CINEMA PER AFFERMARE LA PAROLA NEGATA
Intervista a cura di Mariella Cruciani
Cinecritica n. 22/23 aprile-settembre 2001


 

Il bisogno di raccontare le storie nascoste, quelle che i libri di storia non raccontano, le storie della classe dominata. Film con al centro umili eroi che lottano, resistono, non si rassegnano, avendo come unica forza la propria verità. Quello di Paolo Benvenuti è un cinema austero e non riconciliato. Un cinema "altro", orgoglioso di esserlo.

- Il bacio di Giuda, il suo primo lungometraggio, ricorda molto Acto da primavera di Manoel de Oliveira, soprattutto per il tema della sacra rappresentazione e il legame con il teatro. E' d'accordo?

- C'è, inconsapevolmente, un'origine comune tra me e De Oliveira. Intanto devo dire che, anche se molti credono che io abbia esordito con Il bacio di Giuda, in realtà, ho cominciato a fare cinema venti anni prima, nel '68. Nel 1971 ho realizzato un film, Medea, con i contadini di un paesino dei monti vicino Pisa e, attraverso loro, sono entrato in contatto con la cultura popolare e la sacra rappresentazione: Il bacio di Giuda si portava dietro la lezione che avevo ricevuto da questa esperienza.
A quel tempo facevo l'aiuto regista di Jean-Marie Straub, il quale, in questo stesso paesino, Buti, ha poi girato Operai, contadini. Anche Dalla nube alla resistenza è girato nello stesso luogo, un luogo particolarmente magico dove sopravvive una cultura teatrale, epica, molto importante.
Nel momento in cui ho visto il film di De Oliveira ho capito che c'erano moltissime assonanze con il mio, addirittura delle inquadrature uguali.

- Giuda, nella prima scena del film, dice: "Questa è la cronaca di Matteo, la più precisa…". E' un omaggio a Pasolini e al suo Vangelo?
Tra l'altro, nel suo film ci sono molte sequenze, per esempio quella della cacciata dei mercanti dal tempio, che evocano, figurativamente, il cinema pasoliniano…


- La formazione culturale, pittorica, pasoliniana è molto vicina alla mia: io vengo dalla pittura. Sono un ex-pittore, o meglio, sono un pittore che, ad un certo punto, ha smesso di utilizzare il pennello e la tela per usare la cinepresa. Lo spirito, però, è lo stesso e l'amore per la storia dell'arte, soprattutto per la cultura italiana rinascimentale, manierista, barocca, è alla base delle mie scelte.

- Il gioco di luci in Confortorio rimanda a Caravaggio.

- Nasce dalla lezione di Caravaggio ma, in realtà, sono i fiamminghi post-caravaggeschi. Ci sono tutta una serie di pittori, che operano a Roma nello stesso periodo della vicenda narrata nel film, i quali si portano dietro la lezione del Caravaggio. Questo perchè lo Stato Pontificio era fortemente conservatore, non solo dal punto di vista politico, ma anche culturale. Mentre nel resto d'Europa i Lumi illuminavano la pittura, per cui esplodevano i rosa, i bianchi, gli azzurri, ecc, il conservatorismo culturale tipicamente pontificio influenzava moltissimo i pittori che operavano a Roma nel Seicento-Settecento, i quali continuavano a dipingere all'antica. Facendo un film ambientato nell'oscurantismo dello Stato Pontificio, non potevo non fare riferimento a quel clima culturale: è lì che affondano le radici dell'iconografia del film.

- In Confortorio, uno dei due protagonisti ebrei, di fronte alla violenza della forzata conversione ("Il tuo Dio e il nostro Dio sono uno stesso Dio"), replica, con forza: "Il mio Dio non impone, è…".

- E' lo scontro profondo, ideologico che c'è tra cattolici ed ebrei, tra due diverse concezioni di Dio. I cattolici fanno proselitismo: hanno un Dio da imporre alle masse. Gli ebrei, no.

- Per Tiburzi quali sono stati i riferimenti iconografici?

- Ogni film è definito storicamente e, pertanto, iconograficamente: c'è sempre una relazione molto stretta tra il periodo in cui il film è ambientato e il riferimento pittorico che influenzava quell'epoca. Per quanto riguarda Il bacio di Giuda, il riferimento è la storia della pittura da Giotto a Masaccio, a Piero della Francesca, cioè la pittura toscana del Rinascimento, fino ad avvicinarci al Barocco. Il Barocco esplode in Confortorio.
Per Tiburzi, i riferimenti iconografici sono stati i macchiaioli, i pittori di genere ottocentesco, realisti, che operavano in Italia nella seconda metà dell'Ottocento, ma anche l'iconografia popolare, per esempio i tableaux dei cantastorie o l'iconografia degli ex-voto. Il film si muove tra due classi sociali, la borghesia e il mondo contadino, usando come riferimento anche i fratelli Alinari che hanno fotografato la Maremma dell'Ottocento e i Lumiere. Non dimentichiamoci che il 1896, l'anno dell'uccisione di Tiburzi, è anche l'anno della nascita del cinema. Non solo: c'è un riferimento preciso alla Francia. Tiburzi torna da lì ed è come se si portasse dietro la scia di qualcosa che va colto, cioè proprio la nascita del cinema. Per Gostanza da Libbiano il discorso si sposta sul manierismo e soprattutto su Angelo Bronzino. Tutto questo, non per dire che faccio dei film in cui cerco di riprodurre i quadri ( l'ho fatto, magari, in Confortorio), bensì il contrario, cioè parto dalla pittura per arrivare al cinema.
Questo procedimento, con Gostanza da Libbiano, credo di averlo sottolineato abbastanza, addirittura eliminando il colore.

- Dal punto di vista dei contenuti, una costante del suo cinema è la difesa delle minoranze…

- Di coloro che non hanno mai avuto diritto di parola: io cerco, in qualche modo, di ridare loro questa parola negata.
C'è un film che amo molto tra i miei cortometraggi: Il Cartapestaio.
La mia ricerca è questa: la conservazione, la rivisitazione della memoria, la difesa di coloro che, nella storia, non hanno avuto il diritto di affermare la propria verità, il proprio punto di vista. Il punto di vista delle cosiddette minoranze che, alla fine, sono maggioranze, se si guarda bene… E' un gioco per mettere in ridicolo questa democrazia del cavolo che si riempe la bocca di parole come giustizia, diritto: in realtà, poi, è tutta una presa in giro!

- In questa battaglia contro-corrente non si sente solo?

- E' una scelta. E' un atteggiamento anche un po' nichilista, forse, ma è l'unico modo. Molti dicono che siamo degli ex-sessantottini: io credo di non essere mai stato nemmeno sessantottino. Ero naturalmente uno, allora, a venti anni, che lottava contro certe ingiustizie e a favore di certe idee di giustizia.
Io sono rimasto quello là: sono invecchiato di trenta anni ma porto avanti le stesse istanze: se altri hanno preso altre strade, fatto altre scelte, sono problemi loro. Io mi sforzo di essere coerente.

- Lei lavora ancora al Provveditorato e ha dichiarato che preferisce spedire pacchi e mettere dei timbri, piuttosto che girare degli spot pubblicitari…

- Quando, negli anni settanta, ho vissuto a Roma per qualche anno, ho deciso che non mi interessava fare il mestiere del "cinematografaro" perché mi avrebbe portato ad ingrossare le fila di quei personaggi ambigui che mangiano facendo spot pubblicitari per la FIAT e poi, magari, fanno film impegnati di sinistra. Siccome questi personaggi li conosco molto bene, non volevo fare la stessa fine. Amo troppo il cinema!

- Quali sono, allora, i registi che salverebbe?

- Io stimo molto Jean-Marie Straub: credo che sia, in Europa, forse il più grande regista contemporaneo. Mi interessa molto il lavoro che fanno Ciprì e Maresco in Sicilia, o l'attività di Marco Bechis. Non ho una grande frequentazione o entusiasmo per quella che si dice oggi la cosiddetta rinascita del cinema italiano. Ho un profondo distacco ideologico, culturale, critico, cinematografico, per esempio, da Nanni Moretti, che considero il mio opposto come autore. Moretti è un uomo di regime, fa un cinema di regime: di quel regime centrista che, da una parte, Berlusconi e, dall'altra, D'Alema, è pronto a governare per i prossimi cento anni l'Italia.
In qualche modo, la sua vittoria a Cannes conferma tutto questo.

- Ma lei ha visto La stanza del figlio ?

- Io ho lasciato Nanni Moretti venti anni fa: vedo tre inquadrature e mi basta per capire dove siamo… Non ho bisogno di vedere il film: mi basta un'inquadratura per capire dove si colloca uno ideologicamente, culturalmente, politicamente, filosoficamente, esteticamente.
Per me l'etica e l'estetica sono la stessa cosa. Se questo è vero, come assunto, non ho bisogno di vedere un film di un'ora e mezza per capire esteticamente, cioè eticamente, dove si colloca il signor Moretti: so dov'è e mi basta. I suoi film non fanno altro che confermarmi questa sua collocazione.
Io sono uno non riconciliato con il mondo, sono un autore che continua la sua opera di resistenza, per cui quelli che si sono, invece, conciliati, che si trovano all'interno di quel mondo, per me sono comunque dall'altra parte.
C'è qualcuno che continua a resistere, a provocare, a proporre, a lanciare delle scosse elettriche sacrosante: queste sono le persone che stimo. Le altre non mi interessano.

- Quindi, chi sono i suoi compagni di strada? E i suoi modelli, se ci sono?

- I miei compagni di strada sono, più o meno, quelli che ho già detto: sono molto pochi.
I miei modelli sono i grandi maestri della storia del cinema come Dreyer, Bresson, Ford, Hitchcock, Lang, Chaplin, Keaton, Tati, cioè quelle persone che hanno usato il linguaggio cinematografico come campo di ricerca.
Trovo che il cinema, come la pittura, come tutte le forme d'arte dell'uomo, debba essere un campo di ricerca: nel momento in cui diventa stereotipo o prodotto di mercato non mi interessa più perché, per quanto mi riguarda, è morto.
E' la stessa differenza che c'è tra la ricerca dei pittori cubisti dell'inizio del secolo e le tavole di Beltrame sulla <<Domenica del Corriere>>: sono due cose diverse. Entrambi usano i pennelli: però, i primi per aprire nuove possibilità di indagine, di ricerca, per allargare la mente dell'uomo, il secondo per illustrare la cronaca borghese di quel tempo.
Moretti è il beltrame del presente cioè colui che illustra i piccoli giochini, più o meno compromissori, del borghese medio italiano di oggi.

- Nei suoi film aleggia sempre una poesia, piuttosto inusuale, sconosciuta a buona parte del cinema contemporaneo…

- E' la poesia del mondo contadino italiano. L'Italia è stata per tremila anni una civiltà contadina, con radici profondissime, smantellata, poi, a colpi di maglio, dalla DC e dal PCI negli ultimi cinquanta anni.
Io ritengo responsabili culturalmente questi signori che ci hanno governato dal dopoguerra ad oggi di aver ucciso una civiltà e di averci costretto a vivere in un mondo privo di radici storiche, di memoria.
Per cui, tutti questi piccoli cantori della piccola borghesia italiana contemporanea non sono altro che i complici storici di chi ha ucciso la cultura e la civiltà contadina.
Una cultura e una civiltà raffinatissima: mentre il teatro borghese impazzava nei teatri italiani, la civiltà contadina produceva il teatro del maggio, il teatro popolare, epico, che, qualitativamente, era all'avanguardia e che è l'equivalente del teatro rivoluzionario di Bertolt Brecht.
Tiburzi è l'ultimo depositario di una cultura antichissima, etrusca e viene eliminato dal potere borghese che utilizza meccanismi criminali, mafiosi, per uccidere la Storia. La storia di Tiburzi è la nostra storia.

- Attualmente lei sta lavorando ad un film su Salvatore Giuliano…


- Significa portare ancora più vicino a noi questo percorso. C'è una continuità, una coerenza, in questo senso, nella mia ricerca.

- Accanto all'attenzione per le classi più deboli e per tutto ciò che rischia di scomparire, si avverte, nel suo cinema, una grande religiosità, un forte senso del sacro…


- Essere fedele alla tradizione culturale del mondo contadino significa essere consapevoli della profonda religiosità di queste radici. Anche i contadini di cultura laica hanno un rapporto con le cose, con la terra, con il pane, che è religioso. Persino il più ateo e comunista dei contadini non poggerà mai il pane a rovescio sul tavolo: c'è sempre un verso, come per il prete all'altare.
Questo senso di religiosità io lo sento profondamente, anche se sono ateo: ateismo non vuol dire mancanza di senso di religiosità, ma non credere nella religione definita, istituzionale.

- Come colloca, all'interno di questo discorso, il Cristo del suo film?

- Il bacio di Giuda è l'unico film non storico che ho fatto. Si tratta, invece, di un'opera metastorica, tanto è vero che è piena di anacronismi: ci sono, per esempio, soldati con armature del Cinquecento.
E' astorico perché non è la storia il suo riferimento ma la storia dell'arte.

- Sempre ne Il bacio di Giuda c'è una frase molto interessante: "Gli uomini creano gli dei e venerano le loro creazioni. Più conveniente sarebbe che gli dei venerassero gli uomini".

- Tutte le frasi presenti nel film sono rigorosamente testuali: sono tratte dai vangeli apocrifi e canonici. Quella è una frase del vangelo apocrifo di Tommaso, pronunciata dallo stesso Gesù. Messa lì, aveva il senso di aprire uno squarcio su quei vangeli messi all'indice dalla Chiesa nel 1400 e che, fino ad allora, avevano avuto la stessa dignità di tutti gli altri. La radice culturale è la stessa.

- Molto bella è la complicità che si instaura tra Cristo e Giuda…

- Cristo aveva bisogno di un suo alter-ego e ha scelto un intellettuale.
La cosa bella di Cristo è che faceva sempre il contrario di quello che tutti si aspettavano da lui.
La riprova è che sceglie un intellettuale per compiere un gesto come il tradimento e undici analfabeti per diffondere la parola. Proprio il contrario di quello che uno si aspetterebbe!

- Prima di Gostanza da Libbiano, l'universo dei suoi film è prevalentemente maschile. Come mai?

- Mi era capitato, casualmente, di raccontare storie maschili.
Mi interessavano determinati temi, nella mia ricerca, e, per caso, quei temi riguardavano solo l'universo maschile: le figure femminili apparivano ma erano senza spessore. Per questo sono stato anche accusato di essere un regista misogino: in realtà, io pensavo a Gostanza da Libbiano già da dieci anni. Infatti, ho cominciato a lavorare al film nel '90, poi l'ho realizzato nel '99. Ad un certo punto sapevo che avrei fatto un film del genere: ho avuto solo il problema di fare in modo che i critici aspettassero il film giusto per dire se sono davvero, o no, misogino.
Nel momento in cui mi sono posto il problema del femminile, l'ho affrontato con lo stesso rigore con cui, di solito, affronto tutto, compreso le scenografie, i costumi, le facce…

- Lucia Poli è bellissima e bravissima nel film…

- Ho cercato di filmarla facendo venire fuori tutte le possibili facce del femminile: ci sono momenti in cui è sensuale, altri in cui è gelida, altri in cui è brutta, altri ancora in cui è bellissima…
Per entrare in relazione profonda con questo femminile ho dovuto fare su me stesso un lavoro molto complesso: ho dovuto ricercare dentro di me il mio femminile. In questo, ho avuto la fortuna di essere aiutato dalla mia compagna.
E' stata lei che mi ha fatto capire, pian piano, che se non avessi fatto questo viaggio dentro di me, non avrei mai potuto affrontare un tema del genere. Lei è stata la mia più stretta collaboratrice: infatti, nei titoli di testa c'è il suo nome, prima del mio. E' lei che mi ha accompagnato nell'universo femminile. Mi ha detto "Tu e Lucia vi dovete innamorare perché solo se create un ponte autentico, profondo, intimo, intenso, potete tirare fuori qualcosa di alto. Altrimenti non funziona..".
E ha aggiunto" Tu, negli altri film, ti sei innamorato di Giuda, di Tiburzi. E' quel tipo di amore che devi cercare dentro di te e lo devi trovare per una donna. Devi portare fuori la sua interiorità".

- Nei suoi film si avverte questo amore nei confronti dei personaggi.
Nello stesso tempo, però, c'è sempre una certa distanza tra quello che succede sullo schermo e lo spettatore, quasi a voler evitare, scientemente, il coinvolgimento di chi guarda.


- Le due cose non sono in contraddizione.
Per il teatro epico, da cui io provengo, è come se l'attore non perdesse mai la propria identità.
Infatti io non lavoro con gli attori ma con le persone, le quali prestano la propria anima a dare corpo a dei personaggi. Io non faccio distinzione tra l'attore professionista e il non attore: io lavoro con la persona che di mestiere fa l'attore e con la persona che di mestiere fa il tranviere o il professore universitario e che mi presta il suo corpo, la sua sensibilità. La tecnica di lavoro tra me e il non attore è diversa da quella che adotto per l'attore professionista, ma io vado a cercare l'uomo, non il personaggio.

- Per il film in lavorazione su Salvatore Giuliano ha scelto attori professionisti o no?

- Sto lavorando ancora sulla ricerca storica. Non ho scritto nemmeno una riga della sceneggiatura.

- Ho letto i suoi ricordi d'infanzia relativi al cinema e di come suo padre Mario, documentarista, abbia insegnato i primi rudimenti di cinematografia a Paolo e Vittorio Taviani. Quindi il cinema è legato proprio alle sue radici…

- L'ho bevuto con il latte materno anche se poi, in realtà, quando ero ragazzo non l'amavo poi così tanto. Non è che ora lo ami: mi fa un po' schifo quello che si produce. Ho questo atteggiamento che può sembrare aristocratico: in verità io amo troppo il cinema.
E' come uno che adora il cibo buono, genuino e, magari, vede in una vetrina tanti bei manicaretti, poi li mette in bocca e fanno schifo perché sono di segatura. Il mio rapporto con il cinema è un po' questo, per cui amo tantissimo il cinema di una volta, anche quello cosiddetto di serie C. Per esempio, uno dei miei registi preferiti è Raffaello Matarazzo.

- E' un cinema molto diverso dal suo…

- Io parlo della scrittura cinematografica.
Matarazzo è uno che con grande scrittura cinematografica, sempre in punta di penna, racconta delle storie melodrammatiche ma il suo modo di inquadrare, di costruire le sequenze, di dirigere gli attori è di altissimo livello. Poi raccontava delle storie popolari, ma questa è una scelta relativa. Mi levo tanto di cappello per la sua scrittura.

- Quando va al cinema , lei cosa va a vedere?

- Non ci vado. Vorrei andare a vedere l'ultimo di Olmi: ho la sensazione che mi piacerà…
Conoscendo molto bene il soggetto ( per dieci anni ho inseguito il progetto di un film sul figlio di Giovanni dalle Bande Nere, Cosimo de Medici, l'inventore della Toscana moderna), conoscendo Olmi, sapendo come ha lavorato, non dovrei sbagliarmi.
Olmi segue un criterio che è quello che seguo anch'io: il referente è lo stesso cioè Roberto Rossellini.
Io, finora, non l'ho citato ma è di lì che vengo: ho fatto anche l'assistente di Rossellini e, soprattutto, mi interessa moltissimo, al di là dei risultati raggiunti, che possono essere discutibili, l'idea che c'era dietro il suo lavoro: il discorso di un'educazione permanente attraverso il cinema, i film televisivi su vari personaggi della storia, ecc. Su molti dei suoi film avrei molte cose da dire ma l'idea che c'era dietro era giusta e la difendo. In qualche modo, nel film di Olmi sento la stessa radice. Un film che mi ha fatto incazzare come pochi, perché tutti hanno detto che era un capolavoro, è ROSETTA: io l'ho disprezzato profondamente. E' una violenza fascista, un modo di usare la macchina da presa contro gli spettatori. Questi ultimi sono in balia di quel pazzo criminale che tiene in mano la telecamera ed insegue questa ragazzina per un'ora e mezza.
C'è un cinema che mi è indifferente ed è quello di Nanni Moretti: una volta catalogato, mi basta. Poi, c'è un cinema che mi fa incazzare e, guarda caso, è quello che la sinistra difende.

- Anche ROSETTA è stato presentato come un film impegnato…

- Per me si tratta di cinema fascista: fascista nel rapporto di sopraffazione che c'è tra il regista dall'alto dello schermo, nei confronti degli spettatori. Questi ultimi sono "shakerati" dalla sua macchina da presa. Il cervello dello spettatore non è mai libero di dire: "Ma io voglio vedere? Voglio capire?". Lo spettatore è prigioniero di questo linguaggio: entri dentro un labirinto, come alle giostre, in quelle macchinette che ti scuotono e ti fanno venire il voltastomaco.

- Lei ha detto che la maggior parte dei registi considerano gli spettatori più ignoranti di loro e che lei parte dal principio opposto…

- Io sono uno, gli spettatori, forse, sono già due o tre: solo per il fatto di essere più di me, hanno più cose da osservare. Partendo dal presupposto che ognuno conosce solo ciò che riconosce, o meglio, capisce solo quello che già conosce… Faccio un esempio: se uno fa il calzolaio e va al cinema, guarda le scarpe. Io, che di scarpe non mi intendo, guardo un'altra cosa.
Amando la pittura, se in un interno giorno ci sono dei quadri alle pareti, il mio occhio va lì.
Questa cosa significa che, nel momento in cui faccio un film storico, bisogna che tutti gli elementi che sono in scena siano profondamente documentati.
Non posso mettere in testa un cappello ad un signore se non so perché.
In proposito, ho fatto la scoperta che i cappelli, nel mondo contadino, sono un segno distintivo, di mestiere, di ruolo sociale: per cui, in una piazza di mercato, un contadino, con uno sguardo, sapeva chi aveva di fronte, un bracciante, un mezzadro, un proprietario terriero, un mercante di cavalli.
Avendo fatto questo tipo di ricerca e individuato i cappelli dei vari personaggi siamo andati ad Alessandria, in una vecchia fabbrica, abbiamo tirato fuori i vecchi stampi ottocenteschi e abbiamo messo in testa ad ogni personaggio il cappello che gli competeva.
Per cui il cappellaio che va a vedere TIBURZI, dice: "Guarda che attenzione! Se il regista non mi ha tradito in questa cosa che conosco, anche per il resto, dice cose serie…". Se, invece, faccio il contrario e faccio vedere sullo schermo dei cappelli sbagliati, il cappellaio non si fida più.
Questo è il pensiero che mi muove nel cosiddetto rigore: quando dicono "Benvenuti è un regista rigoroso", a me sembra una stupidaggine. Non sono un regista rigoroso: sono un regista che si documenta su ciò che fa.
Tant'è vero che, proprio per TIBURZI, mi è capitato di aver affidato ad un mio collaboratore il compito di occuparsi dei coltelli da tasca, usatissimi nel mondo contadino ottocentesco.
Lui mi ha portato la sua ricerca, ha trovato i coltelli, io li ho messi in mano ai vari personaggi.
Un giorno, un signore, in sala, si è alzato : "Scusi, come mai Tiburzi, che è un brigante maremmano, ha in mano un coltello fiorentino?".
Io ho preso per l'orecchio il mio aiuto regista e ho detto " Chieda a lui!". Aveva ragione!
Quando sbuccia la mela, Tiburzi ha un coltello sbagliato: magari si può inventare che era andato al mercato a comprarselo… Però era strano che un brigante maremmano usasse un coltello che si vendeva nei mercati di Firenze e non nei mercati della Maremma. E' stata la conferma negativa di quanto stavo dicendo. Ecco dov'è il rigore nel cinema di Benvenuti: tutto lì.
Se devo scrivere un rigo in caratteri notarili cinquecenteschi, devo fare un'inchiesta per sapere se, in Italia, c'è ancora qualcuno che sappia scrivere con la grafia notarile del '500: l'ho trovato a Recanati.

- Da dove viene la sua passione per la storia?


- Ho avuto un insegnante, alle medie, che mi ha fatto amare la storia, facendoci toccare con mano le tracce della storia stessa.
Ci spiegava le pietre: "Questa è una casa torre del 1100, ha queste caratteristiche architettoniche legate alla vita quotidiana di quel tempo…".
Noi ragazzi ci emozionavamo: "Vedete questo anello di ferro? Qui ci veniva legato il cavallo. Vedete l'altezza? E' all'altezza delle briglie.
Poi c'è un anello più alto: che significa? Quando un cavaliere era a cavallo e tornava a casa, legava il cavallo all'altezza sua, senza scendere. Se, invece, scendeva dal cavallo lo legava, ecc…"
E' come se tra 3000 anni qualcuno trovasse un divieto di sosta e spiegasse ad un bambino: "Vedi questo? Serviva ad indicare dove parcheggiare le macchine".

- GOSTANZA DA LIBBIANO ha vinto a Locarno2000 il Premio Speciale della Giuria ma è stato completamente dimenticato dal David di Donatello.

- Il giorno in cui mi dovessero dare il David di Donatello, lo rifiuterei.
Se il David dovesse prendere in considerazione un mio film, significherebbe che ho sbagliato qualcosa. Entrerei molto in crisi.

- Forse significherebbe che la società è cresciuta, è migliorata…

- No, la direzione che sta prendendo la società non è tale da migliorare.
Anzi, sarà sempre peggio…

- Che si fa? Si resiste solitariamente?

- Si resiste! L'unico modo per sentirsi vivi in questo tipo di società è resistere!

- Ci si sente soli, però, a resistere!


- No, perché poi, quando si va in giro per l'Italia e si propongono questi film, si creano dei rapporti, delle relazioni: uno sa che non è solo e che non è difficile resistere.
Il cinema, ormai, è uno strumento di controllo sociale, per cui le persone sono abituate ad un linguaggio che è quello della melassa: operare diversamente è come portare uno abituato a respirare nello smog in cima ad un monte, sulle Dolomiti. La persona in questione si sente male, sviene… Il problema di fondo è che la gente è stata violentemente abituata a non pensare. Pensare è fatica, è sofferenza, è angoscia.
La gente non vuole scegliere, non vuole impegnarsi, non vuole assumere una posizione critica nei confronti delle cose, non vuole assumersi responsabilità.
Questo è il problema!
Tutto ciò è stato studiato a tavolino ed imposto a milioni di persone, attraverso sistemi di controllo sociale, attraverso sistemi della cosiddetta comunicazione di massa. Il potere utilizza dei sistemi di controllo: prima utilizzava il manganello, ora la televisione ma il principio è lo stesso.
Il fatto è che un popolo che ha perduto la capacità di analisi, la capacità di critica è un popolo che si governa e si controlla bene. Le persone, invece, che vivono dentro di sé il senso della critica sono da mettere ai margini.
E' chiaro che su cento persone ce ne sarà mezza che ha il senso della critica: questo ci porta, in qualche modo, a sentirci soli, rispetto agli altri.
Però, a guardar bene, non è vero perchè, ovunque vado, trovo chi la pensa come me ed è contento di trovare delle conferme rispetto alla propria solitudine, alla propria posizione critica in oggetti cinematografici come i miei film. Io sono ripagato, culturalmente, da questo!