DOPO ROSSELLINI. PITTURA, STORIA, FILOSOFIA
a cura di Emiliano Morreale

 

        Nato a Pisa nel 1946, Paolo Benvenuti è un autore tra i più rigorosi del nostro cinema, un "puro" formatosi su Rossellini come tutta una generazione, e che non è mai sceso a compromessi con l'industria cinematografica. È autore di due lungometraggi, Il bacio di Giuda (1989) e Confortorio (1992). Il primo, presentato a Venezia mentre passava il film scandalo di Scorsese su Gesù, è una riflessione quieta e figurativamente affascinante sui Vangeli (anche apocrifi) e la tradizione dell'arte sacra; il secondo è la cronaca del processo per reati comuni a due ebrei e del loro rifiuto di convertirsi al cattolicesimo, nella Roma del Settecento. Girato tutto in interni claustrofobici (laddove il primo usava con ottimi risultati i set naturali e architettonici di Pisa e dintorni), poverissimo ma di grande intensità anche visiva, essendo poi anche una riflessione sulla pittura barocca. Il suo prossimo film, Tiburzi, attualmente in lavorazione in giro per la Maremma, ripercorre la storia vera di una sorta di bandito Giuliano della Maremma della fine dell'Ottocento. Incontriamo Benvenuti al Provveditorato di Pisa, dove lavora ("Ufficio spedizioni. Spedisco pacchi e metto timbri. Mi pare sempre meglio che girare gli spot pubblicitari, no?" mi dice).
 


Come è nato il tuo amore per il cinema e la tua decisione di diventare regista?

Il mio interesse per il cinema risale al '68. Tutto nasce dall'incontro con due persone che saranno fondamentali per la mia formazione: Adriano Aprà e Gianni Menon. Aprà è un critico molto importante che ha dato un'impronta forte alle nuove leve di critici. Menon era allora responsabile del settore cinema dell'ARCI. Insieme avevano organizzato dei seminari cui partecipai. Il mio interesse allora non era tanto per la regia cinematografica, quanto per il cinema come strumento di particolare intervento politico. Coinvolsi altri amici in questi seminari e costituimmo a Pisa il gruppo Cinemazero che svolse un'intensa attività tra il '68 e il '71. In questa ricerca sul cinema come linguaggio e come modo di conoscere Rossellini è stato per noi ragazzi una scoperta fondamentale, sia dal punto di vista dello stile che dell'impegno culturale: ricordo che venne anche a Pisa per incontrarci, al termine di una retrospettiva completa. Contemporaneamente si cominciavano i primi tentativi in 16 mm. Del gruppo siamo rimasti a occuparci di cinema solo io e Faliero Rosati, che poi fece l'assistente di Antonioni. Io invece poco dopo diventai assistente di Rossellini.

Ma tu hai anche fatto l'insegnante per lungo tempo…


Insegnavo già nel '67 educazione artistica nelle medie e facevo cinema coi ragazzini. Ho sempre pensato che il cinema dovesse diventare materia d'insegnamento perché il linguaggio delle immagini è ormai il linguaggio del nostro tempo. Si insegnava magari l'ornato e si ignoravano totalmente la fotografia e il cinema. Ho insegnato per una quindicina d'anni, poi ho smesso, e ho ripreso questa attività didattica con gli adulti. Nell'83 ho fatto a Pisa una scuola biennale di regia dove ho formato professionalmente diversi ragazzi (uno, Massimo Martella, ha poi fatto il regista con Il tuffo) e attualmente faccio un corso serale gratuito a Viareggio.

Tutto questo lavoro si è poi concretizzato nelle regie, come una parte di esso…


La mia prima regia è del '68, un cortometraggio documentario, prodotto dall'Associazione italiana spastici quando non si parlava ancora di barriere architettoniche. Il mio atteggiamento nei confronti del "documento" è sempre stato molto particolare: un bisogno di approfondire il più possibile i temi trattati cercando di acquisire il punto di vista giusto. Giungendo allora anche ad alcuni estremismi tipo andare in giro per una settimana sulla sedia a rotelle con le gambe legate prima di girare il documentario sugli spastici, per capire meglio il problema.

Il tuo primo film di finzione è stato dunque Il bacio di Giuda.

Ma anche Il bacio di Giuda è un documentario! È un documentario sul Vangelo, sulla sacra rappresentazione; sulla metastoria, sugli strumenti attraverso cui questa storia (la vita di Gesù diventa metastoria, e quindi sulla pittura, l'arte, il testo evangelico…). Gli attori dunque (che non sono attori, sono persone comuni) non fanno altro che quello che si fa di solito a Pasqua nelle sacre rappresentazioni popolari: anche lì si tratta di gente qualunque che si traveste da Cristo, da Madonna eccetera. Il mio atteggiamento era lo stesso, tanto che molti mi hanno criticato perché i personaggi parlavano con un accento toscano marcato. A ogni piè sospinto nel film ci sono poi "provocazioni" simili: anacronismi, latino al posto dell'aramaico (il film comincia con Giuda che legge il Vangelo vestito con abiti d'oggi)…

C'è una parola che tu ami usare parlando del tuo lavoro di regia: rispetto. Rispetto nei confronti dello spettatore, degli attori, della realtà. Un cinema "mite";, insomma.


"Mite"; è un aggettivo che amo, ma io credo che il mio sia un cinema duro, duro ma insieme rispettoso. Rispetto dello spettatore, dei suoi tempi e della sua intelligenza. Io parto, diversamente da quasi tutti, dal presupposto morale che lo spettatore sia intelligente quanto e più di me, e sicuramente più colto di me. Perché, bene o male, io sono solo, e dall'altra parte ci sono migliaia e migliaia (milioni, se va bene) di spettatori le cui esperienze messe insieme sono mille volte più ampie della tua. Per esempio: in sala ci saranno un calzolaio, un prete, un tranviere o che so io? Se io faccio vedere delle scarpe che non sono giuste, o una liturgia mostrata in modo superficiale, ognuno di questi penserà: ma che è scemo, questo regista? Per questo per ogni film mi circondo di mille esperti! Questo come rispetto per il pubblico, il quale non è indifferenziato, ma è l'insieme di tante individualità. E poi c'è l'aspetto più particolare, per cui se io metto in scena delle problematiche che non sono di facile "masticazione" devo stare molto attento. Questo l'ho imparato lavorando alle medie, perché il lavoro dell'insegnante (ma credo dell'intellettuale in genere) è tradurre in parole semplici concetti difficili, e non viceversa. Per cui, quando si lavora a un lavoro di traduzione e semplificazione (come è quello di trarre una sceneggiatura da un testo, o da testi e documenti preesistenti) in ogni caso, anche arrivati a una sintesi, bisogna dare allo spettatore (a quello spettatore intelligente e attivo che ho eletto come mio spettatore), il tempo e le condizioni per assorbire e riflettere. Il ritmo del Bacio di Giuda è il ritmo del pensiero: non puoi sparare frasi di quella portata come se fossero frasi qualsiasi. La cosa che mi affascinava in quel film era ricostruire l'attimo del divenire del pensiero, l'attimo in cui questo pensiero diventava parola e poi azione. Perché escludere il pensiero dal cinema? Che ci sia riuscito o meno, quello era il mio obiettivo nel Bacio di Giuda: filmare il pensiero.

Anche Confortorio è un documentario?

È un documentario sulla pittura barocca, sui comportamenti dell'epoca, ma è un documentario anche nel senso che tutto ciò che si vede è assolutamente documentato.

I tuoi lungometraggi sono tutti ambientati nel passato e sono anche riflessioni sulla cultura figurativa del passato.

Io ho una formazione di pittore, e nel cinema ho portato questa mia formazione, insieme a un grande amore per personaggi della storia dell'arte (Piero della Francesca, Masaccio, Caravaggio) ma non solo come artisti, proprio come uomini, come "filosofia"…

Hai visto il Caravaggio di Jarman? Anche lì c'è una grande raffinatezza figurativa, ma mi pare di un tono assai diverso dalla tua…


Non mi è molto piaciuto. I nostri percorsi sono opposti: lui parte dal cinema per arrivare alla pittura, io parto dalla pittura per arrivare al cinema. Alla fine del suo film lui vuole che si dica: "ah, ho capito, è un quadro". Io parto semplicemente dalla riflessione che l'arte cinematografica è strettamente legata a quella figurativa.

Mi accorgo che parli sempre del Bacio di Giuda e meno dell'altro lungometraggio. Ti piace di più?

Mi piace molto di più. Intanto perché è stato portato a compimento fortunosamente, tra mille difficoltà, con una produzione che boicottava eccetera. Ma Il bacio di Giuda è un film che amo perché lì ho osato di più, sono andato continuamente oltre i limiti di sicurezza. Giravo senza riprese di riserva, sperimentavo nuove soluzioni formali ma senza la possibilità di correggere dopo. Confortorio, che comunque ritengo un buon film, è giocato più "in casa", all'interno di meccanismi espressivi che controllavo. Sapevo già, come poi è stato, che sarebbe piaciuto di più al pubblico: bastava contare il numero di inquadrature! Quello che sto per fare adesso è un po' una sintesi tra i due. Come storia, Tiburzi ha una fortissima tensione narrativa, perché è una sorta di caccia all'uomo; dal punto di vista visivo, invece, per la prima volta non faccio riferimento alla pittura ma alla storia della fotografia, osando quindi in un terreno che non mi appartiene del tutto. Punti di riferimento saranno i fratelli Alinari per un verso e i fratelli Lumière per l'altro: due capisaldi dell'immagine moderna.

Il film è a colori?

È a colori, ma con inserti in bianco e nero, pezzi di filmati dei Lumière. Rispetto ai miei film precedenti cambia il punto di vista perché il punto di vista è di volta in volta imposto dal soggetto al regista, mica il contrario!

Nemmeno carrelli, dolly…?


Niente.

Di cosa tratta il soggetto?

È la storia vera di Tiburzi, un brigante che per venticinque anni ha tenuto in scacco le forze dell'ordine, pagato e protetto dai proprietari terrieri che, quando si sono accorti che poteva cadere vivo nelle mani dei carabinieri e magari confessare i suoi rapporti con loro, hanno pagato per farlo fuori. Infatti Tiburzi è stato ucciso con un colpo alla nuca e c'è una tesi secondo cui a farlo fuori sarebbe stato un suo complice, una storia alla Pisciotta-Giuliano. Ma adesso parla tu: che ti è parso dei film?

Mi sono piaciuti molto, e soprattutto, anche a me, Il bacio di Giuda, per il lavoro sul set, i luoghi della campagna toscana… un lavoro più caldo, molto più rispettoso di quello degli Straub, cui spesso ti hanno paragonato.

Ti svelo un piccolo segreto: gli Straub prima di incontrare me giravano in maniera piuttosto diversa. Loro videro un mio mediometraggio girato a Buti, Medea, la ripresa di una forma antichissima di teatro diffusa nell'Italia centrale, il Maggio, in cui gli attori cantano secondo il "modo dorico", su una scala pentatonica, e recitano in modo quasi astratto, con gesti rarefatti e simbolici. Straub ne rimase sconvolto, mi prese come aiuto-regista e cambiò modo di girare tanto che poi volle fare un film, Dalla nube alla resistenza, proprio a Buti e con gli stessi "attori" che avevo usato io.

Nelle cose degli Straub c'è sempre una specie di distanza, di gelo. Nelle tue c'è un'intensità, un amore particolare per questo mondo contadino.


Guarda, per quest'ultimo film da quattro mesi ogni venerdì vado in Maremma, a provare con i contadini che reciteranno nel film. Del resto, devono muoversi nel loro spazio, andare a cavallo, agire; non posso mica prendere un cittadino e catapultarlo là. La classe non è acqua. Se uno è un contadino lo si vede, da come prende in mano un bicchiere, da come taglia una mela. E siccome in questo film i gesti sono più importanti delle parole, non potevo fare altrimenti. Tiburzi è anche un film su un paesaggio (dopo Confortorio avevo voglia di uscire all'aria aperta) e sul cinema , sul mio amore per il cinema. È come diviso in tre atti: il primo molto parlato, il secondo mezzo e mezzo, il terzo completamente muto. E quindi grande valore ai gesti, al paesaggio, alla luce. E al suono: c'è un gran lavoro sulla profondità del suono.

Sempre senza apparecchiature particolari, no?


Un normalissimo microfono e un registratore, punto e basta. Il cinema si fa col cervello. E devi amare quello che filmi, perché filmando devi esprimere il tuo amore per le cose, le persone. Sennò il tuo film farà schifo.