del 1592 fu eseguita da altre tre edizioni: due stampate a Venezia nello stesso anno e nel 1612, e una a Vicenza nel 1617.
Si ha l’impressione che l’Acripanda, nel corso dei secoli, sia stata letta più di quanto non sia stata ricercata, e l’eco di alcuni suoi versi risuona stranamente nelle composizioni del Parini, del Monti e, perfino del Leopardi.
Antonio Deci fu l’amico prediletto di Torquato Tasso, il quale, negli ultimi dolorosi anni di vita, quando a Roma nel convento di S. Onofrio si preparava ai colloqui del cielo, un solo uomo, Antonio Deci, appunto voleva accanto a se, per le sue passeggiate nella campagna romana. Dell’anno 1597 andando a Roma per l’infermità del fratello Cintio, per improvvisa infermità morì di mercoledì 19 Agosto del detto anno. Fu sepolto in Roma nella chiesa di S. Spirito in Saxsia. Morì giovanissimo, se fosse vissuto più a lungo ci avrebbe dato una vasta produzione, ma, conclude Niceo… ed esagera, i pochi anni da lui strappati alla vita furono sufficienti ad assicurargli l’immortalità. (Antonio Deci è raffigurato (Decius) fra i personaggi del corteo funebre sul monumento a Torquato Tasso nella chiesa di S. Onofrio in Roma.
Da un documento notarile del 27 marzo 1632, conservato nell’Archivio di Stato di Viterbo, si desume che Antonio Deci aveva sposato Ventura Cocovagini, forse una nipote del suo benefattore, dalla quale aveva avuto tre figli, don Fabio, che divenne poi beneficiato di San Pietro, Giovanni Rinaldo, (fu incaricato di andare a prendere i Corpi dé S.S. M.M. Quirino e Dionisio si porta in Roma donde riparte colle preziose Reliquie dé detti Santi accompagnato dalla seguente lettera della sig.ra Principessa Colonna Barberini. Parte di Roma il Sig. Giovanni Rinaldo Deci da Orte, al quale abbiamo fatto consegnare due cassette con nostro sigillo sopra per portare ai signori Priori della predetta città di Orte, conforme alla iscrizione che si vede sopra di esse cassette. Saranno perciò contenti lasciarlo liberamente passare essendo nostro servizio e Dio li contenti. Dal nostro Palazzo questo di 21 Ottobre 1637 Anna Colonna Barberini Prefettissa) e Francesco. Quando il poeta morì, essi dovevano essere ancora bambini, se divisero i beni ereditati dal padre e dalla madre solo trentacinque anni dopo la sua scomparsa, forse nell’anno stesso della morte della madre.
(Vladimiro Marcoccio 2012)