La presenza ebraica a Mirandola è attestata da diverse
fonti che in genere senza sviluppare il
tema si limitano ad annotare che nuclei di ebrei per un certo tempo almeno si
sono insediati nella città o nel suo territorio, senza peraltro approfondire più di tanto. Ogni mirandolese
peraltro sa bene che una zona ben definita, costituita dall'antica via Messora
e da un piccolo largo, a cui si accede dall'arco nella Piazza e dall'antica via
S.Rocco, è stata tradizionalmente indicata come "il Ghetto": dal 1865
le due strade sono rinominate come via Milazzo e via Marsala. Vi sono inoltre
notizie assai imprecise su di un sito indicato un tempo come
cimitero degli ebrei, poi occupato dai Gesuiti: corrisponderebbe all'attuale
edificio del Centro Culturale Polivalente.[1]
Allo stato attuale delle conoscenze, tutto continua a
restare nel vago: è come se la storiografia fosse stata colta da strabismo,
rinunciando ad osservare, anzi addirittura a vedere quanto è impossibile evitar
di notare. In altri termini, una
presenza ebraica costante attraverso i
secoli è attestata ed attestabile anche per Mirandola, come per numerosissimi
centri della Valle Padana; compito dei ricercatori dovrebbe essere, a parere di
chi scrive, indagare in quale misura e con quali modalità tale presenza abbia
influito nella vita economica e sociale
cittadina, quali tracce abbia lasciato, se e come abbia pesato nella stessa percezione di sé del popolo cristiano
di Mirandola, atteso che un ebreo, una famiglia di ebrei, un gruppo di ebrei
che abiti per decenni se non addirittura per generazioni in una città entra a
far parte della sua cittadinanza a tutto titolo.
Di tale
presenza si hanno e prove ed indizi,
diretti ed indiretti: si tratta di cercarli, trovarli ed ordinarli. Vediamo
allora di metter assieme alcuni tasselli: prima del 1477 da Mirandola mosse un
certo Aliuccio ebreo per recarsi a Firenze. Mal gliene incolse, poiché gli Otto di Guardia e Balìa lo condannarono il 6 febbraio 1477 al
pagamento di una multa di 25 fiorini
d'argento, con la condizione che se
entro 8 giorni non avesse pagato, sarebbe stato legato alla colonna del mercato
vecchio per 2 ore con la lingua fuori della bocca trafitta da uno spunzone e
quindi tradotto al carcere delle Stinche.[2] Non si conosce il reato imputatogli: forse aveva
bestemmiato, visto il tipo di punizione. Sta di fatto che Aliuccio doveva essere un poveraccio: non doveva aver trattato moneta falsa, né
aver esercitato l'usura, visto che alcuni suoi correligionari più o meno alla stessa epoca venivano
condannati, nel primo caso, a multe
esigue, oltre che a rifondere il fiorino falso che avevano tentato di spendere;
nel secondo caso, quello di usura, gli Otto condannavano a pagare cifre molto
più grosse di quella richiesta ad Aliuccio, poiché in genere l'accusa era
pretestuosa e copriva una necessità contingente delle casse del comune
fiorentino, che ripianava i bilanci ricorrendo a questa forma di finanziamento,
e perché il reato veniva associato a quello di aver favorito l'immigrazione
clandestina di gente fatta affluire al
proprio servizio.
Ora, quanto si legge nella sentenza degli Otto non è
in realtà una prova vera e propria della presenza ebraica in Mirandola alla
fine del terzo quarto del Quattrocento, ma al più un indizio. Se è vero che uno
strumento inequivocabile di identificazione dell'ebraicità di un individuo è la
traccia indicata dal nome, ed in particolare
dai cognomi che indicano provenienza da città e paesi della Valle
Padana, Aliuccio (nome proprio
tipicamente ebraico, all'epoca; vezzeggiativo di Elia) potrebbe aver anche
mentito sul suo luogo d'origine. Del resto, di fronte alla giustizia se avesse
voluto mentire, avrebbe dovuto farlo in forma verosimile. Quindi indicare una
città da cui plausibilmente poteva provenire un ebreo: Mirandola, appunto.
Altre prove indirette della presenza ebraica,
sopratutto feneratizia, in Mirandola sono gli Statuti del Monte di Pietà, ed una lettera
del conte Galeotto I Pico, che
nel 1495 li approva, poiché i Principi "ne profunda ac crudeli usurarum voragine
[miserabiles personae] consumantur, salubri remedio eas preservant".
Dopo tale premessa del signore, gli
Statuti ci illuminano sulla qualità della voragine delle usure: "et tutto
el bono porta via el cano Iudeo inimico de' christiani et della croce de
Christo totalmente contrario [...] faremo al presente risguardando la bontà
divina alla stratione et rubarie che verso il populo sì el contado come della
terra fa el nemico della fede Christiana el ladro Iudeo" .[3]
Non sarà inutile interrompere la nostra trattazione
per spendere due parole sulle motivazioni storiche per cui agli ebrei toccò,
nell'Occidente cristiano, occupare in rilevante misura il ruolo di feneratori.[pf1] Secondo il diritto
comune medievale, la condizione giuridica particolare connessa al loro credo
faceva degli ebrei dei cittadini allogeni, incistati nella societas christiana,
ma ad essa non assimilabili. Essi erano quindi da un lato discriminati in tutta
una serie di possibilità, mentre dall'altro erano titolari di diritti
speciali, che, percepiti come
privilegi, apparivano invisi al resto del popolo, ai cristiani, mentre quasi
sempre non erano che uno strumento raffinato di dominio da parte del sovrano
centrale.
In particolare, assai spesso gli ebrei non erano
soggetti alla giurisdizione del signore feudale, ma erano sudditi del sovrano,
imperatore o re che fosse. In questo senso erano cittadini dell'impero, o del
reame, e quasi mai della città o del borgo.
La situazione di provvisorietà che derivava da tale
condizione giuridica (che li esponeva
con effetti catastrofici all'avversione
tanto del potere signorile locale quanto dei suoi sudditi, per non
parlare delle gerarchie ecclesiastiche) faceva sì che gli ebrei fossero portati
a specializzarsi sopratutto in attività intellettuali o commerciali
particolari, che avessero la possibilità di esser movimentate velocemente:
attività medica, nel campo intellettuale; attività di prestito di denaro, su
pegno o meno, nel campo commerciale. Questa specializzazione ultima era il
prodotto di una investimento di capitali
(piuttosto che in beni immobili, la cui proprietà era quasi sempre vietata: non a Mirandola, almeno nel periodo
di cui ci occupiamo, come vedremo) che
se in seconda istanza consentiva una vita di relativi agi, in realtà era prima
di tutto una scelta che permetteva di
far fronte agli eventi duri e penosi
cui la condizione giuridica di estrema precarietà esponeva con macabra
frequenza il popolo d'Israele.
A tutto ciò va aggiunta il tradizionale antigiudaismo cristiano, che rafforzava gli
effetti della condizione di inferiorità giuridica, e la scarsa possibilità di
attività economiche alternative, ed infine la necessità ricorrente di molto
denaro (vedi le ripetute condanne a gravosissime pene pecuniarie a cui gli
ebrei fiorentini vennero sottoposti nel XV secolo).
Ma se indizi e prove indirette ci lasciano con dubbi e
curiosità, esistono per la verità cospicue quantità di prove inoppugnabili
attestanti la presenza e l'attività di ebrei a Mirandola. Una selezione poco
men che casuale degli inventari notarili conservati all'Archivio di Stato di
Modena consente infatti di riportare
alla luce una realtà storica inequivocabile: l'inserimento a pieno titolo di
una importante comunità israelitica nella vita economica cittadina di Mirandola e del suo circondario nella seconda metà del
Cinquecento.
Per riallacciarci all'argomento, accennato sopra,
della fondazione del Monte di Pietà, se a partire dal 1495 a tutta prima dagli
atti notarili sembrano esser assenti i nomi di ebrei stipulanti, essi appaiono
copiosi verso la metà del secolo: è evidente che nel medio periodo
l'istituzione del Monte non pare aver danneggiato il prestito ebraico a
Mirandola. Ciò corrisponde in effetti ad una generale evoluzione dell'attività
bancaria ebraica stessa, che dal piccolo prestito su pegno, in cui
effettivamente viene soppiantata dalle più favorevoli condizioni fatte dal
Monte, si sposta verso segmenti di mercato più redditizi, a cui tra l'altro
un'istituzione come il Monte non è istituzionalmente tenuto a
corrispondere. E' così che gradatamente
appaiono atti di compravendita di beni immobili, e di mutui per grosse cifre di
denaro.
Tali atti attestano che banchieri ebrei di grossa
levatura hanno operato a Mirandola
nella seconda metà del XVI secolo, occupandosi di ben altro che il
piccolo prestito su pegno. Esistono prove documentali circostanziate: in
particolare, vogliamo qui occuparci di alcuni atti rogati dal notaro Taddeo Onorati e da suo figlio Girolamo,
che testimoniano di una costante
presenza ebraica nell'attività economica (feneratizia, ma non solo, come
vedremo) tanto nella città di Mirandola
che nel suo territorio almeno lungo l'arco di un quarantennio, tra il
1556 ed il 1597.
Personalità eminente di tale periodo risulta essere
Giacobbe (Jacob) fu Bonaventura da Castiglione,[4] "hebraeus de Mantua et habitans
Mirandulae", come viene descritto nel primo atto di una certa rilevanza
che lo concerne, rogato da Taddeo Onorati il 14 febbraio del 1556[5]. Da esso risulta che Giacobbe compra, per 22 scudi
d'oro, da Vincenzo Quistelli "unam petiam terrae prati" ed inoltre
"bubulcas sex" poste in "Villa Nosedellae districtus
Mirandulae". Il Castiglione compra terra, insomma: e continuerà a
comprarne per almeno un decennio, come dimostrano numerosi atti. Non sempre
possiamo sapere se i suoi acquisti sono reali o fittizi, cioè trasferimenti di
proprietà a sconto di debiti contratti con lui da persone che avevano necessità
di disporre di numerario, e, nell'impossibilità di rifonderlo, avevan dovuto
alienare in una forma o nell'altra i propri possedimenti. Se è del tutto
probabile che in numerosi casi sia andata così[pf2] , in altri sembra evidente il contrario, ossia
che il banchiere amplia la sua attività dalla sfera puramente finanziaria a quella dei beni immobiliari, e
probabilmente addirittura a quella dell'imprenditoria agricola[pf3] .[6]
Poco più d'un anno dopo l'acquisto precedente, il 1
marzo 1557 Giacobbe Castiglione compra
da Giovan Battista Zucchelli da Bondeno di Ferrara altre 12 biolche e 68 tavole
di terra adiacente al fondo vendutogli dal Quistello, terra "per partem clausuratam et per partem
prativam, subiectam decimae Comiti illustrissimi Mirandulae" che gli costa 100 scudi e 45 soldi: la
preoccupazione di investire in modo da realizzare un'estensione agricola continuativa
è testimonianza quanto meno di una consapevolezza, quella del valore maggiore
che un appezzamento assume, quanto meno è frazionato.
Per l'appunto il 13 ottobre 1558 il capitano Livio
Freti di Ferrara si vede offrire in garanzia, contro 600 scudi d'oro che egli
presta a Giacobbe, le terre che
quest'ultimo possiede nel territorio di Mirandola. Il prestito è sulla base di
un interesse del 10% annuo, ed il contratto prevede tutta una serie di
interessanti clausole di natura assicurativa: Giacobbe Castiglione infatti con le sue terre
assicura il finanziatore contro
"omnes casos fortuitos, videlicet belli, incendii, naufraxi, ruinae,
furti, rapinae ac omnes alios casos fortuitos tam solitos quam insolitos, et
tam cogitatos quam incogitatos, provenientes tam ex divina quam ex humana
fortuna". La transazione si sarebbe conclusa con reciproca soddisfazione
il 25 agosto 1561, con la rifusione del debito e la conseguente rinuncia del
capitano ai diritti sulle terre di Giacobbe.[7] In questo
caso dunque i beni immobili fungono da copertura del capitale di rischio.
Ma un altro interessantissimo atto (che riportiamo in
appendice), di poco precedente agli ultimi stipulati col capitano Freti, svela
che le attività del Castiglione erano quelle di un capitalista versatile,
capace di profittare della situazione favorevole per diversificare i propri
investimenti: atteggiamento imprenditoriale, come sappiamo, modernissimo. Nello
stato di Mirandola questo era possibile: essere ebrei non costringeva,
evidentemente, a rimanere confinati nell'attività feneratizia, ma era quanto
meno tollerata, se non proprio consentita, la proprietà della terra, e con essa
il suo sfruttamento ai fini commerciali e produttivi.
Infatti, Giacobbe Castiglione nel 1554 aveva preso in
affitto da Vincenzo Personali dei possedimenti "in Villa Fossae et in loco
dicto Villa Nova"[8], assieme con un correligionario, Isaia "hebraeus
de Maseranis[pf4] et de Mantua", che probabilmente doveva
far parte della corte dei suoi dipendenti: infatti non appare che inizialmente,
quasi un prestanome, nell'atto, in cui
peraltro tutti i motivi concernenti questioni di beni e denaro investono
unicamente il Castiglione. Il canone era di 300 scudi l'anno; ma doveva esserci
altro. I fratelli Andrea e Filippo Personali, eredi del quondam Vincenzo, il 30 maggio 1558 dopo aver fatto tutti i
conti davanti al notaro ed a due testimoni, "in burgo Sancti Francisci, in
apotheca magistri Johanni Vulpi, praesentibus testibus magistro Petro filius
quondam Vincentii sguirino de Urbanis, magistro Domenico filius quondam Christophori
de Maijs sellario, ambibus habitatoribus Mirandulae" avevano rilasciato
una liberatoria a Giacobbe per le "denariorum quantitates sibi debitas ex
causa affictus praedicti usque in praesentem diem, et omnes bestias et pecuniae quantitates sibi quomodocumque
debitas ex quacumque causa". Il significato è abbastanza trasparente: il
contratto originariamente stipulato tra Vincenzo Personali locatore ed i
conduttori Giacobbe Castiglione ed Isaia Masserani comportava la corresponsione di un affitto, ma anche di un canone
in natura, che investiva "bestias et pecuniae quantitates", ossia
animali e quantità di beni. Una sorta di patto di livello, insomma, che vedeva
come conduttore un ebreo, Giacobbe,
garante con i suoi averi e la sua attività, mentre l'altro, Isaia, con
tutta probabilità si occupava della conduzione materiale della fattoria,
piuttosto estesa se l'affitto era di ben 300 scudi. L'atto si concludeva con
un'altra liberatoria, stavolta di Giacobbe
nei confronti dei fratelli Personali: il banchiere solennemente
sottoscriveva di non vantare più alcun credito nei loro confronti.
Evidentemente i rapporti finanziari tra le parti erano intensi e consistenti:
ma gli strumenti notarili non arrivano in genere a chiarire per quale preciso
motivo, e bisogna andare per induzione.
In effetti, il Personali era "conductor daciorum
et possessionum Illustrissimi Domini Ludovici", come si legge in un
successivo atto del 10 giugno 1558[9], di gran lunga il più interessante che ci è capitato
di trovare. In esso Leonello Cattabeni
di Ferrara "magister domus ac generalis
administrator" di Ludovico
II realizza col Castiglione una
complessa transazione, che avviene "in Castello ac in Palatio Illustrissimi Domini, in camera
factoriae", alla presenza dei testimoni Giacomo Filippo fu Gianfrancesco
Beccari e Matteo fu Francesco Regazzoni.
L'atto consta di due parti distinte, anche se
collegate tra di loro: nella prima, Leonello e Giacobbe fanno tutti i conti
delle minute pendenze che intercorrono tra il banchiere ed il signore. Risunta
così che certe pendenze risalenti all'anno prima, il 1557 si chiudono nel
seguente modo: Giacobbe che aveva avuto da dare ("pro dandis") 200
scudi a Giulia Malatesta, li vede
compensati da altrettanti 200, prestito
fatto da lui stesso al signore Ludovico
Pico "ex causa puri et gratuiti
mutui"; i debiti col Castiglione
di un altro membro della famiglia signorile, Galeotto di Ercole Pico, per
l'importo di 122 scudi, vengono
annullati, in cambio del computo, nella
chiusura dei conti, di 45 scudi di "honorantia pro banco" (ossia di
diritti di tenuta del banco feneratizio)
annua per gli anni 1557, 1558 e 1559, che Giacobbe deve a Ludovico II, e che è tenuto a
pagare ogni anno per la festa di San
Michele, ossia il 29 settembre. Si
tratta di 135 scudi, che evidentemente pareggiano i 122 prestati dal banchiere
a Galeotto Pico, non è detto in qual tempo né a qual titolo. Poiché l'atto è del 10 giugno 1558,
Giacobbe è evidentemente in arretrato
di circa nove mesi sulla scadenza della "honorantia", mesi che sono
compensati dall'anticipo della scadenza di
pagamento della tassa del 1558 (di oltre tre mesi) e del 1559 (un anno e
tre mesi). E' chiaro comunque che Giacobbe si ritenne soddisfatto di incassare
13 scudi di interesse sul prestito
fatto a Galeotto; tale cifra è pari all'incirca allo 11% del debito. Dato che
il tasso annuo abituale all'epoca praticato per i prestiti era assai più alto, dell'ordine del 30%
annuo, bisogna dire che l'ossequio
verso il potere da parte di Giacobbe Castiglione era assai alto: si
trattava dopo tutto di un membro della famiglia del signore. Se poi tale
reverenza fosse spontanea o dettata da motivi di opportunità politica, lo
giudichi il lettore...
Comunque, fatti i conti del dare e dell'avere
sino alla data del 10 giugno, risulta che
lo stesso "Illustrissimus Dominus restat debitor dicti Domini Jacob
de scutis mille auri in auro", ossia che
Giacobbe è creditore di mille scudi,
ciò di cui Leonello Cattabeni in
nome del suo signore Ludovico II si dichiara personalmente debitore.
Ma dalle casse del signore non uscirà neanche un soldo
di rame: avviene infatti che Giovanni Giacomo di Giovanni Pietro Masetto e
Andrea fu Vincenzo Personali (ancora lui!) "conductores daciorum et
possessionum dicti Illustrissimi Domini" sono debitori di canoni d'affitto
al signore e quindi "ad computum affictus solvendi" saranno loro a liquidare quei mille
scudi d'oro che spettano a Giacobbe.
Naturalmente non in un'unica soluzione: il saldo è scaglionato secondo tutta
una serie di scadenze grosso modo trimestrali, che seguono il ritmo delle feste
religiose di San Michele (29 settembre), Natale, Pasqua, San Pietro (29 giugno)
degli anni 1558-1560. Si tratta di nove rate (dalla festa di San Michele del 1558 a quella del 1560,
appunto) di 125 scudi sino a S.Pietro 1559, e di 100 scudi le altre.
Insomma, se per le casse del signore si trattava di
una partita di giro, era una presa in
giro per Giacobbe Castiglione. Il debito del signore, i 1000 scudi, non
frutta niente, o almeno niente che risulti dall'atto in sé, da cui il nostro
non incassa altro che quei miseri 13 scudi a sconto della
"honorantia" della tenuta del banco. Perciò assai è probabile che la
potenza della politica finanziaria del Castiglione venisse rafforzata da contratti come questo, e che il banchiere
si adattasse a soluzioni nell'immediato poco redditizie, in funzione, appunto,
politica.
Dunque, questo lungo strumento notarile (che
riportiamo trascritto in appendice, assieme al precedente) mette in evidenza
come l'attività del banchiere Giacobbe Castiglione a Mirandola fosse vitale per
il buon funzionamento delle finanze signorili. Da esso si evince prima di tutto
che Giacobbe fungeva da cassiere per la famiglia Pico; inoltre, che la sua
potenza finanziaria era tale che il signore non si peritava di mettere nelle
sue mani i propri più importanti amministratori.
Ma non solo: poco meno d'una decina d'anni dopo
ritroviamo il Castiglione in un altro atto interessante, rogato da Girolamo Onorati[10]. Nel
fascicolo dell'atto è contenuta una supplica che in data imprecisata Ercole Muratori aveva inviato a Ludovico II, (che "concorda al
supplicante quanto di sopra dimanda" il 20 dicembre 1567, come sta scritto in calce alla supplica stessa).
In essa il Muratori afferma di aver venduto
"alli anni passati [...] una sua possessione posta nella villa di
Borgetto a messer Iacobo hebreo per
pretio di scudi 800 delli quali ne tirrò scuti 200" mentre il restante
importo Giacobbe Castiglione si era
impegnato "col tempo di anni tre
in circa a restituirli [...] come più difusamente appar per instrumento rogato
per messer Tadeo Onorati già notaio
pubblico alla Mirandola". Ma i rovesci delle umane cose obbligavano il
Muratori a ricorrere ai buoni uffici del principe: "Ora ritrovandosi [...]
assai gravato di debiti et privo di
vestir[11] et di altre
cose a lui necessarie humilmente [...] supplica si voglia dignar concedergli
che nonostante il patto prefato del investire il detto precio et non sia
venuto il termino dell'hebreo, il voglia per sua cortesia e bontà fargli gratia et habilitarlo a poter riscoter da esso
hebreo scutti cento".
In cambio il Muratori faceva presente al principe che
proponeva all'ebreo "di prorogargli il termine di altri tanti denari per altri tre anni in circa [...] acciò si
possi col suo proprio aiutar et con quello sotisfar alli creditori et insieme
honestamente vestirsi".
Detto fatto: se il 20 dicembre Ludovico II concede al
Muratori di riscuotere 100 scudi con un
anno d'anticipo, ricontrattando le scadenze del credito residuo: il 24 dicembre si procede davanti
al notaro Girolamo di Taddeo Onorati, presenti Gian Giacomo di Matteo Zambelli
procuratore ed altri testimoni. La ricontrattazione del debito di Giacobbe si
conclude comunque in modo vantaggioso per il banchiere, che strappa un rinvio
di ben 5 anni per la scadenza delle ultime due rate (di 100 scudi ciascuna),
rinviate dal 1570 e 1571 rispettivamente
al 1575 e 1576.
Alcune osservazioni. Intanto l'intervento del principe
poteva obbligare a ristipulare un patto
di compravendita con pagamento differito. Ma se Ercole Muratori doveva essere
un possidente relativamente in vista (la sua presenza è attestata in altri
quattro atti di Girolamo Onorati) è del resto verosimile pensare che senza la contropartita
offerta dal Muratori al banchiere Castiglione ed offerta nella supplica stessa,
Ludovico II avrebbe avuto qualche problema a consentire alla revisione del
contratto. Non è nemmeno escluso che il signore abbia fatto pressioni sul
banchiere, proprio prospettandogli una dilazione maggiore di quella offerta dal creditore. Ma queste sono
illazioni: c'è piuttosto un altro dato di fatto importante, ed è che l'acquisto
della proprietà Muratori da parte del Castiglione è sicuramente reale e non fittizio, cioè non a sconto di debiti
non pagati dal Muratori stesso, visto che è per l'appunto il Castiglione a
risultare debitore del Muratori.
E' una volta di più una prova che l'attività
finanziaria del banchiere spaziava senza limitazioni nel campo immobiliare.
A Giacobbe si
affiancano, verso la fine degli anni Sessanta, i figli Rubino ed Abramo, la cui
presenza è attestata in vari atti; di Rubino si sa che nell'agosto del 1567 si
allontana da Mirandola per un viaggio d'affari, munito di una lettera di
credito che il padre gli affida;[12] se i Castiglione quindi scompaiono, verso la fine del
secolo sulla piazza di Mirandola sono
presenti altri feneratori, in particolare Laudadio da Norsia, membro della
potentissima famiglia di finanzieri modenesi, e vari Bondi, altra famiglia di
banchieri che rimarrà a Mirandola a lungo, e di cui numerose tracce sono
riscontrabili per parte del Seicento.
Interessante a questo riguardo è un atto del 1596[13] che attesta come in casa di Girolamo Onorati notaro,
"in borgo Brusato in contrata S. Rochi" Alessandro da Rieti e Isacco di Giuseppe Bondi[14] entrano in società nel banco feneratizio tenuto da
Laudadio da Norsia a Mirandola sin dal 1577.[15]
Non si citano prezzi pagati né altri fatti di
carattere pattizio, se non i due citati: e c'è un motivo. I contratti tra ebrei
sono regolati, all'epoca e sino all'emancipazione (la cui data definitiva
corrisponde all'Unità d'Italia) dalla legge rabbinica, e solo il tribunale
rabbinico ne è giudice. Evidentemente
però quando un contratto interviene sui rapporti tra contraenti ebrei e
cristiani, come è il caso dell'associazione ad un banco di prestito, c'è
bisogno della sanzione del diritto civile della signoria in cui l'ebreo
esercita: ecco spiegata l'assenza dal contratto di cifre, oggetto di trattazione in altra sede,
regolata dal diritto rabbinico.
In altri termini, se aprire un banco feneratizio è una
concessione del signore fatta ad un ebreo preciso (nel nostro caso, Laudadio da
Norsia, come si è visto sin dal 1577, ossia da circa venti anni prima) è
evidente che la vendita della concessione, o di parte di essa, debba essere in
qualche modo coonestata di fronte al diritto civile della società cristiana.
Non sarà fuori luogo notare che a Sermide, nel ducato di Mantova, poco distante
da Mirandola, una cinquantina d'anni prima una transazione simile aveva avuto
bisogno della sanzione ducale.[16]
Resta la bizzarria di veder degli ebrei stipulare un
patto tra di loro "in nomine Christi", come è scritto in testa
all'atto rogato dall'Onorati. Trent'anni avanti, Giacobbe Castiglione aveva
giurato dinanzi al padre di Taddeo "more haebreorum, et hebraeis
scripturis factis". Anche questo elemento va collocato in una corretta
dimensione: che a parer nostro è il livello di integrazione raggiunto tra
qeyllah (comunità) israelitica ed universitas cristiana, anche a Mirandola, dove una cospicua presenza
ebraica è finalmente attestata. Si tratta, allo stadio attuale delle ricerche,
di ebrei per lo più nati fuori Mirandola e qui immigrati (ma forse i figli di
Giacobbe Castiglione sono mirandolesi anche di nascita), spesso da Mantova o
dal mantovano; sembrerebbe insomma trattarsi di una comunità poco radicata nel
territorio, ma con importanti ruoli economico-finanziari. Proseguendo nelle
ricerche si potrà realizzare un quadro più esauriente, utile a ricollocare
parte della storia della città e dello stato di Mirandola.
Paolo
Edoardo Fornaciari
Livorno, 15 giugno 1995
Atti del
notaro Taddeo Onorati
ASMO
Notarile Provinciale Mirandola - filza
203, atto del 30 giugno 1558
In nomine Christi amen. In anno eius
Nativitatis 1558, indictione prima, die 30 mensis maij, Mirandulae in burgo
Sancti Francisci, in apotheca magistri Johanni Vulpi, praesentibus testibus
magistro Petro filio quondam Vincentii sguirino de Urbanis, magistro Domenico
filio quondam Christophori de Maijs sellario ambibus habitatoribus Mirandulae
Magnificus
dominus Andreas et dominus Filippus fratres et filii et haeredes Domini
Vincentii de Personalibus de Mirandula sponte sua obligantes se absolverunt
finierunt quietaverunt et liberaverunt Dominum Jacob filius quondam
Bonaventurae de Castilione de Mantua hebraeum et capsorem Mantuae praesentem
et recipientem per se et suis haeredibus et nomine et vice
de Jsaiae hebraei de Maseranis et de
Mantua specialiter et expresse a solutionibus
affictus possessionum praedictorum fratrum sitarum in Villa Fossae et in
loco dicto Villa Nova districtus Mirandulae locatarum praedictis domino Jacob
et Jsaiae per quondam praedictum
Dominum Vincentium pro affictum scutorum trecentum auri singulo anno ut constat
ex instrumento per me notarium iterum stipulato dicto anno 1553 die <dies deest> in qu<o> dictus
Dominus Jacob tenebatur, et dominus Jsaias, ut constat in dicto instrumento, et
ab omnibus et singulis quantitatibus bestiarum
et quantitatibus pecuniarum eisdem assignatis cum praedictis
possessionibus locatis ut in dicto instrumento et generaliter ab omnibus et
singulis debitis et obligationibus in quibus dictus dominus Jacob dictis
fratribus quomodocumque et qualitercumque et quacumque ratione vel causa quae
dici vel cogitari possit de iure
vel de facto teneretur usque in praesentem diem et ab omnibus et singulis qui ab ipso et suis ut supra praedicti fratres
de Personalibus petere habere exigere et consequi possent.
Facientes
finem, cassantes praedictum
instrumentum locationis et omnem aliam scripturam
Et
hoc ideo fecerunt praedicti fratres de Personalibus quia ad instantiam dicti
domini Jacob ut supra recipientis publice dixerunt et confessi fuerunt habuisse
et recepisse ab ipso domino Jacob ante praesentis instrumenti celebrationem solutiones et denariorum quantitates
sibi debitas ex causa affictus praedicti usque in praesentem diem, et omnes
bestias et pecuniae quantitates sibi
quomodocumque debitas ex quacumque causa; qua re de omnibus datis et receptis
juramentis eos saldum rationis fecerunt et de omnibus se tacitos et contentos
dixerunt et confessi fuerunt et non numeratae pecuniae et rerum praedictarum non
habitarum et saldi rationis non
facti omnino renuntiantes.
Et
hoc ideo fecerunt praedicti fratres de Personalibus quia enim contra praedictus
dominus Jacob sponte sua obligando se absolvit praedictos fratres praesentes et
recipientes per se et suis haeredibus generaliter ab omnibus et singulis
debitis et obligationibus et ab omni et toto quod ipse Dominus Jacob
quomodocumque et qualitercumque et quacumque ratione vel causa quae dici vel
excogitari possit de iure vel de facto petere habere exigere et consequi posset
usque in praesentem diem.
Faciens finem
cassans omne instrumentum omnemque scripturam praecedentem publicam vel privatam.
Et
hoc ideo fecit ipse dominus Jacob quia dixit et confessus fuit diligenter
calculasse et computus et rationes cum praedictis fratribus fecisse, et
calculatis calculandis et compensatis compensandis ipse dixit et confessus fuit
sibi de omnibus et singulis quomodocumque debitis fuisse integre satisfactum et
saldum rationis cum praedictis fratribus fecisse generaliter de omnibus inter
eos factis datis et receptis [ex.na] non fact[i] praesentis saldi renuntians
ASMO
Notarile Provinciale Mirandola, filza
203, atto del 10 giugno 1558
In
nomine Christi amen. Anno eiusdem nativitatis 1558 indictione prima die decimo
mensis junii Mirandulae in Castello ac in palatio Illustrissimi Domini in camera factoriae praesentibus testibus Domino Iacobo Philippo filio quondam domini Joannis Francisci de Bechariis et domino Matheo filio quondam domini Francisci Ragazoni de Mirandula
Magnificus Dominus Leonellus
Catabenus de Ferraria, magister domus ac generalis administrator Illustrissimi Domini Domini Ludovici Pici,
Mirandulae Domini et Concordiae comitis, ut de mandato generali sibi facto constat
ex patentibus litteris praedicti Illustrissimi Domini sub data <data deest> ex una <parte>, et
Dominus Jacob Hebraeus filius quondam Domini Bonaventurae de Castilione
habitator Mantuae et campsor ex altera parte, omnibus et singulis
pecuniarum verorum et bonorum
quantitatibus datis et receptis hinc inde, videlicet pro parte dicti Illustrissimi Domini et pro
parte dicti Domini Jacobi, fecerunt saldum rationis prius inter eos calculatis
calculandis et detractis detrahendis, computatis scutis ducentum habitis ab
ibso Domino Iacob pro dandis Illustrissimae Dominae Iuliae Malatestae et aliis
scutis ducentum ex causa puri et gratuiti mutui, datis ipsi Illustrissimo
Domino, et scutis centum viginti duo
pro totidem factis bonis Domino Galeoto filio quondam Hectoris Pici, de omnibus
quae usque in praesentem diem aliquo modo Dominus Galeotus teneretur ipsi Domino Jacobo; et pro parte
dicti Domini Jacob comprehensis in praesenti saldo scutis quadraginta quinque
pro honorantia ad quam tenetur pro banco ipsi Illustrissimo Domino de anno
1557, et pro aliis scutis quadraginta quinque de anno 1558 pro honorantia
praedicta et pro aliis scutis quadraginta quinque de anno 1559, eisque ad
festum Sancti Michaelis de mense septembris de dicto anno, et denique
computatis hinc inde datis et receptis usque in praesentem diem, ipse
Illustrissimus Dominus restat debitor dicti Domini Jacob de scutis mille auri
in auro, prout sic ipse magnificus Dominus Leonellus nomine dicti
Illustrissimi Domini dixit et confessus et protestatus fuit et est.
Et
volens ipse magnificus Dominus Leonellus, agens nomine dicti Illustrissimi
Domini, venire ad satisfactionem debiti praedicti, propterea sponte sua
obligando ipsum Illustrissimum Dominum et omnia et singula eius bona praesentia
et futura per se et suos haeredes et successores, delegavit in debitores dicto
Domino Jacobo, praesenti et recipienti per se et suis haeredibus, Dominum
Johannem Jacobum filium Domini Johannis Petri de Pensis de Maseto et Dominus Andreas filius quondam
Domini Vincenti de Personalibus de Mirandula, conductores daciorum et
possessionum dicti Illustrissimi Domini; pro praedictis scutis mille auri in
auro solvendis modis et terminis infrascriptis, ad computum affictus solvendi
ipsi Illustrissimo Domino, videlicet scutos
centum viginti quinque auri ad festum Sancti Michaelis de mense septembris anno praesenti 1558, et
ad festum Nativitatis Domini nostri Iesu Christi de hoc anno scutos 125 auri;
ad festum Paschatis Resurrectionis 1559 scutos 125 auri; ad festum Sancti Petri
de dicto anno 1559 scutos 125 auri et ad festum Sancti Michaelis de mense
septembris de anno praedicto 1559 scutos centum auri; ad festum Nativitatis
1559 scutos centum auri; ad festum
Paschae Resurrectionis de anno
1560 scutos centum auri, et ad festum Sancti Petri de anno 1560 scutos
centum auri, et ad festum Sancti
Michaelis de anno dicto 1560 alios scutos centum auri in auro.
Et
sic de voluntate et mandato dicti magnifici Domini Leonelli praedictus Dominus
Jacobus Johannes de Maseto, alter ex conductoribus praedictis, quantum sit pro
scutis quingentis auri in auro sponte sua obligando se in ordinem
debitum promisit et convenit dicto Domino Jacob hebraeo ut supra stipulanti dare solvere et
exborsare scutos quingentos auri in auro terminis sumptis dicti iuris et facti
executione remota pro eius rata tangenti, et alios scutos quingentos solvet
dictus Dominus Andreas terminis sumptis. Et hoc fecit ipse Dominus Jacobus
Johannes quia dictus magnificus Dominus
Leonellus ut supra agens
promisit eidem Domino Jacobo
Johanni praesenti praedictam solutionem
praedictorum scutorum quingentorum auri et aliorum scutorum quingentorum, fide
facta per praedictum Andream, bonam facere et compensare in solutionibus afictuum solvendis per eum prout tenetur instrumento
locationis de iuris et facti executione[pf5] remota, et dictus Magnificus Dominus Leonellus ut
supra obligatus promisit dicto Domino
Jacob<o>, quod dictus Dominus Andreas, qui de aliis scutis quingentis se
constituit debitorem modo quo supra,
ratificabit dictam delegationem absolvere,
Et
hanc delegationem fecit ipse magnificus Dominus Leonellus quia facto saldo praedicto ut supra dictum est et salvis
sumptis ipse Dominus Jacob hebraeus
sponte sua absolvit
praedictum Illustrissimum
Dominum, ad instantiam praedicti Illustrissimi Domini Leonelli praesentis et
nomine dicti Illustrissimi Domini et suorum haeredum, ab omnibus et singulis pecuniis et bonis in
quibus ipse illustrissimus Dominus in aliquo <modo> teneretur ipsi Domino
Jacobo usque in praesentem diem.
Et
hoc quia enim contra praedictus
magnificus Dominus Leonellus, ut supra agens et obligando, absolvit ipsum
Dominum Jacobum hebraeum praesentem et ut supra recipientem ab omnibus et
singulis denariorum receptorum et bonorum quantitatibus in quibus dictus
Dominus Jacob teneretur ipsi Illustrissimo Domini usque in praesentem diem et
ut supra dictum est.
[16]Cfr. V.Colorni
Gli ebrei di Sermide - Cinque secoli di
Storia (1414-1936), estratto da "Scritti in memoria di Sally Mayer",
Gerusalemme 1956, p.66.