Inquietudini

Senza rumore

«In silenzio, chiudendo la confusione fuori dall'ascolto, sottovoce penso... Penso, e provo a farlo senza adagiarmi alle sensazioni e impressioni che girano fuori alla porta, quelle che spesso ti concedono il risparmio di una riflessione, perché, tanto, più che il pensiero, conta da che parte stai!... Da che parte sto?
Chiedo scusa ma, io non voglio stare da nessuna parte, io ho bisogno di starmene per i fatti miei, chiuso a chiave dentro la mia coscienza, e davanti al suo specchio costruire e sopportare il rumore intimo del suo riflettere. Allora, sottovoce penso che nessuno si può assumere la proprietà del dolore altrui. Il dolore è come un cognome, ognuno ha il suo. Il dolore è un sentimento che si può condividere solo con la distanza educata di una conoscenza, e mai col sapere presuntuoso di chi vorrebbe consumarlo ignorando l'entita del prezzo che bisogna pagare.
Sottovoce, col ritmo del martello che pesta sopra il chiodo, penso a un numero, e più ci ragiono sopra, più quel numero all'apparenza esiguo, diventa una cifra impossibile, distanza irraggiungibile, sofferenza inimmaginabile. Diciassette anni!
Instintivamente, con la riflessione nello stomaco, provo a immaginare una ragazza che è diventata donna senza godere il diritto e il piacere di un passaggio. Diciassette anni, ferma, immobile, senza muovere un dito, accennare una smorfia, vivere uno specchio, concedere l'ipotesi illusa di un sorriso, o regalare la speranza di un piccolo, minimo, impercettibile rumore. Niente, nemmeno la pietà di un lamento, Diciassette anni, senza riposo e senza sconto, trascorsi consumando una storia senza righe, parole, vita.
Diciassette anni, e cioè, come: duecentoquattro mesi, seimiladuecentocinque giorni, centoquarantottomilanovecentoventi ore e quasi nove milioni di minuti. Ora si può concepire una sofferenza che ritorna per nove milioni di volte?...
Sottovoce, con l'ansia da padre, penso a un altro padre, e misuro quel dolore col metro insopportabile della tragedia. No, mi dispiace, ma io non riesco ad entrare in quella tremenda immedesimazione, perché non sono coraggioso, e mi spaventa il peso della sciagura. Io ho paura. Da sempre, con la forza del genitore innamorato, desidero, prego e scongiuro, che i miei figli godano del bene più assoluto, e per quella condizione sarei disposto a truccare le carte, tradire la bandiera, e imbrogliare il Cristo lassù, perché per quel bene sono pronto a commerciare fede e dignità. Egoista? Può essere, ma anche l'egoismo, come la paura, è una debolezza che appartiene agli umani.
Sottovoce, col silenzio che si dedica al rispetto, penso al costo esasperato di un uomo messo sulla croce dell'attesa, e poi negargli per diciassette anni l'azzardo di una speranza. Penso anche quella croce stesa sotto il corpo di una ragazza con l'imposizione assoluta d'invecchiare, senza il suo consenso. Con l'urlo, l'unico a disposizione, mi chiedo: ma chi è che decide il prezzo o la condanna verso chi ha avouto la colpa inconsapevole di scivolare in una maledetta fatalità. Chi decide che la scelta fatta in buona salute, non si possa rispettare quando quella salute è venuta meno al patto. E come si fa, senza mai aver sfiorato quel tormento, ma con la sola presunzione dell'ipotesi, a imporre l'obbligo di un'agonia?
Col tono del sussurro provo ad uscire dalla storia, e per difesa provo ad aggrapparmi all'uso del confronto. Così penso all'eutanasia morale, quella che da anni permette a milioni di creature africane di consumarsi con l'ingiustizia atroce della fame, e penso a quei bambini santi come Dio, buttati in mare perché incapaci di sopportare il viaggio della speranza. Sono anni che quei diritti di vivere vengono accompagnati da grandi costernazioni, indignazioni, ma con poche, minime, scarse prese di posizione e soluzioni. Oggi, pretendiamo di raccontare la storia di un pianto con la verità di una sola lacrima.
Sottovoce esco dalla coscienza e penso, spero, credo, che il Padrone dei Cieli sarà sicuramente più magnanimo delle severità terrene, e davanti alla fatica del signor Beppino Englaro e alla distrazione assegnata alla cara Eluana, riconoscerà la sofferenza e allargherà il suo assenso.»

Pino Roveredo - Il Piccolo - 6 febbraio 2009


C'è un'inquietudine che mi assale in questi giorni: come si possa pretendere di stabilire come si debba "volere bene" ad una persona, come l'amore di un padre per una figlia possa essere solamente quello che vogliono al di là di un fiume.
Siamo piccoli, tremendamente piccoli, alla mercé di quello che decidono gli altri. Quando impareremo a camminare da soli, se mai ci riusciremo, allora forse potremo dire di vivere in un paese veramente libero.

6 febbraio 2009

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