TIBURZI, DEI SUOI SOSPIRI ESTREMI
di Luciano Barisone
Duel n.43, novembre 1996
Due anni fa (dicembre 1996, Duel n° 20) in un mappaggio provvisorio del "cinema
estremo" segnalammo per l'Italia il nome di Paolo Benvenuti, innescando fra i
lettori un curioso e divertente equivoco con il suo omonimo Alessandro. Quest'ultimo,
autore di commedie divertenti e originali ma non certo "estreme", era ben noto a
chi va al cinema. Il marginale Paolo invece risultava sconosciuto ai più. Ed è
purtroppo ancora così. Allora, approfittando della proiezione del suo ultimo
film, Tiburzi, al Festival di Locarno, abbiamo intavolato con lui una
chiacchierata sui modi e sui tempi del suo fare cinema.
- Originariamente sei pittore. Come ti sei avvicinato al cinema?
- Nel '68 avevo vent'anni ed ero un artista in crisi. Come molti miei coetanei
vivevo una contraddizione profonda: da una parte mi sentivo un rivoluzionario,
dall'altra vendevo i miei quadri a una clientela borghese. Un giorno un
dirigente dell'ARCI di Pisa mi chiese se ero interessato ad andare a un
seminario sul cinema a Reggio Emilia. Io ero libero e decisi di andare. Mi
ritrovai così in mezzo a un gruppo di cinefili pazzi che stavano 24 ore al
giorno a vedere delle cose – i film di Andy Warhol, quelli di Michael Snow. Dopo
due o tre giorni capii però che questi cineasti avevano trovato una risposta
alle mie domande esistenziali e che, se avessi usato un linguaggio diverso,
avrei potuto dipingere per un pubblico diverso. Dopo questa esperienza tornai a
Pisa e mi misi a dipingere con la cinepresa invece che col pennello.
- Il tuo essere legato alla Toscana è una scelta o una conseguenza?
- Quando mi chiedono se appartengo al nuovo cinema italiano rispondo che
appartengo al nuovo cinema pisano, anche perché il cosiddetto "nuovo cinema
italiano" non mi entusiasma. Il discorso della "provincialità" invece mi
interessa molto. Credo infatti che la cosa più internazionale sia la cosa più
provinciale. Io posso raccontare qualcosa di nuovo a un giapponese se gli parlo
di una cosa di cui lui non ha mai sentito parlare, per cui se racconto una
storia della mia terra so che quella storia può interessare qualcuno che non ha
nessuna relazione culturale con essa. Come io sono affascinato dai film di
Mizoguchi, perché mi parlano di un mondo lontano, così penso che a Mizoguchi
avrebbe potuto interessare la storia di Tiburzi. Tornando a quanto dicevi prima
sull'impostazione pittorica-teatrale del tuo cinema, a me sembra di vedervi
anche l'impostazione di uno sguardo documentario… io mi sono occupato di pittura
molto probabilmente perché mio padre si occupava di cinema. Lui è stato ed è un
ottimo documentarista. Ed è stato all'origine di più di una vocazione
cinematografica. Per esempio quella dei fratelli Taviani. Detto questo, la
risposta alla tua domanda è: sì, mi ritengo un documentarista. Anche oggi che
faccio film di fiction.
- Secondo me la scelta di mettere la cantante e poi i quadri con la vita e la
morte di Tiburzi dà al tuo nuovo film una struttura di ballata popolare
asincrona: tutta la storia è già raccontata prima, come premessa a quello che è
poi il tema fondamentale di Tiburzi e che è anche una sorta di tua ossessione,
cioè il tempo.
- È vero. Infatti sui titoli di testa c'è il ticchettio di un orologio. E
l'orologio è il tema della poesia scritta da Tiburzi. Ma tutto ciò è legato
all'altra mia ossessione: raccontare le storie nascoste, quelle che i libri di
Storia non raccontano, le storie di quella classe a cui ho ispirato tutto il
lavoro della mia vita: la classe dominata. Non mi si dica che la cultura
sindacale è una cultura. La classe contadina italiana è stata distrutta e uccisa
anche con la responsabilità delle sinistre, perché faceva più comodo avere una
classe operaia che non una classe contadina. La prima votava a sinistra, la
seconda a destra. Ed era più difficilmente controllabile. Bisogna capire il
tempo. Il tempo del mondo contadino ha un suo ritmo, una sua scansione. Tiburzi
apparteneva a quel mondo, perché il suo tempo era lo stesso della cultura
contadina. E la gente della campagna lo capiva non solo perché parlava lo stesso
linguaggio ma perché viveva all'interno dello stesso tempo. La cultura dei
dominatori ha un ritmo diverso. Gli americani fanno un cinema con un ritmo
diverso dalla cultura dominata. Io faccio un cinema che rende giustizia al tempo
dei dominati e va contro il tempo dei dominatori. Per questo il mio cinema
disturba, non tanto per le storie che racconto, per i contenuti che esprimo, ma
per il tempo che uso nel raccontare. Il tempo è la cosa più fastidiosa per certi
distributori che si dichiarano di sinistra e che in realtà vorrebbero che in
Italia si facesse un cinema all'americana.
- Tu metti in scena il discorso del tempo in due momenti all'interno del film:
il tempo degli incontri fra gli aristocratici e gli ufficiali è diverso dal
tempo del pasto contadino di Tiburzi. Quest'ultimo è quasi un'attesa
ineluttabile.
- È il tempo del rito. Mentre l'altro è il tempo burocratico,
dell'ufficialità… È il tempo del potere.
- C'è una tua posizione disincantata nei confronti del potere, delle sue
vittime. Tu non fai una denuncia, fai una constatazione…
- Io mostro. Come diceva Rossellini "Mostrare, non dimostrare".
Presentato all'ultimo Festival di Locarno "Tiburzi" è il
nuovo film del duellante Paolo Benvenuti.
Recensione.
C'è sempre un testo forte e codificato alla base dei progetti
filmici di Paolo Benvenuti (il Vangelo per Il bacio di Giuda, gli atti di un
processo per Confortorio), una sorta di atto definito, all'interno del quale
egli si insinua, demolendone le strutture consolidate, i ritmi e gli spazi
abituali. È quanto avviene anche in Tiburzi dove la foto di una "leggenda" e gli
incartamenti burocratici di un caso di ordine pubblico diventano una ballata
asincrona, scandita dalle strofe di una canzone popolare e dai quadri con cui il
cantastorie illustra la Storia. Una scansione per spazi conchiusi, dominata dal
tempo morto dell'azione. È infatti il tempo l'ossessione segreta di Tiburzi: il
tempo muto della memoria, quello dolente della giovinezza e del potere perduto,
quello ineluttabile che precede la fine. Una dimensione impassibile, nella quale
trovano posto, in un paesaggio diacronico (le strade degli Etruschi, i castelli
dei feudatari papalini, gli uffici della polizia sabauda), i corpi senza nome
della finzione, chiusi "fordianamente" da un destino che unisce i grandi spazi
della natura e quelli angusti dell'animo umano.