Portella. L’ultima “verità” su Giuliano

di Francesco La Licata
"La Stampa", 29 agosto 2003
 

 

La storia di Salvatore Giuliano sarebbe poca cosa senza la tragica parentesi della strage di Portella della Ginestra. Ė a Portella (1° Maggio 1947), tra quei contadini massacrati da mitragliatrici che vomitavano fuoco dall'estremità della Rocca, che l'asfittico bandito - un po' mafioso, un po' anarcoide, ora arrogante ora servile ma sostanzialmente senza il respiro lungo del “personaggio” - prende forma ed immagine. Fino a insediarsi, grazie anche ad una suggestiva campagna mediatica alimentata soprattutto dalle bugie, dalle reticenze, dai depistaggi istituzionali, nella memoria non solo siciliana. Fino a divenire, come hanno sottolineato diversi storici e critici, uno dei primi protagonisti della comunicazione di massa, per usare un termine caro agli specialisti pubblicitari. Da più di cinquant’anni “Turiddu” Giuliano, che il film del maestro Rosi ci ha consegnato avvolto nello “spolverino” bianco mai più dismesso, fa discutere, fa litigare storici, politici, cineasti ed artisti di ogni genere. La lite tra lo storico Casarrubea e il regista Benvenuti è solo l'ultima, in ordine di tempo, preceduta da altri dibattiti attorno alla valuta-zione da dare al “personaggio Giuliano”: bandito, eroe che ruba ai poveri per dare ai ricchi, manutengolo della mafia o fiero indipendentista? Condottiero solitario o “pupo” nelle mani, di volta in volta, di burattinai come gli agrari finanziatori della mafia o come i servizi segreti americani che “pianificavano” il nuovo potere in Sicilia con l'imperativo anticomunista? Difficilmente conosceremo, a breve termine, una qualche parola definitiva sulla querelle. Ma una cosa è certa: ogni volta arriva qualcuno agitando uno scoop che, ad una più cauta lettura, va a depositarsi nelle montagne di ipotesi e ricostruzioni più o meno provate. La verità storica non sembra vicina. Tanto che, col passare degli anni, sulla storia di “Turiddu” ha fatto irruzione una vasta produzione artistico-leiteraria, a riprova della grandezza immaginifica del personaggio, tanto utile all'ispirazione letteraria quanto ostico al rigore storico.

Eppure, alla resa dei conti, sembra di poter concludere che al logorio del tempo continua a reggere una delle primissime “storie” di Giuliano. Quella di Francesco Rosi (1961), che non è affatto soltanto il racconto della vita e della morte di un uomo, ma - nello stile rigoroso del regista napoletano - l'affresco della nostra storia raccontato attraverso le singole vicende umane. Rosi racconta un pezzo di storia siciliana e nazionale servendosi del “bandito” quasi come un pretesto. E infatti “Turiddu”, alla fine, non sembra essere il protagonista del film, schiacciato com'è dal peso dei poteri (legali e criminali) e della politica. Il film fu girato quando non era ancora sopita l'eco di uno dei primissimi misteri italiani, con l'esecuzione di Giuliano ucciso non si sa ancora da chi, con Pisciotta (indicato come traditore e assassino del “re di Montelepre”) avvelenato in carcere e col processo di Viterbo tutt'altro che foriero di certezze giudiziarie. E già Rosi aveva tracciato e identificato l'affaire: gli interessi americani alla gestione del “caso Giuliano”, la politica (già allora) “trattativista” di tutti i vari commissari preposti all'azione di contrasto al banditismo.

Ma accanto alla pietra miliare di Rosi si è sviluppata periodicamente una variegata produzione artistica, non sempre benefica ai fini della comprensione di quel periodo buio. Pochi, per esempio, ricorderanno un altro film, prodotto pure nel 1961 e scritto da Giuseppe Berto: “Morte di un bandito”, interpretato da Francisco Rabal, con accanto un insolito Albertazzi e un giovane Fantoni.

Eppure, prima del cinema, le “gesta” di Giuliano eroe popolare venivano portate di piazza in piazza da artisti da strada, i cuntastorie alla Turiddu Bella o alla Ciccio Busacca. Strofe in rime dialettali di ispirazione epica, cantate con l'accompagnamento della chitarra ed illustrate, come in un fotoromanzo dipinto a mano, nei “quadri” di variopinti tabelloni che, a fine spettacolo, venivano avvolti e riposti nelle sacche da viaggio. Era la fine degli Anni Cinquanta e il poeta siciliano Ignazio Buttitta aveva già scritto i bellissimi versi che spiegavano “La vera storia di Salvatore Giuliano”: il primo tentativo di strappare a “Turiddu” l'alone di “eroe alla Robin Hood”, per fargli indossare i panni di criminale ma alla fine poverocristo strumentalizzato dal potere. Ed anche la poesia popolare, come Rosi, vede nella storia del bandito la tragica vicenda collettiva dei siciliani: “ficiru di iddu tutti l'usi/ ca ci sirviu e ora un servi cchiù/ sti genti sunnu sempri a li cumanni”, chi usò Giuliano, cioè, comanda ancora.

Ma neppure Hollywood ha resistito al fascino di “Turiddu”. Nel 1987 ci ha provato Cimino con “II Siciliano” di Mario Puzo, che non ha fatto breccia appunto per l’estrema disinvoltura nell’ignorare il contesto storico. E, incredibile, “Giuliano” è stata opera lirica, nel 1986, esportata addirittura in Germania. L’ultimo “esordio”, come musical, a Taormina Arte nel 2001. Ora il film di Benvenuti e le polemiche su “chi armò la mano di Giuliano”.