Il bagitto, un idioma ebraico-livornese

 

Abitualmente si ritiene che il parlare specializzato del gruppo ebraico di Livorno sia stato un derivato del giudeospagnuolo, e più in particolare del castigliano dei discendenti dei sefarditi, giunti un secolo dopo la cacciata.

Ma è assai più complessa la realtà: a Livorno sin dagli inizi del Seicento s’insedia saldamente una comunità di cristiaõs novos - marrani portoghesi costituenti una vera e propria aristocrazia mercantile - che domina la qeillah almeno sino al 1715.

Lo dimostra la presenza preponderante e costante per oltre un secolo di atti ufficiali in giudeo-portoghese, singolarmente affine a quello attestato ad Amsterdam, indizio apprezzabile, se non prova certa, della permanenza di una aristocrazia chiusa - per tutto il Seicento ed oltre - capace di gestire gli affari della qeillah in modo esclusivo e relativamente  impermeabile.

 

Il concetto, ed il termine, di bagitto si formalizzano lungo il secolo successivo, il Settecento, in relazione alla[1] dicotomia sociale che s’instaura con la presa del potere da parte dei marrani: il parlar alto, quello del ceto dirigente, la lingua ufficiale degli atti legali, quelli in cui parla la maestà della legge interna alla comunità, è il portoghese; il parlar basso invece è il castigliano dei profughi di terza e quarta generazione, provenienti sopratutto dagli stati della Sublime porta, magari attraverso lo scalo di Ancona o il passaggio dal centro sefardita più importante d’Italia, ossia Ferrara.

 

Infatti questo termine - bagito, o bagitto - è una deformazione della parola  "bajito", diminutivo dal castigliano tardomedievale bajo, basso, ma anche “che sta sotto“, col valore dunque di "cosa da poco, che è inferiore ad un’altra". Sappiamo che la jota[2] in castigliano all'epoca della cacciata non era pronunziata alla maniera odierna, come una gutturale aspirata, ma come una palatale fricativa: hijo (figlio) insomma si pronunciava higio; e bajo, basso, bagio. Il termine bagitto in questo senso risulta essere quindi una sopravvivenza linguistica, testimonianza della pronunzia arcaica della jota nel vetero castigliano. Pronunzia del resto comune a tutti i dialetti giudeospagnoli, come ci rese noto Haim Vidal-Sephiha nel convegno del 1984 a Livorno[3].

 

Torniamo alla storia: In tutta Europa il giudeo-portoghese fu ben presto completamente assimilato dalle comunità linguistiche nazionali in seno alle quali si era insediato: fino a cedere del tutto di fronte alla lingua nazionale o al dialetto locale, in ciò anticipando la sorte del giudeo-spagnolo europeo.[4]

In seno alla Nazione ebrea di Livorno coesisterono insomma due gruppi linguisticamente diversi anche se affini per circa due secoli, in una situazione di bilinguismo improprio.

L'uso delle due lingue infatti non risulta essere stato indiscriminato: ciascuna ricoprì la funzione di lingua speciale di un determinato settore della vita sociale, accanto al quale, naturalmente, sia l'una che l'altra mantennero la funzione di lingua dell'uso familiare nell'ambito del rispettivo gruppo. Così il portoghese fu la lingua degli atti ufficiali, delle leggi, dei regolamenti; il castigliano, per il prestigio intrinseco della lingua e della cultura spagnuole, e quello specifico di cui godeva la produzione letteraria giudeo-spagnola diffusa in tutte le comunità sefardite, divenne la lingua della letteratura sacra e profana, in prosa e in versi, parlata e cantata, e come tale si mantenne nell'uso molto più a lungo del portoghese, e da lingua bassa, a fine Settecento risultò oramai elevata al rango di lingua dotta elegante ed esclusiva, ricoprendo così il ruolo del giudeoportoghese di un tempo.

Si tratta di un comportamento costante: piccole isole linguistiche di varia origine sono prima o poi interamente assimilate ovunque si trovino a confrontarsi con lingue di grande prestigio culturale, a maggior ragione se la coesione sociale interna della comunità dove vengon parlate si attenua. Il giudeoportoghese ha lasciato pochissime tracce[5]: si tratta di una scomparsa tanto irrimediabile, quanto storicamente ineluttabile.

 

Il destino del giudeospagnolo livornese è stato analogo: oltre all’indebolimento generale che tutti i parlari giudeospagnoli del bacino del Mediterraneo hanno conosciuto, sotto l’urto della cultura francofona prima ed anglofona poi, in Livorno ne minò le basi prima di tutto l’impatto con la preponderante cultura italiana, ma anche con le vicende politiche italiane connesse, nel secolo passato, con la l’evoluzione verso lo stato nazionale unitario: per ogni buon italiano parlare spagnolo dopo l’unità (1861) era poco meno che un crimine. E gli Ebrei, strutturalmente progressisti, appoggiavano la monarchia sabauda, ostile al Papato che li aveva mantenuti segregati sino al 1870.

Pertanto sul finire del secolo passato parlar castigliano era indizio di stravaganza, talvolta addirittura di incultura, ma sopratutto di resistenza all’assimilazione, che allora, subito dopo la unità, era percepita come un valore positivo, e non un disvalore, in accordo con la generale tendenza che operava da tempo a livello europeo.

Il giudeospagnolo è così scomparso, anche nella forma liturgica specifica del ladino (conservatasi, secondo testimonianze scritte, fin verso gli anni 70-80 del secolo passato), integralmente sostituita dall’ebraico. Ne restano pochissime vestigia rappresentate da pochi canti, poco noti.

Il bagitto come fatto gergale e vernacolare ha resistito un po’ più a lungo: espressione comunque ormai scomparsa anch’essa in quanto tale, dopo il colpo di grazia delle infami leggi razziali e della shoah, anche se rimane nel ricordo di alcuni, pochi concittadini livornesi ebrei di età abbastanza avanzata, che rammentano di averlo parlato, il bagitto, nelle scuole israelitiche degli inizi del secolo e fino agli anni venti e forse anche trenta, come vezzo quasi di opposizione adolescenziale al mondo degli adulti che invece tendeva a far di tutto per fare scomparire questa testimonianza di un passato che attestava di una relativa separatezza tra la nazione ebrea e le altre nazioni conviventi a Livorno.

 

Il bagitto, di per sé lingua bassa, come si è detto, nell’accezione contemporanea resta il vernacolo ebraico locale, articolato originalmente in due rami: quello della lingua franca degli scali mediterranei (vero e proprio gergo specialistico commerciale e marinaresco)[6] e quello autoctono, il bagitto in senso più proprio, quello che oggi conosciamo come tale, o meglio ricordiamo, poiché il bagitto non si parla più; solo pochi lo ricordano, e per di più la letteratura in tale speciale vernacolo giudeolivornese è scarsissima; addirittura, vedremo meglio in seguito, ha dato luogo più a strumentalizzazioni di giudeofobi non ebrei, che a vera e propria espressione letteraria autonoma.

 

Il bagitto dunque era composto di varie caratteristiche convergenti. La sua speciale cantilena, l'accento tipico degli ebrei livornesi, era ricca di nasalizzazioni[7], di scambi di consonanti e cambi di vocali (levente per valente), di italianizzazione di parole ebraiche: aklare (mangiare, da akhal), gannaveare (rubare, da ganav, ladro, e per estensione ganavessa, ladra), inzekkenire (da zaken, vecchio), smengói (denari, dal termine ebraico  ma‘ot, di cui vien deformata la particolare pronunzia gutturale della lettera ‘ain); era di uso comune adottare termini spagnoli (tomare, prendere; roschetta, ciambellina), ma anche portoghesi (gnora mai, signora madre; mucicco, da moçico, ragazzino) e arabi (cuscussú), parole che per lo più erano flesse all'italiana; tipica inoltre era l’adozione di speciali modi di dire mutuati tanto dalla sapienza scritturale (kadoš baruhú, santo e benedetto) quanto dalla proverbialità portoghese (negro de mim, sventurato me) e soprattutto spagnola:

 

ni ajo dulge ni todesco bueno;

 

       moro viegio non aprende lengua

 

       mujer hermosa con mucho dinero a mi forastero a mi me la dan? Trampa ay!

 

      Aqui morì (muriò) mi padre, aqui me siento[8]

 

A volte in certi modi di dire si integravano insieme spagnolo ed ebraico:

 

quien se mete con su menór, pierde su kabod (onore).

 

tarhí   tarháh  (accenti della torah) todas una mišpahah (famiglia)

 

Nel bagitto dunque le consonanti doppie intervocaliche tendono a scempiarsi (polo/pollo, fero/ferro, ecc.), e per conseguenza il raddoppiamento sintattico tipico del toscano scompare (a lei gira qualcosa, e non a me\ a mme)[9]; le consonanti sorde divengono sonore, e se intervocaliche, fricative: amico\amigo, foco\fogo bacio\bagio;[10]  fenomeno che investe anche la pronunzia di parole ebraiche come ma‘ot, che suona  ma‘od; la p diviene aspirata, e quindi suona f (poeta-foeta; petto-fetto); la b intervocalica suona indifferentemente v, e viceversa (ovo-obo, carnevale-carnobale) . Queste due particolarità sono in diretta connessione con la lingua ebraica, in cui e bet solo in certi casi perdono l'aspirazione, e per farlo hanno bisogno dell'inserzione del dageš.

Nomi ed aggettivi femminili al plurale escono in -i (alli scoli vogliamo li camfani[11]). I pronomi personali declinati mi, ti, ci divengono me, te, ce; gli articoli determinativi si riducono a tre (lo per il maschile singolare; la per il  femminile singolare; li per il plurale dei due generi).[12]

 

Il bagitto poi - si è già accennato, ma merita ripeterlo - era sopratutto un fatto gergale, quindi ricco di espressioni fatte, più ancora che di una sintassi ed una grammatica proprie.  Sono espressioni che spesso si leggono nella letteratura bagitta - una letteratura molto povera, che consta di meno di una decina di autori, tra cui numerose cose scrisse  Giovanni Guarducci, un popolano risorgimentale, versificatore fecondo ma spesso banale, un goio che scrive senza dissimulare lo spirito giudeofobo che lo anima, mentre Guido Bedarida, nel nostro secolo, è stato l'unico autore ebreo che ha compreso l'importanza del lascito che andava smarrendosi[13], per fissarlo in qualche modo sulla carta[14]. Così sia presso il primo che nell'altro si trovano locuzioni come "che mi caschino l'occhi che ho davanti" oppure "per la su\tu vida", o ancora "Sorda mi sia quell'ora" (l'ora della morte, perché io non sentendola non me ne accorga) o pure e semplici imprecazioni "badonai, caiadonai" (perdio, vivaddio),  testimonianza di una non perfetta adesione al dettame del I comandamento da parte del popolino...

 

A questo punto, merita riportare alcuni esempi di composizioni bagitte. Prima di tutto, un tentativo di ricostruzione del giudeoportoghese attuato da Guido Bedarida una settantina di anni fa:

 

CONTRASTO TRA UN FRATE INQUISITORE ED UN MARRANO LIVORNESE [15]

 

FRATE

 E sie' venuto di Lisbona... Porto ?

LOPES

Vossa Excellencia nao ha de saber nada ,        Vostra eccellenza non deve saper nulla

FRATE

Se ti rimando in quella tu' contrada... ?

LOPES

Negro de mim! então sou homem morto.  Povero me! Allora son un uomo morto!

 FRATE

 Confessione perfetta.... Senti qua :

 Dove anderai ? Gesù per tutto regna....

LOPES

Sabìa disso quand’era Lopes Penha;           Lo sapevo quand’ero Lopez Penha

Chamo-me hoje Binjamin Jehudà.            Oggi mi chiamo Benjamin Yeudah

 FRATE

Siei carne o pesce?

LOPES

     Sim, Vossa Excellencia...             Sono, vostra eccellenza...

Vim em Liorne p' ra sahir do covo:       Venni a Livorno per sfuggire al pollaio

Aqui esnoga, casa e independencia....           Qui c’è sinagoga, casa, indipendenza

     Serei Toscano ou serei Portuguez?           Sarò toscano o portoghese?

 Judeo de judiaria ou Christão novo?            Ebreo di ghetto o cristiano nuovo?

 Quem sabe...  agora basta Livornez.            Chi lo sa... Ora mi basta Livornese

 

 

Un esempio di giudeospagnuolo tra il  popolare ed il liturgico: Canto di Purim[16]

 

En estos dos dias

llamados el alegre Purim

porque en ese yom   [giorno]

tovimos muchos nissim    [miracoli]

comamos bevamos

y alegros estamos

El pueblo de Israel

El pueblo de Israel

Amen, Amen, Amen [17]

 

La melodia di questo canto di Purim è analoga a quella del canto liturgico  En ke’elohenu:

 

En ke’elohenu,   en ke’adonenu   

en kemalkenu    en kemoši‘enu   

Mi  ke’elohenu,   mi ke’adonenu   

mi kemalkenu     mi kemoši‘enu [18]

 

peraltro cantato su tutt’altro ritmo, assai più lento, e con ricchezza di melismi di difficile trascrizione.

 

 

Un esempio di  impiego del bagitto da parte di non ebrei: dapprima la “Lode di Giuditta”, dalla “Betulia Liberata” di anonimo, ma in realtà di Luigi Duclou,[19] maestro elementare dei primi del secolo passato:

 

Vedoba de Manasse,                  

Te de Giudea sostegno;               

Te che salbasti il regno           salvasti     

Vogliamo celebrar.                   

 

Contro lo stuol nimico                 

Te sola, imbitta e forte           invitta

Fuori de nostre porte                  

Piacqueti de pugnar.             

 

Ed a quel Pappamondo;               

Mostro pien de fierezza,               

Tagliaste la cabezza       cabeza, testa

E un'altra cosa ancor                 

 

Altro esempio: il “Sonetto al tenore Zavoli”, di Giovanni Guarducci:[20]

 

Chi ti sente, e non dice benedetto              

Nel dolce canto della Beatrice,                         

Che prendi un fa collo spicchio di petto          Lo “spicchio di petto” è la carne che si

Vuol dir che nella musica è infelice!            usa per il cuscussù livornese     

 

La Nazion ti dará sempre ricetto,         la Nazione ebrea         

Ti coprirá d'alloro la cervice,                       

Ti sparerá, occorrendo, un mortaretto,                

Ti farà una dozzina di camigie!                camicie

 

Da dove cavi tanta melodia                   

Che par che abbi la voce giulebbata?                

Di dove levi tante note sgherre?                Belle, sublimi                  

 

Caiadonai, evviva l'armonia;                  Vivaddio    

  Evviva il trillo e la semitonata                      

  Zaboli vero siei Tenor cacierre!               Kasher, puro, ottimo

 

 

Ecco invece alcuni esempi di bagitto moderno, inediti, opera lontana di Cerarino Rossi, che la cortesia della figlia, signora Angiolina Rossi, ci ha permesso di farci conoscere.

 

Il privilegio

Negra di me, che guai

Mi strizzan tutta, ahiahi

per un pezzo di ciccia

fora sia ‘l male sciahtata

già m’hanno fatto perdere

quasi mezza giornata!

 

      Ci ha la tessera, lei?

      Come, ‘un gliel’hanno adta?

Badi che c’è la guardia

la carne ‘un gliela dà

perché senza la tessera

è come ngarelà.

Quella sposa lì dietro

‘un è mica judìa

lasciami far a me

ch’ora la mando via!

O sposa, cara lei

‘un lo sa che la ciccia

l’han soltanto l’Ebrei?

Lo so, lo so, ma vengo

per e la mi’ signora

m’ha dat’anche la tessera

la Coenne, la mora

Guarda quella, du’ volte

che la ved’al macello!

La smetti? - ‘Un esse’ higeda!

Lo sai che ‘l mi’ fratello

ci ha la moglie ch’è grossa?

E lei nun pol venire

se sta per parturire!

Se ni piglio la ciccia

cosa s’occupa lei?

Spicciatevi, in bon’ora

son sonate le sei!

Lei cosa piglia, costola

  o magro per el lesso?

Basta che me la diino

tanto per me è lo stesso

faccio  ‘r brodo ar mi’ Bruno

core mio, fa ‘r digiuno!

Lo sai come finisce?

Finisce che quarcuno

come la De la Riccia

va a casa senza ciccia

     Quel negro scigazzello

ch’è poco che è venuto

è già passat’avanti

di me e della Sacuto!

     La carne è terminata!

(grida la guardia, in fondo

che a dirla qui tra noi,

s’è divertita un mondo)

Ahiahi, negri di noi

la nostra, già si sa,

è una negra cheillà!

Cos’è loro ‘un lo sanno?

A scola nun ci vanno

ma per pigliar la ciccia

siamo in tremila ebrei !

Invece d’una bestia

dovean sciahtarne sei!

 

Guarda lì, mora, hai visto?

Hai visto chi l’ha presa?

A loro nun li manca

e nemmeno li pesa

guard lì che fagotti

ch’hanno portato via

e magari a credenza

e noi si resta senza!

Ma per la vita mia

gne lo dic’al chaham:

Sa chi ha avuto la ciccia?

Nemmen mezza cheillà

ma tutti l’impiegati

dell’università                                         Livorno 1949

 

LA MILA'

 

Oh! Sor Argia, beato chi la vede!

Megloo di un BEN ZAHAR, voi l'occasione?

Annina ora sta bene - ma ci crede,

mi peritavo - par d'essere ciacciona

 

ma lunedì mi ferma a mezza scala

 1a Levi, una di quelle che ti sa

il puro dall’impuro, e, che si sciala

a dar negre notizie; e , dice  un sa

 

 d'Annina?   Un parto... Un caso disperato!!

L'ha fatto il sor Adolfo TEFILA'

Anche Coen, di furia, hanno chiamato.

Li giuro, a sentir questa.GHEZERA'

 

m'è andato il sangue in acqua, poi, ho saputo

del parto... si capisce, mi informavo...

ma, quel giorno, s'un era la Cassuto

che mi dava una seggiola cascavo.

 

 Annina, core mio, sei sempre a letto?

Stai meglio?

       In quanto a strascichi, ce n'ha:

 moroide... atroci, ragade nel petto...

Nun si confonda! Pensi alla MILA’!

 

-Gnamo, fammi veder questa creatura:

 Di qui  in su, tutto su' madre: un vede?

 La bocca è d’Angiolino addirittura!

Ben messo il corno: al NGAIN chi è ch'un ci crede?

 

-Altro posto nun ha per DABERARE,

oh Sor' Argia, davanti al seggiolone,

si mette? - Un sa che devan preparare

i ferri? Danno noia le persone!

 

-Le bimbe alle MILOD?  FORI SIA'L MALE !

ai mi tempi un s'usava- Ora: un le tocchi

‘ste sciagazzelle tutte pepe e sale:

si mettan lì a NGAINAR con tanto d'occhi!

 

-Sor Gerbi è lei il compare? Ma è parente?

-Cosa s'occupa lei, che HAFASCIAIA

-Diavolo! Zio! Già, un mi veniva a mente.

Che lusso! Ci hanno già la bambiaia!

 

-Oh, senta un po’ se il bimbo è preparato...

-Mario, hai bastante luce? A quante sei?

-L'ho fatta a lui, a lui, al su' cognato...

 con questa, novecento ottantasei-

 

Ci siamo. Pol far cenno alla comare,

Lei tenga fermo, allarghi le coscine,

Versa lì dentro, per disinfettare

Far soffrir tanto queste creaturine,.

 

-S'un ci fosse il MOEL, lei sor'Argia

nun la farebbe la MILA' da sè?,

-In quella ciccia tenera? Mai sia!

Io, tagliare? - Li giuro che per me,

 

resterebbe NGAREL, Siiii, fossi matta!

UNHE' UNHE' UNHEr UNHE' UNHE' -

Che HEN quel Mario !  - In un baleno,

       Fatta!

-UNHE' UNHE' UNHE' UNHE' UNHE’

 

-BESIMANTOB,BESIMANTOB di core!

il bimbo poco ha pianto, poverino,

un angiolo, un'è vero sor dottore?

 -E con che avidità ti ciuccia il vino!

 

Oggi a chi tocca la MIZVA' di latte?

La farà certo la su’ figlia, eh, Enrico?

 -Con tante gravidanze ne avrà fatte

MIZVOD! Argia, lo sai cosa ti dico?,

 

 Il bimbo è un pò peloso

Ti fa specie?,

Te ‘un ti pòi ricordare: il su’bisnonno

bonanima figurati che fece

(tempi...) il garibaldino col mì nonno,

 

era famoso per le sopracciglia

fitte fitte ch'aveva, tant’è vero

(lo canzonava sempre il sor Ghidiglia)

lo chiamavano...aspetta... tizzo nero!

 

Chi è quello lì che "dà spago” alla Soria?

Ti giuro io, che se la lasci dire

dura fino a domani. Io aspetto in gloria

"il salato” mi sento "rifinire”!

 

-Venga dottore, guardi il bimbo sotto...

 -Un gocciolin di sangue, sor'Annina,

lo lasci stare fin stasera all'otto,

che torno; tagli mezza fasciolina",

 

Badi, io un me ne 'ntendo di DINIM

nun so se di Šabbà si pol tagliare

anche se per mizvà...- Senta Nissim!!

-Tagli, tagli.... ‘Un si taglia quell'affare?               (Livorno, dicembre 1938)

 

Scritto da Guido Bedarida, il sonetto che segue fa parte della silloge MARE AMMARIM[21]  (Amaro degli amari), dedicato alle persecuzioni antisemite tra il 1938 ed il 1945

 

IL CENSIMENTO  (Estate 1938)

 

Anco in Ispagna '1 Re ci disse un giorno

Accosì (e fa ‘n ber bollo anco ‘r Testone!):       anche Mussolini fa un bel colpo

“Resti judio? ti segni  dar tal giorno.

Poi si vedrà... ‘un è perseguizione...                  non è persecuzione

 

 Voi fa' cosa ti pare? vai a Livorno!”

 Avesse visto noi che porverone              polverone

 s'alzò! Si viense qui: tre case e un forno;             venne

 Guardi ora, po’po' di bottegone!              Guardi ora che gran mercato

 

Si, èramo Giudei per e Granduchi,                  eravamo

E ni si funzionò da tappabuchi,                     

Ma ‘Granduchi ni dettero a’ Giudei

 

 Un posàcolo, un’arte, caro lei,                      un luogo tranquillo, dove lavorare

 Quattro secoli ‘n pace. E oggi, 'un si creda,

 Pace ? guerra! .... Neqamà se ‘n veda!        Che ne scaturisca vendetta!

 

Questa breve esposizione è dedicata alla beata memoria di Giosue Baruch, popolano bagitto livornese, che (come attesta Primo Levi ne “I sommersi e i salvati”, e grazie alla memoria indefettibile di Dino Bidussa) giunto ad Auschwitz, contro il primo kapò che l’aggredì reagì con fierezza, prima di salire nel firmamento dei Giusti.



[1] Qualcuno ha voluto mettere “bagitto” in relazione con la parola italiana vagito, con riferimento al cantilenare nasalizzato, tipico del parlare degli ebrei livornesi, cosa improponibile, poiché il castigliano ha vagido, da cui sembra difficile derivare bagitto.

[2] j lunga

[3] Il raddoppiamento della  t  sarebbe poi un raddoppiamento debole, tipico dei parlari ispanici (cfr. juntito, pronunc. khuntitto), che solo in italiano assume rilevanza fonetica e quindi forma grafica; del resto, scrive bagitto ora con doppio t ora senza lo stesso Bedarida, il suo massimo studioso.

[4] Descrive tale ultimo processo in modo documentato ma sopratutto toccante Haim Vidal Sephiha in “L’Agonie des Judéo-espagnols”, Paris, ed.Entente 1977.

[5] Come “gnora Mai” per “signora madre”, in una canzoncina da me raccolta nell’ottobre del 1997 da un’anziana informatrice, Pia Toaff vedova di Guido Bedarida.

[6] Lo cita Guido Bedarida in “Ebrei di Livorno - Tradizioni e gergo in 180 sonetti giudaico-livornesi”, Le Monnier, Firenze 1956 nel corpo dei “Sonetti di Giacobbe Attias, levantino”; e “Un intermezzo di canzoni antiche”, in Rassegna Mensile di Israel, a.XIII n.24, 15/3/1928, p.52-59; se ne ritrova traccia anche in R. Ascoli “Gli ebrei venuti a Livorno”, I.Costa, Livorno 1886, p.158, v.35

[7] È - questa - una caratteristica di tutti i giudeoparlari, incluso per esempio lo yiddiš ed il giudeoarabo.

[8] Un ricco florilegio di tali modi dire è contenuto nel saggio di Gabriele Bedarida Tradizioni folcloriche sefardite a Livorno   in  “E andammo dove il vento ci spinse”, Genova, Marietti 1992

 

[9] G.Guarducci “Pensieri e mosse d’un eroe della Nazione”, in “Raccolta degli scritti editi ed inediti”, Malta 1868, p.91

[10] Ricordiamo peraltro il "logo pio", “luogo pio” del quartiere livornese della Venezia dove sorgeva una casa di ricovero per derelitti, vecchi ed orfani: assai improbabile che si tratti di un imprestito dal bagitto.

[11]La Betulia liberata in dialetto ebraico con una protesta in gergo veneziano”, Bastia 1832, di anonimo (forse Luigi Duclou), riportata da F.Polese “Letteratura vernacola livornese” Livorno, Giusti, 1926, p.76.

[12] Queste regole sono state formalizzate nel 1942 dal linguista Angelo Beccani, (“Contributo alla conoscenza del dialetto degli Ebrei livornesi”, in L’Italia Dialettale, vol.XVIII, pp.189-202) che abbozzò anche un breve lessico del bagitto, molto più affidabile di quello uscito pochi anni fa ad opera di Vittorio Marchi, e riprese da Giovanna Massariello Merzagora, ricercatrice che in “Giudeoitaliano”, Pacini editore, Pisa 1977 pp.54-60, fa da un lato interessanti considerazioni sulla conservatività dei parlari giudaici e la loro relativa omogeneità, ma per quel che riguarda il bagitto commette clamorose sviste, confondendolo con il vernacolo dei popolani cristiani della Venezia, gli unici che a Livorno (nel 1791) riuscirono a provocare moti antisemiti.

[13] C'è da dire che lo stesso Bedarida - che non era di famiglia bagitta, ma benestante ed anconetana - non riesce a spiegare l'etimo di qualche parola bagitta: come holayom (forse da hom ha-yom, “caldo il giorno”) cfr. “Vigilia di sabato”, atto III scena 1), che vuol dire "far le cose per tempo".

[14] Piccola eccezione, fu Cesarino Rossi, che scrisse un paio di composizioni pubblicate da un numero unico, "Il sor Davar" una quarantina d'anni fa.

[15] G.Bedarida “Ebrei di Livorno, ecc.” cit., p.2.

[16] G.Bedarida “Un intermezzo di canzoni antiche”, cit., p.298-299. La musica è stata da me raccolta presso la signora Pia Toaff Bedarida nell’autunno 1997.

[17] In questi due giorni, detti l’allegro Purim, poiché in questo giorno avemmo molti miracoli, mangiamo beviamo e allegri ce ne stiamo, noi, il popolo di Israele.

[18] Nessuno è come nostro Dio, nessuno è come nostro Signore, nessuno è come il nostro Re, nessuno è come il nostro Salvatore. Chi è come il Dio nostro, chi come il nostro Signore, chi come il nostro Re, chi come il nostro Salvatore?

[19] La Betulia liberata in dialetto ebraico - con una plutelta in gergo veneziano Fabbreschi, Livorno 1826, p.9

[20] Giovanni Guarducci,  Raccolta degli scritti editi ed inediti F.Vigo, Livorno 1889, p.43

[21] G.Bedarida “Ebrei di Livorno, ecc.” cit., p.148