DICHIARAZIONI PROGRAMMATICHE
del ministro Letizia Moratti
Ieri,
18 luglio 2001, il ministro Moratti ha presentato alla VII Commissione
permanente (cultura, scienza ed istruzione) della Camera dei Deputati le linee
politico-programmatiche che il Governo intende seguire nel corso della
legislatura (riforma dei cicli, degli organi collegiali, istituzione di un
sistema di valutazione indipendente, costituzione di un'area contrattuale
autonoma per i docenti, ecc.).
A proposito del contratto dei dirigenti delle istituzioni scolastiche il
ministro ha dichiarato: «Il Governo sarà attento, altresì, alla questione del primo
contratto collettivo nazionale dei dirigenti scolastici che attendono il riconoscimento
sul piano economico e giuridico delle nuove funzioni che ricoprono dal primo
settembre 2000 all'interno dell'impianto autonomistico delle scuole».
DICHIARAZIONI PROGRAMMATICHE
del
MINISTRO LETIZIA MORATTI
L’istruzione è
oggi al centro dei processi di crescita e modernizzazione delle società civili
evolute. Per questo riteniamo che un grande progetto per l’istruzione –
progetto che la dichiarazione programmatica del Presidente del Consiglio ha
posto al centro delle politiche di Governo – debba ispirare profondamente il
più ampio disegno di sviluppo e di innovazione della società italiana.
Siamo alla
fine di un ciclo dell’istruzione molto confuso e all’inizio di una fase che
pone in primo piano la necessità di accrescere e valorizzare il capitale umano
del Paese, il suo patrimonio culturale e scientifico, le competenze
intellettuali e tecniche di cui il Paese dispone. Obiettivo, che sarà,
tuttavia, possibile perseguire soltanto se sapremo ridare all’istruzione un
grado di qualità e di innovazione che ci porti agli standards europei dai quali
ci siamo pericolosamente allontanati.
Il nostro
impegno ha al centro i bisogni, gli interessi, le aspirazioni degli studenti,
delle loro famiglie, degli insegnanti.
Sono loro, i
veri protagonisti della scuola, che ispirano la nostra azione legata a due
principi fondamentali: solidarietà ed eccellenza. Affrontiamo la complessità di
questa situazione, con la
consapevolezza di disporre ormai di margini di tempo sempre più ristretti per
scongiurare il progressivo decadimento del nostro sistema educativo e
formativo.
Il primo
segnale di questo decadimento è dato dalla distanza crescente tra gli sforzi
che vengono compiuti e i risultati che si è in grado di ottenere. Sforzi
rappresentati da ingenti volumi di spesa, in larghissima parte destinati a
coprire i costi correnti, da bassi investimenti nella professionalizzazione dei
docenti, nell’innovazione didattica e nell’approntamento di percorsi formativi
di elevata qualità.
Come vi è noto, i dati di una recente indagine dell’OCSE
condotta nell’area dei paesi industriali denunciano, nonostante il basso numero
di alunni per docente (un insegnante ogni dieci alunni contro la media OCSE di
1 su 15), il fatto che il 65,5% della popolazione adulta non supera il secondo
livello alfabetico. L’Italia risulta ventunesima nella preparazione scientifica
dei suoi studenti e ventitreesima in quella matematica.
Il costo per
studente della scuola italiana è più alto del 15% rispetto alla media europea. Eppure,
soltanto il 40% della popolazione adulta ha un diploma di scuola secondaria,
contro il 61% della Francia e l’84% della Germania. I tassi di dispersione
universitaria restano da noi i più alti d’Europa: Negli ultimi 40 anni su quasi
10 milioni di giovani che si sono rivolti all’università, i laureati sono stati
poco meno di 3 milioni.
Dati che
dimostrano come dispersioni e inefficienze allontanino sempre più il mondo
dell’istruzione da quello del lavoro. L’Italia è oggi l’unico fra i grandi
Paesi industriali nel quale la maggioranza dei lavoratori è rappresentata da
persone che hanno completato unicamente la scuola dell’obbligo. Oggi, a fronte
di facoltà universitarie che producono tassi di disoccupazione crescente,
l’Italia vede aumentare progressivamente la carenza di profili professionali
legati alle tecnologie informatiche e della comunicazione, settore che negli
Stati Uniti produce ormai un quarto della ricchezza nazionale. Questo è
soltanto un esempio della grave mancanza di raccordo tra scuola secondaria,
università e mondo del lavoro. Forti elementi di disparità sussistono
infatti tra l’Italia e gli altri Paesi
industriali nella formazione professionale: soltanto 5 giovani su 100 scelgono
i percorsi formativi dopo il diploma nonostante la forte domanda di elevate
qualificazioni che proviene da1 mercato di lavoro
La formazione professionale segue poi
standards qualitativi che variano ampiamente a seconda delle zone del Paese.
Il divario tra
l’Italia e gli altri paesi dell’Unione Europea nel campo dell’educazione e
della formazione professionale produce inoltre evidenti ricadute negative sulla
capacità di sviluppo economico e di innovazione tecnologica e scientifica. La
recente indagine condotta dalla Commissione Europea su mandato del Consiglio
Europeo per un confronto di performances tra i paesi dell’Unione ha segnalato
che su mille lavoratori italiani risultano solo 3,33 i ricercatori, rispetto ai
5,28 della media europea, agli 8,08 degli stati Uniti, ai 9,26 del Giappone.
Nei dottorati tecnologici l’Italia è all’ultimo posto in Europa. E, infine, si conferma la grande difficoltà
dell’Italia a tenere il passo sia nei progetti di innovazione pubblici sia in
quelli finanziati anche dall’industria privata.
La gravità di
questa situazione, che parte dai livelli primari di istruzione per estendersi
sino alle frontiere più avanzate della ricerca scientifica e dell’innovazione
tecnica, è nota da tempo. Ma le sue implicazioni per il destino del Paese
stanno facendosi via via più pesanti. In tutto il mondo, infatti, aumentano i
livelli generali d’istruzione e si assiste al progressivo inserimento di nuovi
soggetti (le donne, i più giovani) nel mondo del lavoro con la conseguenza di
un rafforzamento diffuso della capacità di produrre reddito e di partecipare
alla crescita del benessere. Al contempo, si rafforzano i valori meritocratici
tipici di un modello di società competitiva che tende a polarizzare lo scenario
socioeconomico tra i “poli di eccellenza” e vaste aree di esclusione e di
marginalizzazione. L’Italia, proprio in virtù del suo più debole sistema
educativo, formativo e di ricerca, è appunto a rischio di marginalizzazione.
Siamo
lontanissimi dall’avere i mezzi, i programmi, le strutture per formare i
giovani in modo tale da consentire loro di affermarsi, realizzarsi in qualunque
paese del mondo e contribuire al progresso generale. La nuova sfida alla quale
siamo di fronte è quella della conoscenza e dei talenti. E’ quella che
comincia, appunto, dalla qualità dell’istruzione, a partire dai livelli medi di
scolarizzazione del Paese e dall’eccellenza delle strutture scolastiche e
universitarie che determinano la capacità di attrarre investimenti, di fare
nascere nuove imprese, di favorire progetti di ricerca.
Il nostro
progetto sarà ispirato dalla
convinzione che l’istruzione italiana necessita di interventi rapidi e precisi.
Le politiche dell’educazione diventano così strategiche nella creazione di una
nuova formazione al lavoro. Per realizzare questi obiettivi abbiamo ottenuto nel Documento di Programmazione
Economica e Finanziaria, politiche di investimento che favoriscano un aumento
della scolarizzazione, che migliorino
la qualificazione professionale di giovani ed adulti, che valorizzino le
risorse umane impegnate, che sostengano la ricerca. Le risorse disponibili
verranno indirizzate all’utilizzo di tecnologie multimediali ed alla
valorizzazione e formazione iniziale e continua di tutto il personale della
scuola. Vogliamo innescare un circolo virtuoso che consenta ai giovani di
"sapere, saper fare, saper essere". Vogliamo che i giovani si formino
come persone e come cittadini per realizzare il loro progetto di vita.
Oggi è più
difficile ricomporre un campo d’opinione concorde su alcuni principi
fondamentali, e diventa prioritario dare ai ragazzi, alle famiglie, ai docenti
motivazione, sicurezze, serenità.
Ecco la
ragione per cui noi sentiamo, in modo molto forte, la responsabilità di
rappresentare le opinioni, le aspettative, i bisogni, anche diversi, della
società nel suo complesso e, conseguentemente, l’impegno di costruire una
scuola in cui tutti possano riconoscersi.
Ecco le
ragioni per cui, fin dai primi giorni del mio mandato ho incontrato il mondo
della scuola, in tutte le sue componenti, studenti, genitori, associazioni
professionali, gestori delle scuole non statali, organizzazioni sindacali,
articolazioni dell’Amministrazione centrale e periferica.
Ho ascoltato
tutti, raccogliendo preoccupazioni per una scuola mortificata nella sua
missione fondamentale ma anche aspettative e indicazioni volte a superare le
criticità del sistema.
La stessa
sospensione dell'avvio della riforma dei cicli non è stata da noi voluta per
bloccare il processo riformatore. Al contrario, proprio da questo primo atto
abbiamo voluto dimostrare che le riforme si devono fare coinvolgendo gli attori
principali del processo e, quindi, famiglie, insegnanti e studenti.
La crisi che
la nostra istruzione attraversa è legata innanzitutto alla non sufficiente
qualità complessiva del sistema, ed inoltre alla mancanza di libertà di scelta
da parte delle famiglie.
Nell’istruzione,
come in molti altri campi, lo Stato non può essere l’unico promotore del valore
del capitale umano né essere custode esclusivo dei patrimoni di competenze
tecnico scientifiche.
Nell’istruzione
lo Stato dovrà continuare a garantire unitariamente i principi di eguaglianza e di equità sociale, rafforzando il proprio ruolo di controllo ed indirizzo.
Il nostro
progetto riparte da qui: dalla volontà di sconfiggere il pessimismo che aleggia
ogni qual volta si tenti di parlare di come conciliare principi di libertà e
principi di solidarietà e giustizia.
Vivian Reding,
responsabile del settore istruzione e cultura della Commissione Europea, ha
recentemente riaffermato che è necessario adattare i sistemi educativi non solo
alle esigenze delle economie ma anche soprattutto a quelle dello sviluppo, che
per noi significa sviluppo della
persona nel contesto sociale.
Noi
immaginiamo un sistema moderno, competitivo ed innovativo di educazione che sia
soprattutto un sistema democratico, aperto, trasparente.
Noi
immaginiamo un sistema di istruzione a livello europeo nei criteri educativi,
ma fondato sulle tradizioni e le nostre radici culturali, professionalizzato
nelle sue risorse umane, integrato con il mondo produttivo, accessibile a
tutti, presente nelle aree deboli del Paese, capace di non abbandonare così
tanti studenti che ogni anno preferiscono la strada al loro percorso di
istruzione e di formazione. Pari opportunità di istruzione e accesso alla cultura;
riteniamo che questo principio di democrazia e di giustizia sociale
dell’istruzione sia un principio fondamentale del diritto di cittadinanza.
La nostra
azione sarà determinata da una visione dei processi educativi e formativi che
tenderà a coniugare le antiche contrapposizioni tra equità e competizione, tra
valori di giustizia sociale e valori di merito, tra partecipazione e
responsabilità; principi che non devono essere
contrapposti ma vanno ricondotti a una visione unitaria e coerente: la
solidarietà e l’eccellenza.
Diritto allo
studio e diritto all’eccellenza, dunque, che significa assicurare pari
opportunità di accesso all’istruzione ma anche pari opportunità per arrivare al
successo. Dobbiamo immaginare un progetto che punti ad integrare le molteplicità
dei poteri, delle funzioni e dei soggetti che operano nel mondo dell’istruzione
e della formazione.
La pari condizione tra le famiglie – un principio
che in tutti gli altri paesi tutela da tempo il diritto a scegliere i percorsi
educativi più attinenti ai valori individuali e agli obiettivi di realizzazione
personale degli studenti – attiene al principio di un sistema integrato nelle
sue componenti statali e non, per un reale passaggio alla scuola di tutta la
società civile.
Pertanto intendiamo
ridefinire il ruolo dello stato centrale. Serve un sistema organizzato su tre
livelli: nazionale, regionale e dei singoli istituti, con un
centro che indirizzi e governi, ma
senza più compiti di gestione, secondo i principi del federalismo solidale.
Al centro va riservata
la definizione dei curricula nazionali, il cui contenuto dovrà rispecchiare il
grande valore della nostra cultura e della nostra tradizione, elementi
essenziali per la costruzione e la conservazione dell’identità nazionale. I
curricula nazionali potranno essere integrati dalle regioni e dagli istituti
scolastici, e in questo modo sarà possibile l’apporto delle diversità e delle
ricchezze regionali e locali.
Serve, altresì, un centro che valuti il
funzionamento delle scuole e i livelli di apprendimento degli studenti. Occorre
per questo un servizio nazionale di valutazione del sistema scolastico nel suo
complesso, autonomo e indipendente, che definisca gli standard di qualità delle
scuole e operi sui livelli finali di preparazione degli studenti, al fine di
migliorarli costantemente ed in modo omogeneo nel Paese.
A tal fine, abbiamo istituito un gruppo di studio
presieduto dal professor Giacomo Elias, dell’Università Statale di Milano
massimo esperto a livello internazionale della valutazione, e da tecnici ed
esponenti della scuola e delle famiglie, con il compito di approfondire il tema
dei sistemi valutativi anche attraverso
riscontri con le esperienze europee, al fine di aiutarci nella messa a fuoco
dei migliori modelli.
La situazione
che ereditiamo registra ancora un peso burocratico e opprimente dello Stato: si
continua a governare le scuole con una miriade di circolari e decreti.
Il punto di
criticità maggiore nella riforma dell’amministrazione, è l’aver prodotto una proliferazione degli
Uffici dirigenziali (118), con una
preoccupante frammentazione delle competenze fra uffici e dipartimenti.
Le stesse
Direzioni regionali stentano a decollare, per i pesanti vincoli burocratici e
organizzativi.
È ancora
difficile la transizione dalle strutture provinciali dell’amministrazione alle
Direzioni regionali ed alto è il rischio che si costituiscano strutture
intermedie (CIS), Centri di servizio amministrativi (CSA) che di fatto
ripropongano i soppressi provveditorati.
Mezzi, strutture,
risorse e personale vanno invece indirizzati direttamente agli istituti
scolastici, in un disegno complessivo che integri il centro, le Regioni, gli
Istituti.
A questo
proposito costituiremo un Tavolo di semplificazione destinato a razionalizzare
e sburocratizzare in maniera netta tutte le disposizioni di organizzazione
interna alla struttura scolastica. Dobbiamo infatti superare l'attuale assetto
dell'istruzione organizzato in chiave autoreferenziale.
Anche il
decreto legge che il Governo ha varato per l’avvio dell’anno scolastico
costituisce un primo passo per rilanciare il ruolo dell’amministrazione
scolastica nella sua funzione di servizio rispetto alla organizzazione
scolastica, ponendo al centro le esigenze dello studente e delle famiglie.
Una vera
autonomia delle istituzioni scolastiche comporta, peraltro, che si prevedano al
più presto organi di governo all’interno di ogni istituto.
Il Governo si
appresta a presentare alle Camere un disegno di legge di riforma degli organi
collegiali di istituto, ispirato a garantire la presenza degli essenziali
organi di governo, lasciando alla libertà dei singoli istituti di prevedere le
forme di partecipazione e organizzazione ritenute più opportune.
Rispetto,
invece, agli organi collegiali territoriali si renderà necessaria una proroga
alla loro costituzione, prevista per il prossimo primo settembre, per una
indispensabile revisione che tenga conto sia della riforma federalista dello
Stato, sia di un necessario cambiamento
rispetto all’attuale struttura che prevede una serie di rappresentanze chiamate
ad assistere alle scelte
dell’amministrazione, senza nessun reale potere decisionale.
Veniamo al problema
centrale del sistema scolastico e alle ragioni di metodo già richiamate,
intendo soffermarmi sulle ragioni principali che hanno giustificano la
sospensione della riforma dei cicli
scolastici.
Punto centrale ci sembra essere la necessità
di riavviare il processo di riforma consultando e facendo partecipare ad una
discussione così importante tutti i protagonisti, insegnanti, dirigenti,
genitori e studenti, facendo in modo che non siano obbligati a realizzare la
riforma, ma siano loro stessi a chiarirla, giustificarla e volerla.
Tutto ciò nel rispetto delle autonomie delle
singole scuole, ma anche nel reale riconoscimento delle competenze e delle
corresponsabilità dei veri protagonisti del cambiamento scolastico che non può
risultare solo opera di vertice.
Sullo sfondo restano
questioni di organicità dell’intero sistema educativo che mi sono state
rappresentate anche negli incontri avuti con il mondo della scuola.
In sintesi, i nodi più
urgenti da sciogliere sembrano essere:
·
se
e in quale modo considerare la frequenza della Scuola dell’infanzia triennale,
che resta non obbligatoria e curricolarmente unitaria come possibile credito ai
fini del soddisfacimento di almeno un anno dell’istruzione obbligatoria;
·
un’articolazione
della scuola che valorizzi le specificità delle età evolutive della
fanciullezza e della preadolescenza;
·
la
possibilità di curricula della scuola secondaria in genere di elevata
qualità con la possibilità di prevedere una specializzazione;
·
la
natura pedagogica, l’identità curricolare e la fisionomia istituzionale di un
percorso graduale e continuo di formazione professionale parallelo a quello
scolastico ed universitario dai 14 ai 21 anni;
·
le
modalità con cui dar corso ai punti precedenti avvalorando l’autonomia delle
istituzioni scolastiche e dei centri per la formazione professionale, facendo
sempre prevalere, sia sul piano delle verifiche, dell’apprendimento, sia su
quello dell’obbligo formativo a 18 anni, i vincoli di risultato, su quelli procedurali.
·
La
necessità di prevedere linee di formazione iniziale degli insegnanti in
relazione ai cicli scolastici.
·
La
necessità di preparare adeguate risorse finanziarie per l’avvio della riforma.
Ho già affidato ad un
gruppo di lavoro ristretto l’esame di tutti questi punti in vista della
organizzazione di quelli che potremmo definire gli “Stati Generali
dell’Istruzione”.
Il gruppo di lavoro, presieduto dal
prof. Giuseppe Bertagna dell'università di Bologna e Torino, è costituito dai
professori Giorgio Chiosso dell'università di Torino, Michele Colasanto, Prorettore dell’Università Cattolica ed ex
Presidente dell’ISFOL, Silvano Tagliagambe dell'università La Sapienza di Roma,
Norberto Bottani, ex ricercatore OCSE e Direttore del Dipartimento Innovazione
Educativa del Cantone di Ginevra e del Prof. Ferdinando Montuschi titolare
della Cattedra di Pedagogia Speciale
Presidente del corso di laurea in scienze della formazione primaria
della III università di Roma.
Il gruppo di lavoro coinvolgerà tutte
le componenti scolastiche attraverso la costituzione di gruppi focus, audizioni
mirate, seminari di produzione, analisi di caso, comparazioni internazionali, e
metterà a fuoco una serie di alternative per eventuali integrazioni o
correzioni delle scelte adottate dalla legge 30. Le risposte saranno elaborate
dal gruppo di lavoro in un rapporto di sintesi. Saranno convocati nel frattempo
gli stati generali della istruzione, composti da rappresentanti delle famiglie,
degli studenti, dei docenti, e da tecnici, che sulla base del rapporto di
sintesi, mi forniranno i concreti riscontri per un nuovo piano di attuazione
della riforma degli ordinamenti e per le eventuali modifiche da apportare alla
legge 30. Il lavoro dovrà essere completato in modo tale da poter consentire un
percorso di revisione parlamentare in tempo utile per avviare il nuovo anno
scolastico 2002-2003 secondo le nuove
indicazioni.
L’avvio di
questo intenso processo riformatore non può essere slegato da una riflessione
attenta sul ruolo degli insegnanti.
Il Governo non
sottovaluta i problemi che si pongono anche perché, negli anni, lo status della
docenza non è stato di fatto modificato.
Vanno avviate
politiche di definizione delle funzioni del personale docente coerenti con la
necessità di valorizzarne il ruolo e di riconoscerne le diverse ed articolate
professionalità.
Si è consolidato, nella maggior parte del personale docente,
un modello di lavoro a volte privo di significato, di natura impiegatizia non
professionale, con una tolleranza eccessiva verso comportamenti, per fortuna
molto limitati, incompatibili con la funzione educativa, come peraltro ci ha
giustamente segnalato la Corte dei Conti.
Gli
investimenti sulla docenza vanno concentrati sulla definizione di articolazioni
delle funzioni, che si concretizzino nel riconoscimento di un diverso impegno
professionale sia rispetto al tempo di lavoro sia in relazione all’arricchimento
del profilo professionale con conseguenti riconoscimenti economici.
Naturalmente in seguito ad un confronto con le Organizzazioni sindacali.
In questo
senso, anche alla luce della riforma della dirigenza scolastica, appare
opportuno definire, tempestivamente, uno specifico ambito contrattuale per il
personale docente ed una disciplina coerente con la piena attuazione
dell’autonomia delle scuole.
Intendiamo
inoltre realizzare, nel confronto con le associazioni delle famiglie e con le
organizzazioni sindacali di categoria, codici deontologici flessibili, che
consentano alla categoria stessa di tutelare quella dignità che ad essa
compete.
Il Governo sarà attento, altresì, alla
questione del primo contratto collettivo nazionale dei dirigenti scolastici che
attendono il riconoscimento sul piano economico e giuridico delle nuove
funzioni che ricoprono dal primo settembre 2000 all’interno dell’impianto
autonomistico delle scuole.
Bandiremo al
più presto il primo concorso, dopo ormai dodici anni, per il reclutamento dei
dirigenti scolastici.
Uguale
attenzione andrà posta alla valorizzazione dell’importante funzione del
personale ausiliario, tecnico e amministrativo, che sta dando un notevole
contributo al processo di riorganizzazione dell’amministrazione.
Per quanto
riguarda l’università la nostra azione si incentrerà sui tre seguenti
obiettivi, indicati da tempo:
1)
Aumentare
il numero dei laureati portandolo ai livelli europei;
2)
Fare in
modo che vengano ridotti i tempi effettivi per il conseguimento dei titoli
universitari;
3)
Garantire
gli sbocchi professionali anche attraverso l’elevata qualità dei corsi e
l’interazione con il mondo produttivo.
E' in funzione
di tali obiettivi che deve orientarsi l'autonomia didattica delle università.
Spetta quindi alle università nei prossimi anni recuperare decisamente quella
dispersione universitaria più volte richiamata, che ci colloca all'ultimo posto
dei Paesi industriali per numero di laureati e per abbandoni. C’è bisogno di
creare anche in Italia, come avviene all’estero, circuiti differenti per
istituti di alta specializzazione separati da quelli destinati alla formazione
di base e da quelli utilizzati per la diffusione di sapere sul territorio.
Coerentemente,
la ripartizione delle risorse disponibili dovrà avvenire in funzione di questi
essenziali obiettivi.
Per questo il
Governo si impegna a rendere più effettiva l’autonomia delle università. Dal
conto loro, le università dovranno sempre più strettamente associare il
concetto di autonomia con quello di responsabilità.
Al centro
della nostra azione anche per quanto riguarda l’università ci sono gli
studenti, i loro bisogni, i loro problemi, i loro sogni.
Nel delicato
passaggio tra la scuola e l'università, gli studenti sono soli. Noi dobbiamo
accompagnarli e aiutarli nella scelta dell'università, perché questa scelta
condiziona tutto il loro futuro. A questo fine è essenziale introdurre anche
nelle università l’accreditamento del prodotto formativo e la certificazione
della qualità dei servizi, così che studenti e famiglie possano fare le proprie
scelte sulla base di una chiara e completa informazione.
Gli studenti
sono soli anche dentro l'università. Dobbiamo affiancarli e sostenerli in modo
continuativo in tutto il loro percorso di formazione superiore, e aiutarli
nella decisiva scelta del loro primo inserimento nel mondo del lavoro.
Questi sono
aspetti fondamentali del diritto allo studio, che devono trovare una concreta
attuazione.
Una vera
politica del diritto allo studio deve preoccuparsi non solo di sostenere
economicamente gli studenti privi di mezzi, ma anche di valorizzare i talenti
migliori. Le nostre università devono
inoltre saper attrarre i migliori
studenti stranieri. A questo fine sono essenziali le politiche di
mobilità degli studenti sia tra le università italiane, sia e soprattutto tra le nostre università e
quelle europee, come avviene già nei maggiori paesi dell’Unione. Lo Stato
dovrebbe creare un flusso di finanziamenti privati provenienti dalle fondazioni
bancarie e dalle imprese destinati a sostenere cattedre specifiche, borse di
studio, alti studi per macro aree.
E’ alla
internazionalizzazione complessiva delle nostre università che occorre dare
massimo impegno e attenzione, creando condizioni che favoriscano gli scambi e i
periodi all’estero, oltre che degli studenti, anche dei professori e dei
ricercatori.
Negli ultimi mesi si è
acceso intorno alla riforma avviata dalla decreto ministeriale n. 509 del 3
novembre 1999 un vivace dibattito culturale, con richieste di rinvio della sua
applicazione. Alcuni temono che la formula del triennio si traduca in una
dequalificazione della formazione universitaria, altri un impianto troppo squilibrato verso il
“saper fare”, a scapito del “sapere” e del “saper essere”.
Di queste preoccupazioni occorre tener conto, ponendo
attenzione a che l’attuazione della riforma non si traduca in una
standardizzazione dell’offerta didattica e in una sua omologazione verso il
basso. La ricchezza delle università è data anche dalle diversità che convivono
e si confrontano.
La riforma è
dunque solo una prima positiva risposta, dopo decenni di immobilismo, ai gravi problemi di inefficacia e
inefficienza che affliggono le Università. Il nuovo quadro normativo innesca un
percorso di autoriforma continua dell’offerta formativa degli atenei il cui
successo non dipende soltanto dalla legge e dalle norme attuative, che devono
limitarsi a definire la cornice generale, bensì dal modo in cui le competenti
strutture accademiche interpreteranno tale quadro in sede di concreta
regolamentazione dei progetti formativi. In quest'ottica desta preoccupazione
il fatto che i corsi siano stati definiti da molti atenei senza che sia avvenuta
quella consultazione costante e puntuale da parte delle università con
tutte le forze del mondo produttivo che la legge richiedeva. Si mantiene così
nel nuovo sistema quel distacco dalle esigenze del mondo del lavoro che
l’università italiana deve colmare.
Il Governo intende,
pertanto, sostenere le università che intendono attuare da subito la riforma,
e, nello stesso tempo, dare la facoltà di differire l'inizio dei corsi di studio all'anno accademico
2003/2004 a quelle università che ne sentono l’esigenza. Questo per tre motivi:
1) alcuni atenei non sono
ancora pronti, e intendiamo dare loro
la possibilità di progettare i corsi con maggiore tempo a disposizione;
2) alcuni ritengono - in particolare tra le
facoltà umanistiche - che l'articolazione “tre più due” non sia la più idonea,
e vogliamo che questo tema sia oggetto di un ulteriore approfondimento;
3) il rinvio consentirà
inoltre di monitorare il processo di riforma al fine di definire standards
minimi per la attivazione di corsi e facoltà, che consentano di commisurare
l'offerta formativa alle reali potenzialità delle università e delle facoltà e
alle reali esigenze degli studenti e del mondo produttivo.
Una delle criticità
del sistema universitario è quella delle risorse, in particolare per quanto
riguarda il diritto allo studio,
l'edilizia universitaria e i fondi per la ricerca . Il nostro sistema è
finanziato per l'equivalente 14.267 miliardi di lire, come risulta dai dati
OCSE relativi all'anno 1998, spesa che è di molto inferiore a quella della
Germania (21.502 miliardi) e dell'Inghilterra (21.997 miliardi circa).
Il processo di
completamento dell’autonomia universitaria, inoltre, attuato attraverso la
riforma della complessiva offerta formativa, in linea con gli orientamenti
europei, rende improcrastinabile un incremento del fondo di finanziamento
ordinario.
Quanto alla
ricerca che si svolge nelle università,
gli attuali stanziamenti hanno subito nel corso degli ultimi tempi
decurtazioni, mentre è sulla produttività e sulla qualità della ricerca che si
misurano l’eccellenza e il prestigio delle università. Occorre quindi potenziare la ricerca universitaria,
anche con adeguati investimenti, e in quest’ottica va incrementato il numero
dei dottorati di ricerca, e ne vanno attentamente monitorate le ricadute
professionali e la qualità.
E' inoltre
necessario l’avvio di azioni preordinate all’adeguamento delle strutture
edilizie e delle correlate attrezzature didattiche e scientifiche, attraverso
un rilancio della politica degli investimenti del settore dell’edilizia
universitaria.
Per assicurare
il concreto raggiungimento dei tre obiettivi prima indicati, va costantemente
monitorata l'efficienza e l'efficacia della organizzazione e della didattica. A
tal fine, centrale è il Comitato
nazionale per la valutazione del sistema universitario, che va potenziato e
rafforzato.
Occorre inoltre superare decisamente il
sistema dei controlli preventivi di tipo burocratico, attualmente affidati alla
struttura centrale del Ministero e al CUN, che rappresentano un forte vincolo
all’esercizio effettivo della autonomia e conservano rigidità con essa non
coerenti proprio nell’aspetto più delicato e importante, che è quello della
definizione dei percorsi formativi secondo la legge 127 del 1997.
Le risorse
andranno complessivamente incrementate, come prima ho chiarito, ma in modo
strettamente finalizzato al perseguimento degli obiettivi essenziali. Occorrerà
quindi agire sui meccanismi di finanziamento pubblico, affiancando al sistema
delle “quote di riequilibrio”, che richiede tempi troppo lunghi (secondo stime
ben note gli effetti si produrrebbero tra vent’anni), un consistente incremento
di risorse che dovranno essere ripartite tra gli atenei in relazione ai
miglioramenti di qualità via via realizzati.
Sembra inoltre
necessaria una riflessione sui docenti, che affronti i temi della qualità della
ricerca e dell’insegnamento e della relativa valutazione. Essenziale è il tema
del reclutamento, che va disciplinato in termini tali da consentire agli atenei
di scegliere docenti di qualità. Sembra opportuno in ogni caso, in
considerazione della inefficacia dei meccanismi dei concorsi recentemente
riformati, segnalata dagli atenei, provvedere ad una urgente azione di
rettifica normativa recuperando il sistema del vincitore unico in luogo del
vigente sistema dei due candidati idonei, anche consentendo che le commissioni
possano essere integrate da docenti stranieri.
Al settore
della ricerca il Governo affida un ruolo di particolare importanza per il
conseguimento del grande obiettivo di modernizzazione del Paese.
Alla base vi è la profonda
consapevolezza delle fondamentali funzioni che in una società industriale
avanzata come quella italiana questo
settore deve essere portato a svolgere:
contribuire in modo determinante allo sviluppo della capacità
competitiva del comparto produttivo, tramite il continuo affinamento del suo
livello tecnologico; elevare la
capacità formativa dei docenti universitari, chiamati tutti a ad affiancare
all’attività didattica una valida attività di ricerca; diffondere nel tessuto
connettivo della nostra società la cultura scientifica e tecnologica,
attualmente così poco presente.
Il Governo ritiene pertanto necessario ed
urgente un profondo rinnovamento del settore della ricerca. E’ una sfida ardua, se si tiene conto che:
·
nell’ultimo
decennio la spesa per la ricerca in Italia, partita da un valore nettamente
inferiore a quelli dei principali Paesi europei, si è ulteriormente
ridotta; in particolare è fortemente sottodimensionata la spesa per la
ricerca di base;
·
la
parte pubblica del settore della ricerca italiana è afflitta da ormai molti
anni da gravi patologie, quali dispersione a pioggia delle risorse, eccessivo
invecchiamento della popolazione dei ricercatori;
·
nel
settore della ricerca industriale italiana è in atto un drammatico ridimensionamento dell’attività dei centri
di ricerca di grandi società; inoltre
non poche medie industrie, prima attive
nel campo della ricerca, acquistate da multinazionali, stanno trasferendo i
loro laboratori all’estero, dove le condizioni sono più favorevoli, mentre
invece la quasi totalità delle PMI, così importanti nella struttura industriale
italiana, non hanno rapporto con la ricerca;
·
il
mercato del lavoro per i ricercatori, oltre ad essere sottodimensionato ed
esposto al processo di invecchiamento degli addetti, offre prospettive che non
lo rendono attrattivo e competitivo per i giovani;
·
non
si è avuta finora la necessaria attenzione a sviluppare presso i nostri
ricercatori una adeguata sensibilità e capacità di valorizzare a fini economici
e sociali i risultati ottenuti in laboratorio;
·
l’Italia
si colloca nelle ultime posizioni della graduatoria dei Paesi industrializzati
per quanto riguarda la quota di valore aggiunto prodotto dai settori high-tech
sul totale manifatturiero e l’incidenza dell’export high-tech sull’export
manifatturiero.
Per superare l’attuale
insoddisfacente situazione, il Governo intende porre in essere una molteplicità
di azioni, che riguarderanno tutto l’articolato e complesso arco del settore
della ricerca. Tali azioni, pur variamente
posizionate nel tempo, verranno opportunamente coordinate tra di loro, nella
visione del settore come
macrosistema integrato. Al fine
di promuovere la presenza italiana nei settori di alta tecnologia: aeronautica,
spazio, difesa, informatica, energia, telematica, biotecnologia e nuovi
materiali.
In particolare:
·
la
spesa pubblica in ricerca verrà gradualmente elevata nel quinquennio fino
ad essere portata al livello degli
altri grandi Paesi europei (1% del PIL); tale elevazione consentirà ai nostri
ricercatori di sfruttare pienamente le risorse messe a disposizione nell’ambito
del VI Programma Quadro di ricerca dell’Unione Europea, risorse come è noto
condizionate da pari cofinanziamenti nazionali;
·
verrà
in generale potenziata nel comparto pubblico la funzione di committente della
ricerca o, se si preferisce, la funzione di agenzia; dove possibile, tale
funzione verrà allargata ai compiti di
tutoraggio on-line dello svolgimento della ricerca e di verifica
dell’utilizzazione dei risultati di ricerca successivamente alla sua conclusione;
in quest’ambito sarà effettuata una seria e generale analisi delle attuali
destinazioni dei fondi di ricerca pubblici, onde verificarne l’opportunità e la
validità;
·
verranno
introdotti nelle disposizioni che regolano l’accesso ai fondi pubblici e la
loro gestione tutte le innovazioni necessarie a semplificare e velocizzare gli
adempimenti burocratici, nonché ad ottimizzare l’utilizzo degli investimenti
disponibili, attrarre gli investimenti privati, rendere più imprenditoriale la
ricerca e accrescere infine la ricaduta economica e sociale della ricerca;
·
verranno
poste in essere o facilitate tutte le iniziative necessarie per la
rivitalizzazione della ricerca finanziata dalle imprese private; è questo
il punto nettamente più deficitario e
critico del settore della ricerca italiana e quello in cui è più urgente e
difficile catalizzare con l’intervento pubblico un deciso cambiamento; un tipo
di iniziativa che il Governo intende avviare è quello del consorzio
specialistico avente la funzione di “incubatore” di idee innovative nel campo
specialistico scelto, in modo da facilitarne la valorizzazione industriale,
consorzi che dovranno essere
compartecipati da università o altri enti pubblici, grandi aziende italiane e
multinazionali e società di venture capital; un altro tipo di iniziativa
ritenuto interessante nelle situazioni
territoriali caratterizzate da un lato da
ricchezza di iniziative high tech
in un dato settore, dall’altro da debole coordinamento tra tali iniziative, è quella del distretto high
tech, che sappia promuovere attraverso una adeguata leadership un’aggregazione
forte tra tutti gli attori interessati finalizzata alla realizzazione di un
numero limitato di progetti importanti;
·
sia
nella gestione della ricerca a finanziamento pubblico, sia nella promozione di
iniziative di ricerca a finanziamento principalmente privato, il Governo
faciliterà il più possibile
l’instaurarsi tra pubblico e privato di
collaborazioni, sinergie, trasferimenti di conoscenze e di ricercatori,
ritenendo che l’eccessiva separazione tra pubblico e privato sia una delle
attuali più gravi carenze della nostra organizzazione della ricerca rispetto a
quelle degli altri Paesi industriali.
Con
tutte le azioni che il Governo
porrà in essere nel quinquennio, la spesa
complessiva italiana in ricerca e sviluppo si allineerà agli standard
quantitativi e qualitativi dei principali paesi europei (2% del PIL), venendo
così a corrispondere agli indirizzi
formulati dal Parlamento Europeo.