Datità di Giovanna Frene
Giovanna Frene, poetessa veneta nata nel 1968, ha già
un posto di rilievo nel panorama poetico italiano avendo al suo attivo la
recente vittoria al premio Lorenzo Montano-opera edita 2002 con Spostamento
(Lietocollelibri 2000), e avendo pubblicato su molte autorevoli riviste
di poesia come Anterem, Paragone-letteratura, Il Verri, Gradiva, Il banco
de lettura, Atelier, L'Ozio artistico letterario e su riviste di poesia
su Internet come Poetry Wave e sul sito on-line delle edizioni Lietocolle.
Inoltre, Giovanna Frene, con Immagine di voce (Antonio Facchin Editore,
1999) è giunta in finale al Premio Viareggio, al Premio Lorenzo Montano-
Opera edita, al Premio Mondello e al premio Diego Valeri.
Nell'opera che esaminiamo in questa sede, Datità, la poetessa
conferma, estremizzandola notevolmente, la sua cifra stilistica, l'icasticità
e la tagliente nettezza che già avevamo conosciuto nel testo precedente.
Qui il dato corporeo, che sottende una fisicità della parola, indissolubilmente
legato a quello psichico, si fa forte e correlato a ferite psicologiche
incontrovertibili, come afferma Andrea Zanzotto, del quale la Frene è
studiosa, nella postfazione: del resto, quello della ferita, è una
costante di ogni vero poeta, che cerca con la parola di esorcizzarla, sanarla.
Nel testo composito nella sua dimensione unitaria e compatta, quasi poematica,
il discorso della poetessa è sempre teso verso un confine netto che
separa la vita dalla morte, l'inconscio controllato dal conscio e, proprio
nel confine tra essi, tra detto e non detto, in altre parole, sgorgano i
versi di Giovanna, tra un'elementare e notevolmente complessa volontà
di vivere:
"Ditemi prima che abbia finito di vivere/ se la vita che ho vissuto è stata vissuta/ ditemi che la vita che ho vissuto è stata/ tutta quella che potevo vivere e avrei potuto/ ditemi che potei tutto di tutto/ di tutte le vite possibili ditemi se è vero/ che comunque nulla si arresta/ invissuta penombra/.
Qui il grido della poetessa si stempera nella compostezza del verso e c'è sempre un forte controllo formale: vivere negli altri e in se stessi, amplificare il comunque breve arco spazio temporale della vita, anche se, si potrebbe empaticamente supporre, che Giovanna non voglia cambiare la sua vita con quella di nessuno ma semplicemente, sfruttare capillarmente il proprio tempo terreno, figlia di un postmoderno occidentale che rispetto al novecento o all'ottocento, data per scontata la svolta cibernetica della velocità di Internet e e-mail, dà molte possibilità di vita, di una nuova vita, di nuove certezze ben diverse da quelle rinascimentali.
Il giorno del viaggio era meno giorno/ il senso del tragitto verto-orizzontale/
e tempo e luogo indeterminati/ non un vento si levò dall'occidente/
a gonfiare i sudari dei cervelli involti/ tornano tutti alla beatitudine
dell'esistere/ come una macchia oleosa sull'acqua/.
Si sa che per
Carl Gustav Jung il viaggio è la vita e lo stesso esistere non può
fare altro che dilatarsi, fondarsi e riempirsi di senso nel campo fertile
della poesia, negativo fotografico della realtà, al quale, ovviamente,
deve essere applicato qualche filtro che abbellisca e modifichi in
bene quanto la contemplazione della natura può farci intendere: qui,
però, esiste una natura solo a livello mentale o autocentrata su
dati antropomorfici, come, il cervello: non c'è paesaggio esteriore,
non ci sono cieli azzurri, soli, lune alberi, proprio quegli elementi del
Veneto che Andrea Zanzotto, suo conterraneo, esprime spesso trasfigurandoli,
come nel recente Sovrimpressioni. Attraverso uno scavo interiore,
Giovanna entra nei meandri di se stessa nel suo streben di poetessa
che cerca il senso dell'infinito.
Pur non potendosi considerare appartenente tout-court all'appartato e poco
frequentato settore della poesia filosofica italiana, certamente c'è
in questa poesia una forte tensione gnoseologica, la presenza pressante
di un esercizio di conoscenza che trova il suo crescendo e forse una nitida
chiave interpretativa, nell'ultima sezione in un crescendo filosofico:
Leggiamo la poesia La mano di Canova:
" l'abitudine di smembrare i corpi a partire dal cuore/ e dalla testa non reseca la mente del cervello materiale/ rimasto nella sede dotata della natura deposta/ dal suo scettro bestiale/ l'immortalità è un transito// veloce più in fretta le disse la vegetazione innaturale// dei tendini artistici più stretta la scansione degli dei/ più nitide le forme le fosse/ l'inattività è l'abitudine/ dei corpi unigeniti/ indivisi nella sfera immortale// non separi l'uomo ciò che l'arte ha unito nello oscuro/ del principio smembrando piuttosto l'uomo che la natura.. In nota la Frene spiega che Il riferimento a Canova è dovuto al fatto che la sua mano destra è conservata sotto spirito in un'urna in bella mostra nell'Accademia delle Belle Arti di Venezia, mentre il suo cuore è deposto nella Basilica dei Frati; il corpo così smembrato riposa infine nella natia Possagno nei pressi di Asolo.
Tra arte e natura, filosofia ed esperienza di vita, nella quale il quotidiano non riesce praticamente mai ad entrare, si sviluppa l'originalissima poetica di questa giovane poetessa, complessa e articolata, difficile e criptica, che, come antitesi a corpi smembrati, sottende una visione creaturale del tragitto terreno, quando, per dirla con le sue parole in nota:-
" Ogni essere che è non vuole non essere non è".
Giovanna Frene- Datità- Manni- Lecce- 2001 pagg. 134- € 10.50
Raffaele Piazza