«TIBURZI» UN FILM INVISIBILE

di Virgilio Fantuzzi

 

 

1996. Tiburzi è morto da 100 anni, ma la fama delle sue imprese continua a volare sulle ali della leggenda.

«Vi canterò di un nobile brigante

che la mia terra un giorno dominò,

fu nominato re della Maremma

e per trent’anni il regno suo durò».

 

            In cima a un poggio, controluce, una donna vestita di scuro canta la leggenda di Tiburzi. La macchina da presa, immobile, inquadra la donna a figura intera. Una serie di quadretti popolari (come quelli che si vedono nei tabelloni dei cantastorie) illustra la vicenda narrata dal canto. È la storia di un brigante, nemico dei signori e amico della povera gente, sprezzante della fatica e del pericolo, più volte imprigionato e sempre fuggito dal carcere, temuto e venerato, sia da vivo che da morto… Il film inizia con un prologo, come una rappresentazione antica, ripresa dalla tradizione popolare del «Teatro del Maggio». Frontalità. Ieraticità. Intrinseca religiosità. Chi è la donna vestita di scuro che canta sul poggio? Forse è una personificazione del Destino. Essa introduce una rappresentazione che contiene in sé riferimenti ad altre rappresentazioni. Sono le rappresentazioni che di se stesso offre il potere, quello dello Stato, quello dei proprietari terrieri, il contropotere dei briganti…

 

La giustizia e la legge

 

            21 ottobre 1896. Nel comando dei Carabinieri di Grosseto il tenente Rizzoli espone al capitano Giacheri i dati essenziali della vita di Tiburzi. Appesa al muro c’è una mappa militare della Maremma. Rizzoli indica con la punta di una canna le località che nomina. «Questa è la Roccaccia di Montauto: era il suo quartier generale. Questo è il territorio nel quale si muoveva: la foresta dell’Amone. Lo chiamavano “il re dell’Amone”. Queste terre appartengono al marchese Guglielmi: un latifondo di venticinquemila ettari, che una volta era sotto lo Stato Pontificio. A Nord, oltre il fiume Fiora, sul territorio dove si estendeva il Granducato di Toscana, il latifondo del principe Corsini: trentamila ettari…». Passando ai dati personali del brigante, Rizzoli li elenca così: «Domenico Tiburzi, detto Domenichino, nato a Cellere il 28 maggio del 1836. A 16 anni è ricercato per furto. A 19 anni è processato per altro furto, ma assolto… La sua carriera si riassume in 17 mandati di cattura: 7 per omicidio, 2 per evasione, 4 per grassazione, 4 per estorsioni, incendi, ferimenti, sequestri…». Dalla scheda, compilata con cura da Rizzoli, Giacheri desume che, a partire da un determinato momento (dopo il sequestro di un proprietario terriero di nome Maioli) la vita di Tiburzi ha subìto una svolta. Cessano ricatti ed estorsioni. «Come ha vissuto, secondo lei, in questi anni?», chiede Giacheri a Rizzoli.

            I due si recano da Maioli il quale dice di aver dato a Tiburzi un suggerimento durante il sequestro: «Perché continui a fare il bracconiere quando potresti diventare guardiacaccia?». Dopo di allora (era il 1879) il bandito prese contatto con i proprietari terrieri chiedendo loro di pagare una tassa. Lui si sarebbe occupato della loro incolumità. Il parroco di Canino, don Antonio Luchetti, interpellato a sua volta dai due inquirenti, aggiunge qualche dettaglio sul comportamento del brigante: «Un benefattore, un santo lo considerano! Uno mi diceva che gli aveva pagato il medico, un’altra che l’aveva difesa nell’onore… anche le monachelle di San Gervasio raccontano che, quando le scortava lui per la cerca, allora sì che raccoglievano!». Don Antonio era tra coloro che pagavano la tassa a Tiburzi: la paghetta, come la chiamava lui.

            La sera di quello stesso giorno Giacheri e Rizzoli si trovano a colloquio con il principe Corsini nel castello della Marsiliana. «Il fiume Fiora — dice il principe — divideva fino a qualche tempo fa il Granducato di Toscana dallo Stato Pontificio, ma, più che dal fiume, il confine era segnato da altre differenze. Una società rozza quella papalina: malaria, miseria, ignoranza, oppressione… Più briganti che preti. Il Granducato di Toscana, come loro ben sanno, era invece lo stato più liberale d’Italia. I nobili papalini: i Torlonia, i Capranica, i Dalla Rovere? Sono ancora oggi l’immagine dei loro territori…». Corsini non ignora il ruolo esercitato da Tiburzi nei confronti della popolazione maremmana. «I primitivi sono orgogliosi, ostinati — dice rivolto ai due ufficiali che sono venuti a fargli visita —. Covano risentimenti e opposizioni… Lui parlava la loro lingua. Eredità contese, conflitti d’interesse, pascoli abusivi, perfino diverbi familiari e pene d’amore! Un’ammonizione o una bastonatura erano sufficienti a dirimere la controversia. “Va e non lo fare più”, diceva… Tiburzi aveva sostituito lo Stato. Gli “umiliati e offesi” si sentivano incarnati in lui e riscattati dalle sue gesta».

            I dialoghi del film, che si susseguono uno dopo l’altro, sono densi di nozioni storiche, geografiche, ambientali, delle quali lo spettatore è invitato a prendere conoscenza. Le consuetudini accettate negli Stati regionali preunitari avevano consentito per secoli ai contadini più poveri di sopravvivere, di andare nei boschi a far legna, a pescare nei corsi d’acqua, a spigolare dopo la mietitura. Le nuove leggi dello Stato unitario restringono improvvisamente queste possibilità di sussistenza. Centinaia, migliaia di contadini si trovano improvvisamente fuorilegge. Tiburzi ne è un esempio. La presenza della carta geografica all’inizio nella prima scena del film è il segno della conquista del territorio da parte dello Stato unitario. L’indagine dei Carabinieri mette in luce il rapporto che c’era tra briganti e proprietari terrieri. Si scopre così che Tiburzi era il braccio armato degli agrari. Con una particolarità, che deriva dal senso innato della giustizia del quale il brigante era dotato. Tiburzi distingue in maniera netta tra legge e giustizia. La legge e i suoi rappresentanti sono una cosa, la giustizia è un’altra…

            L’ultimo omicidio di Tiburzi aveva provocato l’intervento dell’esercito e un clamoroso processo durante il quale il brigante, resosi irreperibile, era stato condannato in contumacia. I proprietari terrieri, che erano stati in parte complici delle sue imprese, gli avevano assicurato un esilio dorato in Francia. Ora Tiburzi è tornato a farsi vivo. La sua presenza è stata segnalata mesi addietro nella tenuta del Corsini. Nella Maremma, però, tutto è cambiato per lui. I territori che Tiburzi aveva controllato per decenni sono ora nelle mani della banda Albertini: tre malviventi da strapazzo con i quali, in passato, Tiburzi non ha mai voluto avere nulla da spartire. Ora pare che egli abbia intenzione di accordarsi con loro. Secondo le informazioni che i Carabinieri hanno ottenuto dalle loro spie, l’incontro dovrebbe avvenire presto, ma non si sa né dove né quando.

            Mentre alla Marsiliana è in corso il colloquio tra Corsini, Giacheri e Rizzoli, sopraggiunge il marchese Guglielmi. Un rapido confronto tra Corsini e Guglielmi rende l’idea della differenza che c’è tra i due. Intelligente e colto il toscano. Ignorante e rozzo il laziale. Giacheri, che ha saputo da Corsini che, secondo le informazioni delle quali il principe dispone, Tiburzi sta per lasciare le sue terre diretto alla Roccaccia di Montauto, ottiene da Guglielmi un’informazione preziosa: la banda Albertini fa base alla Roccaccia. Dopo che Giacheri e Rizzoli se ne sono andati, Corsini fa notare a Guglielmi: «Da me ha saputo che Tiburzi vuole andare a Montauto. Da te, che lì c’è già l’Albertini con i suoi compari. Ha dedotto che hanno stabilito lì il loro incontro. Bravo capitano! — conclude il principe —. Ha giocato con noi… e noi raccogliamo la sfida!».

 

Un occhio in più

 

            La scena dell’incontro di Giacheri e Rizzoli con Corsini, nel salone del castello della Marsiliana, è introdotta da un’immagine realizzata in maniera insolita. Si vede la mano guantata di un cameriere che versa liquore in tre calici di cristallo. Il gesto è riconoscibile, ma il punto di vista (quello nel quale è collocata la macchina da presa) è tale da lasciare lo spettatore momentaneamente disorientato. I bicchieri infatti, e la mano che li riempie sono visti da sotto in su. In breve ci si accorge che i cristalli sono posati su un tavolino la cui superficie è costituita da uno specchio. Per questo, ciò che si vede sembra visto alla rovescia. Il soffitto del salone, con le sue travi decorate, fa bella mostra di sé, riflesso nello specchio, come sfondo che dà risalto ai bicchieri e al gesto del cameriere che serve gli ospiti. Questa immagine dice che le cose possono assumere forme diverse se osservate da angolazioni diverse. Oltre ai punti di vista ritenuti normali, che corrispondono alla traiettoria degli sguardi degli interlocutori, si possono escogitare punti di vista meno consueti, che rivelano aspetti sconosciuti, talvolta sorprendenti, di quelle stesse cose che, se non si adottassero tali accorgimenti, passerebbero del tutto inosservate. Questa immagine spiega, alla sua maniera, la natura del punto di vista che il regista, Paolo Benvenuti, ha scelto per offrire allo spettatore la possibilità di vedere le cose non come sembrano, ma come sono.

            La breve lezione impartita dall’astuto Corsini al rozzo Guglielmi va nella stessa direzione: le cose non sono mai quello che sembrano essere. L’apparenza inganna. C’è sempre una verità nascosta, impercettibile allo sguardo, che deve essere indagata con la mente, vista con un occhio in più. La conversazione apparentemente innocua del capitano Giacheri con i due nobili latifondisti cela il gioco sornione di un gatto non con uno, ma con due topi da inghiottire entrambi con un solo boccone. Questo è detto a chiare lettere nel film. Ma non è escluso che questo gioco (peraltro scoperto e grossolano) ne nasconda un altro, più sottile e insidioso. Maioli, don Luchetti, Guglielmi, tutti hanno mostrato sorpresa nell’apprendere che Tiburzi era tornato, dopo tanto tempo, nei luoghi che erano stati suoi. Tutti si sono agitati. Solo Corsini non è né sorpreso né agitato. La notizia, per lui, non costituisce una novità. Ne era già a conoscenza. Probabilmente perché è proprietario dei luoghi nei quali Tiburzi è tornato a farsi vedere. Lo sapeva, ma ha tenuto la notizia per sé. «Perché non mi hai avvertito?», gli dice Guglielmi con un moto di stizza. Perché avrebbe dovuto farlo? Le notizie, evidentemente, anche quando provengono dalla stessa fonte, seguono percorsi diversi. Ottenerle in anticipo consente un vantaggio al quale, chi gioca per vincere, difficilmente è disposto a rinunciare. E poi, non tutte le notizie sono uguali. Ci sono notizie vere, destinate a pochi, e ci sono notizie che sembrano vere, ma non lo sono, fatte apposta per mettere fuori strada i tanti che sono destinati a non conoscere la verità. Questo è il terreno sul quale si muove la narrazione condotta da Benvenuti con apparente linearità, disseminata di indizi che rinviano a qualcosa che non è detto, ma la cui presenza si può intuire al di là della superficiale apparenza delle cose. Basta osservare il percorso, descritto in maniera analitica nel film, compiuto da Giacheri e Rizzoli per andare da Grosseto alla Marsiliana.

            Dopo l’incontro con Maioli e don Luchetti, i due ufficiali, che si muovono su una carrozza trainata da una pariglia di cavalli, vanno ad appostarsi nella piazza di Montalto di Castro sulla quale si affaccia il palazzo di Guglielmi. È una sera piovosa. Due carrozze giungono una dopo l’altra nella piazza. Ne scendono, indipendentemente l’uno dall’altro, Maioli e don Luchetti, che si recano a far visita al marchese. Giacheri e Grazioli osservano la scena senza scendere dalla carrozza. «Visto? — dice il capitano al tenente —. I pescetti sono venuti dal pesce grosso», poi dà ordine al cocchiere di partire. «Perché non abbiamo atteso gli eventi?», chiede il tenente. «Perché appena i due lo informeranno, il marchese Guglielmi si precipiterà dal principe Corsini. Voglio arrivare alla Marsiliana prima di lui», risponde il capitano.

            Si precisa in questo modo la natura del gioco del quale parlava Corsini nella lezione impartita a Guglielmi. La sfida lanciata da Giacheri ai due proprietari terrieri dà il via a una sorta di caccia alla volpe (dove, al posto dell’animale, c’è l’inafferrabile Tiburzi). Lo si capisce dalla fretta con la quale Corsini, non appena i due graduati hanno lasciato la sua casa, si dà da fare per allestire una seconda squadra di inseguitori che, in gara con la prima, ha l’incarico di raggiungere la preda nel minor tempo possibile. Oppure, tralasciando la similitudine della caccia, si potrebbe pensare al gioco degli scacchi, con Giacheri che sposta le persone come se fossero pedine sulla scacchiera. Provoca l’incontro di Maioli e don Luchetti con Guglielmi. Precede quest’ultimo nell’incontro con Corsini… Ma, ci si può domandare a questo punto, se queste sono le regole del gioco (fatto di sotterfugi e inganni), non è possibile che, dietro a quello che il film fa vedere, si nasconda qualcosa che non si vede, ma può essere intuito da chi sa che la regola numero uno consiste nel non lasciarsi ingannare dalle apparenze?

            Mentre Giacheri gioca con le persone, spostandole come i pezzi degli scacchi, qualcuno, che agisce nell’ombra, potrebbe servirsi di lui, come di un pezzo più grosso degli altri. Quando Corsini dice di voler raccogliere la sfida, si riferisce senza dubbio a Giacheri, che ha avuto l’ardire di andare a provocarlo nella sua casa. La stessa situazione, però, osservata da un altro punto di vista, potrebbe assumere un aspetto diverso. Non è escluso infatti che Giacheri, troppo sicuro di sé per avere la duttilità e la sottigliezza che la difficile impresa, affidatagli dal Ministero degli Interni, richiederebbe, non sia il vero sfidante ma, semplicemente, il latore inconsapevole di una sfida che è stata lanciata da un altro. C’è un’immagine del film che, a questo proposito, sembra dirla più lunga di tanti ragionamenti. Giacheri e Rizzoli che, chiusi nella carrozza, osservano Maioli e don Luchetti mentre varcano il portone della casa di Guglielmi, sono due spioni: su questo non c’è ombra di dubbio. La loro carrozza, però, inquadrata da dietro, è spiata a sua volta dalla macchina da presa. Coloro che stanno spiando non sanno che, mentre spiano, sono anch’essi spiati. Chi spia gli spioni? L’occhio impersonale della macchina da presa? L’occhio del regista, che ha deciso di situare in quel punto lo sguardo dello spettatore che osserva la scena? Oppure un altro occhio, uno dei tanti dei quali Tiburzi disponeva quando era «il re dell’Amone», uno dei conterranei — non pochi — che ancora gli sono rimasti fedeli?

 

Giochi di linguaggio

 

            «Ella è venuta ad arrestare una leggenda, capitano…», aveva detto Corsini a Giacheri nel corso del colloquio alla Marsiliana. Quando il principe aveva informato, a parte, Guglielmi che il capitano intendeva prendere Tiburzi… vivo, il marchese aveva esclamato: «Vivo? Non deve succedere!». «Certo! — aveva soggiunto Corsini —. Non penserai che io tolleri certe intrusioni in casa mia!». Detto, fatto. Dopo la partenza dei due ufficiali, Corsini aveva preso immediatamente contatto con il brigadiere Giudici, comandante della stazione dei Carabinieri della Marsiliana. Con lui, conoscitore dei luoghi come nessun altro, Corsini e Guglielmi avevano stabilito un compenso di 10.000 lire qualora fosse riuscito a uccidere Tiburzi prima che Giacheri giungesse a catturarlo. Dopo aver compiuto quella che è la prima tra le mosse del suo gioco, Corsini si accinge immediatamente a fare la seconda. «Bisogna fare in modo che Tiburzi non vada all’appuntamento…», dice il principe a Guglielmi. «E come si fa?», domanda il marchese. «Gli deve giungere all’orecchio che quel posto è “bruciato”», conclude Corsini. Paolo Benvenuti, la cui voce si fa sentire di tanto in tanto nella colonna sonora in qualità di «voce narrante», fa eco alle parole del principe informando gli spettatori che, il giorno precedente a quello fissato per l’incontro di Tiburzi con la banda Albertini una voce era echeggiata per tutta la Maremma: «Che Tiburzi non vada alla Roccaccia, ché quel posto è “bruciato”».

            Una situazione di questo genere merita qualche parola di spiegazione. Ci si può chiedere quale fosse il modo di comunicare a distanza vigente nella Maremma di fine Ottocento. Probabilmente era lo stesso che era stato messo a punto, lungo i secoli e i millenni, da coloro che si sono avvicendati su quel territorio, attraverso le stratificazioni delle civiltà sovrapposte, fino a raggiungere, procedendo a ritroso, la misteriosa lingua degli etruschi… Linguaggi che si esprimono in forme esplicite e in forme implicite, usando talvolta codici che risultano decifrabili solo da parte di chi ne possiede la chiave. Il metodo sul quale si basa la trasmissione di un messaggio a distanza è, in questo caso, il moltiplicarsi dei successivi passaggi di una notizia da bocca a orecchio. È questa la voce che echeggia da un capo all’altro della Maremma. In questo modo il messaggio raggiunge il destinatario che si nasconde, e del quale è pertanto ignoto l’indirizzo.

            Se questo è il medium che viene utilizzato, come è possibile fare in modo che una notizia, udita da migliaia di orecchi e trasmessa da migliaia di bocche, rimanga segreta? Ecco l’importanza di un codice noto soltanto a colui che invia il messaggio e a colui che lo riceve. I codici possono essere convenzionali, ma, quando non è possibile accordarsi in precedenza, si deve essere capaci di allestirne di nuovi lì per lì basandosi sulle circostanze e facendo leva sulla capacità d’intuito di cui dispone il destinatario del messaggio. Bisogna giocare con abilità sulla differenza, talvolta minima, che passa tra il vero e il verosimile, tra l’ovvio e l’imprevedibile. Una notizia non è mai interamente vera se non è completa. Una mezza notizia non è una notizia. È questo il metodo adottato dal Giacheri, il quale, come si è visto, ha carpito una mezza notizia a Corsini e un’altra mezza a Guglielmi per sommarle insieme e farne una intera. La notizia che Giacheri ritiene di aver ottenuto e probabilmente falsa. Il metodo da lui seguito per ottenerla è tuttavia lo stesso che, con maggiore abilità, viene utilizzato da altri personaggi del film. Solo chi possiede metà della notizia (purché sia vera) è in grado di cogliere il significato dell’altra metà. Coloro che si prestano a fare da tramite nella diffusione di un messaggio incompleto, credono di conoscerne il contenuto (quello in apparenza più ovvio) senza rendersi conto, però, di che cosa il messaggio intenda effettivamente comunicare.

            Supponiamo che Tiburzi non abbia alcuna intenzione di incontrare la banda Albertini. La fondatezza della notizia è messa in dubbio da tutti coloro che sono in grado di valutare la differenza che passa tra un brigante del calibro di Tiburzi e i volgari tagliagole che si muovono adesso nel territorio che un tempo era suo. La voce dell’incontro potrebbe essere stata fatta circolare ad arte dal bandito con l’intenzione di stabilire un contatto a distanza con qualcuno che è capace di valutarne l’infondatezza. È questa la differenza che c’è, non solo tra l’intelligenza di Corsini e l’ottusità di Guglielmi, ma anche tra Corsini e Giacheri, un piemontese quest’ultimo, che ha acquistato fama combattendo il brigantaggio in Calabria, ma non conosce nulla della mentalità del popolo maremmano. Tra i personaggi del film, Corsini è il solo capace di afferrare al volo il senso vero che si nasconde dietro certe parole buttate lì a mezz’aria con apparente indifferenza. Se c’è un interlocutore al quale Tiburzi può inviare messaggi sibillini, sicuro di essere capito per il verso giusto, è proprio lui. Non è detto che Corsini sia al corrente fin da principio delle intenzioni di Tiburzi. Sta di fatto che egli è il solo a dubitare che, dietro ciò che ad altri può apparire ovvio, ci sia un sottofondo che è tutto da scoprire.

            Nel caso che Tiburzi non abbia nessuna intenzione di incontrare la banda Albertini, come è facile supporre, la notizia che la Roccaccia è un posto «bruciato», apparentemente inutile, avrà un significato diverso per coloro che la trasmettono e per colui al quale è destinata. Per i trasmettitori vale quanto vale il significato letterale delle parole, cioè nulla. Corsini avverte Tiburzi di non andare in un posto dove il bandito non ha nessuna intenzione di andare. Per colui al quale il messaggio è destinato, esso può significare: «Ho ricevuto la prima parte del tuo messaggio. Fammi avere la seconda». A questo punto Corsini compie la terza mossa del suo gioco. Scende personalmente sul terreno. Non in carrozza, come fanno Giacheri e Rizzoli che percorrono in lungo e in largo la Maremma con quel mezzo di trasporto che è il simbolo del loro distacco dal terreno sul quale si muovono, ma a cavallo, accompagnato da due guardaspalle. Sarà lui a comunicare al brigadiere Giudici, che con altri due carabinieri sta setacciando il corso del Fiora, il luogo dove Tiburzi si trova: «È stato visto sul lago Ocquato, dalle parti di Capalbio».

 

Il tempo dell’attesa

 

            Il film non dice in che modo Corsini riesce a procurarsi la notizia di cui ha bisogno per condurre a termine il suo disegno di morte. Basta sapere che, per ottenerla, ha dovuto muoversi di persona. Non si tratta, infatti, di un compito che possa essere affidato ad altri. Il racconto cinematografico si fa ricco di dettagli quando invece si tratta di descrivere l’esito infruttuoso dell’impresa condotta da Giacheri. Convinto che Tiburzi incontrerà la banda Albertini alla Roccaccia, il capitano ha fatto circondare nottetempo il luogo da 17 pattuglie di Carabinieri in borghese, per non dare nell’occhio. L’operazione è stata progettata, da parte di chi ha i mezzi per poterlo fare, con una strategia di tipo militare. Giacheri la dirige di persona, affiancato da Rizzoli. Entrambi sono travestiti da cacciatori. Dopo aver constatato che alla Roccaccia non c’è nessuno, i due incontrano un carbonaio che ha voglia di fare quattro chiacchiere con loro. Si parla di briganti. «È vero che quella è la tana di Tiburzi?», chiede Rizzoli al carbonaio. «Tiburzi… l’inafferrabile! — esclama l’uomo dal volto coperto di fuliggine —. Lui dove ce lo fai, non c’è, e dove non ce lo fai, c’è! Dov’è? Sull’Amiata? Dov’è? Nel Lamone? A Roma? Gira, gira… Lo sapete? Va anche a teatro!». Preso da improvvisa ispirazione poetica, il carbonaio conclude il suo discorso con una improvvisazione in ottava rima:

     «O incognito stranier che giri in tondo,

     ascolta bene e non restar stupito,

  puoi ricercarlo fino all’infinito:

     di lui maggior non v’è che regni al mondo».

            Facendo vedere alcune cose o indicandole con parole chiare, sottacendone altre, che rimangono affidate a riferimenti indiretti o a sottili allusioni, occultandone altre ancora, cadute nel vuoto delle ellissi che costellano il percorso del film, il regista ha modo di giocare con la mente dello spettatore, come Giacheri tenta, senza riuscirci, di giocare con Corsini, restando a sua volta giocato, a meno che non sia il Corsini stesso ad assecondare il gioco di chi, senza uscire allo scoperto, previene le sue mosse indicandogli di volta in volta quale è il passo successivo da fare. È un gioco nel quale, probabilmente, Benvenuti si è trovato impigliato suo malgrado quando, nella ricerca storica da lui compiuta, si è trovato di fronte a documenti lacunosi, a testimonianze discordi o a deduzioni poco convincenti. Nessuno sa con certezza come e perché è morto Tiburzi. Pur rispettando la versione ufficiale dei fatti, Benvenuti lascia aperti ampi margini per altre possibili versioni. Per lui, come per lo spettatore del film, la morte del brigante resta avvolta da un alone di mistero.

            Dopo aver indugiato a lungo nelle sedi del potere statale e nelle dimore dei proprietari terrieri, il film si trasferisce all’aperto. La macchina da presa s’inoltra nella natura selvaggia della Maremma. Il fiume Fiora, lungo il quale si muove il brigadiere Giudici con due commilitoni, tutti e tre travestiti da cacciatori, alla ricerca di Tiburzi, forma un’ansa tra rocce scoscese. I tre sembrano scomparire davanti alla maestà del paesaggio. La cascata dello Strozzavolpe nasconde una grotta, rifugio di uomini e animali fin dalla più remota età della pietra, che i Carabinieri esplorano trovandola disabitata. Tiburzi, probabilmente, non è lontano. La macchina da presa lo coglie addormentato, o più esattamente nel momento del risveglio, all’interno di un’altra grotta, che custodisce ben visibili i segni di una civiltà fiorita qui in altri tempi. Il brigante è assiso su un trono di pietra. Siamo all’interno di una tomba etrusca scavata nella roccia. Il ticchettio di un orologio da taschino richiama alla mente lo stesso rumore udito, all’inizio del film, sotto i titoli di testa. Una pistola, un pugnale, un fucile, sono gli «arnesi del mestiere» dai quali un uomo come Tiburzi non può separarsi. Quando il brigante si alza per uscire, si assiste a un ribaltamento di campo. La macchina da presa fa vedere allo spettatore la parte della grotta che non era stata ancora vista. Ci si accorge così che nell’alto medioevo la tomba etrusca è stata trasformata in cappella rupestre officiata da monaci eremiti. Il fucile di Tiburzi è appoggiato sulla mensa dell’altare.

            Tiburzi non dice nel film nemmeno una parola, come se tutto fosse già stato detto su di lui: atti ufficiali dell’inchiesta dei Carabinieri, dicerie diffuse tra il popolo… Il suo apparire è preceduto dalla morte di un cinghiale caduto in una trappola. Ci sono nel film altri animali morti o in pericolo di morte: una faina impagliata, un toro impantanato nella melma… Il cinghiale e il toro sono due simboli di autorevolezza regale. Il cinghiale è il re dei boschi impenetrabili della Maremma, il toro è l’emblema regale per antonomasia. La sorte del brigante si rispecchia in questi simboli. Accompagnato da un compare, che sfuggirà per un soffio alla cattura, Tiburzi arriva verso le 20 del 23 ottobre 1896 al casolare della famiglia Franci, sul poggio «Alle Forane» presso Capalbio. Cena nella casa dei contadini e trascorre con loro alcune ore fino alle 3 e mezza di notte.

            Il film descrive minuziosamente i gesti che Tiburzi compie durante la cena. Afferra una mela tra le più piccole (sono le più saporite), la sbuccia con un piccolo coltello e porta i pezzetti alla bocca. Li mastica lentamente con lo sguardo proteso verso un punto lontano. Taglia a spicchi il castagnaccio nella teglia tracciando con un coltello segni in forma di croce. Porta alla bocca una fetta di castagnaccio. Sembra preso dalla consapevolezza che è l’ultima volta che assapora i frutti della sua terra (le mele, le castagne…). Osserva a lungo una giovane che, accanto al camino, ravviva con un attizzatoio la fiamma del ciocco. Con un gesto imperioso, chiede che gli versino da bere. Sorseggia il vino. Prende un sigaro dalla tasca e ne spezza la punta con i denti. Una mano avvicina il fuoco per accendere il sigaro. Aspirata una lunga boccata di fumo, Tiburzi la soffia verso l’alto. Volute di fumo avvolgono la lampada a petrolio che pende dal soffitto. Nel cielo, dopo un violento temporale, la luna torna a farsi vedere tra le nuvole sospinte dal vento. Il brigadiere Giudici, nel frattempo, giunto a Capalbio con i suoi due compagni, chiede rinforzi ai Carabinieri del posto.

 

Morte e trasfigurazione

 

            Seduto a tavola, Tiburzi estrae l’orologio dal taschino, guarda l’ora, lo carica e lo appoggia sulla tovaglia. Poi solleva la bisaccia e ne estrae un astuccio di legno. Lo apre, prende penna e calamaio. Scrive qualcosa sulla pagina bianca di un quaderno. Sono i versi di una poesia imparata forse a memoria da bambino:

                        «Mobile ordigno di dentate rote

                        lacera il giorno e lo divide in ore,

                        ed ha scritto di fuor con fosche note

                        a chi legger le sa: sempre si more».

            La donna che prima attizzava il fuoco ora canta una ninnananna per far addormentare un bambino. Anche Tiburzi si addormenta sulla pagina del quaderno aperto. Sogna. Un vecchio toro maremmano è semisommerso nella melma di uno stagno e stenta a liberarsi… Si sente il ticchettio dell’orologio appoggiato sulla tavola. Dettaglio degli ingranaggi dell’orologio che con il loro movimento scandiscono il tempo… Il sogno di Tiburzi ha una particolarità: le immagini del toro, che dopo ripetuti tentativi riesce a uscire dalla melma, sono riprese in bianco e nero con la tecnica dei fratelli Lumière. Allora, nel 1896, il cinematografo era un’invenzione recente. Tiburzi ne ha preso visione, con ogni probabilità, durante il soggiorno in Francia. L’espressione «mobile ordigno di dentate rote», si applica indifferentemente all’orologio e alla macchina da presa. Jean Cocteau ha detto che il cinema è «la morte al lavoro». Per Tiburzi, questo sogno può prefigurare il suo ritorno, cento anni dopo la morte, sugli schermi cinematografici.

            Ma il tempo incalza. La suoneria dell’orologio batte le 3 e 30. Tiburzi si desta. Un cane abbaia. «Si dice che — avverte la voce off del regista —, udendo il cane abbaiare, prendesse il fucile per affacciarsi all’uscio e, al “chi va là” dei militi, sparando, tentasse una sortita. Ma mentre il suo compare riusciva a fuggire, lui cadde a terra ferito a una gamba. Circondato dagli uomini, ebbe solo il tempo di dire: “Non mi cercate più: sono Tiburzi!”, e un colpo alla nuca gli tappò la bocca per sempre». Appare lentamente, dal nero, l’immagine fotografica del vero Tiburzi, legato cadavere a una colonna. Il film si conclude con il canto tradizionale Maremma amara.

            Ci sono cose che nel film non sono dette, eppure non sono meno importanti di quelle che sono dette. Ci sono cose che nel film non si vedono, eppure non sono meno importanti di quelle che si vedono. Le cose non dette e quelle non viste sono lasciate all’immaginazione dello spettatore, sono una sfida lanciata dal regista alla sua intelligenza. Il film è costruito come un disegno volutamente incompiuto. Tocca allo spettatore completarlo aggiungendo le parti mancanti. La verità gioca a rimpiattino nascondendosi dietro le apparenze, sempre più o meno ingannevoli, che circondano le cose. Ciò che si vede e ciò che si sente altro non è che un involucro, il cui contenuto si lascia afferrare solo da chi, chiudendo i sensi del corpo, riesce ad aprire quelli della mente. Per questo motivo si può parlare di Tiburzi come di un film invisibile.

            Chiaro nel film è il discorso sulle condizioni di vita nella Maremma prima e dopo l’unificazione dell’Italia. Sono le condizioni dalle quali nasce il fenomeno del brigantaggio. Nel nuovo Stato questo fenomeno, eredità del passato, è uno scandalo, un cancro che deve essere estirpato. Altrettanto chiaro è il discorso sui motivi per i quali Tiburzi diventa una leggenda tuttora viva tra i contadini maremmani. È questo il modo nel quale i poveri reagiscono contro le strutture ingiuste del potere, che si serve della legge per espropriarli anche di quel poco che hanno. Il nodo della vita di Tiburzi, che il film tenta di dipanare, sta nel rapporto ambiguo che lega il brigante ai proprietari terrieri. Tiburzi muore perché non si deve sapere che gli «onesti» latifondisti erano non solo complici, ma in molti casi mandanti delle sue azioni criminali. Per tenergli la bocca chiusa lo avevano aiutato a espatriare in Francia, da dove però, improvvisamente, il bandito ritorna. Forse Tiburzi ha capito che la lontananza dal luogo di origine sta estinguendo a poco a poco la leggenda, che la fama delle sue imprese aveva alimentato attorno a lui.

            Torna per riappropriarsi di questa leggenda? Il film non lo dice esplicitamente, ma lo lascia capire, così come lascia capire l’inevitabile rapporto di complicità che si stabilisce tra il bandito (che non vuole cadere vivo nelle mani dei tutori dell’ordine) e colui che si assume l’incarico di farlo ammazzare. Tiburzi responsabile della sua morte? Tiburzi regista (lui che, quando sogna, rivede le immagini dei Lumière), intento ad allestire la messinscena delle sue ultime ore, per fare della esecuzione capitale il suggello di un’esistenza vissuta oltre i limiti della legge? Tiburzi, in altre parole, artefice di una leggenda, la sua, degna di essere tramandata ai posteri? Il film tende ad accreditare questa ipotesi mostrando il brigante, chiuso in un eloquente silenzio, come se fosse il depositario di un’antica saggezza, che gli consente di tutto prevedere, tutto calcolare, tutto decidere.

            Mentre gli altri si agitano attorno a lui (due squadre se lo contendono: chi lo vuole vivo e chi lo vuole morto), Tiburzi può permettersi di ostentare un’imperturbabile tranquillità. Per lui si muovono gli altri. Lui resta fermo. Prende tutto il tempo che ci vuole per sbucciare una mela, per tagliare il castagnaccio, per fumare il sigaro… I gesti della vita ordinaria, compiuti con naturalezza, senza perdere la loro semplicità, acquistano la solennità del rito. È l’antica religiosità dei contadini, che affonda le radici nella storia plurimillenaria della regione. Il mondo antico sta per finire con il secolo che muore. Il nuovo secolo, che sta per nascere, sostituirà la vecchia nozione del tempo (scandito dai ritmi della natura: le ore del giorno, le stagioni dell’anno) con un tempo dominato dall’incalzare frenetico delle macchine. Gli spazi di libertà si restringono. Nascono nuove forme di schiavitù. Tiburzi è visto nel film di Benvenuti come un uomo antico: l’ultimo degli etruschi. Le volute di fumo, soffiate contro la lampada a petrolio, si confondono con le nuvole che il vento soffia contro la faccia rotonda della luna. Un semplice fatto di montaggio: due pezzi di pellicola attaccati l’uno con l’altro. Il fumo e le nuvole, la lampada e la luna. Tiburzi si trasfigura. Il piccolo uomo (Domenichino) diventa un gigante. Lo si potrebbe perfino scambiare con un dio.

 

(Roma, 24 maggio 2003)