Cronache dal contratto

Appunti a futura memoria

 

di ANTONINO PETROLINO

 

Autonomia & Dirigenza – n. 10 – 11 – 12 – Ott – Nov – Dic 2001 - pag. 6

 

OSSERVATORIO SINDACALE

 

Il contratto dei dirigenti delle istituzioni scolastiche si è chiuso, ufficiosamente, il 17 ottobre scorso, con la firma di un documento che risponde alla inusuale definizione di "verbale tecnico di riunione".

Non è che l'ultima, in ordine di tempo, fra le anomalie di una trattativa condotta spesso all'insegna di comportamenti reticenti e di scambi di ruolo fra le parti. Ora, dopo la sottoscrizione formale dell'ipotesi di accordo in data 10 gennaio 2002, non sarà privo di interesse ripercorrere alcuni momenti di questo confronto, per trarne spunti di riflessione sulle scelte future della categoria.

 

Il convitato di pietra

 

L’immagine non è nuova: ma veramente un convitato di pietra è rimasto fino alla fine seduto al tavolo, e poco è mancato che - come nel celebre finale mozartiano - non riuscisse a trascinare con sé agli inferi il buon esito della trattativa. Si tratta, come è ovvio, del contratto dei docenti e, più in generale, del problema della loro retribuzione europea; ma soprattutto del differenziale che si sarebbe venuto a creare rispetto a quanto era in discussione per i dirigenti. La questione ha pesato a diverse riprese e con forme diverse, di cui vanno annotate almeno:

 

Il bicchiere (mezzo) pieno

 

A più riprese, nei passaggi critici della trattativa, l’obiezione è affiorata impaziente sulle labbra della controparte ufficiale e delle controparti effettive, ripresa anche nelle polemiche a distanza ospitate sui siti Internet dei diversi attori: “ma cosa volete? non vi basta un aumento di cinque- seicentomila lire al mese? i docenti hanno avuto meno della metà!”

Era l’argomento del “bicchiere mezzo pieno”, secondo cui la misura della soddisfazione doveva esser data dalla distanza retributiva rispetto al personale non dirigente della scuola anziché rispetto ai colleghi pari grado degli altri settori pubblici.

In quest’ottica, non aveva importanza che il lavoro fosse molto cambiato per natura e per livelli di responsabilità: e neppure che la riduzione di oltre duemila scuole, operata come premessa al conferimento della dirigenza, avesse parallelamente ed automaticamente aumentato di almeno il venti per cento il carico individuale, anche a qualità invariata. Quel che avrebbe dovuto fornire la misura del “giusto”, anzi del “molto”, era solo l’incremento rispetto al punto di partenza.

 

C’è, in questo modo di considerare le cose – ed al di là, certo, delle intenzioni consapevoli – una forma di sostanziale disprezzo per i dirigenti delle scuole: in definitiva, la loro retribuzione non andrebbe valutata secondo la quantità e qualità del lavoro, ma solo alla stregua di una elargizione. Svincolata da parametri di riferimento economici, da rapporti di dare ed avere, un’elemosina è sempre un atto di generosità. Ma, se si guarda in modo più laico alla questione, la circostanza che la retribuzione proposta a maggio fosse tuttora lontana da quella degli altri dirigenti – malgrado gli aumenti proposti – voleva dire non che si era ricevuto troppo, ma che la situazione di partenza era di gran lunga inadeguata rispetto al lavoro svolto.

 

Un tavolo zoppo

 

A parte l’Anp, le altre sigle presenti erano, in primo luogo e soprattutto, sindacati di docenti ed ATA. Dato il pregiudizio che i capi di istituto altro non siano in fondo che l’ultimo gradone della carriera docente, essi erano condizionati a rappresentare in quella sede più gli interessi del per-sonale che quelli dei dirigenti.

Si è assistito così ad un curioso gioco delle parti: su molte questioni – retributive, ma anche normative – la vera controparte dell’Anp non è stata rappresentata dall’ARAN, ma dalle altre sigle presenti; mentre l’ARAN – rappresentante ufficiale del datore di lavoro – era più che disponibile ad allargare l’area delle risorse pur di addivenire ad una sollecita e positiva conclusione. A voler fare dell’aneddotica, gli episodi da citare non mancherebbero di certo: ma non è questo o quel singolo punto ad essere rilevante, né qui interessa additare comportamenti o responsabilità di singoli. E’ il senso politico della situazione che occorre comprendere. I comportamenti concreti sono stati – e non potevano che essere – la conseguenza dell’anomalia di fondo: un contratto per i dirigenti negoziato in parte dai sindacati dell’altro personale (e, per l’Anp, la necessità di confrontarsi con due controparti). Come stupirsi se i ruoli formali e quelli effettivi di molti attori si sono collocati in un equilibrio precario e sempre sul punto di rovesciarsi?

 

La specificità come ghetto

 

Fra le molte manifestazioni dell’equivoco di fondo sopra ricordato, c’èstata anche la questione della cosiddetta “specificità”. Secondo questa tesi – cara da sempre ad uno dei sindacati del comparto presenti, ma volentieri adottata anche dagli altri – i dirigenti delle scuole non sarebbero assimilabili agli altri dirigenti pubblici, in quanto portatori di una diversità ontologica, una specificità appunto, che legittimerebbe un trattamento normativo differenziato. Differenziato, a parole, al rialzo: nei fatti, e da sempre, pesantemente al ribasso.

La diversità consisterebbe nel fatto che la scuola riceve nella Costituzione repubblicana una sua specifica tutela rispetto agli altri pubblici uffici, tutela che – anche se accordata originariamente all’insegnamento delle arti e delle scienze – finirebbe con l’estendersi anche a coloro che le insegnano, cioè i docenti: e, via via, anche agli ATA ed a tutto l’impianto strutturale delle scuole. Chi sostiene questa tesi ne fa poi discendere una vasta messe di conseguenze: l’inamovibilità rispetto alla sede, il rifiuto sostanziale di ogni valutazione di risultato, la natura di primus inter pares del dirigente, l’individuazione del suo ruolo fondamentale come quello di un leader educativo e non di un responsabile di gestione. Tutto in nome del principio della libertà di insegnamento.

 

Se si accetta questa impostazione, cade evidentemente ogni possibilità di assimilazione rispetto agli altri dirigenti pubblici, a dispetto di quanto previsto dalla legge istitutiva del ruolo. Di conseguenza, anche il trattamento economico non è più automaticamente riconducibile a quello degli altri dirigenti e va invece definito in rapporto agli altri operatori del comparto scuola: ad un livello più elevato, naturalmente, ma pur sempre in un rapporto parametrico interno ad una scala retributiva, di cui il bidello, il docente ed il dirigente sono altrettanti gradini, secondo uno sviluppo lineare e solo quantitativo, senza che la natura dei rispettivi compiti abbia a comportare alcuna reale discontinuità.

 

Il peso della politica

 

E’ facile riconoscere come i veri nodi del contratto siano stati determinati da situazioni extracontrattuali e da rapporti di forza collocati nella sfera politica generale. Quindi, anche lo scioglimento dei nodi andava ricercato sul piano politico.

Questa esigenza è risultata evidente già ai primi di marzo, quando – avviata finalmente la trattativa di merito – fu subito chiaro che le risorse messe a disposizione erano insufficienti a consentire il pieno allineamento retributivo, indicato dall’atto di indirizzo come un obiettivo contrattuale. A comprendere per prima che la soluzione non poteva trovarsi al tavolo tecnico fu l’Anp, seguita inizialmente dagli altri attori negoziali. Fu chiesta la sospensione delle trattative e l’apertura di un confronto a livello politico con l’allora Ministro Bassanini.

 

Da questo confronto scaturì il secondo atto di indirizzo, che costituiva apparentemente un passo avanti (40 miliardi sbloccati al tavolo), ma era in realtà un pesante arretramento. Infatti, la contraddizione fra l’obiettivo (l’allineamento retributivo) e le risorse insufficienti era risolta abbassando l’obiettivo: rinviando cioè la soluzione del problema ad un futuro contratto.

Come se non bastasse, anche i 40 miliardi si sarebbero rivelati di lì a poco come uno specchietto per le allodole, in quanto sostituivano il riferimento (già presente nel primo atto di indirizzo) ai ratei di anzianità maturati da ciascun dirigente all’interno del gradone di attuale percorrenza. Si trattava in sostanza di un’anticipazione di cassa, a valere su benefici economici già

giuridicamente acquisiti dai singoli, ma esigibili solo a scadenza successiva.

 

Un passo indietro, ma anche una scelta politica. Avvicinandosi la scadenza elettorale, il governo era consapevole che lo sforzo economico compiuto in favore dei docenti in occasione del CCNL non era bastato a soddisfarne le aspettative: e temeva di rinfocolarne i malumori se si fosse mostrato più disponibile nei confronti dei dirigenti scolastici. D’altro canto, se le imminenti elezioni costituivano il fattore di blocco della trattativa, era solo operando su quel terreno che si poteva cercare la soluzione del problema.

 

In questi termini va letta l’iniziativa dell’Anp: una lettera aperta ad entrambi i candidati premier per sollecitare un preciso impegno in favore dei dirigenti scolastici. Quella decisione suscitò molte critiche: ma in realtà nasceva da una visione lucida dei termini del problema. Il nodo non era quello delle poche decine di miliardi necessari, ma quello della scelta di investire a termine sulla dirigenza o sugli operatori di base. La vertenza costituiva di per sé solo un frammento del panorama sociale: ma la sua soluzione passava per una visione generale delle priorità strategiche relative al governo del settore pubblico. Era giusto quindi che chi si candidava a guidare il Paese manifestasse i suoi orientamenti in proposito.

Tutti ricordano come andò: una parte – quella che poi avrebbe vinto le elezioni – rispose, assumendo gli impegni richiesti: l’altra tacque.

Come la politica aveva condizionato questa fase, in cui l’obiettivo era di non concludere (perché concludere era possibile solo al ribasso), così condi zionò quella successiva. A luglio, la soluzione era sembrata a portata di mano, ed a condizioni nettamente favorevoli: erano persino circolate – ed avevano ricevuto avalli autorevoli, ancorché ufficiosi, in seno al governo – delle cifre, dell’ordine di 160 miliardi. A complicare tutto intervenne, in un primo tempo, il G8, che consigliò un rinvio della decisione, per evitare di aprire un ulteriore fronte politico in un momento in cui il confronto era già fin troppo acceso.

Poi, dopo la pausa estiva, gli attentati dell’11 settembre, sopravvenuti a mutare radicalmente il panorama politico ed economico – e non solo del nostro Paese. Recessione e situazione di guerra non sono invenzioni dialettiche: ed hanno certamente avuto il loro peso nel ridurre la propensione ad onorare gli impegni assunti. In ogni caso, hanno reso impossibile confrontare le promesse precedenti con le decisioni reali, troppo diverse e non comparabili essendo le situazioni.

 

A questo punto le forze sindacali presero l’iniziativa di chiedere l’immediata riapertura delle trattative, appoggiandola con il preannuncio di uno sciopero: questo accadeva all’indomani dell’11 settembre, nel momento in cui sembrava impossibile ottenere anche una sola lira in più. Anche qui il senso politico della scelta era chiaro. La pressione per una chiusura immediata aveva il senso implicito di una rivincita: la dimostrazione che nessun miglioramento si era realizzato nonostante il trascorrere dei mesi.

L’azione dell’Anp risultava in quel momento molto difficile: da una parte serviva tempo per recuperare almeno parte delle risorse che erano sembrate a portata di mano fino a qualche giorno prima; dall’altra era difficile assumere pubblicamente l’onere di dilazionare un contratto fin troppo atteso e su cui si scaricavano notevoli tensioni emotive.

 

A complicare le cose c’era anche la sensazione diffusa di un tradimento da parte di quegli esponenti del governo che più direttamente si erano impegnati nei confronti della categoria. E’ noto quale sia stato poi il punto di uscita: preso atto, con la presentazione della Finanziaria, che le risorse fresche erano limitate ad altri 40 miliardi, il presidente dell’Anp, nell’incontro

con il Ministro Moratti, pose quattro condizioni irrinunciabili, che andavano al di là della competenza tecnica dell’ARAN (ed infatti l’agenzia aveva fin lì rifiutato di prenderle in considerazione) e chiamavano in causa, ancora una volta, il livello di decisione politica. E’ stato quello il vero momento di svolta della vicenda, che ha permesso di giungere alla chiusura in poco più di una settimana (dal 9 al 17 ottobre). In altra parte di questo stesso numero della rivista, si trovano considerazioni tecniche diffuse sui benefici conseguiti grazie a quel passo: quel che qui importa rilevare è che – senza una decisa presa di posizione – la soluzione non sarebbe potuta venire o sarebbe stata ingiustamente gravosa.

 

In cauda venenum, ovvero la questione degli incaricati

 

Non tutti hanno accolto con soddisfazione le aperture ministeriali: e lo si è visto nel corso degli ultimi incontri, quando - proprio da parte di coloro che avevano sollecitato l’immediata chiusura - sono state sollevate una serie di obiezioni. Fra le più singolari: “non vogliamo i 40 miliardi della Finanziaria, perché questo lascerebbe senza risorse il prossimo contratto.”

Come dire: preferiamo perderli con certezza subito! Ma sarebbe far torto alla qualità delle persone il prendere alla lettera queste ed altre esternazioni: in realtà si misurava in queste obiezioni la difficoltà politica - per i sindacati tradizionali - di accettare un ulteriore ampliamento del differenziale retributivo fra docenti e dirigenti.

 

L’ultimo ostacolo gettato sul tavolo della trattativa a meno di un’ora dalla firma è stato quello degli incaricati: ostacolo in verità fittizio, ma agitato strumentalmente per tentare un impossibile recupero. In sintesi, una sigla – quella che non avrebbe dovuto neppure trovarsi lì – chiedeva che si inserisse nel contratto dei dirigenti dell’area V la questione dell’indennità di funzioni superiori per i presidi incaricati. La richiesta era irricevibile,per una serie di ragioni di legittimità e di merito, in quanto il personale in questione appartiene al comparto e non si è mai visto un contratto regolare i rapporti retributivi di personale esterno all’area considerata: ma il vero obiettivo era il tentativo di recuperare, attraverso la gratitudine dei beneficiati,

le deleghe mancanti a raggiungere la soglia giuridica della rappresentatività.

 

Non se ne è fatto nulla, naturalmente e per fortuna. Per fortuna anche degli incaricati, la cui indennità è costituita dalla differenza fra i livelli retributivi base della carriera docente e di quella dei capi di istituto.

Abbassare la retribuzione dei dirigenti avrebbe diminuito il differenziale e quindi anche la misura dell’indennità: e si sarebbe quindi, paradossalmente, tradotto in un danno economico. Un’ennesima riprova, se ve ne fosse ancora bisogno, che a guidare le scelte delle altre sigle sindacali sono state in molti casi considerazioni di natura extracontrattuale.

 

Concludendo

 

Le regole che hanno retto la trattativa e le scelte che hanno consentito di chiuderla hanno ben poco in comune con la normale dialettica contrattuale, in quanto sono state tutte condizionate da considerazioni politiche e dall’assillo, da parte di alcuni, di non perdere il consenso dei docenti. Come se tenere bassi i dirigenti – costringendoli a “battere il passo” (così si è espresso, con metafora militare, il rappresentante di un’autorevole sigla) –si traducesse in un qualche vantaggio per gli altri.

Se questo è accaduto, non è certo per cattiva volontà o scarsa capacità di analisi dei protagonisti: ché anzi si tratta di sindacalisti di esperienza, della cui intelligenza e della cui competenza professionale, in altri contesti dimostrata, nessuno potrebbe dubitare.

 

Il nodo è però sempre lo stesso, malgrado gli sforzi per negarlo: non può correttamente rappresentare gli interessi di una categoria chi è portatore in primo luogo di una delega di fiducia da parte della controparte funzionale. Gli avvocati conoscono bene il problema e sanno che devono declinare il patrocinio di chi – anche in una lite diversa – abbia interessi in conflitto con

quelli di un loro assistito. Questa regola non è stata finora fatta propria dai sindacalisti. Ma i fatti hanno dimostrato che solo l’Anp ha potuto assumere il proprio ruolo fino in fondo e libera da condizionamenti, perché da sempre ha rappresentato e rappresenta solo i capi di istituto. Gli altri non possono farlo perché i dirigenti sono meno dell’1% dei loro iscritti. La loro difficoltà nello scegliere una linea di equilibrio contrattuale è quindi comprensibile.

 

Meno comprensibile è il fatto che alcuni dei dirigenti interessati, in misura per fortuna decrescente, continuino ad affidare la difesa dei propri interessi a chi non può per sua natura esercitarla. Che lo facciano in via esclusiva o attraverso la doppia tessera, questo si traduce in un equivoco ed in un danno, per loro e per tutta la categoria, in quanto legittima la presenza al tavolo e l’azione di freno e di dissuasione da parte dei convitati di pietra.