«Segreti di Stato»: ho visto un bel film. A tratti
L’opera di Benvenuti oscilla tra l'indagine e l'enunciazione dì un teorema sostenuta con immagini fin troppo simboliche. Ma la ricostruzione storica è minuziosa

di Alberto Crespi

"l’Unità",  30 agosto 2003

 

 

I «segreti di Stato» sono comparsi sullo schermo della Mostra di Venezia, e ci accompagneranno ancora a lungo. Per due motivi: perché il film di Paolo Benvenuti, è auspicabile, durerà nel tempo, e farà assai parlare di sé; e perché molti misteri rimangono aperti. Il film non esaurisce alcun discorso su Portella della Ginestra, sui bandito Salvatore Giuliano, sulle sanguinose lotte per il potere che si combatterono, sotto traccia, nell'Italia dal '45 al '48. “Segreti di Stato”, ad esempio, dice parole fortissime su alcuni uomini della DC, in particolare sull'altura ministro degli Interni Scelba che viene sostanzialmente indicato come il mandante della strage; ma non approfondisce, a differenza di quanto ha fatto Benvenuti nelle interviste fin qui apparse, il ruolo dell’Oss (i servizi segreti americani, poi chiamali CIA). Il film afferma a chiare lettere che nel dopoguerra si fece di tutto, a livello politico e criminoso, per tener lontani i comunisti dal governo del paese. Ma su CHI fece COSA, molte cose vanno ancora scoperte, e forse non si scopriranno mai.

Segreti di Stato non è, diciamolo subito, una ricostruzione della strage di Portella della Ginestra, che avvenne il 1 maggio del 1947. A differenza del vecchio capolavoro di Francesco Rosi, che iniziava con l'uccisione di Giuliano per poi andare a ritroso, Benvenuti parte dal processo di Viterbo del '51 e mette subito le cose in chiaro: un onorevole «ovviamente» democristiano sì reca in carcere a commissionare a un detenuto il silenzio di Pisciotta (l'ottimo David Coco). Il luogotenente di Giuliano viene assassinato all'Ucciardone, il carcere di Palermo, solo nel '54, prima che potesse dire i veri mandanti della strage e ventiquattr’ore prima che Scelba giurasse come nuovo Primo Ministro della Repubblica. L'omicidio è messo in scena con una «novità»: la vecchia storia del caffè avvelenato è una messinscena per far credere a una vendetta mafioso interna alla prigione, in realtà l'arma del delitto è un medicinale fornito dall'infermeria del carcere. Fra l'ingresso in scena di Pisciotta e la sua eliminazione, c'è la lunga indagine del suo avvocato (Antonio Catania) che scopre elementi sempre più inquietanti sulla dinamica della strage. Ad esempio: che Giuliano e i suoi non erano soli, che i colpi sui manifestanti arrivarono da diverse direzioni, che gran parte dei feriti venne colpito da schegge di granata mentre i banditi usarono dei mitra, che Giuliano aveva ordinato ai suoi uomini dì sparare in aria, e che il segnale per l'inizio della sparatoria doveva essere l'arrivo della macchina del segretario regionale del Pci, Li Causi, sequestrato e assassinato. Pare che Giuliano pensasse che Li Causi fosse l'unico obiettivo, ma che si trattasse di una falsa pista per «incastrare» il bandito: mafia e carabinieri concordarono all'ultimo momento di non uccidere l'uomo politico e di perpetrare, bensì, la strage, compiuto non dagli uomini di Giuliano ma da altri sicari. Nuovi documenti farebbero ipotizzare il coinvolgimento degli americani, ma di questo, nel film, non si parla se non in modo allusivo.

La continua alternanza fra documentazione (anche assai minuziosa) e allusione è la vera dinamica del film e, in un certo senso, la sua debolezza. “Segreti di Stato” è un'opera oscillante. A tratti sembra di seguire un'indagine, e sono i momenti più forti; a tratti sembra di assistere all'enunciazione di un teorema, come nella scena in cui il «professore» (storico di sinistra, uno dei tanti personaggi senza nome del film) spiega all'avvocato le tante strane coincidenze della storia siciliana e compone sul tavolo, con delle «carte» che riproducono i personaggi della vicenda, uno scudo crociato in cui si parte da Giuliano e Pisciotta per arrivare a Truman, a De Gasperi e a Papa Pacelli. Poi, una folata di vento fa volare via tutto... La scena è fortemente simbolica, fin troppo, e qui arriviamo anche all'oscillazione stilistica del film. Benvenuti alterna brani quasi documentaristici a lunghe sequenze di impianto teatrale, in cui la finzione raggiunge toni astratti, didattici. Il film diventa bello solo quando i due livelli si fondono,come nello stupendo piano-sequenza finale sulla morte di Pisciotta. Altrove resta la sensazione di un lavoro non risolto, ancora «in progress», fin troppo compresso nella durata di 85 minuti, e sicuramente poco comprensibile per chi non sia già esperto della vicenda.

E lasciamo perdere ogni paragone con il Salvatore Giuliano dì Rosi. Quello era un film miracoloso, che si appropriava di linguaggi (il reportage, la cronaca televisiva, il cinegiornale) ancora giovani, freschi, potenti, ricavandone un concentrato di cinema puro. Era in bianco e nero, e in Segreti di Stato la fotografia di Giovanni Battista Marras di tanto in tanto «urla» la propria voglia di essere in bianco e nero. Quella era un'epoca di grandi cinema. Diversa dalla nostra.