UN CINEMA MAIEUTICO
Conversazione con Paolo Benvenuti, Locarno 2000
A cura di Erika David
Dalla rivista Panoramiche, inverno 2000

 

Gostanza da Libbiano è l'ultimo film di una trilogia denominata "trittico pittorico dell'identità". L'idea della trilogia era nata già con Il bacio di Giuda?

Quando ho girato Il bacio di Giuda, pensavo ad un film su Cristo che fosse la risposta ad una discussione avuta con Rossellini a proposito della storicità dei Vangeli. Lui aveva fatto un film bellissimo, Messia, che cinematograficamente ho amato molto, nel quale usava i Vangeli come documenti storici. Secondo me, invece, i Vangeli sono il risultato di un lungo processo di pensiero, durato tre secoli e terminato con la trascrizione di racconti orali iniziati probabilmente quando Cristo era vivo e poi tramandati di generazione in generazione, in un continuo arricchimento da parte dell'immaginario collettivo. Infatti Il bacio di Giuda non è un film storico, ma meta-storico, in quanto è la rappresentazione di quell'immaginario creatosi su eventi antichi, nel quale gli elementi storici sono mescolati tra loro: nel film ci sono oggetti di scena di epoche diverse, in un gioco che è molto più vicino alla rappresentazione pittorica di Caravaggio che alla ricostruzione fedele di Gerusalemme di duemila anni fa. Poi, nel 1990, ho scoperto un documento - quello che sta alla base di Confortorio - che esprimeva tutta la violenza e l'aggressività dell'ideologia cattolica nei confronti del mondo ebraico. Gli ebrei erano diventati i nemici della Chiesa nata da Cristo e, insieme a loro, le donne, migliaia di donne bruciate come streghe. Ho pensato allora ad una trilogia nella cui pala centrale ci fosse la parola liberatrice del Cristo e nelle pale laterali le aberrazioni violente che la Chiesa, nata da quella parola, aveva prodotto nel corso dei secoli. Non avevo ancora trovato la storia di Gostanza, ma sapevo cosa stavo cercando, una storia emblematica nella quale una figura femminile fosse sottoposta a violenze da parte dell'autorità religiosa. Ho chiamato la trilogia "Trittico dell'identità", perché in tutti e tre i film la costante è il rapporto tra l'identità individuale e il potere dominante.

La storia di Gostanza è stata ricavata da una pubblicazione o direttamente dal materiale storico ritrovato a San Miniato?

Alla fine degli anni Ottanta il comune di San Miniato ha deciso di riordinare l'archivio storico del comune. È in tale occasione che le archiviste incaricate hanno trovato il manoscritto, poi pubblicato in un libro a cura di Franco Cardini, docente di storia medievale a Firenze. Un amico, che sapeva cosa stavo cercando, me lo ha portato da leggere, e da lì è nato tutto. Essendo infatti entrato in confidenza con le archiviste, ho chiesto loro se erano in grado di trovare altri documenti, perché mi ero incuriosito e volevo sapere che fine aveva fatto questa poveretta dopo il processo. Esse mi hanno allora mostrato i verbali della seconda fase processuale, quando il vicario padre Porcacchi si prende in carico il processo e per altri venti giorni continua ad indagare. La sentenza che si legge alla fine del film viene emessa dopo questo secondo prolungamento delle indagini, quando il religioso manda i risultati a Firenze dal grande inquisitore, suo superiore, e questo gli risponde di finire di perseguitare quella povera contadinotta.

Tuttavia Gostanza non è una contadina: c'è una notevole differenza tra come parla lei e come parla la donna chiamata a testimoniare…

Infatti nel film riporto questa sua confessione. Gostanza nasce nobile, figlia naturale di Lotto Niccolini. A quel tempo una figlia naturale era riconosciuta: il padre la ripudierà e l'abbandonerà a se stessa dopo che è stata rapita dai pastori. Per tutta la vita questa donna ricorderà la sua infanzia dorata: quando racconta e descrive la città del diavolo, così bella, con palazzi, cornici fiorite e saloni d'oro, è perché da bambina forse aveva assistito a qualche festa medicea o ne aveva sentito il racconto delle donne di casa.

Guardando il film si ha l'impressione di scorrere una mostra di fotografie, sia per la scelta del bianco e nero sia per l'accuratezza nella composizione dell'inquadratura…

Purtroppo oggi lo spettatore è abituato ad uno sguardo superficiale della macchina da presa e pensa che questo sia il cinema: io invece sostengo che esso è il risultato di un rapporto di consapevolezza, etica ed estetica, fra il rettangolo dell'inquadratura e il soggetto rappresentato. Solo in quel caso riconosco il senso della narrazione cinematografica: quando un film ne è privo, per me non è cinema, anche se può esserlo per tutti gli altri. Se però osserviamo tutto ciò che è stato prodotto, dai fratelli Lumière fino agli anni Cinquanta, ci accorgiamo che questo senso di consapevolezza dell'inquadratura era costante; e che l'abbiamo perso per strada, perché a poco a poco si è smarrita la chiarezza del punto di vista.

Infatti l'impressione è che ogni singola inquadratura del tuo film ci dia il tempo di cogliere ogni particolare: dalla luce alla concezione dello spazio…

Questo significa anche rispetto per lo spettatore, per i suoi tempi di lettura, per la sua intelligenza, per la sua sensibilità, per il suo diritto di ascoltare, di capire e anche di non essere d'accordo. Io voglio fare un cinema maieutico, che tira fuori dalla coscienza, dalla cultura, dalla sensibilità, dalla preparazione di chi guarda il suo senso etico ed estetico, il suo giudizio, la sua impressione. Credo che il cinema debba instaurare un rapporto di comunicazione e di scambio e non imporre dall'alto uno schermo sulle teste di centinaia di persone. In Gostanza da Libbiano mi interessava dunque che lo spettatore avesse la possibilità di capire esattamente dove si trovava, usufruendo del tempo necessario per ritrovare lo sguardo all'interno dell'inquadratura: come se io l'accompagnassi per mano all'interno di un percorso, senza dargli delle coordinate precise ma piuttosto la possibilità di trovarle da sé. Perché ogni volta il punto di vista era quello richiesto dal personaggio, non quello imposto dalla regia. A tutto questo va aggiunto il problema dello spazio, che consiste nel dare sempre e comunque delle indicazioni precise sul luogo in cui l'evento si svolge, perché anch'esso entra in relazione con la situazione. Nel film, come nella vita, il potere organizza la vita dell'uomo all'interno di spazi definiti: quelli dove si giudica, quelli dove si tortura, quelli dove si imprigiona, quelli dove si prega. A volte esso è così potente che mescola un po' le carte: per esempio, usa una cappella come fosse una prigione, perché può fare quello che vuole, essendo padrone degli uomini e dei loro spazi. Far capire allo spettatore l'importanza simbolica dei luoghi, delle architetture, è molto importante. Infatti il film incomincia e finisce con la stessa immagine, quella di una torre, che è il segno del potere, militare e politico, sul paese sottostante, ma è anche un simbolo fallico, cioè un simbolo del potere maschile sulla donna.

È la prima volta che affronti un personaggio femminile. Come mai solo ora?

Devo ringraziare Paola Baroni, che ha capito fin da subito come questo per me fosse un passaggio molto difficile. Mi ha aiutato a scoprire il mio lato <<femminile>>, perché, solo nel momento in cui avessi preso coscienza di questo, avrei potuto creare una relazione profonda e autentica con un personaggio femminile importante come quello di Lucia Poli, complesso, pieno di slanci e contraddizioni.

Tu e Paola avete lavorato insieme alla costruzione di Gostanza?


Prima abbiamo lavorato insieme su di me, per molto tempo. Lei è partita addirittura dal rapporto con mia madre, con mia nonna e con le donne che sono state importanti nella mia vita. Poi abbiamo analizzato quelle dei miei film, che erano pure icone e mai degli esseri umani a tutto tondo. Non sentendomi pronto ad affrontare l'identità femminile, le avevo sempre lasciate in sottofondo, cogliendone l'elemento estetico senza andare oltre, facendone elementi senza spessore. Ora invece, affrontando un soggetto così complesso come quello di Gostanza, dovevo entrarvi dentro, per capirlo e coglierne tutte le sfumature psicologiche. Inoltre non c'era solo Gostanza, ma anche Lisabetta e Dianora, tre caratteri completamente diversi. Della prima si è occupata Paola, preparandola e portandola personalmente sul set: la bambina era talmente fresca e spontanea, che ho semplicemente guardato il suo corpo muoversi con naturalezza. Anche se all'inizio ho avuto dei problemi e ho sbagliato il suo primo piano: era così stonato, che due mesi dopo, a fine montaggio, siamo ritornati sul set per girarlo di nuovo.

Come avveniva, nella pratica, la vostra collaborazione?

Innanzitutto abbiamo discusso molto delle figure femminili dei miei film, cercando di capire perché non emanavano il calore, la vitalità, il respiro di quelle maschili. Poi, durante la lavorazione, ogni volta che la vedevo titubante mi fermavo per cercare di capire cosa non andasse e per modificarlo. Talvolta mi diceva: "Qui c'è qualcosa che non funziona: cerca di capire che cos'è". Lei non aveva la risposta, la soluzione tecnica a quel problema. Allora io facevo tutto il percorso tecnico-linguistico e scoprivo che aveva ragione lei, che effettivamente c'era qualcosa che stonava. Ad esempio, il primo piano in cui Gostanza dice: "Io sono una strega" - di grandissima intensità - l'avevo in realtà girato il giorno precedente, in un'altra versione che Paola non condivideva. Secondo lei bisognava andare oltre, perché la frase era molto forte, molto importante: con essa Gostanza affermava la sua identità e al contempo era consapevole che questa affermazione significava la propria morte. Due cose così forti dentro di lei dovevano essere espresse ad un livello superiore a quello in cui le avevo filmate io. Il giorno dopo abbiamo rigirato quel primo piano e il processo di introspezione fatto da Lucia per raggiungere il livello indicato da Paola è stato tale che dopo lo "stop" l'attrice ha avuto una crisi isterica e si è messa a piangere, perché aveva toccato una corda profonda e sensibile della sua tragedia di donna, dei suoi ricordi, delle sue problematiche interiori.

A proposito di Lucia Poli, volevo sapere se hai sempre lavorato con attori di teatro o se hai scelto lei perché il testo era così "scritto" da richiedere una presenza forte come la sua.

Ho sempre lavorato con dei non professionisti, sia per Il bacio di Giuda sia per Tiburzi. In Confortorio avevo solo due attori di teatro - i due protagonisti - su trenta personaggi del film. Parto sempre dal presupposto che a me non interessano tanto gli attori, quanto le persone: per cui ogni volta scelgo di entrare in sintonia con l'essere umano, non con la sua tecnica. Ho fatto la stessa cosa con Lucia, che è stata disponibilissima a spogliarsi di tutte le sovrastrutture della recitazione teatrale, dell'esasperazione dei gesti scenici, delle maschere, per arrivare alla sua anima di donna, non di attrice. Nello stesso tempo ho recuperato tutta la sua grande professionalità, per esempio nella memorizzazione del testo, che solo un'attrice come Lucia poteva fare: perché questo è un film con monologhi molto lunghi, che non potevo spezzare con il montaggio, in quanto avrei fatto una violenza alla tensione stessa del racconto. Dovevo dunque trovare un'attrice che avesse la capacità professionale di esprimere un testo così complesso e nel contempo la capacità umana di spogliarsi di tutta la sua tecnica.

Questo è il tuo primo film in bianco e nero: cosa ti ha portato a questa scelta?


Ho deciso di girare in bianco e nero poco tempo prima dell'inizio delle riprese. Durante i nove anni di lavoro di sceneggiatura e di ricerche sul testo, ho sempre pensato a un film a colori come tutti gli altri, anche perché avevo in mente un trittico pittorico e dunque il colore era d'obbligo. Sono invece arrivato al bianco e nero perché tutto il lavoro fatto è stato un lavoro "a togliere". Il documento, che era di duecento pagine, è stato ridotto a quaranta, per arrivare all'essenza del testo. Lo stesso è stato fatto per la scenografia, ridotta all'essenziale. Non volevo che ci fossero orpelli ridondanti: pertanto tutto ciò che si vede dentro l'inquadratura è funzionale al racconto. Per esempio, nella scena del tribunale si scorge sullo sfondo uno stemma mediceo: quello è un oggetto di scenografia che abbiamo fatto costruire e applicare sotto gli scranni originali del Cinquecento, perché ci serviva un elemento fortemente simbolico ma anche fortemente storico, che collocasse cronologicamente la vicenda. Lo stesso discorso vale per i costumi, tutti semplicissimi e funzionali ai personaggi. In questo processo di scarnificazione, di eliminazione di tutto il superfluo, mi sono reso conto che la bellezza dei paesaggi e le sfumature di colore del novembre toscano erano così fortemente pittorici, da farmi temere una possibile distrazione dal rapporto diretto, intenso, che volevo si creasse tra lo spettatore e l'affabulazione di Gostanza. Nel momento in cui ho deciso di eliminare il colore mi sono sentito liberato da questo orpello, magari bellissimo, ma non funzionale a ciò che volevo dire.