Moratti: la scuola come comunità
No ai presidi manager, sì ai tutor
«Servono nuove
figure professionali per affrontare il disagio giovanile» «Censiti 2900 corsi
di laurea, bollino blu per smascherare quelli fasulli»
(f.
de b.) Letizia
Moratti è una donna determinata, di puntigliosa dolcezza e di risoluto garbo.
Ma sa ascoltare. Prima di arrivare a scrivere la sua proposta di legge delega
sulla Scuola, che va in discussione al Senato, ha incontrato settanta tra
associazioni, comitati, sigle sindacali; visto centinaia di esperti, genitori;
visitato istituti di mezza Penisola: come ospite d’onore. E anche percorso
chilometri di cortei studenteschi e partecipato a numerose assemblee: come
bersaglio della contestazione. Nel discutere della riforma con il ministro
dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (52 anni, due figli) ho
sottomano qualche confronto internazionale: spendiamo per la scuola come gli
altri Paesi (fino ai quindici anni un alunno costa alla comunità 60 mila 800
dollari contro i 43 mila e 500 della media Ocse), ma la qualità degli studi è
decisamente inferiore. Un quarto degli studenti lascia la scuola senza un
titolo secondario superiore. Sei su dieci abbandonano l’università al primo
anno. Il livello di istruzione della popolazione adulta è tra i più bassi
d’Europa. Il progetto Moratti ricalca l’architettura della riforma Gentile e si
propone di rinnovare profondamente la scuola lungo i due tracciati, comunicanti
tra loro, dell’istruzione e della formazione. Scuola come comunità di valori,
come barriera culturale all’odio e all’intolleranza, aperta e pluralista, ma
nello stesso tempo custode di un’identità nazionale.
Questa è la filosofia di fondo, se non sbaglio, della sua riforma, ministro?
«La scuola deve innanzitutto formare le persone. Ecco perché abbiamo messo
al centro della nostra riforma gli studenti e i loro bisogni. E deve rispondere
a una sfida in più: il progressivo indebolimento della famiglia».
Come?
«Una scuola in grado di essere anche comunità sa affrontare meglio il nuovo
disagio giovanile, frutto anche di un rapporto fra genitori e figli più
complesso e fragile, proprio di una società aperta nella quale l’offerta
educativa è parcellizzata e qualche volta si polverizza fra amicizie, media,
pubblicità, mode. Una tempesta, a volte caotica, di messaggi».
E la scuola che risposta in più può dare?
«Soprattutto, quando è buona, quando si hanno buoni insegnanti, insegna un
metodo. Un metodo per studiare, ma anche, soprattutto, per capire e affrontare
la realtà. Un metodo che deve preparare i giovani a essere persone libere e
responsabili per potere, domani, essere protagonisti della propria vita e
partecipi di quella del proprio Paese. Una scuola così concepita, anche
colmando il vuoto di spazi di aggregazione per i giovani, torna a essere un
forte collante sociale, fatto di solidarietà e senso civico, di rispetto umano,
perché sa fornire alle nuove generazioni una buona formazione morale e
spirituale».
Laica?
«Laica nella libertà di scelta delle famiglie. Ecco, quello che noi
proponiamo è un nuovo patto fra scuola e famiglia».
Vediamoli i contenuti di questo patto. La prima e più nota innovazione, che
potrebbe entrare in vigore già dal prossimo anno scolastico, è la possibilità
di iscrivere i bambini alla scuola d’infanzia a due anni e mezzo e alla prima
elementare a cinque e mezzo. Ma non è un po’ presto?
«Nulla di obbligatorio. Decidano i genitori, è una loro facoltà».
C’erano state critiche da parte delle scuole cattoliche.
«Sì, perché è la prima volta che il sistema pubblico è sceso in campo per
far concorrenza a quello privato in questo settore, favorendo l’affermarsi di
una pluralità di offerte».
Pressioni della Chiesa?
«Più che pressioni molte segnalazioni».
Vuol dire che la gerarchia ecclesiastica si è comportata meglio di alcuni
cattolici dello schieramento politico che la sostiene?
«All’interno della maggioranza ci sono diverse sensibilità, ma queste
differenze arricchiscono e migliorano il nostro lavoro».
E il finanziamento della scuola privata?
«E’ un tema d’attualità, ma di natura costituzionale. Il mio compito è
quello di migliorare la qualità di tutto il sistema scolastico italiano che è
formato al 94 per cento da istituti statali. Mi accusano di privatizzare la
scuola, ma la parola "pubblica" dal ministero della Pubblica
Istruzione non l’ho tolta io, l’ha tolta Bassanini».
E la scuola media?
«E’ quella che ha il compito più delicato, perché si occupa della
pre-adolescenza, un’età cruciale dello sviluppo dei nostri ragazzi. Qui si formano
i caratteri, le personalità e, ahimè, si creano anche i disagi. Quanti
programmi da rivedere, quante materie svilite».
Un esempio?
«Geometria. Era come sparita. Eppure è la materia fondamentale che consente
a un allievo il passaggio logico fra l’astratto e il concreto e viceversa».
Un’altra materia?
«Storia. Mortificata. Troppo concentrata nello studio del ’900, troppo poco
sensibile all’insegnamento delle radici classiche, cristiane e umanistiche
della nostra civiltà. La più permeabile ad una visione politica della nostra
società».
Questione delicata, ministro. L’insegnamento della storia trasmette i valori
della nostra convivenza, racchiusi nella costituzione repubblicana. Qualcuno vi
vedrà intenti revisionisti. E dunque sempre un uso strumentale e politico della
storia.
«Nessun revisionismo, nessuna strumentalità. Politica ed ideologia vanno
lasciate fuori dalle aule. Io vorrei solo che i ragazzi uscissero dalla scuola
capaci di confrontarsi di più con il presente, meno esposti al fascino delle ideologie.
Spiriti critici e dunque più liberi».
Suscita perplessità anche la valutazione biennale degli studenti. La
mobilità del corpo docente raggiunge punte del 30 per cento ogni anno. Molti
insegnanti giudicheranno studenti che conoscono poco.
«Ma un ragazzo sarà sempre valutato nel corso, e alla fine, di ogni anno
scolastico. Avrà, però, la possibilità di recuperare il suo debito formativo,
nell’anno successivo, in quella specifica disciplina. Senza ripristinare
l’esame di settembre che comporta costi e disagi per le famiglie».
La riforma prevede anche una valutazione di sistema. Insomma un voto alle
scuole, agli insegnanti.
«Ogni Paese valuta i livelli di apprendimento dei propri studenti. L’Italia
no. All’estero sanno qual è il livello di preparazione medio di un quindicenne,
regione per regione. Noi no. E non dobbiamo dimenticarci che siamo al
ventitreesimo posto nell’Ocse per l’insegnamento della matematica, e al
ventunesimo nella preparazione scientifica».
Non crede che il federalismo e le spinte della Lega possano portare ad una
eccessiva caratterizzazione locale dei programmi?
«No. La previsione della legge, nel suo nucleo fondamentale, garantisce,
per quanto riguarda i programmi, l’identità nazionale, nel rispetto
dell’autonomia del sistema scolastico, nella valorizzazione delle tradizioni
locali. Inoltre il sistema di valutazione dei livelli di apprendimento sia nei
licei sia negli istituti della formazione garantirà qualità omogenea
all’educazione e alla formazione su tutto il territorio nazionale, assicurando
che i titoli di studio siano spendibili in Italia ed in Europa».
Tornare al sette in condotta, perché?
«Il progetto di riforma è stato costruito ascoltando e verificando. Abbiamo
formato diversi focus group, spedito ottomila questionari; favorevoli alla
reintroduzione del sette in condotta si sono dichiarati il 97 per cento dei
genitori, il 92 per cento dei docenti e l’89 per cento degli studenti. Ma non è
solo per questo: l’educazione civica inizia dal rispetto nei confronti dei propri
compagni, dei docenti e dei luoghi nei quali si studia».
Nel progetto è prevista l’obbligatorietà dello studio di due lingue, una
dalla prima elementare e un’altra dalla prima media. Ma oggi nelle elementari,
dopo una decina d’anni di obbligatorietà della prima lingua, non si è ancora
raggiunta la totalità delle classi. A livello nazionale si fa solo nel 29 per
cento delle prime classi. Chissà quando se ne insegneranno veramente due.
«Bisognerà investire, e molto, sulla formazione degli insegnanti, sui
laboratori linguistici. Il piano finanziario c’è. E così progetti concreti, non
solo per la formazione dei 60 mila insegnanti che abbiamo assunto, in un mese,
l’estate scorsa, ma anche per il resto del corpo docente».
Quanto costerà questa riforma? I dubbi in Consiglio dei ministri sono stati
espressi dal responsabile dell’Economia Tremonti, preoccupato per i conti
pubblici.
«L’intero governo, in dieci mesi di lavoro, è stato compatto nel porre
l’educazione, l’università e la ricerca al centro delle politiche di riforma.
Il presidente del Consiglio si è impegnato nel garantire le risorse necessarie
per rilanciare il sistema educativo a tutti i livelli. L’investimento previsto
oscilla tra i 15 e i 19 mila miliardi di lire. Le risorse dovranno essere gradualmente
reperite nei prossimi esercizi finanziari».
Si è detto molto, e anche male, di questa riforma. Aziendalista, che vuole
sgretolare il sistema della scuola pubblica.
«Sono state dette molte falsità».
Esempio?
«Che l’inglese sarà a pagamento. Falso. Che vogliamo abolire il latino dal
classico. Falso. Che vogliamo mortificare l’insegnamento della musica. Falso».
Colpa anche di quell’infelice slogan elettorale della Casa delle libertà.
Quelle tre i: inglese, internet e impresa. L’impresa che sembra voler gestire
direttamente la scuola.
«Noi abbiamo bisogno di una scuola che prepari i ragazzi anche
all’inserimento nel mondo del lavoro, quindi che fornisca loro strumenti
indispensabili quali le lingue e l’informatica. Naturalmente, in primo luogo, abbiamo
bisogno anche di una scuola che recuperi la propria funzione educativa. Faccio
un esempio: non mi piace la figura del preside manager, è uno stereotipo.
I presidi devono prima di tutto avere una preparazione orientata a capire le
esigenze degli studenti e delle famiglie. Non ci sono clienti da accontentare o
un mercato da aggredire».
Dunque, niente scuola-azienda?
«No,
scuola-comunità».
Altre falsità?
«La riforma innalza a 12 anni complessivi l’obbligo di istruzione e formazione.
Si è detto che noi imponiamo una scelta troppo precoce tra l’una e l’altra. Non
è vero. Ai ragazzi garantiremo sempre il passaggio, tra il sistema dei licei e
quello della formazione professionale, che sarà gestito dalle regioni, cosi
come all’interno dei due sistemi».
Gli insegnanti sono poco valorizzati, spesso ridotti a impiegati. Per non
parlare delle retribuzioni.
«Gli insegnanti devono tornare a essere professionisti, protagonisti del
cambiamento, oggi si sentono a volte schiacciati fra i presidi e i bidelli.
Devono recuperare in pieno la loro funzione educativa. Ci stiamo impegnando in
questo senso per sollevarli dal lavoro burocratico, lasciando loro più tempo
per insegnare e dialogare con le famiglie».
Gli insegnanti della scuola pubblica si sentono a volte discriminati
rispetto ai loro colleghi delle private che non sono selezionati attraverso
concorsi pubblici ma per chiamata diretta. E poi, come nell’estate scorsa, voi
li assumete in massa.
«Ci sono numerose sentenze del Tar che ci impongono di eliminare ogni
disparità fra scuole statali e private parificate e poi una legge, la 62 del
2000, sulla parità, approvata peraltro dal centrosinistra, che noi intendiamo
attuare completamente».
Di quali figure nuove ha bisogno la scuola?
«Di buoni insegnanti, buoni presidi, buoni maestri, che sappiano
trasmettere valori positivi. E ce ne sono tantissimi. Ne ho incontrati più di
quanti io mi immaginassi, in questi dieci mesi di lavoro. Ma la scuola ha anche
bisogno di tutor, figure preparate in grado di capire i giovani, di aiutarli a
trovare le loro risposte, di comprendere le loro attitudini, dando concrete
prospettive ai loro interessi, accompagnandoli nella scelta consapevole del
proprio percorso di istruzione e formazione . I tutor potrebbero
assistere i ragazzi anche nel passaggio più difficile tra scuola e università.
Spesso i giovani diplomati o diplomandi non capiscono i percorsi universitari.
E gli abbandoni, tantissimi, sono costati complessivamente alla comunità 15
mila miliardi negli ultimi dieci anni».
Nell’università c’è una babele di corsi e di offerte. A volte si ha la
sensazione che gli atenei siano a caccia di studenti. All’ingrosso.
«Abbiamo costituito al ministero una banca dati, per la prima volta aperta
a tutti gli studenti, mettendo a disposizione l’offerta formativa delle 77
università italiane e abbiamo censito 2.900 corsi di laurea, alcuni francamente
bizzarri».
Ne dica uno.
«Scienza del fiore e del verde, linguaggio umanistico del web. Avremo
dottori in queste discipline. Ebbene, il ministero metterà i bollini blu; nei
prossimi mesi definiremo standard qualitativi minimi e, grazie al lavoro del
Comitato di valutazione presieduto dal professor De Rita, indicheremo i criteri
dell’offerta didattica universitaria».
Se lei dovesse scegliere oggi per un suo figlio tra una scuola pubblica e
una privata, come si orienterebbe?
«Dipende dalla scuola, dal preside, dagli insegnanti. Il patto con le
famiglie si fa discutendo, chiedendo, partecipando».
Che cosa la preoccupa di più?
«Il disagio latente di molti giovani. Oggi ci sono troppi silenzi e noi
tutti, genitori e insegnanti, dovremmo essere capaci di ascoltare anche quello
che non viene detto, affrontare la passività di molti ragazzi. Risvegliare in
loro l’amore per la conoscenza, ovvero per la vita. Questo è il vero problema
della scuola italiana».