Spazio
ai manager
Faccia a faccia tra due docenti sulla crisi e il
futuro dell’università italiana alla luce della
riforma
La
Stampa – 8 gennaio 2003
Non
è catastrofismo dire che l'università italiana,
come molte altre cose e istituzioni del nostro
paese, se mai è stata competitiva ora non lo è
più. Lo dicono anche i rettori. I quali però non
dicono che ai vecchi difetti a cui nessuno è
finora riuscito a porre rimedio, se ne stanno
aggiungendo di nuovi. Uno, evidentissimo e grave,
è questo. Le facoltà sono tenute dalla
cosiddetta «riforma» a istituire corsi di laurea
specialistici della durata di due anni, al termine
dei corsi introduttivi triennali. Ma nelle facoltà
umanistiche è molto difficile fare una cosa del
genere. Infatti se tali corsi devono essere
davvero specialistici e non si vogliono
semplicemente chiamare cose vecchie con nomi
nuovi, allora bisognerà che le facoltà scelgano
alcuni ambiti disciplinari su cui concentrare
sforzi e risorse. Non è pensabile infatti che si
specializzino in tutte le direzioni, soprattutto
se non sono tra le poche facoltà gigantesche
degli atenei maggiori. Ma il modo in cui oggi
vengono prese le decisioni dalle facoltà - cioè
mediante delibere dei consigli a cui partecipano
tutti i docenti della facoltà - rende
praticamente impossibile fare una scelta: è
semplicemente impensabile che un consiglio di
facoltà decida, ad esempio, di penalizzare
filosofia per sviluppare storia moderna o di
concentrare le proprie scarse risorse su storia
dell'arte e negarle a psicologia. E' facile quindi
prevedere che la specializzazione non ci sarà e
l'università italiana resterà al palo. E sarà
una tragedia per tutti. Sarebbe riprovevole
tuttavia e oltretutto sleale nei confronti dei
nostri stessi studenti attaccarsi (come si dice a
Milano) alla canna del gas: lamentarsi e non fare
niente. In un articolo sulla Rivista dei Libri
(gennaio 2003) ho cercato di avanzare una proposta
innovativa. Si creino - ho suggerito - a fianco
delle facoltà tradizionali, istituzioni nuove,
non appesantite da un corpo docente vecchio e
ormai non riformabile, apertamente meritocratiche
e aperte al confronto internazionale. Raffaele
Simone su La Stampa del 5 gennaio, così commenta
il mio articolo: «Che cosa paventa Santambrogio?
Come può temere, ad esempio, che le lauree
specialistiche nasceranno sofferenti, quando è
tutto il sistema universitario che soffre?
Bisognerebbe piuttosto guardare ai mali storici
profondi del nostro sistema universitario, su cui
molti versano lacrime di coccodrillo ma nessuno ha
la forza di intervenire. L'appello finale a
imprecisate "istituzioni nuove",
orientate al merito, mi pare toccante ma non mi
convince». Subito dopo il calcio, lo sport
preferito dagli italiani è quello di «guardare
ai mali storici profondi» dell'Italia - sarà
abbastanza storico e profondo il blocco
industriali-agrari del 1920-22 o dovremo risalire
alla mancata riforma protestante? - e
contemporaneamente dichiararsi scettici di
qualunque proposta senza mai entrare nel merito né
proporne altre. Cercherò comunque di precisare
meglio la mia proposta e di convincere Simone.
Osserva lui stesso che l'università soffre di una
«gravissima crisi di governance», perché tutte
le cariche sono elettive ed è quindi impossibile
prendere decisioni radicali o anche solo
impopolari. Bene. Suggerisco che le «nuove
istituzioni» - centri di eccellenza, scuole di
ricerca legate ai dottorati, collegi in cui gli
studenti risiedano e facciano ricerca o comunque
le si vogliano concepire (ogni ateneo sceglierà
quello che preferisce: l'autonomia servirà pure a
qualcosa!) - non siano rette da un consiglio di
docenti, qualunque sia il criterio con cui questi
sarebbero prescelti. Infatti, in un consiglio che
prende decisioni a maggioranza è impossibile
individuare le responsabilità e quindi
riconoscere meriti e demeriti individuali. Siano
invece retti da un unico delegato, direttamente
nominato dal rettore dell'ateneo per un certo
numero di anni, che gli consenta di avanzare un
progetto preciso, di seguirne la realizzazione e
di legare il proprio nome ai risultati ottenuti.
Solo a queste condizioni i responsabili di
un'istituzione possono essere personalmente
motivati. Senza buone motivazioni non si combina
niente di buono. In altro momento e in altra sede
sarà bene poi cominciare a discutere seriamente
su quello che si intende per «democrazia».
Marco Santambrogio
|