Parashat Nasò 5761

 

E parlò il Signore a Moshè dicendo: ‘Parla ai figli d’Israele: ‘Uomo o donna che facciano una delle trasgressioni umane compiendo tradimento nei confronti del Signore e quella persona si è resa colpevole. E confesseranno la loro colpa che hanno fatto e restituirà l’ammontare della colpa ed aggiungerà ad essa la sua quinta parte e lo darà a colui nei confronti del quale si è reso colpevole.’’” (Numeri V; 5-7)

 

Il brano che abbiamo qui riportato espone apparentemente un argomento del quale la Torà si è già occupata nella Parashà di Vajkrà (Levitico V; 20-26). Si tratta della procedura necessaria in caso di furto o comunque di appropriazione indebita che viene negata dal colpevole il quale anzi giura falsamente di essere innocente. Rashì sostiene che il brano viene ripetuto qui per insegnare due cose nuove:

§         Che l’indiziato non deve rendere il quinto addizionale alla refurtiva, né presentare l’offerta di espiazione di Hassham fino a quando non ha confessato volontariamente il reato.

§         Che nel caso il furto sia stato perpetrato nei confronti di un proselita e che questi sia morto nel frattempo senza lasciare eredi, la refurtiva viene restituita al Sacerdote.

 

Esistono quindi due fasi: una processuale ed una morale.

 

Se ci sono dei testimoni che possono attestare il furto ed il tribunale proclama la colpevolezza dell’imputato egli deve restituire la somma o l’oggetto derubato. Qui si chiude la parte tecnica, processuale. Ma per l’ebreo la legge non è un qualcosa da aggirare ma piuttosto un imperativo morale. C’è un giudice che giudica ognuno di noi anche e soprattutto alla luce delle nostre relazioni nei confronti del prossimo. E dunque la Torà non si accontenta della giustizia tecnica del processo ma cerca piuttosto la confessione volontaria del peccato.

 

Solo con la confessione l’uomo può riappacificarsi con D‑o e quindi presentare la dovuta offerta al Santuario. Solo con la confessione l’uomo può veramente sanare la frattura con il prossimo attraverso l’aggiunta del quinto addizionale che deve al derubato. Esiste quindi una doppia responsabilità: il tribunale ha l’obbligo di fare giustizia nei limiti del suo mandato ma non può entrare nel cervello delle persone e farle dispiacere. L’uomo, il peccatore, viene chiamato quindi a sanare la frattura che ha creato con D‑o e con la collettività. L’importanza dell’individuo è tale che solo questi può rendere completo il giudizio della Torà e del tribunale. Da sottolineare poi che questo è evidenziato dalla Torà passando dalla forma singolare alla forma plurale nel verso.

Or HaChajm sostiene che l’unico punto del brano in cui viene usata la forma singolare è quando si parla dell’anima del peccatore che, rubando, rinnega la Giustizia Divina. Nella realtà dunque si può parlare al singolare solo prima della confessione in quanto dopo di essa l’uomo torna alla collettività. Da un punto di vista psicologico l’uomo è al singolare in questo passo fino a che è l’unico che sostiene falsamente la propria innocenza e torna alla collettività quando ammette la colpa ed accetta il giudizio.

 

Il verso in questione non insegna però solo i due punti sottolineati da Rashì. Rambam (Hilcot Teshuvà I,1) ed il Sefer HaChinuch (mizvà 363)  imparano infatti da questo verso la mizvà del Vydduy, il precetto di confessare i propri peccati. Il Rambam stabilisce dunque questo verso come la radice stessa del processo della Teshuvà, del ritorno a D‑o

 

Il Sefer HaChinuch espone esaurientemente il percorso legislativo che la Torà compie nell’indicarci il precetto di confessare le colpe e conclude che la trasgressione dei precetti negativi, così come l’inadempimento ai precetti positivi comporta l’obbligo di recitare il Vydduy. Dopo ogni trasgressione o dopo ogni occasione persa per fare una mizvà è necessario confessare la propria colpa.

 

Ciò è applicabile tanto per le colpe grandi quanto per quelle piccole. Persino i condannati a morte hanno l’obbligo di pentirsi come impariamo nella Mishnà (TB Sanedrhin 43b): “Quando [colui che doveva essere lapidato] si trovava a dieci ammot dal luogo della lapidazione gli si diceva ‘confessa!’ poiché tutti i condannati a morte si confessano. Poiché chiunque si confessa ha parte nel mondo futuro….”

 

Non solo. Persino il malato terminale viene fatto confessare come impariamo nel trattato di Shabbat al capitolo Bamè Madlikin (TB Shabbat 32a): “Hanno insegnato i nostri Maestri in una Barajtà: ‘Chi è ammalato e sta morendo gli dicono [coloro che gli stanno attorno], ‘confessa!’ Poiché [abbiamo imparato nel trattato di Sanedrhin] che tutti i condannati a morte si confessano”.

 

Ed infatti troviamo nei nostri libri di preghiere, tra le preghiere per il moribondo, la confessione dei peccati.

 

Due sono gli elementi fondamentali nella confessione così come li definisce il Sefer HaChinuch: il primo è che confessando il torto fatto l’uomo riconosce che Iddio vede tutto, ne riconosce l’autorità come legislatore e come giudice; il secondo è invece l’elemento didattico che è nella confessione, ossia che nell’autodenunciare i propri errori l’uomo stia ben attento a non cadervi nuovamente. Diremmo dunque che la confessione guarda da una parte a sanare una situazione nel passato, dall’altra a  migliorare il nostro approccio per il futuro.

 

 

Rav Friedlander spiega in proposito che la parola Vydduy ha due radici. In primo luogo proviene dalla radice yud, dalet, hei che significa riconoscere, colui che confessa riconosce la colpa. La seconda radice la si impara dalla Meghillat Echà (III, 53) “Vayadùeven bi”, ‘hanno scagliato pietre contro di me’. Ecco allora che il Vydduy è anche scagliare lontano i propri peccati attraverso una confessione che provenga dal più profondo del cuore.

 

Questi due aspetti sono del resto riscontrabili nei due giorni fondamentali nel processo di ritorno a D‑o, Rosh Hashanà e Kippur. Abbiamo visto infatti più volte come Rosh Hashanà sia essenzialmente il giorno del futuro. A Rosh Hashanà veniamo giudicati per quello che saremo in grado di fare nel prossimo anno. A Kippur al contrario veniamo perdonati per quanto fatto nel passato.

 

Rav Chajm Friedlander (Siftè Chajm I, 263) si chiede come mai se il Vydduy è un pilastro nel processo della Teshuvà esso venga omesso proprio nel giorno di Rosh Hashanà! Nel giorno di Kippur lo recitiamo a iosa e così anche nel resto dei dieci giorni di Teshuvà, ma non di Rosh Hashanà.

 

Rav Israel Salanter spiega che la differenza radicale tra Rosh Hashanà e Kippur è nel fatto di essere nascosti a Rosh Hashanà e rivelati a Kippur. Il giorno di Rosh Hashanà noi ci annulliamo dinanzi alla Regalità di D‑o. Rosh Hashanà è il giorno del terrore del giudizio e dell’annullamento dell’io. Kippur di contro è il giorno dell’apertura, della rivelazione. Del dispiegamento. L’Ari”zal lo paragona al dispiegamento della Meghillat Ester che va completamente aperta prima di iniziare la lettura.

 

Allo stesso modo l’approccio che dobbiamo avere nei confronti di questi due giorni è diverso. Nel giorno di Kippur noi ci dichiariamo apertamente e giungiamo alla completa espiazione solo attraverso l’esposizione particolareggiata delle nostre colpe. Di Rosh Hashanà invece noi guardiamo timidamente al futuro e non siamo in grado di sopportare un giudizio direttamente legato alle nostre colpe. Solo di Kippur, dinanzi alla misericordia Divina, ci apriamo.

 

Questo è anche il motivo per il quale il testo del Vydduy è organizzato secondo l’ordine alfabetico, in modo che ognuno possa aggiungere sotto ogni lettera le proprie colpe personali. Ma l’ordine alfabetico indica anche il fatto che il trasgressore incrina con il suo comportamento il rapporto con il Creatore ed il creato e che “distrugge” il mondo. Quello stesso mondo che viene creato con la composizione delle parole attraverso le ventidue lettere dell’alfabeto. Le lettere non sono che i mattoni del creato. Colui che fa Teshuvà deve riappacificarsi con D‑o attraverso la rieducazione alla costruzione del mondo per mezo dello studio della Torà ed in primo luogo attraverso le lettere dell’alef bet che la compongono. E ricorderemo che proprio l’Alef Bet è la prima cosa che Hillel insgnò a quel proselita che voleva accettare solo la Torà scritta ma non la Torà orale.

 

La confessione è talmente importante che è addirittura da essa che nasce la radice messianica. Una delle grandi lezioni sul tema della Teshuvà che ci da infatti Jeudà è quella di saper riconoscere. Allorquando egli pronuncia la condanna a morte nei confronti di Tamar e poi si rende conto di essere lui il responsabile dichiara: “Essa è più giusta di me”.

 

La capacità di riconoscere i propri errori è uno dei requisiti della stirpe regale di Israele ed un invito ad ognuno di noi nel processo personale di redenzione dall’istinto del male.

 

Shaul perde il regno per la sua incapacità di riconoscere gli errori.

Re David è re David perché sa dire “Ho peccato nei confronti del Signore”.

 

Il riconoscere il proprio peccato significa riconoscere l’autorità di D‑o Significa sottomettersi a D‑o e trovare in lui riposo.

 

Concludiamo con le meravigliose parole del componimento che recitiamo alla conclusione delle Selichot:

 

Colui che confessa i suoi peccati e riconosce le sue trasgressioni, che ha consumato gli anni nelle vanità ed i suoi giorni nell’afflizione, grida a causa delle sue angosce, e dichiara, durante il conflitto con i suoi nemici: ‘Cadiamo nelle mani del Signore poiché grande è la sua misericordia’

 

Shabbat Shalom,

Jonathan Pacifici