GOSTANZA DA LIBBIANO
Virgilio Fantuzzi S.I.
La Civiltà Cattolica 2001 III 49-61 quaderno 3625


«In Dei nomine amen. Addì 7 novembre 1594, il reverendo messer Tommaso Roffia, Vicario foraneo del reverendissimo monsignor Vescovo di Lucca nella terra di San Miniato...». La mano di un amanuense scrive, con elegante grafia notarile, il verbale di un interrogatorio. La penna d’oca, intinta nel calamaio, scricchiola sulla pergamena. Questa immagine, posta da Paolo Benvenuti all’inizio del film Gostanza da Libbiano, esprime con chiarezza l’amore del regista pisano per il documento storico, già attestato dai suoi film precedenti(1), ed è un omaggio implicito al diligente lavoro del notaio Vincenzo Viviani, autore della relazione stenografica del processo contro una donna accusata di stregoneria, rinvenuta una ventina di anni fa nell’Archivio storico del Comune di San Miniato(2).
 

Lettura di un manoscritto

A eccezione di alcuni passaggi in latino, la maggior parte del testo è scritta in un bel volgare toscano. Il compito del notaio che lo ha redatto consisteva nel registrare fedelmente gli interrogatori. Tra domande e risposte affiora a tratti vividi la personalità dell’accusata.

Arrestata la mattina del 4 novembre 1594, Gostanza da Libbiano ha circa 60 anni, è vedova, abita a Bagno a Acqua (oggi Casciana Terme, tra San Miniato e Volterra) con altre due donne e la nipotina Dianora. Si guadagna da vivere col «filare, ricòrre bambini e fare medicine». Per farsi medicare da lei vengono anche da lontano oppure mandano cavalli a prenderla. La sua azione si estende su un ampio territorio, che ha conservato per molti aspetti fino a oggi la fisionomia che aveva allora: un paesaggio collinare dolce e silenzioso con radi casolari, per lo più disabitati, e centri storici arroccati attorno a una chiesetta, dentro le mura del castello.

L’accusa verso di lei ha origine dalla morte di un giovane che aveva invano tentato di curare. Si scatena allora, come si capisce dalla minuta del processo, una ricerca a ritroso di altri suoi insuccessi, che si configurano progressivamente come malìe. Gostanza stessa, impaurita dalle torture, inizia a stabilire relazioni tra i suoi poteri e i rapporti che dice di intrattenere con il Diavolo. La prima parte del processo si svolge sotto la responsabilità di mons. Roffia, che all’epoca del processo era un uomo di circa cinquant’anni, stimato e rispettato; apparteneva a una delle famiglie più in vista della città, godeva la fiducia del potere sia statale sia religioso. Ricopriva da cinque o sei anni la carica di vicario vescovile. Il 3 novembre 1594, accompagnato dal notaio Viviani, mons. Roffia si reca a Lari dove interroga, nel palazzo dei Vicari, alcuni testimoni. Gostanza viene arrestata. Il giorno successivo, nelle carceri di Lari, subisce il primo interrogatorio dal quale emergono, a grandi linee, la sua storia e la sua attività di guaritrice. È probabilmente a questo punto che Roffia si convince ad andare avanti. Ordina che la donna sia condotta a San Miniato. Si trasferisce a Bagno a Acqua per interrogare altri testimoni, tra i quali Dianora, nipote di Gostanza, che ha sette anni e vive con la nonna. Il 7 novembre il processo prosegue, in sede definitiva, a San Miniato.

Accanto a mons. Roffia compare a questo punto un rappresentante del Sant’Uffizio: il francescano Mario Porcacchi da Castiglione, guardiano del locale convento di San Francesco da appena un anno, dottore in teologia e vicario dell’inquisitore di Firenze. Porcacchi aveva 31 anni; era alla sua prima esperienza come guardiano di un convento e fresco di studi teologici. Tra i giudici di Gostanza egli appare, fino all’ultimo, il più convinto della sua colpevolezza. Il 19 novembre giunge da Firenze l’inquisitore generale per il territorio del Granducato, il francescano Dionigi da Costacciaro, che partecipa alle udienze del processo fino al 24 novembre. Egli era un uomo anziano. Era stato ministro provinciale per l’Umbria, inquisitore in Siena e, verso la fine del 1578 o ai primi dell’anno successivo, era diventato inquisitore generale di Firenze, ove morì «con grande opinione» il 7 luglio 1603.

Uomo consapevole ed equilibrato, profondo conoscitore della cultura del suo tempo, Costacciaro prende subito le distanze dall’operato degli altri due giudici, avvertendo nei resoconti stenografici degli interrogatori eseguiti prima del suo arrivo un sentore di superstizione, di paura atavica, di sospetto alimentato da gelosie e ripicche di paese. Nulla che desti particolari preoccupazioni dal punto di vista dell’ortodossia teologica, messa in quegli anni a repentaglio dalle eresie che serpeggiavano in Europa. Davanti all’inquisitore generale Gostanza ritratta quello che aveva detto per assecondare le richieste degli altri due giudici, i quali, con il tormento della fune, l’avevano costretta ad autoaccusarsi di delitti orrendi.

Dal documento al film

La sceneggiatura del film di Benvenuti rispetta il testo degli interrogatori diligentemente trascritti dal notaio Viviani, il quale, com’è ovvio, è un personaggio del film (interpretato da Lele Biagi). Lo si vede intento al suo lavoro accanto ai giudici. Si ode la sua voce fuori campo quando i dialoghi hanno bisogno di essere integrati con asciutte didascalie di carattere cronachistico. Per restare fedeli allo spirito del documento, Benvenuti e i cosceneggiatori del film hanno dovuto distaccarsi di tanto in tanto dal dettato letterale del testo scritto. L’azione si svolge per intero a San Miniato, evitando di descrivere la trasferta di Roffia a Lari e a Bagno a Acqua. Sono state messe da parte, con due sole eccezioni, le deposizioni dei testimoni. In questo modo è stato semplificato il tracciato del racconto. Le diramazioni del processo sono state sfrondate per concentrare l’attenzione sul rapporto tra l’imputata e i giudici.

Il verbale degli interrogatori è pieno di ripetizioni, perché così voleva la prassi dei processi celebrati in quel tempo. Le stesse domande vengono ripetute nel corso delle udienze successive per ottenere che l’imputata confermi fuori dalla stanza dei tormenti quello che ha confessato sotto tortura. Il giorno successivo le viene chiesto di ripetere ciò che ha detto il giorno precedente per vedere se le diverse deposizioni coincidono o se, al contrario, contengono contraddizioni. Nei verbali queste ripetizioni si arricchiscono, di volta in volta, con l’aggiunta di nuovi particolari e con variazioni nel modo di esprimersi, che aggiungono vivacità e concretezza al linguaggio con il quale Gostanza si esprime. Poiché i giudici ritornano sistematicamente con le loro domande sugli stessi argomenti, il testo stenografato degli interrogatori segue un percorso che ha la forma di una spirale. Questo tipo di movimento è stato eliminato dagli sceneggiatori del film, i quali lo hanno sostituito con un movimento di tipo diverso, lineare e progressivo — salvo la frattura dovuta all’entrata in scena di Costacciaro —, che consente uno sviluppo omogeneo dell’intera materia.

Tra i compiti che spettavano agli sceneggiatori c’era quello di attribuire le battute ai diversi interlocutori, che non sempre sono indicati nel verbale. Se il problema non si pone per Costacciaro, il cui atteggiamento nei confronti dell’imputata è diametralmente opposto rispetto a quello degli altri due giudici, non è facile distinguere, nelle pagine del Viviani, il tono di voce di mons. Roffia da quello di padre Porcacchi. La scelta è stata fatta in base alla materia su cui vertono le domande. A Roffia, uomo di Chiesa che gestisce responsabilità di governo in senso ampio, sono state attribuite le domande che risentono di una certa preoccupazione nei confronti dell’ordine pubblico. A Porcacchi sono state invece attribuite le domande di stretta pertinenza teologica. In questo modo, fin dal testo della sceneggiatura si vanno delineando le diverse personalità degli interlocutori.

Mons. Roffia (Valentino Davanzati) interroga Gostanza con tono severo, che diventa perfino duro quando la donna è sospesa alla fune. Egli è convinto che, punendo il corpo, si possa salvare l’anima. Porcacchi (Paolo Spaziani), pur avendo un aspetto mite, è intimamente agitato da umori più torbidi. A lui non interessa tanto la guaritrice o l’indovina quanto la strega: la donna che intrattiene rapporti con il Demonio. Gostanza (Lucia Poli) sembra cambiare atteggiamento in rapporto all’interlocutore diverso con il quale si trova a confrontarsi. Umile e remissiva in alcuni casi, altre volte si fa minacciosa e insinuante. Il tono con il quale si rivolge al giovane Porcacchi è suasivo e quasi seducente. La donna fa leva sulla curiosità del teologo per ottenere da lui un riconoscimento dell’importanza del proprio ruolo. Costacciaro (Renzo Cerrato) ha il fisico e la voce che si addicono a un uomo di età avanzata, uso a muoversi con sicurezza sul terreno minato nel quale si sovrappongono poteri diversi (quello religioso e quello civile) e diverse competenze territoriali (la Repubblica di Lucca e il Granducato di Toscana).

Poteri a confronto
Le prime immagini del film presentano elementi architettonici della San Miniato medievale. La torre edificata da Federico II di Svevia, che sormonta l’abitato. Ai suoi piedi passa una bambina (Dianora) accompagnata da un frate (Porcacchi). Una cisterna presso la quale la bambina si ferma a giocare, dopo essersi affacciata all’apertura che immette nella cavità dalla quale proviene un rumore di sgocciolii amplificato dal rimbombo. Torre e cisterna possono essere visti come simboli dei due poteri, quello maschile e quello femminile (o meglio, del potere dominante e di una sorta di contropotere occulto) che si fronteggiano nel film. L’immagine della torre torna nel corso della pellicola, che si apre e si chiude su di essa. Nella sua qualità di guaritrice, Gostanza è depositaria di un antico sapere, tramandato di generazione in generazione da donne che esercitano la sua stessa professione, un sapere alternativo rispetto a quello ufficiale, guardato pertanto con diffidenza dall’autorità civile così come la propensione di queste pratiche di guarigione nei confronti della magia le rendono sospette agli occhi dell’autorità ecclesiastica.

Il processo che si svolge nel film non si limita a mostrare una persona inerme di fronte all’autorità che esercita un potere praticamente senza limiti, ma lascia intuire il conflitto in atto tra due diverse concezioni della vita, che si oppongono reciprocamente. Pur trovandosi in condizioni di schiacciante inferiorità davanti ai suoi giudici, Gostanza non è del tutto sprovvista di strumenti di autodifesa e, spinta dalla disperazione, è disposta a servirsene per contrattaccare coloro dai quali è aggredita. Sa di essere, nel bene o nel male, un punto di riferimento per altre persone, esercita la sua attività in un ambiente nel quale è pienamente inserita, gode di una reputazione basata sulla fiducia che i malati e i loro familiari ripongono in lei. L’ascendente di cui dispone, unito all’efficacia dei rimedi rudimentali che prescrive, le consente di ottenere risultati che, nel contesto culturale nel quale si trova a operare, possono essere ritenuti apprezzabili. La stessa medicina ufficiale si muoveva, in quei tempi, su un terreno empirico, il quale, da un punto di vista moderno, non può essere considerato che prescientifico. La cultura popolare si è espressa per millenni, prima dell’avvento del cristianesimo, in forme che mescolano nozioni derivate dalla conoscenza pratica e rituali magici.

Per i cristiani, ciò che sopravvive del culto dei vecchi dèi agricoli e dei riti per propiziare la fertilità equivale al culto dei demoni. Gostanza condivide, almeno in parte, le credenze diffuse nell’ambiente rurale nel quale è cresciuta. Ambiente che conserverà ancora a lungo l’abitudine di tramandare da voce a orecchio, nelle veglie accanto al focolare, racconti non dissimili da quelli con i quali Gostanza stuzzica la curiosità dei giudici. All’inizio del processo la donna nega. Poi, messa alla tortura, è costretta ad ammettere di aver compiuto malìe. È questo un punto dal quale sa di non poter tornare indietro. Allora tanto vale abbondare nelle autoaccuse, farsi carico anche di ciò che non ha fatto, ampliare con esagerazioni la confessione dei propri misfatti, millantare l’efficacia dei propri poteri. L’atteggiamento dei primi due giudici, che nel documento appare univoco, risulta differenziato nel film, come si diceva sopra.

Il Vicario foraneo, ligio alle regole del ruolo che sta esercitando, è meno incline del suo giovane collega a lasciarsi suggestionare dalle parole di Gostanza. Egli tenta in diverse maniere di indurre la donna a ravvedersi e salvare così la propria anima. Del tutto diverso è l’atteggiamento di Porcacchi. Dolce e compassionevole in apparenza, il francescano rappresenta per l’imputata il pericolo più insidioso, proprio perché, a differenza di Roffia, è inclinato a prendere per oro colato le fantasticherie con le quali Gostanza infarcisce i propri racconti. Le domande poste sulle sue labbra dagli sceneggiatori, proferite con voce melliflua, aprono la via ai racconti mirabolanti della donna. Presa tra l’incudine e il martello, cioè tra la tortura da una parte e la minaccia della pena capitale dall’altra, Gostanza trova nella credulità di Porcacchi, alla quale i dubbi di Roffia oppongono debole resistenza, il terreno sul quale si profila per lei una possibilità di reagire. In effetti, come si vedrà nel seguito degli eventi, saranno le esagerazioni stesse dell’imputata a fornire al terzo giudice (Costacciaro) la possibilità di invertire la rotta del processo, sottraendo Gostanza al patibolo verso il quale sembrava avviata. Nel passare al contrattacco, la donna sa di poter contare su alcuni elementi che giocano in suo favore. La paura che attanaglia i giudici, in primo luogo. Essi non sono uomini interiormente liberi. Se così non fosse, non si accanirebbero contro una povera vecchia, tutto sommato inoffensiva, scambiandola per un’adepta di Satana.

Immaginario collettivo

Nell’ambito di una cultura prevalentemente orale, Gostanza è maestra nell’uso della parola parlata. La credulità dei primi due giudici le accorda un considerevole vantaggio su questo terreno. Oggetto degli interrogatori è, d’altra parte, l’immaginario collettivo che nel Medioevo era diffuso non solo tra le popolazioni incolte, ma anche tra i dotti. Un immaginario popolato da figure mostruose, che ha lasciato ampia traccia di sé nelle opere pittoriche di Hieronymus Bosch, Pieter Bruegel, Matthias Grünewald, Lucas Cranach, Albrecht Dürer, Luca Cambiaso e altri(3). Dagli interrogatori del processo si percepisce come tale immaginario, nel quale si intrecciano ridde di diavoli e streghe, non si limitasse ad accendere la fantasia degli artisti o a nutrire le pagine dei libri specializzati in materia, ma entrasse nella vita di ogni giorno condizionando le parole e le azioni di persone dedite alle attività più svariate.

Ci si può chiedere che cosa si prefigga di ottenere Gostanza quando prende di petto i giudici. Ella non si limita infatti a proferire oscure minacce contro Roffia che la sta torturando, ma solletica la vanità del giovane Porcacchi sussurrando: «Voi non avete mai avuto in vita vostra questi gran casi alle mani», e giunge perfino a insultare l’inquisitore generale, che non crede alle sue fantasticherie, trattandolo da «vecchio corpiterra antico». La donna, con ogni probabilità, si divincola in maniera istintiva, senza aver elaborato un vero e proprio piano di azione. È terrorizzata dall’idea di dover subire di nuovo la tortura. «Per il dolore e lo spavento di quella corda, avrei detto anche che Cristo non fusse in Cielo». Pensa, affrettando la condanna, di metter fine alle sofferenze assieme alla propria vita. «Speravo che il boia fosse qui e m’avesse a levare la testa a un tratto». Un lampo di fierezza brilla nel suo sguardo quando afferma: «La verità è che io sono una strega». Forse spera di ottenere, con la condanna, una sorta di conferma ufficiale del suo ruolo di donna dotata di poteri straordinari, sancita dai rappresentanti del potere legittimo. Una simile aspirazione, benché possa sembrare aberrante, non è in contrasto con la logica che caratterizza la prima parte del processo.

All’interno di questa logica si sviluppano i racconti di Gostanza che nei verbali si accavallano alla rinfusa, mentre nel film, disposti in ordine secondo un’efficace progressione drammaturgica, seguono una linea di sviluppo in crescendo, che va dai convegni delle streghe sotto un albero di noci ai voli notturni in groppa a strani animali, dalle visite alla Città del Diavolo, descritta come un giardino di delizie, al commercio carnale con il Diavolo Maggiore, indicato come «un bellissimo giovane, ben vestito e bene a ordine e un viso fatto a pennello, rosso e rugiadoso a modo», dagli infanticidi, compiuti per istigazione del Diavolo, alla profanazione delle ostie consacrate. I dubbi di Roffia crollano sotto l’impeto delle autoaccuse che traboccano dalle labbra di Gostanza: «Chi vi ha insegnato — grida il vicario al colmo dell’esasperazione — a fare simili nefandissimi sacrilegi, mai uditi al mondo?». La situazione cambia di punto in bianco con l’entrata in scena di Costacciaro. Vale la pena di osservare, a questo proposito, che l’inquisitore generale proviene da Firenze, capitale del Granducato nel cui territorio «sconfina» la diocesi di Lucca, capitale a sua volta di uno Stato indipendente e limitrofo. Una situazione di questo genere, particolarmente propizia all’insorgere di conflitti di competenza, è da ritenere, con ogni probabilità, tutt’altro che estranea rispetto allo sviluppo assunto dal processo(4).

Costacciaro non ha difficoltà a smontare, con validi argomenti teologici, l’impianto accusatorio allestito dai giudici locali con la collaborazione attiva di Gostanza. «I diavoli — dice l’Inquisitore — sono deputati al fuoco eterno in continuo tormento. Non, come l’imputata ha dichiarato, in tanti tripudi, feste e baccanali. Nell’Inferno, non vi è altro che croci, tormento e fuoco eterno. Dove sono continue ed eterne pene. Dove non si gode, non si sollazza, non si lussuria, non si fanno baccanali di allegrezza. Il Demonio altri non è se non un angelo caduto. E tutti gli angeli Dio benedetto li ha creati incorporei, senza membro atto alla generazione come gli uomini. Se ne consegue che ella ha deposto il falso». A questo punto del film lo spettatore ha l’impressione di assistere, più che alla rievocazione di un processo per stregoneria, al confronto tra due processi distinti, il secondo dei quali, quello condotto da Costacciaro, è un vero e proprio processo al processo precedentemente condotto da Roffia e Porcacchi. I due giudici del primo processo diventano, in qualche modo, imputati nel secondo. I due processi corrispondono a logiche antitetiche. Mentre il primo, come si è visto, aderisce a una logica di tipo medievale, il secondo è animato da uno spirito che si potrebbe definire moderno. Siamo al punto di confluenza tra due epoche. Ai trattati sui quali si è formato Porcacchi stanno per subentrare nuove prese di posizione(5). Il potere, adeguandosi alla visione del mondo, che si evolve grazie alle scoperte geografiche e ai progressi della scienza, cambia strategia. I roghi delle streghe non si addicono alle nuove esigenze, anche se continueranno ad ardere ancora per molto tempo come triste eredità di un passato che nessuno rimpiange(6).

Identità negata

Prosciolta dall’accusa di stregoneria, Gostanza è tuttavia condannata al bando «di non tornare più alla sua casa, né che si accosti a tre miglia a quei contorni, sotto pena del carcere e della frusta; sotto le medesime pene le vien proibito di medicare uomini, donne o bestie in modo alcuno; le viene imposto di dire inoltre dove va ad abitare, affinché si possa osservare la sua vita per l’avvenire». A differenza del potere arcaico, che sentiva il bisogno di ostentare la propria forza infliggendo ai rei pene spettacolari, il potere moderno agisce in maniera più efficace, escludendo dal consorzio civile la persona ritenuta pericolosa, perché portatrice di una cultura diversa, togliendole di mano gli strumenti del suo operare, giungendo perfino a negare la sua stessa identità. La donna, che alla fine del film si allontana da San Miniato, accompagnata dalla nipotina Dianora, è un essere sconfitto e umiliato, colpito in ciò che vi è di più intimo nella costituzione stessa della personalità: la propria individualità, le cui caratteristiche, come è noto, sono frutto di un’insieme di relazioni interpersonali, stabilite all’interno del gruppo al quale l’individuo appartiene.

A questa creatura calpestata si rivolge l’attenzione di Benvenuti come accade nei suoi film precedenti, che hanno al centro persone in lotta per difendere la propria identità insidiata da forze avverse, a partire da Il bacio di Giuda, il cui protagonista, a detta del regista, ha la prerogativa di essere il solo tra gli Apostoli a capire in anticipo sugli altri il significato arcano delle parole del Maestro e finisce suo malgrado con l’incarnare agli occhi di tutti il simbolo del tradimento. Qualcosa di simile accade ad Angeluccio e ad Abramo, i due ebrei protagonisti di Confortorio, secondo lungometraggio di Benvenuti, ambientato a Roma nel 1736. Condannati a morte per un furto con effrazione eseguito nel Ghetto (forse da altri), i due devono difendere la propria identità di ebrei dai tentativi compiuti dai «confortatori» (gli incappucciati dell’arciconfraternita di San Giovanni Decollato coadiuvati da diversi religiosi), i quali, nella notte che precede l’esecuzione, cercano invano di convertirli per poterli battezzare ai piedi del patibolo e mandare così direttamente le loro anime in Paradiso. Tiburzi, titolo del terzo lungometraggio di Benvenuti, è il nome di un brigante che, nella Maremma di fine Ottocento, preferisce morire in uno scontro a fuoco con i carabinieri, per restare fedele alla fama leggendaria che si è conquistato con le sue imprese, piuttosto di cedere alla logica di un potere che, analogamente a quanto era accaduto a Gostanza tre secoli prima, lo vorrebbe vivo, ma dimenticato.

È evidente la propensione di Benvenuti per i rappresentanti di una cultura alternativa e marginale, che entra in conflitto con la cultura dominante e combatte, sia pure con armi impari, fino all’estremo per difendere il diritto dell’uomo a essere quello che è. In questo contesto si inserisce la vicenda di Gostanza, la cui personalità, delineata con forza nei verbali del processo, richiede uno sguardo particolarmente attento per essere colta nella sua concretezza, fuori dagli schemi precostituiti nei quali la letteratura e il cinema relegano abitualmente le storie di streghe e di chi le perseguita. Ciò accade nel film soprattutto a partire da quando, con l’entrata in scena di Costacciaro, l’inquisita esce dal fumo delle pseudoverità, nel quale i primi due giudici la volevano avvolta, e comincia ad appoggiare i piedi per terra. «Io non sono la contadina quale voi mi vedete — dice Gostanza su richiesta dell’inquisitore generale —, io sono la figliola di messer Lotto Niccolini, nobile fiorentino. Mia madre, monna Aquiletta, che stava da lui per serva, rimase di me ingravidata». Da questo dato anagrafico parte una ricognizione delle circostanze, intessute di sopraffazione e violenza, che hanno caratterizzato fin dalle origini la vita dell’imputata.

«Un giorno — prosegue Gostanza —, quand’ero una fanciulletta di otto anni, trovandomi alla Fratta, la villa di mio padre, mentre che stavo da sola davanti alla casa, passarono di lì tre pastori che tornavano di Maremma. Mi presero in collo e mi menarono via. Mi portarono a Vernio, in casa di Francesco di Lorenzo, perché Lenzo, il suo figliolo, quello che mi aveva preso, mi sposò e mi prese per moglie. Pensate che strazio fu dormire con questo Lenzo essendo io di poca età! E avete a sapere, padre, poiché io vi ho a dire le mie vergogne, che i lupi non mangiarono tanta carne quanta ne fu strappata a me. Che essendo bambina di quell’età, mi rovinarono e mi rivoltarono nelle lenzuola tutta la notte». Nel racconto, che il film propone con le parole stesse di Gostanza, si affaccia, a questo punto una certa monna Cornelia che medica la bambina, uscita malconcia dalla violenza subita. «Fu lei che mi insegnò a medicare con gli oli e i succhi delle erbe», aggiunge Gostanza. Assieme a Cornelia dice di aver fatto i primi viaggi verso la Città del Diavolo. Non è difficile cogliere tra le righe del racconto i residui di un’esperienza onirica, provocata probabilmente con l’uso di qualche sostanza inebriante o stupefacente, vissuta come compensazione nei confronti di una realtà talmente atroce da consentire soltanto fughe di questo genere.

Sete di libertà

Della schiera dei testimoni, sfoltita per le ragioni sopra indicate, restano nel film soltanto due donne: una bambina (Dianora) e una contadina (monna Lisabetta), che formano con la protagonista una sorta di trittico al femminile, così come i tre giudici formano un trittico al maschile. Una bambina, una donna adulta, una anziana: le tre età della donna secondo Benvenuti. Dianora è la nipotina di Gostanza. A lei la nonna affida i segreti del suo sapere destinati a essere trasmessi alle generazioni future. Monna Lisabetta è una contadina che, per contrasto, fa risaltare la consapevolezza che Gostanza ha di appartenere per nascita a una classe più elevata. Il lavoro compiuto dal regista sugli interpreti (maschi e femmine) non è meno importante di quello eseguito sui documenti scritti e su quelli iconografici (i ritratti del Bronzino), come pure sui luoghi reali nei quali il film è stato girato, allo scopo di raggiungere il senso di autenticità che permea la pellicola.

Il risultato di questo lavoro confluisce nelle singole inquadrature (per lo più piani-sequenza), che diventano cellule vive dell’organismo del film. Benvenuti parla del suo modo di procedere come di un lavoro di prosciugamento e sottrazione. È la ricerca dell’essenziale che, rifuggendo da ogni divagazione o abbellimento esteriore, si spinge fino alla rinuncia a tutto ciò che, per un verso o per l’altro, può risultare superfluo. Un lavoro di limatura che inizia sul testo della sceneggiatura e prosegue durante la fase delle riprese per concludersi al momento del montaggio con la soppressione, se necessario, di scene già girate, che non si inseriscono con la dovuta omogeneità nell’insieme del film. Alla verità dell’immagine corrisponde la verità del suono, sempre in presa diretta. I rumori del Medioevo: tintinnio di armature e rintocchi di campane... Un film senza musica aggiunta, perché la musica è già presente nel ritmo delle immagini e dei suoni naturali. Un film in bianco e nero per evitare che i colori dell’autunno, particolarmente accesi sulle colline di San Miniato, entrino nelle immagini distogliendo lo spettatore dalla necessità, alla quale il regista lo vuole legato, di seguire con la massima concentrazione le parole pronunciate da Gostanza.

Già assistente di Roberto Rossellini e Jean-Marie Straub, avendo collaborato con il primo alla realizzazione de L’età di Cosimo de Medici (1972) e con il secondo a quella di Mosé e Aronne (1974), Benvenuti cerca nel presente tracce del passato. Le cerca non soltanto nei documenti e negli ambienti naturali, ma nell’intimo delle persone, partendo dalla convinzione che dentro ogni uomo moderno si cela un uomo antico. Basta rimuovere le sovrastrutture, frutto dell’adeguamento alla cultura oggi prevalente, ed ecco affiorare nell’individuo, al di là del camuffamento superficiale con il quale cerca di nascondere la sua vera natura, una consapevolezza di altro genere, che affonda le radici in ciò che egli è stato nelle generazioni precedenti. Il lavoro che il regista compie sugli interpreti dei suoi film si basa su questo principio. Esemplare è, in tal senso, il rapporto che si è stabilito, durante la preparazione e la realizzazione del film tra Benvenuti e Lucia Poli, che ne è la protagonista. «Dopo un avvio difficile — egli dice —, Lucia ha capito e sentito che poteva abbandonarsi completamente a me, che poteva rinunciare a tutto ciò che sta al di fuori, il trucco, la verve dei suoi capelli biondi, per mostrare la sua anima»(7). Benvenuti ha adottato procedimenti analoghi con gli altri interpreti, seguendo un metodo che da sempre lo accompagna nella realizzazione dei suoi film, costruiti pezzo per pezzo, con una tecnica di tipo artigianale, lontana tanto dalla magniloquenza del cinema spettacolare, quanto dall’approssimazione della fiction televisiva.

Vedendo Gostanza da Libbiano non si può non pensare a due film del passato che hanno lasciato tracce profonde nella storia del cinema: La passione di Giovanna d’Arco (1928) di Dreyer e Il processo di Giovanna d’Arco (1962) di Bresson, film che hanno in comune con quello di Benvenuti l’adesione agli atti di un processo, ai quali i registi non hanno voluto aggiungere nulla che non fosse già scritto nei documenti originali. Accettando di misurarsi con il film di Dreyer, che gode fama di capolavoro insuperabile, Bresson ha compiuto un atto di grande coraggio. Egli sapeva di poter andare ancora più in là, non aggiungendo qualcosa che nel film di Dreyer non c’è, ma togliendo molto di quello che c’è, per esempio la straordinaria bravura degli interpreti (Renée Falconetti, Antonin Artaud...), che Bresson ritiene non solo superflua, ma fuorviante, poiché, secondo lui, davanti alla macchina da presa non devono esserci attori che recitano (fingono, cioè, di essere quello che non sono), ma modelli che si lasciano riprendere nella loro nuda realtà. Tra l’espressionismo turgido di Dreyer e l’austero astrattismo di Bresson, Benvenuti sceglie una via di mezzo, quella di una sorta di naturalismo rivolto non al comportamento esteriore dei personaggi, ma alle loro vibrazioni interiori. In questo modo egli trova una sua collocazione tra i grandi del cinema e aggiunge la propria voce, dalla tonalità inconfondibile, a quella di coloro che si sono serviti della pellicola per esprimere la più insopprimibile tra le esigenze dell’uomo: la sete di libertà.

1 Paolo Benvenuti ha realizzato finora quattro lungometraggi: Il bacio di Giuda (1988); Confortorio (1992); Tiburzi (1996); Gostanza da Libbiano (2000). Cfr V. FANTUZZI, «“Il bacio di Giuda” di Paolo Benvenuti», in Civ. Catt. 1990 II 261-269; ID., «“Confortorio” di Paolo Benvenuti», ivi, 1993 III 394-406.

2 La scoperta del manoscritto, un centinaio di pagine riempite da una grafia larga, si deve a Marilena Lombardi, Silvia Nannipieri e Arianna Orlandi, all’epoca giovani ricercatrici, alle quali era stato affidato il riordino dell’Archivio. Il testo è stato pubblicato la prima volta in F. CARDINI (ed.), Gostanza, la strega di San Miniato, Bari, Laterza, 1989. Oltre ai verbali di due processi per stregoneria, svoltisi entrambi a San Miniato, uno nel 1540 e l’altro nel 1594, il volume contiene saggi di S. Mantini, S. Nannipieri, A. Orlandi, M. Lombardi, A. Prosperi, preceduti da una introduzione di F. Cardini. I verbali del processo del 1594 sono stati ristampati in L. CARETTI (ed.), «Gostanza da Libbiano» di Paolo Benvenuti, Pisa, ETS, 2000, volume che contiene la sceneggiatura del film, scritta da Benvenuti in collaborazione con Stefano Bacci e Mario Cereghino, una conversazione di Benvenuti con Goffredo Fofi e saggi di S. Nannipieri, M. Lombardi, A. Orlandi, che riprendono in parte quelli già apparsi nel libro precedentemente citato.

3 Cfr E. CASTELLI, Il demoniaco nell’arte, Milano - Firenze, Electa, 1952.

4 La città di San Miniato con il suo territorio sarà costituita in diocesi autonoma nel 1622, grazie soprattutto all’intervento della granduchessa Maria Maddalena d’Austria.

5 Oltre al celebre Malleus Maleficarum dei domenicani J. Sprenger e H. Institoris, che fu il testo fondamentale dell’antisatanismo europeo ed ebbe almeno 34 edizioni in latino tra il 1487 e il 1669, circolavano numerosi trattati sull’argomento, come la Quaestio de Strigibus et Lamiis, scritta da B. Spina, nel 1520; il De impietate sortilegum, scritto da A. Albertini e A. de Castro nel 1550; De la démonomanie des sorcières di J. Bodin, pubblicato in Francia nel 1580 e a Venezia, in traduzione italiana, nel 1591; il De confessionibus maleficarum (1589) di P. Binsfeld e l’opera analoga di J. Boguet (1591). Non vanno tuttavia ignorati gli scritti di segno contrario, che levano proteste contro il fanatismo che mieteva vittime tra gli infelici accusati di stregoneria, come quelli del benedettino G. Edeline, del carmelitano J. De Beetz e altri, in attesa delle prese di posizione radicalmente critiche nei confronti dei metodi adottati nei processi per stregoneria contenute nelle opere dei gesuiti A. Zanner (1626) e F. von Speer (1631), che prendono di mira i pregiudizi in base ai quali molti innocenti sono finiti sul rogo.

6 La persecuzione contro le streghe, con i suoi spaventosi roghi, si è protratta lungo il secolo XVII sia nell’Europa cattolica sia in quella protestante. Al di là delle convenzionali periodizzazioni della storia, si può dire che in questo campo la sostituzione della mentalità medievale con quella moderna è andata molto a rilento.


7 Da G. FOFI, «Conversazione con Paolo Benvenuti», in L. CARETTI (ed.), «Gostanza da Libbiano» di Paolo Benvenuti, cit., 198.