Gostanza da Libbiano è
l'ultimo film di una trilogia denominata "trittico pittorico dell'identità".
L'idea della trilogia era nata già con Il bacio di Giuda?
Quando ho girato Il bacio di Giuda, pensavo ad un film su Cristo che fosse la
risposta ad una discussione avuta con Rossellini a proposito della storicità dei
Vangeli. Lui aveva fatto un film bellissimo, Messia, che cinematograficamente ho
amato molto, nel quale usava i Vangeli come documenti storici. Secondo me,
invece, i Vangeli sono il risultato di un lungo processo di pensiero, durato tre
secoli e terminato con la trascrizione di racconti orali iniziati probabilmente
quando Cristo era vivo e poi tramandati di generazione in generazione, in un
continuo arricchimento da parte dell'immaginario collettivo. Infatti Il bacio di
Giuda non è un film storico, ma meta-storico, in quanto è la rappresentazione di
quell'immaginario creatosi su eventi antichi, nel quale gli elementi storici
sono mescolati tra loro: nel film ci sono oggetti di scena di epoche diverse, in
un gioco che è molto più vicino alla rappresentazione pittorica di Caravaggio
che alla ricostruzione fedele di Gerusalemme di duemila anni fa. Poi, nel 1990,
ho scoperto un documento - quello che sta alla base di Confortorio - che
esprimeva tutta la violenza e l'aggressività dell'ideologia cattolica nei
confronti del mondo ebraico. Gli ebrei erano diventati i nemici della Chiesa
nata da Cristo e, insieme a loro, le donne, migliaia di donne bruciate come
streghe. Ho pensato allora ad una trilogia nella cui pala centrale ci fosse la
parola liberatrice del Cristo e nelle pale laterali le aberrazioni violente che
la Chiesa, nata da quella parola, aveva prodotto nel corso dei secoli. Non avevo
ancora trovato la storia di Gostanza, ma sapevo cosa stavo cercando, una storia
emblematica nella quale una figura femminile fosse sottoposta a violenze da
parte dell'autorità religiosa. Ho chiamato la trilogia "Trittico
dell'identità", perché in tutti e tre i film la costante è il rapporto tra
l'identità individuale e il potere dominante.
La storia di Gostanza è stata ricavata da una pubblicazione o direttamente
dal materiale storico ritrovato a San Miniato?
Alla fine degli anni Ottanta il comune di San Miniato ha deciso di riordinare
l'archivio storico del comune. È in tale occasione che le archiviste incaricate
hanno trovato il manoscritto, poi pubblicato in un libro a cura di Franco
Cardini, docente di storia medievale a Firenze. Un amico, che sapeva cosa stavo
cercando, me lo ha portato da leggere, e da lì è nato tutto. Essendo infatti
entrato in confidenza con le archiviste, ho chiesto loro se erano in grado di
trovare altri documenti, perché mi ero incuriosito e volevo sapere che fine
aveva fatto questa poveretta dopo il processo. Esse mi hanno allora mostrato i
verbali della seconda fase processuale, quando il vicario padre Porcacchi si
prende in carico il processo e per altri venti giorni continua ad indagare. La
sentenza che si legge alla fine del film viene emessa dopo questo secondo
prolungamento delle indagini, quando il religioso manda i risultati a Firenze
dal grande inquisitore, suo superiore, e questo gli risponde di finire di
perseguitare quella povera contadinotta.
Tuttavia Gostanza non è una contadina: c'è una notevole differenza tra come
parla lei e come parla la donna chiamata a testimoniare…
Infatti nel film riporto questa sua confessione. Gostanza nasce nobile, figlia
naturale di Lotto Niccolini. A quel tempo una figlia naturale era riconosciuta:
il padre la ripudierà e l'abbandonerà a se stessa dopo che è stata rapita dai
pastori. Per tutta la vita questa donna ricorderà la sua infanzia dorata: quando
racconta e descrive la città del diavolo, così bella, con palazzi, cornici
fiorite e saloni d'oro, è perché da bambina forse aveva assistito a qualche
festa medicea o ne aveva sentito il racconto delle donne di casa.
Guardando il film si ha l'impressione di scorrere una mostra di fotografie,
sia per la scelta del bianco e nero sia per l'accuratezza nella composizione
dell'inquadratura…
Purtroppo oggi lo spettatore è abituato ad uno sguardo superficiale della
macchina da presa e pensa che questo sia il cinema: io invece sostengo che esso
è il risultato di un rapporto di consapevolezza, etica ed estetica, fra il
rettangolo dell'inquadratura e il soggetto rappresentato. Solo in quel caso
riconosco il senso della narrazione cinematografica: quando un film ne è privo,
per me non è cinema, anche se può esserlo per tutti gli altri. Se però
osserviamo tutto ciò che è stato prodotto, dai fratelli Lumière fino agli anni
Cinquanta, ci accorgiamo che questo senso di consapevolezza dell'inquadratura
era costante; e che l'abbiamo perso per strada, perché a poco a poco si è
smarrita la chiarezza del punto di vista.
Infatti l'impressione è che ogni singola inquadratura del tuo film ci dia il
tempo di cogliere ogni particolare: dalla luce alla concezione dello spazio…
Questo significa anche rispetto per lo spettatore, per i suoi tempi di lettura,
per la sua intelligenza, per la sua sensibilità, per il suo diritto di
ascoltare, di capire e anche di non essere d'accordo. Io voglio fare un cinema
maieutico, che tira fuori dalla coscienza, dalla cultura, dalla sensibilità,
dalla preparazione di chi guarda il suo senso etico ed estetico, il suo
giudizio, la sua impressione. Credo che il cinema debba instaurare un rapporto
di comunicazione e di scambio e non imporre dall'alto uno schermo sulle teste di
centinaia di persone. In Gostanza da Libbiano mi interessava dunque che lo
spettatore avesse la possibilità di capire esattamente dove si trovava,
usufruendo del tempo necessario per ritrovare lo sguardo all'interno
dell'inquadratura: come se io l'accompagnassi per mano all'interno di un
percorso, senza dargli delle coordinate precise ma piuttosto la possibilità di
trovarle da sé. Perché ogni volta il punto di vista era quello richiesto dal
personaggio, non quello imposto dalla regia. A tutto questo va aggiunto il
problema dello spazio, che consiste nel dare sempre e comunque delle indicazioni
precise sul luogo in cui l'evento si svolge, perché anch'esso entra in relazione
con la situazione. Nel film, come nella vita, il potere organizza la vita
dell'uomo all'interno di spazi definiti: quelli dove si giudica, quelli dove si
tortura, quelli dove si imprigiona, quelli dove si prega. A volte esso è così
potente che mescola un po' le carte: per esempio, usa una cappella come fosse
una prigione, perché può fare quello che vuole, essendo padrone degli uomini e
dei loro spazi. Far capire allo spettatore l'importanza simbolica dei luoghi,
delle architetture, è molto importante. Infatti il film incomincia e finisce con
la stessa immagine, quella di una torre, che è il segno del potere, militare e
politico, sul paese sottostante, ma è anche un simbolo fallico, cioè un simbolo
del potere maschile sulla donna.
È la prima volta che affronti un personaggio femminile. Come mai solo ora?
Devo ringraziare Paola Baroni, che ha capito fin da subito come questo per me
fosse un passaggio molto difficile. Mi ha aiutato a scoprire il mio lato
<<femminile>>, perché, solo nel momento in cui avessi preso coscienza di questo,
avrei potuto creare una relazione profonda e autentica con un personaggio
femminile importante come quello di Lucia Poli, complesso, pieno di slanci e
contraddizioni.
Tu e Paola avete lavorato insieme alla costruzione di Gostanza?
Prima abbiamo lavorato insieme su di me, per molto tempo. Lei è partita
addirittura dal rapporto con mia madre, con mia nonna e con le donne che sono
state importanti nella mia vita. Poi abbiamo analizzato quelle dei miei film,
che erano pure icone e mai degli esseri umani a tutto tondo. Non sentendomi
pronto ad affrontare l'identità femminile, le avevo sempre lasciate in
sottofondo, cogliendone l'elemento estetico senza andare oltre, facendone
elementi senza spessore. Ora invece, affrontando un soggetto così complesso come
quello di Gostanza, dovevo entrarvi dentro, per capirlo e coglierne tutte le
sfumature psicologiche. Inoltre non c'era solo Gostanza, ma anche Lisabetta e
Dianora, tre caratteri completamente diversi. Della prima si è occupata Paola,
preparandola e portandola personalmente sul set: la bambina era talmente fresca
e spontanea, che ho semplicemente guardato il suo corpo muoversi con
naturalezza. Anche se all'inizio ho avuto dei problemi e ho sbagliato il suo
primo piano: era così stonato, che due mesi dopo, a fine montaggio, siamo
ritornati sul set per girarlo di nuovo.
Come avveniva, nella pratica, la vostra collaborazione?
Innanzitutto abbiamo discusso molto delle figure femminili dei miei film,
cercando di capire perché non emanavano il calore, la vitalità, il respiro di
quelle maschili. Poi, durante la lavorazione, ogni volta che la vedevo titubante
mi fermavo per cercare di capire cosa non andasse e per modificarlo. Talvolta mi
diceva: "Qui c'è qualcosa che non funziona: cerca di capire che cos'è". Lei non
aveva la risposta, la soluzione tecnica a quel problema. Allora io facevo tutto
il percorso tecnico-linguistico e scoprivo che aveva ragione lei, che
effettivamente c'era qualcosa che stonava. Ad esempio, il primo piano in cui
Gostanza dice: "Io sono una strega" - di grandissima intensità - l'avevo in
realtà girato il giorno precedente, in un'altra versione che Paola non
condivideva. Secondo lei bisognava andare oltre, perché la frase era molto
forte, molto importante: con essa Gostanza affermava la sua identità e al
contempo era consapevole che questa affermazione significava la propria morte.
Due cose così forti dentro di lei dovevano essere espresse ad un livello
superiore a quello in cui le avevo filmate io. Il giorno dopo abbiamo rigirato
quel primo piano e il processo di introspezione fatto da Lucia per raggiungere
il livello indicato da Paola è stato tale che dopo lo "stop" l'attrice ha
avuto una crisi isterica e si è messa a piangere, perché aveva toccato una corda
profonda e sensibile della sua tragedia di donna, dei suoi ricordi, delle sue
problematiche interiori.
A proposito di Lucia Poli, volevo sapere se hai sempre lavorato con attori di
teatro o se hai scelto lei perché il testo era così "scritto" da richiedere
una presenza forte come la sua.
Ho sempre lavorato con dei non professionisti, sia per Il bacio di Giuda sia per
Tiburzi. In Confortorio avevo solo due attori di teatro - i due protagonisti -
su trenta personaggi del film. Parto sempre dal presupposto che a me non
interessano tanto gli attori, quanto le persone: per cui ogni volta scelgo di
entrare in sintonia con l'essere umano, non con la sua tecnica. Ho fatto la
stessa cosa con Lucia, che è stata disponibilissima a spogliarsi di tutte le
sovrastrutture della recitazione teatrale, dell'esasperazione dei gesti scenici,
delle maschere, per arrivare alla sua anima di donna, non di attrice. Nello
stesso tempo ho recuperato tutta la sua grande professionalità, per esempio
nella memorizzazione del testo, che solo un'attrice come Lucia poteva fare:
perché questo è un film con monologhi molto lunghi, che non potevo spezzare con
il montaggio, in quanto avrei fatto una violenza alla tensione stessa del
racconto. Dovevo dunque trovare un'attrice che avesse la capacità professionale
di esprimere un testo così complesso e nel contempo la capacità umana di
spogliarsi di tutta la sua tecnica.
Questo è il tuo primo film in bianco e nero: cosa ti ha portato a questa scelta?
Ho deciso di girare in bianco e nero poco tempo prima dell'inizio delle riprese.
Durante i nove anni di lavoro di sceneggiatura e di ricerche sul testo, ho
sempre pensato a un film a colori come tutti gli altri, anche perché avevo in
mente un trittico pittorico e dunque il colore era d'obbligo. Sono invece
arrivato al bianco e nero perché tutto il lavoro fatto è stato un lavoro "a
togliere". Il documento, che era di duecento pagine, è stato ridotto a
quaranta, per arrivare all'essenza del testo. Lo stesso è stato fatto per la
scenografia, ridotta all'essenziale. Non volevo che ci fossero orpelli
ridondanti: pertanto tutto ciò che si vede dentro l'inquadratura è funzionale al
racconto. Per esempio, nella scena del tribunale si scorge sullo sfondo uno
stemma mediceo: quello è un oggetto di scenografia che abbiamo fatto costruire e
applicare sotto gli scranni originali del Cinquecento, perché ci serviva un
elemento fortemente simbolico ma anche fortemente storico, che collocasse
cronologicamente la vicenda. Lo stesso discorso vale per i costumi, tutti
semplicissimi e funzionali ai personaggi. In questo processo di scarnificazione,
di eliminazione di tutto il superfluo, mi sono reso conto che la bellezza dei
paesaggi e le sfumature di colore del novembre toscano erano così fortemente
pittorici, da farmi temere una possibile distrazione dal rapporto diretto,
intenso, che volevo si creasse tra lo spettatore e l'affabulazione di Gostanza.
Nel momento in cui ho deciso di eliminare il colore mi sono sentito liberato da
questo orpello, magari bellissimo, ma non funzionale a ciò che volevo dire.