Abbiamo già detto, parlando della certezza del risultato,
quale sia il posto che l'audacia occupa nel sistema dinamico delle forze, in
cui si contrappone alla prudenza ed alla circospezione; vi accenniamo per dimostrare
che la teoria non ha diritto di sminuire questa forza sotto il pretesto di legiferare.
Ma questo nobile slancio, per mezzo del quale l'anima umana si innalza al disopra
dei più minacciosi pericoli, deve inoltre essere considerato in guerra
come un principio d'azione efficace a sé stante. Ed infatti, in quale
ramo dell'attività umana l'audacia godrebbe meglio del diritto di cittadinanza
che non in guerra?
Dal conducente e dal tamburjno fino al generale in capo, l'audacia è
la più nobile delle qualità; è l'acciaio che dà
all'arma il suo filo e il suo splendore.
Ammettiamolo senza esitazioni: l'audacia gode perfino di taluni privilegi, in
guerra. Al risultato che è offerto dal calcolo dello spazio, del tempo
e delle forze, si deve aggiungere una certa percentuale che l'audacia, ogni
qualvolta si senta preponderante, trae dalla debolezza della parte opposta.
Si tratta dunque di una forza veramente creatrice: e ciò non è
neppure difficile a dimostrare razionalmente. Ogni volta che l'audacia si trova
contrapposta all'esitazione, alla timidezza, ha necessariamente per sé
la probabilità del risultato, perché l'esitazione presuppone già
una rottura d'equilibrio. L'audacia è in svantaggio solo quando incontra
una prudenza illuminata la quale è, per così dire, altrettanto
audace nel suo campo e, comunque, è altrettanto forte ed energica: ma
questi casi sono rari. In tutte le categorie di uomini detti prudenti, la grande
maggioranza lo è per timidezza.
L'audacia diffusa in tutta la massa dell'esercito è una forza il cui
sviluppo non può mai nuocere all'azione di altri agenti, poiché
la collettività resta sempre soggetta, attraverso alla cornice ed alla
compagine dell'ordine di battaglia e del servizio, ad una volontà superiore,
e quindi è guidata da una forza esteriore; L'audacia, nelle collettività
militari, non è dunque che una molla tesa, sempre pronta a scattare.
Più c'innalziamo nella scala gerarchica dei Capi, più diviene
necessario che l'audacia sia accompagnata da un giudizio ponderato, affinché
non si manifesti senza scopo e come urto cieco della passione; più il
comando è elevato, tanto meno si tratta di abnegazione personale, tanto
più cresce la responsabilità della conservazione degli altri e
del benessere collettivo. Quel che in una collettività è regolato
da un ordinamento di servizio divenuto una seconda natura, deve nel Capo venir
regolato dalla riflessione. Per il Capo, l'audacia di un'azione può già
divenir facilmente errore: si tratta però pur sempre di un bell'errore,
che non deve venir considerato alla stregua degli altri. Felice l'esercito nel
quale un'audacia intempestiva si mostra frequentemente: si tratta di una vegetazione
forse eccessivamente lussureggiante ma che denota un terreno fertile.
Anche la temerarietà, cioè l'audacia senza scopo, non deve essere
disprezzata: è, in fondo, la stessa forza di carattere, che però
si manifesta quasi passionalmente senza la cooperazione compiuta dell'intelligenza.
Solo quando l'audacia si erige contro il principio dell'obbedienza, quando trascura
una volontà superiore chiaramente espressa, essa deve venir trattata
come un male pericoloso, non in se stessa, ma a causa della disobbedienza: poiché,
in guerra, nulla è al disopra dell'obbedienza
A parità di discernimento, la timidezza guasta mille volte più,
in guerra, dell'audacia: su questo punto non abbiamo che da accennare alla cosa,
per essere certi del consenso dei lettori.
In fondo, l'intervento di uno scopo razionale sembrerebbe dover agevolare l'audacia,
e diminuire quindi la parte di merito che le spetta nell'azione: invece, avviene
proprio il contrario. L'intervento del pensiero lucido, o addirittura il predominio
dell'intelligenza, tolgono a tutte le forze derivanti dal carattere una gran
parte della loro potenza; perciò l'audacia diviene sempre più
rara con l'elevarsi dei gradi. Ed invero, anche supponendo che il sapere e la
facoltà di giudizio non aumentassero col grado, sta di fatto che i capi
gerarchici ricevono dall'esterno impressioni così numerose e forti, in
fatto di grandezze obbiettive, di circostanze e di riguardi particolari, che
il loro compito è tanto più grave, quanto minore è la loro
capacità personale di discernimento. Quest'è, in guerra, la causa
principale del fatto che l'esperienza ha formulato nel detto francese:
" Tel brille au second rang, qui s'éclipse au premier. "
Quasi tutti i generali che la storia ci ha fatto conoscere come mediocri, o
come irresoluti, si erano invece segnalati per la loro audacia e la loro risolutezza
nei gradi inferiori. Dobbiamo qui stabilire una distinzione circa i motivi di
una azione audace che derivano dalla pressione della necessità: tale
necessità ha le proprie gradazioni. Se tale pressione è di carattere
immediato, se il generale è spinto a perseguire il suo scopo fra grandi
pericoli ma per sfuggirne altri non meno gravi, non si deve allora lodarne che
lo spirito di decisione: il quale ha pur tuttavia anch'esso il suo valore. Ed
infatti, se un giovane cavaliere, volendo mostrare la propria abilità,
salta un precipizio, dà prova di audacia: ma quando effettua lo stesso
salto perché inseguito da una banda di briganti che cercano la sua testa,
dà soltanto prova di spirito di decisione.
Invece, quanto più lo stato di necessità è lontano, quanto
più numerosi sono gli elementi che il raziocinio deve prendere in considerazione
per rendersi conto della situazione, tanto più difficile diviene l'osare.
Quando Federico il Grande riconobbe, nel 1756, che la guerra era inevitabile,
e non vide possibilità di salvezza che nel prevenire i suoi avversari,
ne risultò per lui la necessità di assumersi l'iniziativa della
guerra: ma vi fu certo dell'audacia nel farlo, poiché ben pochi uomini
vi si sarebbero decisi, nella sua situazione. Sebbene la strategia sia dominio
soltanto del generale in capo e dei comandanti di grandi unità, l'audacia
dei singoli elementi dell'esercito, al pari delle altre virtù militari,
non è per essa indifferente. Ben altre cose, infatti, si possono intraprendere
coll'esercito di una nazione ardita nella quale è sempre stato alimentato
lo spirito dell'audacia, che con un esercito al quale tale virtù guerriera
sia rimasta estranea. Per questo, abbiamo considerato l'audacia nei riguardi
dell'intero esercito.
Tuttavia l'audacia del Capo costituisce la parte principale del nostro soggetto,
benché non ne resti molto a dire dopo che abbiamo caratterizzato come
meglio potevamo, nelle sue linee generali, questa virtù militare.
Più il comando è elevato, più lo spirito, il giudizio e
il sapere acquistano ascendente sull'azione, e più dunque l'audacia,
che è una proprietà del carattere, si trova respinta nell'ombra.
Perciò essa è così rara nelle più elevate posizioni:
ma, appunto per tal motivo, è più degna di ammirazione quando
in esse si riscontra. L'audacia guidata da uno spirito superiore costituisce
il vero suggello dell'eroe: essa non si manifesta coll'osare contro la natura
delle cose, urtando inabilmente la legge delle probabilità, ma sostenendo
vigorosamente le conclusioni di quel calcolo mentale che il genio, il tatto
nel giudicare hanno effettuato colla prontezza del lampo, e quasi incoscientemente,
allorché hanno preso la loro decisione.
Più l'audacia dà ali allo spirito e al discernimento, tanto maggiormente
essi spiccano in alto il volo, lo sguardo abbraccia più vasti orizzonti
e il risultato è felice. Ciò deve tuttavia intendersi nel senso
che con la grandezza dello scopo cresce anche sempre la grandezza dei pericoli.
L'uomo ordinario, per non parlare di colui che è debole ed irresoluto,
arriva tutt'al più ad un risultato esatto nel lavoro mentale d'ufficio,
lungi dal pericolo e dalle responsabilità e solo in quanto tale risultato
sia possibile senza la visione diretta delle cose. Ma quando il pericolo e la
responsabilità lo stringono dappresso egli perde di vista l'insieme,
ed anche se i suoi collaboratori glielo rammentassero, perderebbe lo spirito
di decisione, poiché quanto gli manca sotto questo rapporto non può
essergli conferito da altri.
Noi riteniamo dunque che non si possa concepire un grande condottiero senza
audacia; che nessun uomo, cioè, possa divenire un grande generale, se
non è in lui innata questa forza del carattere: e la consideriamo perciò
come condizione prima di una elevata carriera.
Si tratta poi di sapere quanto resti ditale qualità innata, sviluppata
in seguito e modificata dall'educazione e dagli avvenimenti della vita, quando
l'uomo è alfine pervenuto ad un'alta posizione.
Tanto più resta di questa forza, tanto maggiore sarà lo slancio
del genio e più alto il suo volo. I rischi diverranno sempre maggiori,
ma con essi, anche gli scopi. Tanto se i motivi risultino da una necessità
lontana quanto se convergano verso il compimento di una grande opera generata
dall'ambizione, sia Federico od Alessandro che agisca, ciò è presso
a poco indifferente dal punto di vista della critica. Se il secondo caso eccita
maggiormente l'immaginazione, a causa della maggiore audacia in esso insita,
nel primo il raziocinio trova maggiore soddisfazione, perché risponde
ad una maggiore intima necessità.
Ci resta ora da considerare una circostanza importante.
Lo spirito d'audacia può essere proprio di un esercito sia perché
procede dalla nazione stessa, sia perché è stato generato da una
guerra fortunata sotto un capo ardito: nel secondo caso, però, verrà
inizialmente a mancare.
Ora, ai nostri tempi, non esiste altro mezzo che la guerra e la guerra condotta
audacemente, .per sviluppare lo spirito nazionale in questa direzione. E questo
il solo rimedio contro il rammollirsi dei caratteri, contro le tendenze alla
comodità verso cui è tratta ogni nazione che aumenta il proprio
benessere ed estende le proprie relazioni commerciali. Solo quando il carattere
nazionale e l'abitudine della guerra siano in relazione reciproca e si sostengano
a vicenda, una nazione può sperare di occupare una posizione stabile
nel mondo politico.