INTERVISTA A PAOLO BENVENUTI

a cura di Virgilio Fantuzzi* ed Elia Ilic Boccia

 

 

 

D. – Partiamo dall’inizio…Come ti è venuta l’idea di fare un film su Portella della Ginestra?

 

R. – Tutto è cominciato con una rassegna cinematografica che Goffredo Fofi ha organizzato a Palermo nell’estate del ‘96, all’interno della quale sono stati proiettati dei miei film. Era la prima volta che andavo a Palermo. Una ragazza, dopo la proiezione de Il bacio di Giuda, mi disse: «Questo film piacerebbe molto a Danilo Dolci». Mi meravigliai che fosse ancora vivo. Lui era uno dei maggiori punti di riferimento negli anni Sessanta, quando anch’io partecipavo alle iniziative del movimento studentesco. Poi non ne avevo più sentito parlare. «Vive a Trappeto — mi disse la ragazza — si occupa di pedagogia». L’indomani mi accompagnò a conoscere Dolci e nacque un rapporto molto intenso tra me e questo personaggio, che mi mise al corrente delle sue esperienze e dei suoi principi pedagogici.

Sono figlio di insegnanti, l’attività didattica mi ha sempre estremamente interessato. Con Dolci mettemmo in piedi un progetto per una scuola di cinema, che ci appassionò negli ultimi mesi della sua vita. Morì circa un anno e mezzo dopo che lo avevo conosciuto. Gli feci vedere i miei film, e gli piacquero molto perché, diceva lui, stabiliscono un vero rapporto di comunicazione con lo spettatore. I miei film a suo parere non impongono un punto di vista obbligato ma contengono un invito, rivolto implicitamente, a ragionare col proprio cervello.

In questo contesto mi parlò di un’idea che coltivava da parecchio, raccontare quello che aveva scoperto da più di quarant’anni sulla strage di Portella della Ginestra. Mi accompagnò al suo centro studi a Partinico, lì aprì un armadio pieno di schedari e questi contenevano vere e proprie testimonianze che aveva iniziato a raccogliere nel 1956, quando era stato incarcerato per il famoso sciopero “alla rovescia” che aveva organizzato a Tappeto con dei disoccupati. Nel carcere dell’Ucciardone aveva incontrato i membri della banda Giuliano e questi gli avevano raccontato la loro esperienza diretta dei fatti.

L’importanza di quelle carte cominciai a capirla solo più tardi, ma rimasi subito colpito dalle dichiarazioni di alcuni a proposito della partecipazione di più gruppi di fuoco. Lì lessi per la prima volta che alcune persone affermavano di aver visto con Giuliano solo undici uomini, che dei gruppi mafiosi assicuravano all’operazione un supporto logistico di copertura, e che uno strano gruppo di persone aveva preso posizione sul monte opposto rispetto a quello su cui era appostato Giuliano.

Queste carte parlavano anche di un retroterra politico, fatto di personaggi altolocati che avevano interesse a coinvolgere Giuliano manovrandolo progressivamente verso posizioni anticomuniste, in modo da poterlo coinvolgere nella strage.

I colloqui con i banditi furono solo l’inizio della ricerca di Dolci, che proseguì nei decenni successivi con un lavoro capillare sul territorio a interpellare coloro che erano al corrente dei fatti e dei retroscena. Dopo Dolci, quegli archivi sono stati manomessi e hanno subito vicissitudini che sarebbe troppo lungo spiegare. Ho proseguito la ricerca grazie alla collaborazione di Angelo La Bella e Rosa Mecarolo, due storici di Viterbo che si stavano occupando del processo alla banda. Con loro ho potuto studiare i documenti del processo e nel frattempo abbiamo analizzato un gran numero di documenti desecretati dalla Commissione Antimafia. Infine, l’ultimo atto è stato andare a consultare gli archivi dell’OSS di Washington, per analizzare i rapporti tra i servizi segreti americani e la Sicilia del dopoguerra. E grazie alla collaborazione del professor Nicola Tranfaglia abbiamo scoperto in quei documenti i tasselli mancanti del grande puzzle che sta attorno alla strage.

 

D. – Nel film, comunque, la strage non si vede…

 

R. – Si tratta di una scelta compiuta per pormi in antitesi agli altri registi che hanno affrontato l’argomento. Non ho voluto assumere il punto di vista del reportage, come se avessi un cineoperatore sul posto pronto a riprendere gli eventi nel momento stesso in cui accadono. La scelta fatta insieme a mia moglie Paola Baroni, nello scrivere la sceneggiatura, è diametralmente opposta.

Per noi era chiaro fin da principio che non si doveva mostrare gli eventi, ma provocare riflessioni e ragionamenti su di essi. Il film parte dalla lettura della documentazione relativa all’accaduto; lettura e riflessione, interpretazione, discussione. Il nostro prima di essere un film sui fatti è un film sul pensiero.

Il cinema quando mostra i fatti di solito nasconde il pensiero. Fa passare come vero il ragionamento che appare più plausibile sul piano drammaturgico. Lo stesso vale per la televisione. Dà l’impressione di mostrare tutto mentre nasconde le intenzioni di chi, agendo nell’ombra, provoca quello che tutti credono vero.

Da quando faccio cinema, mi domando se la macchina da presa, invece di essere puntata su fatti esteriori e visibili non possa essere puntata sui procedimenti della mente, rendendo esplicite in primo luogo le idee alle quali ricorrono coloro che elaborano il film…

Ad ogni modo, per quanto riguarda questo film non abbiamo inteso mostrare la verità, ma una maniera di ragionare sui fatti che viene dall’esegesi e dall’interpretazione di una folta documentazione. La strage, che non si vede direttamente, è percepita attraverso il racconto di Pisciotta e i disegni che l’avvocato traccia partendo dal racconto. Questi disegni non sono la “verità”, sono l’interpretazione delle parole di un testimone.

Tutto ciò nel film è dichiarato in maniera esplicita, soprattutto attraverso la scrittura cinematografica, o se preferisci attraverso lo stile.

 

D. Questo film è frutto di una lunga ricerca storica che tu e Mario Cereghino avete condotto per sei anni. Come siete riusciti a strutturare in un racconto tutto il lavoro?

 

R. – L’invenzione del racconto è frutto del lavoro di mia moglie, Paola Baroni, la vera sceneggiatrice del film. La massa d’informazioni che Mario ed io avevamo raccolto sull’argomento era talmente ampia e complessa che occorreva individuare una trama per consentirne la messa in scena. Paola ha pensato di tradurre a livello drammaturgico le emozioni che hanno caratterizzato la ricerca: entusiasmi, frustrazioni, delusioni…

 

D. – Seguendo le orme di un personaggio quindi (l’avvocato di Pisciotta) il film ripercorre le tappe del cammino di conoscenza che avete percorso nella ricerca della verità…

 

R. – Io ho sempre un po’di paura quando sento parlare di verità. Mi vengono in mente le parole di Pilato, che quando Gesù si presenta come testimone della verità, gli volta le spalle dicendo: «Che cos’è la verità?».

Preferisco partire dal disegno. Quando qualcosa mi è raccontato attraverso testimonianze, mi accorgo di non trovarmi quasi mai di fronte a un fatto puro, ma a tanti fatti quanti sono i testimoni che lo raccontano. Ognuno dà la sua interpretazione, presta il suo punto di vista. Dovendo ricostruire l’evento di cui si sta parlando, ho sempre avuto la convinzione che il fatto di per sé è semplice, sono le testimonianze a renderlo complicato.

Le testimonianze sono spesso contraddittorie, in certi casi volutamente false. La falsificazione di testimonianze è una vera e propria arte non priva di sottigliezze. Non ci si limita a negare aspetti del fatto, ma si mescolano elementi veri con altri verosimili, e falsi. È l’arte del depistaggio.

La molteplicità delle testimonianze (a volte imprecise, a volte artefatte) fa sì che un fatto semplice diventi incomprensibile. La nostra proposta parte dalla convinzione che la ricostruzione essere mostrata attraverso un disegno armonioso.

Quando vedo che le testimonianze mi portano fuori strada, o a costruire un disegno illeggibile, vuol dire che c’è qualcosa messo lì per confondere le idee. Allora bisogna controllare che tra coloro che rendono le testimonianze non ci sia qualcuno che vuol nascondere una verità o parte di essa… È attraverso questo gioco che il disegno viene reso incomprensibile.

Consultando e confrontando centinaia di testimonianze, bisogna riuscire a capire quali sono quelle che contribuiscono a fare della ricostruzione un disegno armonioso.

In anni di lavoro paziente e minuzioso compiuto assieme ai miei collaboratori, ho scoperto che seguendo le testimonianze considerate attendibili da parte degli inquirenti il disegno diventava illeggibile, pieno di contraddizioni, se invece si prendevano per buone le testimonianze che gli inquirenti non consideravano, ad esempio quelle dei banditi, il disegno cominciava a prendere forma.

Sono andato a cercare in tutti i verbali di tutti gli interrogatori dei testimoni oculari quelle testimonianze che per motivi misteriosi non sono mai arrivate al processo, e mettendo insieme queste testimonianze il disegno a poco a poco cominciava ad assumere organicità.

Questo è il metodo che ho utilizzato. Perciò, ad esser sinceri, devo dire che non sono certo di aver appurato la verità. Posso solo dire che le mie idee risultano plausibili e che le mie ricostruzioni combaciano. Mi pare di aver raccontato una storia nella quale, alla fine, sono chiare le strategie messe in atto. La cosiddetta verità, invece, quella accreditata dal processo di Viterbo e avallata da tanti scrittori che si sono occupati della vicenda, tirate le somme risulta incomprensibile.

 

D. – Il film perciò non propone una ricostruzione realistica dei fatti di cui parla…

 

R. – Parto da una verità assodata che è quella che puoi trovare su un dizionario enciclopedico alla voce «Portella della Ginestra», oppure sul Dizionario Biografico degli Italiani alla voce «Giuliano Salvatore». Se leggi questa o qualsiasi altra fonte accreditata, troverai scritto che la strage di Portella della Ginestra è stata compiuta dal bandito Giuliano su istigazione di forze oscure di stampo mafioso ecc.

Questa descrizione presuppone, nel disegno che comprende il territorio di Portella della Ginestra, un gruppo di persone che sono vittime e stanno al centro del disegno, più una persona, cioè il carnefice, che sta in cima a una montagna che si chiama Pizzuta o Pelavet e spara sulle vittime. Questo si  tramanda da cinquant’anni a questa parte. Questo viene scritto sui libri, ed è quanto si vede nei film.

Partendo dalla messa in discussione di questa verità, attraverso una serie di testimonianze che indicano percorsi alternativi, il mio film mostra che non c’è solo Giuliano a sparare dall’alto, ma anche altri tre gruppi di fuoco. Questo è il disegno che illustro, e lo faccio con tutti i mezzi possibili meno quello utilizzato fino ad ora, ossia mostrare l’azione in atto. Consapevole che la mia è solo un’interpretazione della realtà ritengo che se avessi mostrato l’azione dei quattro gruppi di fuoco, rappresentata con attori, avrei trasmesso agli spettatori un messaggio equivoco.

Voglio mostrare un’ipotesi di lettura dei fatti all’interno della quale, servendomi di modi di rappresentazione indiretti, quali il plastico nel laboratorio del perito o i disegni dell’avvocato, cerco di mettere la verità in condizioni di farsi strada da sola. Ricorrendo a questo procedimento evito di mettere lo spettatore davanti al fatto compiuto; cerco invece di renderlo partecipe del mio ragionamento, coinvolgendolo per quanto possibile nell’elaborazione del pensiero che si sviluppa nel film.

Lo spettatore che ha seguito in maniera corretta lo sviluppo dovrebbe arrivare a questa conclusione: a Portella della Ginestra non hanno sparato solo le armi di Giuliano, ma assieme a lui le armi di Ferreri, quelle dei mafiosi e quelle dei tiratori scelti muniti di lanciagranate. Rispetto alla storia ufficiale, questo è un fatto assolutamente nuovo.

A questo punto pongo una domanda: perché gli storici prima di fare certe affermazioni non sono andati a studiare i documenti?

 

D. – A proposito di documenti, nel film si vedono anche documenti filmati: documentari d’epoca, film amatoriali… Come hai trattato questi documenti, li hai lasciati così come erano oppure li hai rimontati?

 

R. – Ho accorpato spezzoni di cinegiornali diversi, per raccontare quello che accade prima dell’inizio della narrazione: la strage di Portella, il processo di Viterbo, la morte di Giuliano. La voce che commenta le immagini è quella dello speaker dei documentari di epoca fascista. Ho utilizzato, assieme al materiale dell’istituto Luce, una ripresa a 16 mm senza sonoro girata dal fotografo Ivo Meldolesi nel covo di Giuliano, un anno prima della morte del bandito.

Tra questi filmati ce n’è uno che ritengo particolarmente importante, quello relativo alla morte di Giuliano. Si tratta di un documento estremamente realista, che ripercorre le tappe degli ultimi minuti di vita del bandito: la fuga per le strade di Castelvetrano rincorso dai Carabinieri, la sparatoria, la caduta nel cortile dell’avvocato De Maria, l’arrivo del capitano Perenze e la morte. Questo documentario è assai realista ed efficace, ma è totalmente falso. Infatti sappiamo che tutta questa storia è frutto di una messinscena ricostruita dai Carabinieri dopo che Giuliano era già morto. Presentare quel film così apparentemente vero mi sembrava importante perché è una dimostrazione implicita di come il cinema realista possa nascondere grandi menzogne. Al contrario, un cinema realizzato con criteri antinaturalistici può servire a proporre elementi di riflessione, che aiutano ad avvicinare la verità.

 

D. – Nel film si vede a un certo punto un operatore che mette in moto una macchina da proiezione…

 

R. – È un indizio, un segnale lanciato allo spettatore per ricordargli che quella che sta vedendo non è la verità, ma una ricostruzione. Il linguaggio cinematografico come lo intendo io si rivolge prima di tutto alla mente. La bellezza delle immagini e la giustezza delle emozioni si inquadrano in un discorso lucido e ragionato. Vorrei stabilire con lo spettatore un rapporto basato su susseguirsi di domande e risposte, come in una conversazione, dove le domande però sono più importanti delle risposte.

 

D. – Nel film ci sono riferimenti a famose pellicole del ventennio ’40 – 50’…

 

R. – E’ vero. Si vede proprio all’inizio del film un personaggio che arriva con due pizze di pellicola. Quest’uomo assomiglia vagamente a Orson Welles… Non è difficile a questo punto cogliere, se non vere e proprie citazioni, per lo meno rinvii a quel cinema, che al tempo in cui si svolgono i fatti andava per la maggiore.

In ogni mio film mi sono sempre preoccupato, prima di ogni altra cosa, di scegliere il punto di vista dal quale osservare fatti e personaggi. Dato che ho girato film ambientati in epoche lontane, sono sempre partito da uno studio delle fonti iconografiche. Per Il bacio di Giuda, che è una rilettura dei Vangeli canonici e apocrifi, mi sono riferito allo stile delle sacre rappresentazioni in uso tra Rinascimento e Barocco, e a quello dei quadri del Caravaggio, come la Vocazione di San Matteo, dipinta a Roma per la chiesa di San Luigi dei Francesi. Per Confortorio, ambientato a Roma nella prima metà del Settecento, mi sono rivolto a certi pittori caravaggeschi di origine fiamminga che operavano in quel periodo. Per la storia di Tiburzi, che si svolge nella Maremma alla fine dell’Ottocento, non potevo non guardare a Fattori e ai Macchiaioli. Per Gostanza da Libbiano infine, che è ambientato nel territorio del Granducato di Toscana alla fine del Cinquecento, ho adottato il punto di vista del Bronzino, che era allora il ritrattista accreditato presso la corte granducale. Dato che il film si svolge non a Firenze ma a San Miniato, cioè non tra potenti ma tra gente di condizione più modesta, ho apportato significative modifiche ai modelli prescelti. L’abito di una gran dama ritratta dal Bronzino, indossato da Gostanza diventa l’abito di una donna di provincia, che cucendo il vestito con le sue mani cerca di adeguarsi ai canoni estetici vigenti.

Segreti di stato è il primo film ambientato in un passato relativamente recente. Ho scelto dunque come punto di riferimento non già i maestri della pittura, ma i maestri del cinema.

Parlavo di Orson Welles. La sua presenza si avverte non solo nella taglia del personaggio che gli somiglia, ma anche nella fluidità con la quale si muove la macchina da presa nel piano sequenza che apre il film. Più che a Welles però, del quale ho voluto evitare i toni magniloquenti, ho pensato a Hitchckock, che stempera la tensione drammatica con notazioni ironiche. Ho chiesto al direttore della fotografia di evitare i contrasti di luce e colore che enfatizzano la drammaticità, e di scegliere colori chiari, da acquarello. Quelli dei film di Hitchcock con Cary Grant e Grace Kelly, o delle coeve commedie musicali di Minnelli. Il dramma è tutto nelle situazioni che il film descrive, mi è sembrato che raccontare una storia tragica presentandola con immagini dai colori luminosi e trasparenti abbia contribuito ad esaltarne la tragicità.

 

D. – L’operatore che mette in moto un proiettore a 16 mm mi fa pensare a persone, come te e tuo padre, che si dedicano all’attività didattica servendosi del cinema. L’avvocato che prende appunti durante i colloqui con i suoi assistiti, corredandoli con disegni, mi fa pensare al tuo vecchio modo di fare cinema, quando prima di girare un film disegnavi tutte le inquadrature una per una…

 

R. – A dire il vero continuo a fare disegni. Non disegno più tutte le inquadrature perché è un procedimento che col passare del tempo ho interiorizzato. La soluzione di un problema di regia per me passa sempre attraverso il disegno. Il disegno aiuta a chiarire cose che in un primo momento possono sembrare complesse, e un passaggio obbligato per raggiungere la chiarezza necessaria per comunicare.

 

D. – L’avvocato, del quale il film non dice il nome (anche se sappiamo che si tratta del difensore di Pisciotta), a un certo punto va a consultare un perito. Suppongo che questo sia un personaggio inventato…

 

R. – Sì. Per inventarlo io e Paola ci siamo ispirati a Silio Bozzi, un giovane ispettore della Polizia scientifica di Bologna, considerato fra i maggiori esperti nel campo. È originario di Palermo e si è laureato con una tesi sulla storia delle perizie scientifiche nelle indagini poliziesche. È stato lui ad introdurmi in questa realtà complessa ma affascinante. Nel costruire questo personaggio ci siamo serviti degli elementi che l’ispettore Bozzi ci ha fornito. Il calibro dei proiettili, le caratteristiche del territorio e l’incidenza della luce sul luogo della strage sono tutti procedimenti che rientrano in una metodologia scientifica, avente come scopo una ricostruzione attendibile.

 

D. – Quando nel film si entra nella parte più segreta del laboratorio del perito (la stanza del plastico), si ha l’impressione di trovarsi in presenza di un apparato scenografico di tipo teatrale o cinematografico. C’è una tenda che si apre come un sipario, c’è il plastico che fa pensare alle ricostruzioni in miniatura che si usano in certe riprese. C’è l’uso dei fari… Tutti elementi che puntano su una ricostruzione non diretta, né realistica, bensì antinaturalistica…

 

R. – È la rappresentazione di una rappresentazione. Questo non avviene solo nel laboratorio del perito di parte, ma anche in altri momenti del film. I riflettori che si accendono sul plastico per indicare l’incidenza dei raggi del sole sul luogo della strage, tornano ad accendersi nell’aula del tribunale di Viterbo. Il caso ha voluto, in una sorta di corto circuito tra realtà e rappresentazione, che la sentenza del processo fosse letta alle 22,30. E i giudici avevano fatto arrivare da Roma dei riflettori di Cinecittà o dell’Istituto Luce per illuminare a giorno l’aula del tribunale, a beneficio dei mass media di allora. Pertanto l’aspetto teatrale inerente al processo viene esaltato. Per me questo equivale a un invito a nozze: ci sono riflettori con l’interruttore a coltello, come accade sul palcoscenico o nel teatro di posa quando sta per partire l’azione; ci sono i giudici e gli avvocati con le toghe e i colletti inamidati, veri e propri attori con costumi di scena; c’è il pubblico che fa da coro, come nelle tragedie greche; ci sono i comprimari in piedi dentro la gabbia. C’è Pisciotta, che in quel momento è il protagonista, a cui spetta il compito di dire l’ultima parola: «Ci rivedremo a Palermo… Lì dirò tutto!». Alla fine però l’ultima parola non l’avrà lui, ma una voce anonima nella quale si esprime a pieno la saggezza popolare: «Non ci arriverai vivo!…».

Questo è teatro. Una vera e propria liturgia teatrale che guarda caso si svolge in una chiesa sconsacrata, luogo designato alla liturgia vera e propria, quella del sacrificio.

Non è un caso se la prima scena all’interno del tribunale inizia partendo dalla cupola, che è l’emblema di una chiesa. Poi si scende con una panoramica per arrivare all’altare, al posto del quale c’è invece lo scranno dei giudici, e al posto del crocifisso c’è l’aquila littoria con la scritta «La legge è uguale per tutti».

Questa compenetrazione fra luogo sacro e luogo processuale si colloca nella traiettoria di un discorso che mando avanti sin dal primo film. Il luogo dell’amministrazione della giustizia, il luogo dell’esercizio del potere, e il luogo del culto religioso nel mio cinema si fondono e confondono continuamente.

 

D. – Il tribunale di Viterbo non è il solo luogo sacro (o sconsacrato) che si vede nel film. Anche la proiezione dei documenti filmati avviene nella cappella del carcere…

 

R. – Se si gira per le carceri italiane come ho fatto io alla ricerca dei luoghi dove girare, si accorge che molte vecchie prigioni sono ospitate all’interno di conventi in disuso. Non è difficile incontrare simboli religiosi in questi ambienti. La macchina da presa, direi quasi per esigenze sue e indipendentemente dalle intenzioni di chi la manovra, finisce sempre col metterli in evidenza. Io stesso durante il montaggio del film sono rimasto sorpreso nel vedere che mentre Pisciotta afferma: «Quello che dico è la sacrosanta verità», accanto al suo volto si vede, nitida, una croce appesa alla parete. So di non averlo fatto apposta, ma è evidente che quell’immagine dice più di quanto volevo dicesse.

 

D. – Hai avuto difficoltà nel reperire i luoghi reali (cioè non ricostruiti in studio) dove girare i fatti che si vedono nel film?

 

R. – In questo film ci sono tre luoghi fondamentali, quello del processo, quello della strage e quello della carcerazione. Poi ce ne sono altri due ugualmente importanti, ossia il luogo dell’analisi (il laboratorio del perito) e quello della riflessione (la stanza del professore). Per quanto riguarda i primi tre volevo assolutamente girare nei posti in cui i fatti sono avvenuti, e mentre non ho avuto problemi a girare nel tribunale di Viterbo, che è rimasto intatto, e a Portella della Ginestra, dove con qualche accorgimento ho potuto evitare gli elementi moderni introdotti nel paesaggio, il problema si è posto per quanto riguarda il carcere.

I luoghi della carcerazione sono tre: il carcere di Soriano del Cimino, quello di Viterbo e l’Ucciardone di Palermo. Il carcere di Soriano dopo la riforma carceraria è stato interamente rimaneggiato, e adesso sembra un ospedale, il carcere di Viterbo è stato ceduto all’Università che vi sta allestendo un centro studi, l’Uccciardone è tuttora utilizzato e non vi si possono girare film. Ho dovuto pertanto trovare un luogo che avesse le stesse caratteristiche di tre diversi carceri di cinquant’anni fa, ovvero che fosse pensato come luogo di pena, come erano intese le carceri prima della riforma. Non è stato facile ma alla fine ho trovato quello che cercavo nel carcere militare di Gaeta, abbandonato da dieci anni. L’edificio è molto vasto, ed è stato quindi possibile ricostruire al suo interno tre ambienti diversi.

 

D. – Il carcere è uno dei luoghi che ritornano più spesso nei tuoi film. Da «Confortorio» a «Gostanza da Libbiano» si direbbe che ci sia, da parte tua, una particolare insistenza sugli aspetti punitivi (fino alla tortura e all’esecuzione capitale) che erano appannaggio dell’amministrazione della giustizia nei secoli passati. Non si può non pensare all’uso claustrofobico dello spazio, ai movimenti limitati o impediti dai ferri che attanagliano le caviglie e i polsi, o anche al rumore delle catene, allo sbattere delle porte, al cigolio dei cancelli sui cardini, tutti rumori ripresi rigorosamente in presa diretta…

 

R. – Non c’è da parte mia nessun compiacimento, né diretto, né indiretto. Descrivo con esattezza, dopo essermi documentato risalendo alle fonti, le condizioni reali nelle quali hanno vissuto tanti esseri umani colpevoli o innocenti incappati nei rigori della giustizia. Il mio cinema “carcerario” si sforza di dar voce e volto ai tanti che hanno patito e sono morti dentro quelle mura, che leggo come fossero documenti. Per questo è importante per me girare in un carcere vero, perché i muri trasudano sofferenza, recano i segni veri del patimento. Si legge inciso ad esempio il numero dei giorni trascorsi dentro la cella, o le invettive dei prigionieri. Filmare la parete scrostata di un carcere mi dà la stessa emozione che filmare un documento autentico. Nel documento c’è il segno degli eventi che hanno fatto la storia.

 

D. – Torniamo a Viterbo, nell’aula del tribunale rimasta uguale dal 1951 fino a oggi…

 

R. – Ho girato nello stesso luogo, con lo stesso gabbione, lo stesso bancone, gli stessi scranni sui quali si è svolto il processo.

 

D. – Suppongo che tu sia riuscito a ricostruire anche l’atmosfera del processo…

 

R. – Ne ho avuto forte conferma dalle comparse viterbesi, uomini dai capelli bianchi che ho invitato a vestire i panni degli avvocati del film. Da giovani avevano assistito ad alcune fasi del processo e mi dicevano di essersi meravigliati nel rivedere gli eventi riproposti allo stesso identico modo.

 

D. – Conoscendo il tuo cinema, so che per te i documenti non sono soltanto quelli custoditi negli archivi, o gli oggetti e gli ambienti sopravvissuti all’ingiuria del tempo, ma che cerchi tracce del passato anche nel volto degli interpreti.

 

R. – Il lavoro di scelta delle comparse l’ho curato personalmente. Dopo aver detto al capo comparse di Viterbo che mi servivano persone dal volto antico, gente magra, emaciata, come se ne vedeva nel dopoguerra, mi sono fatto mandare alcune centinaia di fotografie. Ne ho scelte una trentina e sono andato sul posto a fare un’ulteriore selezione. Quando mi sono accorto che non ce n’erano abbastanza mi sono ricordato di alcuni volti che avevo già utilizzato in Tiburzi, che ho girato in una zona non lontana da Viterbo.

Tra costoro c’era Baffino. Baffino è un vero contadino, vive a Montalto di Castro. Nel film è uno di quelli che spezzano la branda e affilano i pezzi di ferro per farne pugnali. Ha le mani del contadino, compie gesti da contadino, ha il volto bruciato e segnato di chi ha passato la vita in campagna, caratteristica principale dei banditi di Montelepre del 1951, che erano tutti pastori e contadini. Il gesto col quale Baffino rompe quel ferro e lo affila è frutto di una sapienza accumulata da generazioni. Se avessi chiesto a un attore di Cinecittà di farlo, il risultato sarebbe stato ridicolo o poco interessante.

 

D. - …E per quanto riguarda gli attori?

 

R. – Gli attori sono scelti tutti con criteri analoghi a quelli delle comparse. Prima di tutto volevo attori che fossero siciliani veri, in altre parole che avessero volti corrispondenti a quelli delle foto d’epoca. Per i personaggi noti invece, come Pisciotta, richiedevo in più la somiglianza fisica, dato che ho messo a confronto il filmato nel quale si vede il Pisciotta vero con l’attore che lo interpreta. Credo che l’identificazione sia perfetta.

 

D. – Il protagonista del film è Pisciotta?

 

R. – Direi di no. Nel film non c’è un protagonista vero e proprio. Si tratta piuttosto di un film corale. Quanto al numero delle pose l’avvocato ne ha più di ogni altro personaggio, ma il protagonista non è nemmeno lui.

Il film procede per segmenti. Ogni segmento ha un protagonista diverso. Lo spettatore, sulle prime, è un po’ disorientato. Vede arrivare l’onorevole, e pensa che il protagonista sia lui. Poi la palla passa a Polacco, che viene portato in un altro carcere per compiere una determinata azione. Lo spettatore lascia l’onorevole e segue Polacco. Poi da Polacco si passa ad un altro detenuto, che entra in cella e assieme ad altri organizza un attentato. A quel punto si arriva a Pisciotta. Sarà lui il protagonista? Lo sarà, in un certo senso, fino al processo nel quale fa i nomi dei mandanti. Lì è il vero protagonista, ma per un momento solo, prima che il giudice con un colpo di spugna lo ributti in cella e scompaia nel mucchio dei banditi. Nel frattempo si affaccia la figura dell’avvocato, apparentemente insignificante, il quale insoddisfatto della verità appurata dai giudici comincia a svolgere un’indagine parallela. Lo vediamo nel laboratorio del perito mentre disegna alla lavagna… Da quel momento la sua presenza prende corpo, senza però che il personaggio assuma una dimensione da protagonista. Nessuno si identifica con lui, diciamo che l’avvocato è il Virgilio che accompagna lo spettatore dentro questa situazione infernale che è il processo di Viterbo, e poi, di girone in girone, sul luogo della strage fino a fargli scoprire le complicità sulle quali si basa l’intera macchinazione. Il vero protagonista del film, quindi, è lo spettatore.

 

D. – Le immagini finali del film sono dedicate alla morte di Pisciotta…

 

R. – Questa scena è per così dire “la prova del 9” dell’impianto del film. Se funziona questa scena, tutto funziona. Come per l’intera vicenda anche qui Paola ed io ci siamo sforzati di rendere in maniera semplice una situazione enormemente complessa. Ho letto una grande quantità di documenti sulla morte di Pisciotta e alla fine mi sono reso conto che così come è stata presentata fino ad ora è un piccolo capolavoro di complicazione.

La storia di Portella è una storia semplice, che è stata complicata da coloro che intendevano occultare quanto era successo, e lo stesso accade per la morte di Pisciotta. È stato detto fin da principio che Pisciotta fu avvelenato dal caffè. Invece col gioco dello specchio il film mostra come sarebbe stato molto più semplice avvelenarlo con la boccetta della medicina.

 

D. – Il professore spiega i retroscena della strage ricorrendo al gioco delle carte…

 

R. – È stata un’invenzione di Paola. Il problema era far capire come partendo dai “tre Re” come lei li chiamava, e cioè Giuliano, Pisciotta e Ferreri, fosse possibile arrivare a chi c’era dietro di loro. Il gioco delle carte è il gioco del «chi sta dietro?»: chi ha convinto Giuliano e gli altri a recarsi a Portella? chi c’è dietro costoro? Procedendo passo passo, abbiamo scoperto che si arriva molto lontano.

 

D. – Gioco delle carte che si basa su una supposizione, un’ipotesi…

 

R. – Un’ipotesi, d’accordo, però basata su fatti. Quando diciamo che Ferreri è stato infiltrato nella banda Giuliano dall’ispettore Messana, diciamo una cosa documentata. Che dietro Messana ci fosse il ministro Scelba è altrettanto documentato.

Tutto quello che diciamo nel gioco del «chi sta dietro?» è rigorosamente documentato. Quello che inventiamo è il disegno. Si torna così al discorso precedente: quando il disegno raggiunge una figura armoniosa, vuol dire che si è vicini alla verità.

 

 

(Roma, 20 marzo 2003)


 

* Critico cinematografico di «Civiltà Cattolica».