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Sito telematico dedicato all'informazione, al confronto, al dibattito sui problemi connessi con il primo CONTRATTO DEI DIRIGENTI SCOLASTICI – a cura del D.S. Paolo Quintavalla  in servizio presso la Direzione Didattica 3° Circolo di Parma - In Rete dal maggio 2000 –

 

 

 

 

 

 La gestione per obiettivi nelle amministrazioni statali:

progressi, criticità, prospettive

I° Conferenza Nazionale dell’Alta Dirigenza Statale

Roma – Palazzo dei Congressi, 3-5 febbraio 2003

Carlo D’Orta[1]

Capo Dipartimento della Funzione Pubblica

  L’argomento di questa giornata della Conferenza è “L’Amministrazione dello Stato: modernizzazione e gestione per obiettivi”. Ci è sembrato che esprimesse bene una delle idee chiave del decennio di riforme amministrative che abbiamo alle spalle.

 

Se ritorniamo, con la memoria, alla fine degli anni ’70 e ’80, troviamo l’immagine di una Pubblica Amministrazione spesso in difficoltà. Un’amministrazione – per ricordare una efficace definizione dell’epoca – “troppo impegnata ad amministrare se stessa”, spesso autoreferenziale, costosa, poco produttiva. Un’amministrazione dotata di capacità e risorse, innanzi tutto professionali, troppe volte poco e male utilizzate. Una amministrazione attenta soprattutto alle questioni giuridiche e alla regolarità formale degli atti e delle procedure, poco sensibile al profilo economico, spesso senza strategie e obiettivi a medio-lungo termine.

 

Credo che a simbolo di questa impostazione possa essere ricordata la normativa sui termini massimi di durata dei procedimenti. Una normativa che ha trasformato un tipico obiettivo gestionale – il contenimento e progressiva riduzione dei tempi di svolgimento delle procedure - in dovere giuridico, con l’effetto di legittimare le Pubbliche Amministrazioni ad attestarsi sul termine massimo stabilito dagli appositi regolamenti. Un vincolo giuridico che, in pratica, ha finito con l’assicurare copertura a comportamenti inefficienti.

 

Nel 1992-93, nel pieno della gravissima crisi finanziaria in cui il nostro Paese allora si trovava, fu avviato quel processo di complessiva riforma della Pubblica Amministrazione che è giunto fino ad oggi. In quel momento, la direzione del cambiamento non poteva che essere la riduzione dei costi. Presto, però, a questo primario ma al contempo limitato fine di contenere la spesa pubblica si aggiunse l’altro, di migliorare la qualità dei servizi. L’obiettivo divenne allora – per citare lo slogan del National Performance Review, il grande e coevo programma di riforma amministrativa lanciato negli Usa da Bill Clinton e Al Gore – “una amministrazione che costi di meno e lavori meglio”.

 

            Dunque: rilancio della primarietà del servizio rispetto alle problematiche dell’amministrazione interna; passaggio dall’amministrazione giorno per giorno a logiche di programmazione delle priorità, degli obiettivi, dei livelli di servizio; attenzione ai risultati e alle performances e non solo alle procedure; forte orientamento dell’attività verso i bisogni e le attese degli utenti.

 

            Naturalmente, questa nuova idea di Pubblica Amministrazione implicava il ripensamento dei ruoli e dei metodi di governo e gestione. Di qui l’accento sul ruolo di indirizzo degli organi politici e il potenziamento degli strumenti di supporto a tal fine necessari, quali gli uffici di diretta collaborazione dei Ministri e i Servizi di controllo interno; la valorizzazione dei poteri e dell’autonomia gestionale dei dirigenti; il tentativo di definire un nuovo assetto dei controlli amministrativi, incentrato sui risultati delle politiche pubbliche e sull’andamento della gestione e non sui singoli atti; la nuova disciplina sul personale nota come “privatizzazione” del pubblico impiego. Insomma, un insieme di innovazioni ispirate a tecniche e modelli organizzativi e gestionali propri del settore privato.

 

            Queste esigenze e questi problemi di modernizzazione della Pubblica Amministrazione – è bene sottolinearlo – non si sono manifestati soltanto in Italia, bensì in tutta Europa e anche nei Paesi extraeuropei di democrazia occidentale. E anche le ricette per la riforma hanno avuto la medesima dimensione.

 

Infatti, negli anni ’90 le stesse logiche innovative hanno presieduto, con gli adattamenti richiesti dalle specificità dei singoli Paesi, ai programmi di riforma amministrativa varati dapprima nel Regno Unito, poi negli Usa e nei Paesi nord europei, quindi in Germania e infine, in questi ultimi anni, anche in Francia. Si è trattato di un processo di dimensione mondiale per il quale si è ormai imposto il nome di New Public Management, a significare la congiunzione tra carattere pubblico delle organizzazioni e ispirazione aziendalistica delle tecniche di gestione.

 

            Inoltre – e anche questo va sottolineato – a nessuno dei riformatori e degli operatori più avvertiti è mancata la consapevolezza che, comunque, la pubblica amministrazione restava una organizzazione pubblica e con fini pubblici. E che, quindi – come ha sottolineato ancora recentissimamente la Corte dei Conti – l’ispirazione ai modelli e alle metodologie aziendalistici avrebbe sempre comunque richiesto adattamenti, imposti dalle peculiarità della gestione amministrativa e dal fatto <<che la “azienda Amministrazione” non è finalizzata al profitto ed è chiamata ad assicurare comunque i servizi ala collettività e a perseguire le missioni istituzionali previste per legge.>> [2]

 

*****     *****

 

            Ebbene, oggi, a dieci anni dall’avvio di questo ciclo riformatore, si impongono due domande: 1) Qual è il bilancio del tentativo di passare dalla logica delle procedure alla gestione per obiettivi? 2) Quali sono le maggiori criticità su cui intervenire?

 

            Un bilancio di dieci anni. Il bilancio appare molto articolato, fatto di luci ed ombre.

 

            Le nuove metodologie si sono diffuse e sono state applicate abbastanza bene – sebbene in modo non uniforme - negli enti locali e negli enti pubblici, forse perché più vicini agli utenti e chiamati ad erogare servizi più agevolmente misurabili. Forte sensibilità ha anche manifestato la Conferenza dei Presidenti delle Regioni e Province autonome, che ha demandato ad un apposito gruppo di lavoro, coordinato dalla Lombardia, la messa a punto di metodologie e modelli. Alcune Regioni sono decisamente avanti su questa strada [3].

 

Meno bene, invece, sono andate le cose nei Ministeri che – con alcune importanti eccezioni – hanno registrato maggiori ritardi e difficoltà. Qui, nello scorso decennio, l’attenzione è stata catturata prevalentemente dalle questioni concernenti lo status del personale, gli incarichi dirigenziali e il riparto di ruoli tra organi politici e dirigenza. Minore attenzione è stata dedicata invece – e lo ha lamentato più volte la Corte dei Conti, con rapporti e indagini a cadenza pressoché annuale a partire dal 1997 [4]– alla parte sicuramente più innovativa della riforma: adozione delle direttive annuali dei ministri sull’attività amministrativa e sulla gestione e attivazione dei sistemi valutazione e controllo strategico e degli altri controlli interni previsti dal d.lgs. n, 286/1999.

 

            Un deciso cambiamento è però intervenuto in quest’ultimo biennio. Infatti il Presidente del Consiglio, attraverso due apposite direttive indirizzate ai Ministri nel novembre 2001 e nel novembre 2002, ha richiamato con forza l’attenzione sulla pianificazione annuale di priorità e obiettivi strategici e sul monitoraggio e valutazione della gestione amministrativa.

 

Il Ministro della Funzione pubblica ha lanciato un apposito programma, denominato “Governance”, per promuovere la diffusione, nelle amministrazioni statali, regionali e locali, delle tecniche e dei sistemi – programmazione e valutazione strategica, project management, bilancio economico, contabilità analitica, controlli di gestione – che sono supporto necessario per una gestione orientata agli obiettivi.

 

Il Comitato tecnico-scientifico per la valutazione e il controllo strategico della Presidenza del Consiglio, infine, ha monitorato, in raccordo con il Dipartimento della Funzione pubblica, l’attuazione delle nuove metodologie presso le amministrazioni statali[5], ha elaborato linee guida per la ottimale impostazione delle direttive annuali dei Ministri sull’attività amministrativa e sulla gestione per il 2003 ed ha attivato una rete di raccordo con i Servizi di controllo interno operanti nelle singole amministrazioni.

 

E i progressi sono arrivati. Le direttive dei Ministri per il 2002 sono state adottate tutte con una tempestività mai in precedenza sperimentata. La qualità dei relativi contenuti – definizione degli obiettivi e dei programmi esecutivi e previsione di parametri temporali e quantitativi idonei all’effettivo monitoraggio dei risultati – per quanto ancora molto perfettibile ha registrato, comunque, un notevole miglioramento. Diversi Ministeri hanno progettato e attivato, almeno sperimentalmente, sistemi per verificare costantemente la realizzazione degli obiettivi, per controllare la gestione e per valutare i dirigenti. E’ ragionevole attendersi, nel 2003, ulteriori miglioramenti.

 

Qualcosa, dunque, si muove nel mondo diversificato delle Pubbliche Amministrazioni. A dieci anni dal d.lgs. 29/1993, la strategia di cambiamento sin da allora impostata comincia a sedimentare.

 

Eppure, sembra ancora troppo poco. Non si spiegherebbero, altrimenti, le valutazioni critiche – certo controvertibili, ma non ignorabili - di diversi istituti internazionali di ricerca, i quali continuano a sottolineare le scadenti prestazioni dell’Italia nella graduatoria dell’efficienza economica, dovute ad inefficienze delle aziende, a carente qualità della normazione e alla persistente rigidità e scarsa funzionalità del sistema amministrativo[6].

 

*****     *****

 

Quali sono, oggi, a mio avviso, le maggiori criticità su cui agire? Ne indico rapidamente tre.

 

            La prima criticità riguarda la ancora troppo debole identità di corpo, culturale e professionale dell’alta dirigenza italiana.

 

Studiosi quali Massimo Severo Giannini, Sabino Cassese e Marco D’Alberti hanno sottolineato come, a differenza che in Francia o nel Regno Unito, fin dall’Unità d’Italia sia spesso mancato, tra i nostri dirigenti, il senso di appartenenza ad un corpo comune, così come l’adesione a comuni valori professionali. Le eccezioni rappresentate da alcune specifiche carriere - grands corps, li chiamerebbero i francesi – non dissimulano il problema della dirigenza pubblica in generale.

 

Il Ministro della Funzione Pubblica ha sottolineato, ieri, che questa situazione è stata certamente aggravata, durante l’ultimo decennio, non tanto dalle riforme amministrative in sé, ma dalla spesso superficiale rappresentazione che ne è stata fatta dai commentatori meno avvertiti.

 

Quando un complesso insieme di misure teso a spostare il focus dell’azione amministrativa sugli obiettivi, sui risultati e sul miglioramento del servizio agli utenti viene “sintetizzato e tradotto” in formule quali “finalmente i dirigenti pubblici potranno essere licenziati”, oppure “finalmente le pagelle ai dirigenti”, l’effetto negativo è duplice. Primo, si alimenta nei cittadini la convinzione che la Pubblica Amministrazione sia qualcosa di negativo, che merita di essere penalizzato. Secondo, si delegittima e demotiva la dirigenza pubblica, inducendola a vedere nelle riforme una minaccia anziché un sostegno.

 

            Una priorità è, allora, aiutare la dirigenza pubblica a consolidare la propria identità professionale, la propria percezione di essere un corpo unitario al vertice delle Pubbliche Amministrazioni. Occorre, cioè, investire nuovamente sulla dirigenza: attraverso l’aggiornamento sulle nuove tecnologie e sui metodi di management, attraverso il coinvolgimento costante dei dirigenti nei processi decisionali, attraverso un’opera continua di legittimazione dei dirigenti all’interno delle amministrazioni e davanti all’opinione pubblica. Occorre investire sulla capacità dell’alta burocrazia di essere componente essenziale per il funzionamento delle Istituzioni, per l’armonioso sviluppo della comunità e per lo sviluppo economico del Paese.

 

*****     *****

 

            La seconda criticità è quella che potremmo definire “del rapporto tra garanzia ed efficienza/efficacia”.

 

E’ utile, in proposito, ricordare che un anno dopo il dPR 748/1972 – il quale riconobbe, per la prima volta, poteri di gestione propri alla dirigenza statale – un convegno a Catania di autorevolissimi giuristi, tra cui Vittorio Bachelet e Giovanni Nigro, richiamò l’attenzione sulla tensione che, in qualche modo, oppone due fondamentali princìpi dell’ordinamento relativi all’organizzazione e all’attività della pubblica amministrazione: principio di garanzia e principio di efficienza/efficacia. Nel 1996 – tre anni dopo la nuova riforma della dirigenza pubblica – a Roma, un altro grande convegno (relatori Giovanni Conso, Giuseppe Carbone, Domenico Fisichella, Franco Frattini e Luciano Violante) presso la Corte dei Conti è stato intitolato “Gli amministratori pubblici fra legalità ed efficienza”.

 

            Dunque, che tra garanzia ed efficienza/efficacia possa esservi tensione è un dato autorevolmente riconosciuto.

 

Il principio di garanzia subordina l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni a regole predeterminate, pone vincoli alla discrezionalità amministrativa, promuove la partecipazione degli interessati ai percorsi decisionali dell’amministrazione, comporta verifiche di correttezza formale e sostanziale sulle scelte amministrative sia d’ufficio (controlli) che su azione degli interessati (ricorsi amministrativi e giurisdizionali) e – in definitiva – limita il potere pubblico in nome di valori fondamentali di giustizia e di democrazia. Esso si traduce, inevitabilmente, in un fattore di minore rapidità, snellezza e flessibilità dell’amministrazione.

 

D’altra parte, l’organizzazione e l’azione delle pubbliche amministrazioni devono essere quanto più possibile economiche e produttive per contenere al minimo il peso fiscale e il conseguente assorbimento di risorse dai singoli cittadini e dal sistema economico; flessibili per rispondere al meglio ai bisogni e alle attese della collettività; congrue e ragionevoli sia nel rapporto tra mezzi e obiettivi, sia quanto al contenuto delle scelte fra gli interessi in campo.

 

            L’essenza della tensione tra garanzia ed efficienza/efficacia sta, allora, in ciò: gli ordinamenti democratici consapevolmente sacrificano una quota di efficienza/efficacia in nome della salvaguardia di interessi e valori che non attengono alla sfera economica, ma ad altri ambiti.

 

            Il punto è quale equilibrio stabilire tra questi interessi e valori. Un equilibrio che, naturalmente, non è mai definito immutabilmente una volta per tutte, ma risente continuamente di nuove spinte e deve tener conto della evoluzione dei fattori istituzionali, culturali ed economici.

 

            Ebbene, credo che oggi le Pubbliche Amministrazioni del nostro Paese stiano incontrando le difficoltà tipiche delle fasi di transizione, quando modelli ed equilibri da lungo tempo praticati sono messi in discussione ma, ancora, non si sono stabilizzati i nuovi modelli e i nuovi equilibri.

 

            Si spiega probabilmente così la permanenza, in misura da molti ritenuta ancora troppo pervasiva, di controlli giuridico-amministrativi su atti anche di modesto rilievo nello stesso momento in cui vengono introdotti nuovi e penetranti controlli economico-gestionali sui risultati complessivi dell’attività. L’esito è un sovradimensionamento complessivo dei controlli che non fa certo bene alla snellezza, rapidità e flessibilità dell’azione amministrativa. E questo è vero anche se una quota di controlli giuridico-amministrativi, riferiti agli atti di maggior rilievo, è e sarà sempre irrinunciabile, nelle Pubbliche Amministrazioni, in nome del pubblico interesse. Forse, un tavolo di confronto tra organi di controllo e amministrazioni controllate potrebbe aiutare a trovare un giusto equilibrio.

 

            Si spiega così, ancora, l’incompiutezza – secondo molti studiosi e operatori – della riforma dell’ordinamento contabile e di bilancio varata nel 1995-97. Riforma che, pur avendo ampliato le condizioni di flessibilità gestionale rispetto al passato, ha tuttavia mantenuto una struttura di bilancio forse ancora troppo articolata e, soprattutto, incentrata su centri di responsabilità laddove la logica della gestione per obiettivi sembrerebbe spingere verso un bilancio costruito intorno alle missioni e agli obiettivi di policy. Da questo punto di vista, per esempio, i francesi, pur partiti dopo di noi, sembrano essersi mossi con convinzione maggiore.

 

            E si spiega così, soprattutto, il modesto successo conseguito, nel passato decennio, dalle politiche di semplificazione normativa. L’idea che la tutela degli interessi della collettività passi sempre e necessariamente attraverso norme e, soprattutto, attraverso una minuta regolamentazione anche delle procedure, è ancora fortissimamente radicata. Ma ciò è sicuramente in contraddizione con quell’incremento della flessibilità e snellezza operativa e, più in generale, della discrezionalità amministrativa, che sarebbe richiesto dalle esigenze di efficienza e di efficacia. In altri termini, l’ambiente normativo appare ancora oggi tanto complesso e intricato – la “giungla” delle 50.000 leggi, cui Michele Ainis ha intitolato un paio di anni fa un agile e ironico saggio – da diventare più volte un ostacolo oggettivo per gestioni manageriali ed orientate ai risultati.

 

            E vengo, infine, alla terza criticità. Mi riferisco all’approccio troppo tecnocratico che ha caratterizzato, a volte, parti importanti delle riforme amministrative e, in particolare, le tematiche di cui oggi discutiamo.

 

In taluni casi, innovazioni rilevanti sono state elaborate e messe in pista senza coinvolgere o senza sensibilizzare adeguatamente tutti gli attori che avrebbero dovuto gestirle: organi politici e dirigenza. Non si tratta di una novità assoluta: si è semplicemente riproposto un difetto altre volte lamentato del nostro approccio alle riforme della Pubblica Amministrazione. E, come nel passato, l’effetto o il rischio è sempre lo stesso: la mancata o limitata attuazione!

 

            La riprova è data proprio dal cambiamento di passo che, come ho poc’anzi ricordato, il modello della gestione per obiettivi ha registrato nel biennio 2001-2002. Cambiamento di passo favorito dalla sensibilizzazione degli organi di vertice dei ministeri su opportunità e vantaggi del nuovo approccio e dall’avvio di un piano di cooperazione e assistenza tecnica alle amministrazioni sui sistemi di programmazione, valutazione e controllo strategico.

 

            Non vi è dubbio, tuttavia, che oggi ci troviamo di fronte ad un passaggio cruciale per la credibilità del processo di cambiamento.

 

O, grazie all’azione, all’impegno e, vorrei dire, alla “visione” comune di tutti i soggetti coinvolti, i princìpi e le metodologie della gestione per obiettivi riusciranno ad imporsi effettivamente, nei prossimi 2-3 anni, nella azione delle amministrazioni statali. Oppure questo tentativo di riformare e cambiare la macchina dello Stato entrerà in una fase di declino progressivo. Non è possibile, infatti, mantenere a lungo la tensione su una idea senza segnali visibili, continui e, soprattutto, solidi di cambiamento.

 

            Beninteso, non può sfuggire che la trasposizione di modelli operativi di ispirazione aziendalistica in amministrazioni con funzioni principalmente di indirizzo e coordinamento - quali ormai stanno diventando molte amministrazioni centrali - è meno agevole che in amministrazioni di line o che gestiscono direttamente servizi. E, tuttavia, il rischio che ho detto esiste e credo che tutti noi dobbiamo essere avvertiti delle possibili conseguenze.

 

            Come ho già accennato, il mondo degli enti locali e, più recentemente, anche quello delle Regioni hanno mostrato – forse anche in quanto più vicini agli utenti - più dell’amministrazione statale sensibilità ed interesse per i nuovi modelli di gestione per obiettivi. Sia fra gli organi politici che fra i dirigenti sembra qui diffondersi effettivamente la consapevolezza che pianificazione e controllo strategico, direzione e gestione per obiettivi, bilancio economico ed analitico e altri strumenti di governance possono essere, se ben impiegati, non un adempimento, ma ausili importanti per orientare, sostenere, controllare e migliorare sia le politiche pubbliche che la gestione amministrativa.

 

            Vi è dunque il rischio di una divaricazione.

 

Da un lato, già abbastanza consistente e via via crescente per dimensione, un gruppo composto da diverse amministrazioni regionali, enti locali ed enti pubblici nonché da alcune amministrazioni statali, più innovativi, efficaci, efficienti, capaci di elaborare strategie e politiche incentrate su obiettivi chiari e predefiniti e capaci di realizzarle con coerenza in sede di gestione. Un gruppo di amministrazioni di livello europeo, meno costose, orientate al servizio dei cittadini, capaci di vivere il cambiamento come regola gestionale continua.

 

Dall’altro lato, la parte restante dell’amministrazione dello Stato e degli altri enti, statici e ancorati a modelli operativi segmentati e senza strategia. Non può sfuggire che questo secondo gruppo di amministrazioni è esposto, anche per effetto dei confronti, ad un pericolo di declino e di perdita di legittimazione agli occhi dell’opinione pubblica. Le ulteriori conseguenze sono agevolmente immaginabili.

 

*****     *****

 

Concludo con una considerazione sul rapporto tra riforma amministrativa e riforma istituzionale.

 

Le riforme volte ad introdurre logiche di efficienza, efficacia, economicità e orientamento ai risultati nell’azione delle Pubbliche Amministrazioni sono destinate ad avere maggiore successo là dove questi non sono soltanto obiettivi del legislatore, ma divengono obiettivi quotidiani della politica.

 

E ciò avviene più facilmente se sussistono due condizioni: a) che i servizi erogati dall’amministrazione siano vicini agli interessi dei cittadini; b) che vi sia sintonia e coerenza tra riforme amministrative e modello istituzionale.

 

Forse, se la logica della gestione per obiettivi e l’attenzione per i valori di efficienza/efficacia si sono diffuse, in questi anni, maggiormente fra gli enti locali, le regioni e gli enti pubblici che nei Ministeri, una spiegazione sta nel fatto che i ministeri sono più lontani dagli utenti e raramente erogano, in modo diretto, servizi alla collettività. Difatti, alcune eccezioni tra i ministeri riguardano quelli che svolgono funzioni e servizi con cui cittadini e imprese si confrontano quotidianamente.

 

Analogamente non è, forse, senza rilievo che il fatto che enti locali e regioni siano stati interessati, in questo decennio, da riforme istituzionali. Anche ad esse va, forse, il merito di aver portato, qui più che altrove, efficienza, efficacia e orientamento ai risultati al rango di obiettivo politico primario. Dunque, il messaggio che ci viene dall’osservazione dei fatti può essere questo: che le riforme istituzionali – cioè la testa – e le riforme amministrative – cioè il corpo - si tengono per mano e si condizionano reciprocamente. Credo che se ne debba tenere conto.

 



[1] Capo Dipartimento della Funzione Pubblica

[2] Corte dei Conti, Sezione controllo Stato, Indagine intersettoriale sul funzionamento dei Servizi di controllo interno e sullo stato di attuazione del d.lgs. 286/1999 nelle amministrazioni dello Stato nel 2001, dattiloscritto, par. 1.1, pag . 5

[3] Si veda la “Rilevazione sullo stato di attuazione della legislazione sui controlli e sul bilancio nelle Regioni e Province autonome” effettuata, nel novembre 2001, dalla Conferenza permanente dei Servizi di controllo interno delle Regioni e Province autonome. Una nuova rilevazione, aggiornata alla fine del 2002, è sul punto di essere completata.

[4] Si vedano, principalmente:  Relazione sull’attuazione del d.lgs. 29/1993” (sez. controllo, II collegio, deliberazione n. 101/1997; “Osservazioni al Presidente del Consiglio e al Ministro per la funzione pubblica in tema di direttive ministeriali generali di indirizzo politico-amministrativo per l’esercizio finanziario 1998” (sez. riunite, deliberazione n. 25/1998); “Osservazioni al Presidente del Consiglio e al Ministro per la funzione pubblica in tema di direttive ministeriali generali di indirizzo politico-amministrativo per l’esercizio finanziario 1999” (sez. riunite, deliberazione n. 22/1999); “Relazione sul rendiconto generale dello Stato per l’esercizio finanziario 1999” (ivi, specificamente, parte II, cap. IV, par. 8); “Indagine intersettoriale sul funzionamento dei Servizi di controllo interno e sull’attuazione del d.lgs. 286/1999 nelle amministrazioni dello Stato nel 2001”, cit.

 

[5] Il monitoraggio è consistito, in particolare, in una indagine conoscitiva (audit) sulle modalità concretamente seguite, nei diversi Ministeri, per predisporre la Direttiva generale del Ministro sull’attività amministrativa e sulla gestione per il 2002. Sono stati intervistati, a tal fine, i componenti dei Servizi di controllo interno, i Segretari generali e Capi Dipartimento e i Capi di Gabinetto. Due specifici rapporti, riferiti a profili differenti, sono stati elaborati rispettivamente, a metà 2002, dal Comitato tecnico-scientifico sulla valutazione e il controllo strategico e dal Gruppo di lavoro del Progetto Governance del Dipartimento della Funzione Pubblica.

[6]  Cfr., ad esempio, il World Competitiveness Yearbook (WCY) curato dall’IMD di Losanna, che nel 2002 ha classificato l’Italia 29° su 50 Paesi sviluppati ed “emergenti” nell’efficienza aziendale e addirittura 39° nell’efficienza della PA. Si veda anche l’Overall Competitiveness Ranking elaborato annualmente dal World Economic Forum, che pure assegna, nel 2002, al 39° posto su 80 Paesi quanto a “capacità di ottenere una crescita economica sostenuta nel medio termine” e fonda tale classifica anche su un indice di funzionalità delle istituzioni pubbliche.


 

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