LETTERA APERTA AI DIRIGENTI DELLE SCUOLE

Pubblichiamo una lettera aperta del Presidente dell'Anp, Giorgio Rembado, rivolta a tutti i colleghi in questo momento particolarmente delicato della negoziazione per il contratto della dirigenza per fare il punto su quella che è la reale posta in gioco.

 

 

LETTERA APERTA AI DIRIGENTI DELLE SCUOLE
sulla firma del contratto di lavoro

Cari colleghi,

le polemiche di questi giorni sulla questione "firma/non firma", non da noi volute né innescate, rischiano di distogliere l'attenzione dalla vera posta in gioco, per trasferire il dibattito intorno a fruste questioni di "appartenenza" o di "buon senso" o altre ancora, tutte emotive ed ideologiche.

Il problema è, e rimane, un altro, che si tenta di far passare sotto silenzio:

·         un contratto di lavoro è uno scambio, come qualunque altro contratto. Da un lato vi è l'impegno a svolgere un'attività lavorativa (con determinate caratteristiche di professionalità e determinati livelli di responsabilità), dall'altro l'impegno a corrispondere una retribuzione all'altezza della prestazione richiesta;

·         in molti dei discorsi che si ascoltano in questi giorni, si avverte prepotente l'eredità culturale di un recente passato, in cui la "giusta misura" della retribuzione per i dipendenti pubblici era fissata dal datore di lavoro - il Governo - con atto unilaterale (legge, DPR, …) cui era obbligatorio aderire. Tutti sappiamo, in teoria, che non è più così: salvo assumere (o raccomandare, o cercare di imporre - a seconda delle posizioni) stili di comportamento e criteri di valutazione ispirati al passato e non al presente;

·         in un regime di lavoro di tipo "contrattualistico", la "giusta misura" del compenso per la prestazione è determinata solo dall'accordo di entrambe le parti, non dall'imposizione di una delle due. In particolare, i rappresentanti dei lavoratori, firmando il contratto, riconoscono che il compenso proposto costituisce un'equa contropartita per il lavoro richiesto.

In questa equazione lavoro-stipendio, è facile constatare che natura e misura di quanto richiesto ai dirigenti delle scuole sono molto cambiate negli ultimi tre anni:

·         per qualità: da esecutori di alto livello, è stato chiesto loro di trasformarsi in decisori; sono stati obbligati a frequentare una specifica formazione; apposite norme di legge hanno aggiunto, alle responsabilità già esistenti, nuove e più complesse attribuzioni; si è introdotta una responsabilità per i risultati. In una parola: li si è pienamente equiparati, per doveri e rischi, agli altri dirigenti dello stato. Anzi, non è fuori luogo osservare che molti dirigenti pubblici non hanno responsabilità per la sicurezza, né titolarità delle relazioni sindacali né governo del personale, in quanto i loro incarichi non lo prevedono (vedi i dirigenti tecnici, ma anche molti dirigenti amministrativi);

·         per quantità: in tre anni, il numero dei capi di istituto è sceso di circa tremila unità, per effetto del dimensionamento. Il carico complessivo di lavoro per quelli rimasti in servizio è aumentato così - solo per questo - di almeno il venti per cento, a retribuzione per il momento invariata.

Se questo è vero, come tutti sappiamo che è vero, l'attuale braccio di ferro per il contratto assume questo significato:

·         il datore di lavoro richiede di innalzare i livelli di prestazione fino a quelli degli altri dirigenti pubblici (anzi al di sopra di quelli di molti fra loro); in cambio, offre di aumentare la retribuzione fino a poco più della metà (il 57%) della differenza fra il punto di partenza e quello di arrivo. Questo rappresenta un'evidente ed unilaterale sottovalutazione della prestazione richiesta. Significa, in particolare, una di queste due cose:

a.     o il Governo non riconosce nei fatti - al di là delle parole - il carattere realmente dirigenziale delle funzioni richieste (e quindi prende in giro, oltre ai dirigenti delle scuole, i cittadini - cui promette un reale cambiamento nel funzionamento delle scuole, con la riserva mentale che si tratta solo di un mezzo cambiamento);

b.    o il Governo si propone di sfruttarci, chiedendo una prestazione piena ed offrendo di pagarla la metà del suo prezzo.

Si può anche comprendere che questo comportamento appartenga ad una logica negoziale, almeno dal punto di vista del datore di lavoro. Ma anche i rappresentanti dei dirigenti hanno il diritto ed il dovere di fare fino in fondo la propria parte: e non si vede perché dovrebbero accettare una così pesante svalutazione della propria dignità professionale e della propria credibilità.


Quel che è più sorprendente, è che alla posizione del datore di lavoro faccia da spalla - e con quale perentorietà di accenti! - almeno uno dei sindacati presenti al tavolo. Ci vogliono dire, i colleghi responsabili di questa sigla, quale è la loro opinione nei confronti della categoria?

Ci ritengono dei mezzi dirigenti, che - come tali - debbono accontentarsi di un mezzo riconoscimento economico? O degli stupidi, che accettano di svendere, per un piatto di lenticchie, il senso e la misura della loro nuova professionalità? O dei poveracci, che l'indigenza costringe a piegarsi a condizioni vessatorie ed inique?

Quanto agli altri - quelli che non accettano né la qualifica di ingenui né quella di "figli di un Dio minore"- dovrebbero tenere a mente almeno questo:

·         nel momento in cui si firma un contratto, si accetta di attribuire un valore al proprio lavoro. Firmare questo contratto, a queste condizioni, significa sottostimare quel che siamo e quel che facciamo. Nessuno che solleciti oggi la firma immediata avrà domani il diritto di lamentarsi per i carichi di responsabilità che sopporta. La firma comporta l'accettazione di uno scambio;

·         nessuno di noi, si spera, è in condizioni di dover dipendere per la sua sopravvivenza da un'elemosina. Se così fosse - se cioè di un'elemosina fossimo in attesa - questa sarebbe senza dubbio generosa. Ma questa non è un'elargizione caritatevole: è il riconoscimento di uno status professionale. E' grave che la controparte non se ne renda conto o faccia finta di ignorarlo; è molto più grave che in questo sia affiancata da qualche forza che si dice sindacale. Sarebbe incomprensibile se fosse seguita da coloro che tutti i giorni vivono sulla propria pelle le difficoltà del proprio lavoro e rivendicano che esso abbia la visibilità ed il peso - anche sociale - che merita;

·         chi teme di perdere, non firmando, anche il poco che ci è stato promesso, sappia che esso costituisce una base comunque acquisita, che può essere modificata solo al rialzo e solo attraverso un supplemento di trattativa. Nessuno può obbligarci a firmare al ribasso, se non l'arrendevolezza psicologica e contrattuale di alcuni verso la controparte.

·         ricordino i colleghi che i dirigenti non sono dipendenti come tutti gli altri - anche sotto il profilo retributivo - solo se, e nella misura in cui, sanno pensare di se stessi in termini diversi: anche a costo, se necessario, di resistere qualche mese senza contratto. Un cedimento dopo solo qualche settimana di confronto, a condizioni da saldi, è il peggior messaggio che si possa inviare alla controparte ed alla pubblica opinione, nel momento in cui ci si posiziona per la prima volta nel panorama della dirigenza pubblica: significa "non sappiamo attribuire un valore a ciò che facciamo"; significa "fate di noi quello che volete"; significa "accettiamo che ci si manchi di rispetto, perché noi per primi non rispettiamo il nostro ruolo ed il nostro lavoro".

E' questo che vogliamo?

 

Roma, 3 maggio 2001                                         

                                                                                              Giorgio Rembado

    Presidente nazionale ANP