TIBURZI: I QUADRI, IL TEATRO, LA STORIA
Testo tratto da un'intervista di Michele Fadda a Paolo Benvenuti - Cineforum n° 366
 

Il Teatro del Maggio
 

        La Medea è un film del 1971, il risultato di un incontro fortunato che ebbi alla fine dell'estate di quell'anno con un vecchio contadino sui monti pisani. Da questo incontro è nata la mia scoperta della cultura contadina. Una scoperta che mi ha portato a concludere un documentario che stavo girando in quel momento. Del monte pisano, e a scoprire quella forma di teatro che è il Teatro del Maggio. È una struttura teatrale molto rigida: un prologo, due o tre atti, un epilogo. Gli attori recitano cantando in rima, in quartine da ottonari, A-B-B-A. Un esempio: "Della barbara Medea/canterem gli infausti amori/le sciagure e i lunghi errori/ch'ella fe', crudele e rea".
        Quel canto aveva una strana sonorità. Quando lo sentii per la prima volta ebbi la sensazione che stonassero, come se non ci fosse armonia. Feci ascoltare la registrazione a un mio amico, musicologo, il quale, sorpreso, mi disse che questa gente cantava su moduli musicali antichissimi, costruiti sulla scala dorica greca, un scala pentatonica discendente, che non si usa più in Europa da almeno duecento anni. Ho fatto poi sentire queste registrazioni anche ad altri che avevano sentito cose identiche a Cipro, in Grecia, in Turchia, in Marocco, e mi sono reso conto che le origini culturali di questo "recitar cantando" appartenevano alla cultura di tutto il bacino mediterraneo. Non solo: questi contadini, mentre cantavano, a volte facevano delle cesure, delle pause nel testo che non avevano niente a che fare con il contenuto del medesimo. Questa cosa l'ho trovata identica nei cantastorie siciliani. C'era all'origine una matrice comune e probabilmente questa matrice era il teatro epico, portato dai greci dalla Magna Grecia in Italia.
        Ma la cosa che più mi aveva affascinato era il modo assolutamente antinaturalistico, ieratico e rituale, soprattutto frontale, di questa recitazione. Questi attori contadini declamavano su un palcoscenico ideale, e, quando c'era un dialogo tra due personaggi, un duetto, non si guardavano mai in faccia. Guardavano sempre gli spettatori che erano di fronte a loro, come se volessero coinvolgerli come testimoni delle loro diatribe e dei loro drammi. Questa frontalità mi ha portato alla memoria la pittura antica, dai Bizantini al Medio Evo: la pittura delle pale d'altare del Quattrocento, dove i personaggi, le Madonne, i santi, hanno un atteggiamento di frontalità rispetto agli spettatori che guardano il quadro. Mi sono detto: è questo teatro che si è ispirato alla pittura antica o è la pittura che si è ispirata a questo teatro? Ebbi l'occasione di discuterne a lungo con Dario Fo, con il quale feci nel '78 un documentario su questo tema, Il cantamaggio. Dario sosteneva che erano i pittori di quel tempo che si ispiravano al teatro, e non il teatro alla pittura. Cioè gli artisti non rappresentavano la realtà ma la sua rappresentazione. La pittura era la rappresentazione di una rappresentazione. La cosa mi ha aperto incredibili possibilità espressive, perché, quando realizzo un'inquadratura cinematografica (una rappresentazione visiva del rapporto fra realtà e teatro) non posso che fare riferimento alla pittura che a sua volta è riferita al teatro che a sua volta è una interpretazione poetica della realtà, per cui il rapporto tra cinema e realtà non è im-mediato ma mediato attraverso questi passaggi. Questa scoperta ha influenzato da quel momento il mio cinema futuro, come è evidente nei rimandi pittorici presenti sia nel Bacio di Giuda che in Confortorio, che in Tiburzi.

        Tiburzi: il prologo

        Una cantante, una donna vestita di nero, canta una canzone sul brigante Tiburzi. Sulla sua voce, scorrono quadretti dei cantastorie, ad illustrare la storia del bandito toscano.
        Per quanto riguarda Tiburzi, una storia appartenente al mondo contadino ottocentesco, non potevo non riportare a galla nella mia memoria tutta l'esperienza fatta venticinque anni prima con la Medea . Ecco allora che la prima immagine del film rimanda alla Medea. Infatti, la frontalità della figura della cantante che fa da prologo al film ricorda sia il modo di porsi della figura di Medea, sia la figura del Prologo, che nel Teatro del maggio si chiama Corriere. Il Corriere è un personaggio estraneo alla vicenda raccontata, una sorta di narratore che appare prima della rappresentazione vera e propria, e la introduce; poi a metà della rappresentazione può riapparire a riassumere cosa è successo e cosa ancora deve accadere. Alla fine appare per l'ultima volta a prendere licenza dagli spettatori: "E se il nostro canto avete/di buon animo gradito/vi facciamo nuovo invito/di tornar che grati siete". Questa è l'ultima quartina che conclude la Medea.
        Quando ho fatto Tiburzi ho voluto riproporre una struttura drammaturgica simile. In Tiburzi il prologo è alternato a dei quadretti popolari, come nei tabelloni dei cantastorie. Questi riferimenti erano dati allo spettatore per presentare la storia, il personaggio, la vicenda. La cantante che canta la canzone all'inizio del film ci racconta tutta la storia. Ci racconta anche come va a finire, cioè che Tiburzi sarà ammazzato.
        Questo tipo di presentazione, dove si dice già tutto, dove praticamente viene annullata quella che oggi chiamiamo la tensione narrativa (tipica del teatro drammatico borghese), era una particolarità del teatro epico antico e del Teatro del Maggio. Il teatro epico era solo mostrare gli eventi: conflitti che venivano rappresentati a un pubblico che andava a vedere più volte la stessa opera teatrale, sapendo esattamente come andava a finire: perché ciò che interessava era la bellezza dei testi poetici e come gli attori li recitassero cantando.

        I atto: il quadro della legge
  
        Tiburzi è tornato. Negli interni del dominio e della legge, nella stanza dei carabinieri di fronte a una carta geografica, nel castello del Principe Corsini, si mostra come lo Stato, insieme ai proprietari terrieri, discuta come eliminare definitivamente il bandito.
Nel primo atto del film si mostra l'inchiesta dei carabinieri e il rapporto tra i briganti e i proprietari terrieri. Nel primo atto la storia di Tiburzi viene raccontata da vari testimoni. Si scopre così che Tiburzi è in realtà il braccio armato dei proprietari terrieri, degli agrari. Con una sua particolarità, e cioè che quel brigante ha un innato senso della giustizia. Tiburzi distingue in maniera netta la legge dalla giustizia: la legge e i suoi rappresentanti sono una cosa, la giustizia è un'altra… "Io Domenico Tiburzi difendo la giustizia, anche contro la legge". E la legge è quella dei Savoia.
        Le convenzioni degli stati regionali preunitari che avevano consentito per secoli ai contadini più poveri di sopravvivere, di andare per boschi a far legna, a pescare nei corsi d'acqua, "spigolare" dopo la mietitura, permettevano quel minimo di sussistenza che le nuove leggi dello stato unitario negarono improvvisamente. Così, centinaia, migliaia, di contadini si trovarono improvvisamente fuorilegge. Tiburzi ne è un esempio: il suo primo delitto lo compie perché, andando a raccogliere un po' d'erba in un campo, viene multato per venti lire; questa cosa è per lui talmente ingiusta che perde la testa e ammazza il guardiano che lo ha multato. Così comincia la sua storia di brigante.
        La presentazione della carta geografica nella prima scena del film è il segno della conquista del territorio da parte dello stato unitario. I due carabinieri che si muovono davanti ad essa scopriranno poi le connessioni che ci sono state tra i proprietari della terra e i briganti. Questi proprietari sono oggi sempre gli stessi: i Corsini erano principi sotto i Lorena, granduchi di Toscana, e il marchese Guglielmi era il più grande proprietario terriero dell'Alto Lazio sotto lo Stato Pontificio. Sono sempre i soliti, e ancora oggi: quando io sono andato in Maremma ho dovuto chiedere il permesso al marchese Guglielmi e al principe Corsini per girare nelle loro terre. Come diceva Tomasi di Lampedusa: "Si cambia tutto per non cambiare niente".

        II atto: la Natura e l'apparizione di Tiburzi

        Nella campagna della Maremma, ha luogo la caccia all'uomo. Tiburzi è nascosto in un sepolcro etrusco, dove appare seduto su un trono.
        Il tema dell'orologio ritorna continuamente nel film: i titoli di testa hanno come sottofondo sonoro il ticchettio di un orologio, il sonno di Tiburzi è raccontato da un ticchettio d'orologio. Al suo risveglio, raccoglie l'orologio accanto alla pistola, lo carica, guarda che ore sono e se lo mette in tasca. Come dire: "Attenzione che il filo narrativo che io sto seguendo in primo piano è sì la storia di Tiburzi, dell'inchiesta e della sua fine, ma in realtà il sottotesto illustra le differenze di rapporto tra il tempo dei dominatori, il tempo della natura e il tempo dei dominati". Il secondo atto parlerà della Maremma, della piccolezza degli uomini di fronte alla potenza della natura, una natura carica di tracce di Storia.
        Noi riusciamo a leggere della realtà solo ciò che ri-conosciamo e, quando vediamo un paesaggio, vediamo gli alberi, vediamo il sole, le rocce, il fiume, un ponte o una figura umana, tutte cose che ri-conosciamo. Un archeologo, invece, che sa leggere le tracce che la storia ha lasciato, può leggere in questa realtà elementi di epoche passate, dal paleolitico al periodo etrusco, dal periodo romano al periodo bizantino, da quello medievale al rinascimento, fino ad oggi.
        Tiburzi appare nel film nella tomba di un re etrusco, seduto sul trono. Questa tomba, intorno all'anno mille, era stata trasformata dagli eremiti in una cappella rupestre. Quando nella prima inquadratura si vede Tiburzi seduto, siamo dinanzi a una parete di una tomba etrusca; quando invece, nel controcampo, sia alza, siamo sempre nello stesso luogo ma dentro una chiesa rupestre medievale. Questo passaggio è il tempo della Storia.

        III atto: attesa della morte

        Tiburzi si rifugia in una casa di contadini. Negli interni dei dominati, cena e attende la sua sorte, scrivendo il suo diario. Perché Tiburzi è tornato? Perché va incontro alla morte in maniera assolutamente consapevole?
        Ho una mia idea. Ho la netta sensazione che Tiburzi sia tornato per ri-affermare il proprio mito. Lui era già un mito da vivo, ma il suo mito, con l'avanzamento delle leggi di uno Stato che prende possesso dei suoi territori, era stato messo in discussione. Pur sapendo che questo avrebbe decretato la sua morte, lui ha deciso probabilmente di morire a casa sua. Mi piace immaginare che questa morte sia stato lui stesso a determinarla, come una sorta di regista che mette in piedi il "meccanismo" della propria stessa morte. Non si sa come è stato ucciso Tiburzi. Qualcuno dice che si sia suicidato. Qualcuno dice che l'hanno ucciso i carabinieri (è la tesi ufficiale che io accolgo nel film), qualcuno dice che l'abbia ucciso il suo braccio destro Luciano Fioravanti. Mi piace pensare che lui, da uomo libero, come aveva deciso della sua vita, così voleva decidere della sua morte. Al pari del verso della poesia <<Orologio da rote>> (poesia sul tempo e la morte) di Ciro di Pers, poeta spagnolo vissuto a Firenze nel Seicento, che Tiburzi scrive sul suo diario, nell'attesa della sua trasfigurazione: "Mobile ordigno di dentate rote, lacera il giorno e lo divide in ore, ed ha scritto di fuor con fosche note, a chi legger le sa: sempre si more".
        Tiburzi, col suo compare Fioravanti, arriva verso le ore 20, la sera del 23 ottobre 1896, al casolare della famiglia Franci, sul poggio "Alle Forane", presso Capalbio. Nella casa dei contadini, cena e passa con loro alcune ore fino alle 3 e mezzo di notte, ora in cui si sono presentati i carabinieri, almeno così dicono le cronache. È bene ricordare che Tiburzi era uno che non era mai stato troppo a lungo in un luogo, se non era assolutamente sicuro di quel luogo. Ma guarda caso lo trovano proprio lì, in quella casa abbastanza vicina ad un paese dove si sapeva c'erano dei carabinieri.
        Si vede allora quest'uomo che aspetta: ma cosa aspetta? Aspetta i tre briganti con cui doveva entrare in contatto? Oppure, visto che era vecchio e stanco, aspetta che smetta di piovere prima di uscire? (Soffriva di dolori reumatici). A me piace pensare che aspettasse la morte, come un appuntamento col suo ultimo amore.
        Questo tempo di attesa della morte è all'interno del tempo dei dominati. I tempi della legge sono i tempi accelerati di un dominio che conquista sempre più spazio, territorio, persone. Tiburzi è colui che resiste – a modo suo – all'avanzare del tempo di questo dominio. Il terzo atto racconta il tempo dei contadini, un tempo fatto di miti e di riti, un comportamento carico di ritualità. Ogni gesto del mondo contadino assomiglia a una preghiera. Un contadino non appoggerà mai sulla tavola il pane capovolto, perché il pane è il corpo di nostro Signore. In ogni gesto contadino c'è qualcosa di sacro. Questo c'era anche nel Bacio di Giuda, naturalmente. Infatti è l'Ultima Cena quella che io rappresento nel terzo atto del Tiburzi, l'ultima cena di un uomo che come Cristo ha deciso di determinare lui stesso la propria morte.

        Epilogo. Il sogno di un bandito: trasfigurazione di Tiburzi

        Tiburzi si addormenta sul tavolo, la testa reclinata sul diario, un bicchiere rovesciato. Gli ingranaggi di un orologio si alternano all'immagine di un toro maremmano che si dibatte nel fango di una palude. Un quadro nero ci conduce poi alla foto di Tiburzi (il vero Tiburzi) che sembra vivo, in realtà morto ammazzato e legato a una colonna romana. Su questa immagine, il canto struggente di "Maremma amara".
        La storia di Tiburzi, "il Re del Lamone", come lo chiamavano, è situata tra due parentesi. La prima è la morte del cinghiale, come in una sorta di sogno premonitore (Tiburzi potrebbe essere stato ucciso in quel modo: un colpo alla nuca). La seconda il sogno di un toro. Il cinghiale e il toro sono due simboli di autorevolezza regale. Il cinghiale è il re dei boschi impenetrabili della Maremma, il toro è simbolo reale per antonomasia. Sono due simboli diretti. Nel sogno di Tiburzi, questo toro impantanato riesce, con uno sforzo, ad uscire da quella palude. È il sogno di una liberazione, l'anticipazione della vera trasfigurazione finale: la fotografia del vero Tiburzi, morto e legato ad una colonna nel cimitero di Capalbio. Non un palo o un albero qualunque, ma un'antica colonna romana. Tiburzi è ritratto legato ad una traccia della Storia…
        Questa foto – che per me possiede la stessa carica eversiva della crocefissione – è stata il motivo originario del film. Non sapevo nulla di Tiburzi, ma quando l'ho vista ho provato una commozione così grande che ho voluto sapere quale storia fosse racchiusa in quell'immagine. Pian piano, nell'arco di quattro-cinque anni ho ricostruito la vicenda. Tiburzi ha rappresentato per quella gente il mito ribelle della giustizia incarnata. Fare un film su Tiburzi mi è sembrato importante. Perché il brigantaggio, come la mafia, ha in fondo la stessa origine: un disperato bisogno di giustizia là dove la legge non era giusta.
        Il discorso della rappresentazione di una rappresentazione, cui facevo accenno all'inizio, è il veicolo portante di questa ricerca. Tutti quelli che sono i simboli di una rappresentazione mi interessano particolarmente. Infatti, io faccio un cinema carico di "simboli", o carico di elementi che possono diventare simbolo, o rappresentazione di un'idea. Ecco che l'orologio diventa la rappresentazione simbolica dell'idea del tempo, la carta geografica diventa la rappresentazione simbolica del controllo del territorio da parte della legge. Ma lo stesso discorso vale per i documenti che inquadro, per i quadretti dei cantastorie, per gli altri oggetti, gli abiti, le armi, per i paesaggi e le facce. Si prenda per l'esempio l'inquadratura dei bicchieri appoggiati sullo specchio: questa immagine di rovesciamento della realtà è una metafora del significato di quanto sta per accadere (l'incontro tra il Capitano e il principe Corsini, colui che prima ha pagato Tiburzi per un quarto di secolo e che, tra poco, pagherà dei carabinieri perché lo uccidano). Come a dire: attenzione, quello che vedrete non lo considerate per la sua realtà apparente, la colta e civile convivialità del signore, ma per il suo rovescio, la pratica dell'omicidio come prassi per la conservazione del privilegio e del dominio.