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LE ULTIME LETTERE DI PADRE CLEMENTE |
La missione nella quale padre Clemente Vismara viene inviato è la
Birmania, oggi Myanmar: una terra allora avventurosa e avvolta dal
mistero.
Partito da Venezia il 2 agosto 1923, arriva a Rongoon
(l’attuale Yangon) il 9 settembre; non è ancora nella sua missione Monglin,
che avrebbe raggiunto nell’ottobre 1924. Si ferma a Toungoo per cinque mesi,
per imparare l’inglese e un po’ di lingue locali; poi con i suoi compagni
di viaggio, padre Luigi Sironi e padre Erminio Bonetta fondatore della
missione di Kengtung, parte per Taunggyi, estremo avamposto della
colonizzazione inglese. La regione destinata a padre Vismara era oltre il fiume
Salween ed era sotto l’autorità di un “Sabwa”, un re indigeno che proveniva
dalla razza dominante di quella regione, gli Shan.
La missione della
Birmania orientale era stata affidata dalla Santa Sede ai missionari del
Seminario Lombardo (l’attuale PIME, Pontificio Istituto Missioni Estere)
nel 1867, ma avevano preso il via solo nel 1911 e la Prefettura
Apostolica di Kengtung viene istituita da Pio XI solo il 27 aprile
1927.
Al superiore del Seminario Lombardo, padre Paolo Manna, scrive:
“Sono felicissimo di essere stato destinato per la Birmania, perché
dicono che è la più apostolica fra le missioni ed era mio ardente desiderio
d’andare in un luogo di sacrificio e di fatica /.../ Mi pare di andare
in missione con retta e vera intenzione di voler fare del bene per la gloria di
Dio (anche la mia, in Paradiso però). Amerei che il mio sacrificio
fosse completo, assoluto ed oscuro, e cercherò di farlo riuscire tale
con l’aiuto di Dio”.
Dotato di uno spirito di adattamento
eccezionale e di una buona dose di quel “buon umore ambrosiano”
espressione della serenità dell’anima, anche i disagi della vita
missionaria, così come padre Clemente li descrive nelle sue prime lettere
che invia a Le Missioni Cattoliche, rivista del suo Istituto,
acquistano il sapore e il fascino dell’avventura e
conquisteranno alla vita della missione l’entusiasmo di numerose
vocazioni; così non c’è inconveniente al quale padre Clemente non trovi modo
di adattarsi e di affrontarlo con buon umore che nasceva dalla sua
natura serena e fiduciosa e soprattutto dalla convinzione che stava facendo
tutto per Dio.
Quando padre Vismara arrivò a Kengtung la missione era
ancora agli inizi, anche se contava circa 500 battezzati e un migliaio di
catecumeni; i missionari avevano quasi esplorato tutta la regione della
“Birmania orientale”, una sorta di triangolo grande quasi come l’Italia
settentrionale che ha alla base il fiume Salween e si incunea tra la
Thailandia, il Laos e la Cina.
Finalmente nell’ottobre 1924,
padre Clemente arriva a Monglin, dopo aver cavalcato per sei giorni di
fila da Kengtung ed aver guadato 28 tra fiumi e torrenti. Dovette
attraversare anche il fiume Salween, mitico confine della
missione.
Così padre Clemente ricorda quel momento in un
articolo scritto a Le Missioni Cattoliche del suo Istituto: “Quanti
anni di fatica, di aspirazioni, di trepidazioni metteva fine quel fiume
mai prima conosciuto e pure tante volte sognato e desiderato!
Quante speranze di sacrificio, di immolazioni, di dedizione per il bene
dei fratelli non conosciuti, ma amati apriva il fiume! Tutto il passato ci si
presentò alla mente, come di cosa lieve e ci si mostrò pure l’avvenire
grande e bello e ci sentiamo come se avessimo troppo pretese e osato,
anzi un brivido ci invase davanti al sacrificio. Ma fu un momento. ...
... La fede in Dio che ci ha mandati ci fece proseguire colla
speranza e colla gioia di poterci offrire all’opera santa della propagazione
di quella fede che ci regge e guida sulle ali divine dello Spirito. Noi
siamo i sacerdoti, i giovani sacerdoti, i successori dei pescatori di
Galilea. La nostra battaglia è uguale alla loro, l’arma nostra fu
l’arma loro: il Crocifisso; ma la loro virtù è pure la nostra? Quanto
vuoto davanti a questa domanda! Quanto bisogno di virtù, quanto
bisogno di preghiere!
O voi che amate le missioni, pregate,
pregate per noi, potente e santa è la preghiera. L’opra nostra sarà
opera vostra. Quel che è padre di tutte le genti vedendoci uniti nel
medesimo sforzo: “Sia santificato il nome tuo, venga il Regno tuo”, non
potrà non benedire dal Cielo l’opera nostra che è opera sua e donarci un
giorno la corona concessa solo a chi ha combattuto legittimamente le
nostre battaglie”.
Con questo spirito Clemente inizia la sua
missione a Monglin, uno sperduto villaggio dei monti nello Shan State.
La descrizione più fedele di Monglin è quella fornita dallo stesso
Servo di Dio:
“Io credo che nessuno di voi lettori sappia
dove si trova Monglin. Ma ciò non è imputabile a ignoranza,
perché io pure, per sapere dove si trova questo benedetto paese, sono
dovuto venir qui e stabilirmici.
Cento anni fa Monglin non esisteva,
ma poco manca a festeggiare il centenario. Non è un gran paese, ma sono
tanti villaggetti, uno di seguito all’altro ai lati della strada maestra
per circa sei miglia.
Dicono i vecchi che il luogo ove sorgono ora
tutti questi villaggi, era abitato da elefanti
selvatici.
Monglin significa “territorio di confine” e si trova circa
sul 21° di latitudine nord e 100° di latitudine est di Greenwich. Siamo
in Indocina.
Il fiume Mekong dista 8 miglia verso sud-est. Kengtung,
capitale di questo stato, dista 125 km e quasi altrettanto il confine
nord del Siam. A sedici miglia a ovest si estende il Laos.
Quanti
siano gli abitanti di questi villaggetti, non lo so, anche perché qui
non si usa ancora tenere i registri di nascita. Mi sembrerebbe
di esagerare calcolando a duemila gli abitanti”.
La prima dimora di padre Vismara è un grande stanzone diviso in cinque
stanze:
“Una serve da cappella di giorno e da dormitorio di
notte; un’altra stanza per noi; una terza da farmacia, da sala da pranzo
e di conversazione, ecc.; quella di mezzo da cucina, e una
piccola stanzetta per il catechista.
Il pavimento è un po’
ineguale, è di terra battuta. Suppellettili non ce ne sono, neppure una
sedia. Le casse, portate con noi fanno tutti i servizi: da sedia, da
tavolo, da credenza... e tutto intorno è boscaglia fitta nella
quale, a stento, si può penetrare”.
Abbondano le zanzare, i
topi, i pidocchi e ... altri animali domestici, dai quali i missionari,
padre Vismara e padre Bonetta che si ferma per qualche tempo con lui,
si difendono fumando la pipa con tabacco locale, così
che “entrando di sera nella casa, sembra d’entrare in una caverna della
suburra di Roma ai tempi del Quo Vadis” scrive Clemente in
una della sue prime lettere.
A poco a poco padre Clemente prende coscienza del nuovo mondo
nel quale vive: la piaga dei fumatori di oppio, la povertà, le credenze
ancora pagane ben radicate e un certo fatalismo connaturato che non
stimola certo la gente ad impegnarsi nel lavoro e nella
realizzazione. Fin dai primi mesi di missione, Clemente scopre quale sarà
il campo privilegiato del suo apostolato: i bambini ed i ragazzi che
considera il futuro di quella gente, sia come cristiani che come
popolo.
Nonostante la povertà estrema che padre Vismara deve affrontare,
inizia ad accogliere i primi orfani. Nove sono i ragazzi che
costituiscono il primo piccolo nucleo di centinaia che padre Clemente
avrebbe raccolto, allevato, educato e dai quali sono usciti sacerdoti,
suore e catechisti.
La povertà estrema non è la sola virtù che
padre Clemente deve esercitare: la pazienza di aspettare i frutti che
sembrano non maturare e il dovere di accettare la flemma filosofica degli
orientali, costa molto di più al dinamico padre Vismara che, come ogni
buon lombardo, vorrebbe tutto e subito:
“Noi qui si vive la
vita dei poverelli di Cristo, ma si prova contento e allegria da
Paradiso e la preoccupazione del domani è relativamente leggera, giacché
l’opera non è nostra, è del Signore. /.../ Ai posteri un Monglin più
fornito di cristiani e di necessario, a noi la prima semina”.
Descrivere quanto il Servo di Dio ha fatto negli anni della
missione di Monglin, è impossibile. Costruì chiese nei
diversi distretti missionari, dispensari, un ospedale, piccole
scuole, convertì e battezzò centinaia di cristiani.
Al suo fianco si succedono diversi confratelli in aiuto alla sua missione,
ma padre Vismara è quasi sempre solo perché a causa della povertà e
degli stenti di quegli anni, molti muoiono presto, tanto che lui stesso
teme per la sua vita e si prepara la cassa da morto:
“La mi preme
la pelle, quindi voglio che sia messa via per bene”,
ma
certo non prevedeva che la cassa, preparata con tanta cura, avrebbe dovuto
rifarla e cederla per ben diciotto volte!
A Monglin costruisce prima
la chiesa e solo nel 1929 la sua casa, poi l’orfanotrofio, che ancora
oggi ospita molti ragazzi poveri o orfani, costruisce il convento per
le suore che arriveranno a Monglin nel 1931.
Fonda nuovi distretti
missionari, va in esplorazione di villaggi mai raggiunti da uno straniero. In
queste visite l’attività che lo occupa maggiormente è quella di
raccogliere i bambini e i ragazzi. La diffidenza della gente è vinta dal
suo atteggiamento verso i poveri, i malati e dalla sua preghiera.
Nell’orfanotrofio di Monglin ben presto i ragazzi diventano centinaia:
bambini e bambine abbandonati, orfani o venduti dai genitori per comprare
oppio.
Padre Clemente li accoglie tutti, di qualunque razza e religione,
senza calcolare se aveva posto o se il cibo bastava.
Per loro si inventa
mille mestieri e insegna loro a coltivare i campi di riso, ad allevare
polli e maiali, a cacciare nella foresta, a coltivare l’orto e i fiori
che vengono venduti al mercato settimanale di Kengtung.
L’intelligenza
e il senso pratico lo aiutavano di certo, ma soprattutto Clemente
nutriva una grande fiducia nella Provvidenza. Anche quando mancava di
tutto diceva: “Il Signore Provvede” e, come testimoniato da
molti birmani, suore e laici, la Provvidenza veniva sempre in soccorso.
Padre Clemente restò a Monglin fino al 1955, oltre trent’anni senza mai
rientrare in Italia.
Fece molto, anzi moltissimo e il segreto del
suo successo era la novità che portava dentro di sé, l’entusiasmo che
lo rendeva giovane anche dopo i novant’anni, la voglia di non essere mai
stanco di lavorare per Dio, di rinnovarsi nei bambini, nei lebbrosi, negli
ammalati.
Nel 1955 la sua era una bella missione che contava diverse
conversioni anche tra i buddisti coi quali aveva ottimi rapporti di dialogo
e di rispetto reciproco basati sul valore dell’uomo.
L’amore che portava
per tutti era la lezione più convincente e la testimonianza più
efficace. Padre Vismara era sempre sorridente, tanto che è ricordato dalla sua
gente come “il prete che ride e scherza sempre” ma, affermano i testimoni
birmani, anche il suo scherzare portava un insegnamento.
Il 1955, dopo 32 anni di intenso e fruttuoso lavoro a Monglin, dove
padre Clemente era considerato il padre di tutti, arriva la richiesta di
trasferimento in un’altra stazione missionaria.
“Caro mio,
il cuore vacilla! - scrive all’amico Pietro Migone ricordando il suo
trasferimento - dopo 32 anni, quando meno me l’aspettavo, fui
trasferito da Monglin a Mongping (a 225 km di distanza). Ho
ubbidito perché sono persuasissimo che s’io facessi qualche cosa di mia testa
certamente sbaglierei e la mi andrebbe male”.
Quando il
vescovo mons. Guercilena disse a Padre Clemente: “Dovresti
spostarti da Monglin a Mongping”.
“Va bene – rispose
Clemente – vuoi che venga via subito con te o mi dai qualche giorno di
tempo per salutare tutti? /.../ Io sono contento ovunque mi mandi. Lasciami
solo andare in chiesa a digerire davanti al Signore questa batosta che non
mi aspettavo”.
Anche in questa circostanza padre Clemente
mostra obbedienza, prontezza e grande forza d’animo.
A 58 anni inizia
un’altra avventura a Mongping.
La nuova destinazione di padre Vismara non era certo come quella che aveva
lasciato a Monglin:
“A Monglin avevo messo in piedi una mezza
città, una scolaresca di quasi cento orfani e orfane, ecc. ecc. In più ero
riuscito (meglio il Signore ha fatto) a prendere nel gregge nostro alcuni
buddisti influenti del paese.
Più che i miei (ed eran tutti miei) cristiani,
mi spiaceva abbandonare i pagani, sia del piano come del monte.
Ci
conoscevamo tanto che per me entrare in villaggio cattolico o in villaggio
pagano era la stessa accoglienza e nutrivo tante speranze.
Ora mi trovo
a Mongping: una freddura per molte cause: la principale è che troppi fumano
oppio; per due anni la residenza del padre ed il paese sono stati occupati dai
soldati che ci lasciarono il segno morale.
Il convento che era florido e
numeroso, ora è ridotto a dodici bambine piccoline piccoline.
I fabbricati
tutti da riparare, solo la casa è di mattoni, la chiesa è in legno di
quarant’anni fa, necessarissimo un orfanotrofio, l’attuale è una palafitta di
bambù e paglia.
E’ un affare aver portato da Monglin alcuni per aiutarmi,
ma mi sono riscappati là, ed io in cuor mio non sapevo dar loro
torto”.
Tutto a Mongping ha il sapore della desolazione e dell’abbandono; dopo
qualche mese il Servo di Dio aveva già visitato quasi tutti i villaggi della
missione, ma la situazione è pesante ovunque; la guerriglia separatista,
seguita all’indipendenza raggiunta nel 1948, ha aggravato la situazione di
miseria e precarietà.
La seconda parte della vita missionaria del Servo
di Dio è segnata dalla presenza della guerriglia e del brigantaggio:
“Sono qui a Mongping ed a me sembra d’essere caduto nel Carcere Mamertino,
proprio nel secondo piano inferiore – scrive il 15 maggio 1955 al superiore
generale del Pime padre Luigi Risso – ce la farò? Materialmente, specie nel
cibo, mi trovo peggio, né si trova roba. Padre Gerosa (suo predecessore, n.d.r.)
viveva come gli indigeni, perciò ho dovuto comperare piatti, bicchieri, sedie ed
il tavolo rivide la tovaglia. Ho rifatto tutto il pavimento della casa con
cemento. In casa ci piove. Ho rimesso tutti i vetri alla chiesa che ne era
senza. Ho imbiancato tutta la casa e ci ho messo anche un pendolo.
/.../
Mi mancano da visitare ancora due villaggi, poi la gente nostra l’ho vista
tutta. In nessuna cappella ho trovato una sedia, un tavolo, nessuna
comodità rudimentale, inoltre vendono oppio”.
Quella dei fumatori
d’oppio era una piaga dilagante di quella missione e sembrava inarrestabile;
causa di miseria morale e materiale, portava le famiglie alla rovina, a
disfarsi dei figli.
Padre Clemente, a Mongping, ricomincia da capo
e dopo quattro anni scrive: “...Ho lasciato il mio inobliabile Monglin con
tutto: casa, chiesa, convento, ospedale, due orfanotrofi ecc. ecc. e sono
venuti qui col solo vestito; per di più ho trovato quasi nulla; c’è solo la
casa passabile in mattoni. Al primo anno vedevo buio, mi ci volle del tempo per
rimettermi in sella. Ora la mi è passata, ma sventuratamente ho sessantacinque
anni; se fossi bello come un tempo, non ci penserei”.
Padre Vismara
non si scoraggia, ricomincia a fare quello che ha fatto a Monglin: raccoglie
orfani e li educa; costruisce la chiesa, la scuola, l’orfanotrofio e continua
a visitare i villaggi, piccoli e dispersi sui monti. Tutto questo in una
realtà sempre difficile. Infatti, dal 1950 in poi inizia una aperta
ostilità nei confronti dei missionari: 5 missionari del P.I.M.E. vengono
uccisi nel giro di sei anni. Questo significava, per padre Vismara e i suoi
confratelli, convivere con un possibile martirio.
Padre Vismara sapeva
usare la dovuta prudenza e, nel 1960, lasciò la missione nascondendosi
anche per non mettere a repentaglio la vita dei suoi cristiani: “Sarò
irreperibile per non so quanti giorni, né so dove andrò e come andrò, perché
ci sono ribelli dappertutto anche nei miei villaggi. Ma io penso di essere
indegno del martirio, quindi me la svignerò sempre, come già due volte me la son
svignata, pur sotto le pallottole”.
Questo non significa che non fosse pronto a dare la vita, ma padre Vismara
aveva i piedi per terra: finché fosse possibile era meglio salvarsi, non
tanto per se stessi, ma per il bene della popolazione; i missionari erano
pochi, troppo pochi e salvarsi era prima di tutto un dovere verso la gente.
Un suo confratello padre Badiali Rizieri racconta che, mentre gli altri
erano abbattuti e scoraggiati per le numerose perdite, Clemente diceva:
“Dobbiamo vivere noi per fare quello che loro non hanno fatto”. Lui –
continua padre Badiali – aveva questa linea di fondo coraggiosa, piena di
fede, di amore alla vita. Vivere con gioia il dono della vita, come ce lo
regala il Signore. E poi aveva il desiderio di strappare più che poteva la
vita alla morte, specie dei bambini. Salvare tante vite, tanti
bambini.
Accanto all’uccisione dei missionari, non meno dolorosa è
l’uccisione dei catechisti, messa in opera per spegnere la fede cattolica ed
invitare la popolazione a tornare alle antiche credenze. Padre Vismara tenta
tutti i mezzi per salvarli e comprende anche la loro defezione: “Tutti i
catechisti si sono rifugiati qui. Mi spiace, anche perché, con la paura che
hanno addosso e senza nessuno che li difenda e dia loro coraggio, non saranno da
rimproverare se torneranno al paganesimo, almeno per il momento. Non so proprio
cosa fare. Speriamo in giorni più sereni”.
Furono anni duri per
padre Vismara, ma la sua fede e la sua speranza lo sostengono in ogni
situazione.
Ancora padre Rizieri ricorda il breve periodo trascorso
con padre Vismara in Myanmar: “Pregavamo insieme, nel senso che ci trovavamo
in chiesa a pregare come facevano i preti di una volta. Padre Vismara pregava
e pregava molto. Diceva: “Se non ci fosse la preghiera come farei ad essere
allegro sempre? Ad accettare le fatiche di alcuni giorni faticosi?”.
Egli pregava con grande devozione e raccoglimento e con grande fedeltà,
anche quando eravamo nei villaggi pagani. Ci sosteneva molto la parola di Dio,
che era il nostro riferimento costante ed il nostro cibo, perché ci indicava
la via di ogni giorno, perché il Vangelo è il manuale del
missionario. Padre Vismara amava particolarmente la figura di Abramo e Mosè che
conduce il suo popolo dall’Egitto. Gli dava la forza di essere paziente con
la gente, affermava che se Dio era stato così paziente, così doveva esserlo lui
con la sua gente”.
Deciso a non ritornare più in Italia, dopo 34 anni di missione i suoi
confratelli preparano il suo rientro e padre Vismara, pur con qualche reticenza,
non si oppone.
Arriva in Italia nel febbraio 1957, accolto da tutti come un
amico, anche se mai visto o conosciuto perché le sue lettere e i suoi scritti
(ha sempre tenuto contatti con i parenti e con i numerosi benefattori) lo
avevano preceduto, fatto conoscere e amare.
Padre Clemente incontra
il fratello Franco, l’ultimo dei suoi fratelli ancora in vita; incontra i
numerosi nipoti; arriva ad Agrate accolto dal suono delle campane e dalla banda
locale; le autorità religiose e civili e gli agratesi tutti, accolgono festosi
il loro missionario.
Colpisce la sua figura, non più giovane, ma dal
passo sicuro e dal portamento fiero, colpisce il suo sguardo reso austero
dalla lunga barba, nel quale però brillano due occhi trasparenti e
dolcissimi, ma altrettanto penetranti.
L’immagine che gli agratesi
conserveranno di questo incontro è quella di un uomo orgoglioso della sua
scelta e felice di fare del bene.
La sua presenza ad Agrate, se pur
saltuaria (spende il suo soggiorno italiano in numerosi incontri di animazione
missionaria nei seminari e in varie parrocchie, suscitando entusiasmo e
interesse) consolida un legame di amicizia che in 34 anni non ha conosciuto
flessioni e si prepara a viverne altrettanti superando le barriere della
lontananza e del tempo coinvolgendo vecchie e nuove
generazioni.
Clemente approfitta delle sue vacanze per rivedere gli amici
di un tempo, ma sente forte la necessità di ritemprare il suo spirito e decide
di trascorre un mese intero presso la casa di spiritualità “Villa Mater Dei”
di Masnago (Varese) per il mese ignaziano di esercizi spirituali, nonostante
le rimostranze di amici e parenti ai quali un mese sembrava un periodo
troppo lungo, considerando il fatto che rientrava in patria dopo trentaquattro
anni e che, molto probabilmente, non vi avrebbe più fatto ritorno.
Padre Clemente, quasi al termine del suo soggiorno italiano, compie nel mese
di settembre un pellegrinaggio a Lourdes, la Madonna a cui è particolarmente
legato. Nei suoi villaggi di Monglin e Mongping c’è una grotta costruita da lui
con l’aiuto della sua gente.
Si avvicina il giorno della partenza. Del
resto l’Italia gli sta stretta e dopo undici mesi di intensa vacanza saluta
gli agratesi dicendo: “Guardatemi bene in faccia: non ci rivedremo
più”.
Ad un giornalista del quotidiano L’Italia che lo interroga
sulla vita missionaria, risponde: “La redenzione è un lavoro lento, duro,
penetrante, deve impossessarsi dei cuori e tutti i mezzi di cui disponiamo
sono ammennicoli, accidenti..., soltanto Gesù può redimere; i missionari sono
semplici cooperatori. Lui ha portato la croce, non possiamo far altro che agire
come ha agito lui. Io ho ormai sessant’anni e già da tempo tengo in tasca
il biglietto di ritorno. /.../ Riparto per mia necessità, per un senso del
dovere non posso rimanere qui. Laggiù vi è tanta gente dispersa nei villaggi
isolati, senza strade, nelle foreste; hanno bisogno del sacerdote, non si può
abbandonarli”.
Clemente riparte felice il 24 dicembre 1957,
pur avendo in tasca un biglietto di andata senza ritorno...
Padre Vismara riprende il suo posto a Mongping, ritemprato nel fisico e
arricchito dall’incontro con una realtà in evoluzione come era quella
italiana degli anni cinquanta, molto diversa da come Clemente l’aveva
lasciata nel 1923. La parentesi italiana è chiusa per sempre; rimane il fatto
che ha attirato nuovi amici e benefattori nell’orbita della missione.
Gli anni sessanta sono anni difficili per la Birmania. Con il colpo di stato del
generale Ne Win del 2 marzo 1962 inizia la cosiddetta “via birmana al
socialismo” che segna una svolta irreversibile per il paese, portandolo alla
decadenza economica e politica.
Nel 1965 si affaccia all’orizzonte una nuova preoccupazione: il Governo
allontana tutti i missionari entrati in Birmania dopo il 1948, anno
dell’indipendenza, requisisce gli edifici costruiti dai missionari:
scuola, ospedali... Sono momenti difficili perché di giorno in giorno
giunge notizia di qualche espulsione. Anche a padre Vismara, pur essendo
entrato in Birmania prima del 1948, dicono di stare pronto. Ma lui non perde la
calma; di sicuro sapeva che avrebbe lavorato fino all’ultimo
momento.
“Sarebbe barbina – scrive all’amico don Pietro
Bertocchi – dopo 42 anni di lavoro dover abbandonare il mio
gregge”.
“Non mi so persuadere e nonostante tutto mi illudo
di rimanere fino alla fine. La mia scuola è ancora mia e noi si continua
come sempre. /.../ Certamente mi spiace, ma il più che mi addolora è per gli
orfani e bambini che sono una bella truppa. Non potranno neppure più studiare
perché ci sono le tasse da pagare e loro sono senza nessuno. /.../
Tornerebbero nei boschi a prendere uccelli e pesci”.
Nel 1966 il Governo decreta l’espulsione di tutti i missionari
stranieri e vieta l’ingresso di nuovi sacerdoti.
Per padre Clemente
rimanere in missione significava rinunciare definitivamente ad un suo ritorno
in Italia. Un testimone per la Causa di Canonizzazione così ricorda quel periodo
e la decisione di padre Vismara:
“Quando il governo allontanò dalla
Birmania tutti gli stranieri, un compagno di padre Vismara lo esortò a rientrare
con loro in Italia. Padre Vismara gli disse che avrebbe deciso dopo aver
celebrato la s. Messa, per mettersi in ascolto del Signore, cui avrebbe chiesto
di illuminarlo sul da farsi. Decise di rimanere, come aveva sempre pensato,
perché voleva morire vicino alla sua gente. Affermava che sarebbe rimasto tra
noi per sempre, sino alla sua morte e che non sarebbe più tornato in Italia,
perché qui era venuto per amore di Dio”.
Passano gli anni e nonostante
Clemente non sia più “giovane e bello, con gli occhi color del mare” come
disse di lui quando lasciò l’Italia nel 1923, continua instancabilmente il suo
lavoro missionario. non si possono descrivere tutte le sue realizzazioni, quanti
villaggi abbia visitato, quanti bambini abbia accolto, sfamato e istruito, ma
possiamo fare un resoconto delle opere stabili e che ancora oggi sono punto di
riferimento per i villaggi di Monglin e Mongping: orfanotrofi, chiese, scuole,
casa del missionario, grotta della madonna di Lourdes, diverse cappelle nei
villaggi e chiese in mattoni e tutto questo fino alla fine della sua
vita.
Con queste costruzioni padre Clemente assicurava lavoro a
molte famiglie. Ha insegnato loro a fare il muratore, l’allevatore, il
coltivatore... E’ stato questo un aspetto importante della sua missionarietà:
promuovendo lo sviluppo della persona, soprattutto nei giovani perché
vincessero la naturale fatalità che li portava ad accettare la miseria come
condizione normale e a chiedere senza impegno.
Padre Vismara raccolse ed educò centinaia, migliaia di orfani nei 65 anni della
sua vita missionaria, ma tutta la sua opera educativa aveva questo fine:
promuovere lo sviluppo della persona, fargli acquistare
dignità.
Abituare la sua gente al lavoro era una forma di educazione
che guardava al futuro. Padre Vismara fu un uomo di carità sconfinata, ma
educava anche a sentire l’importanza del lavoro e per questo lavorava con
loro.
“Se si accetta di fare il missionario – scrive padre
Clemente - lo si deve accettare senza porre condizioni, altrimenti saremmo
mercenari. Predicare non basta; celebrare non basta; battezzare ecc. non basta,
Unico e solo modo per raggiungere il proprio ideale è “perdersi per salvare la
vita di chi si perde”. Il missionario se vuol vivere e far vivere deve
adattarsi a tutte le faccende sia nobili che meno nobili: letterato,
bifolco, poeta, ciabattino, aristocratico, plebeo... e la litania continua.
/.../ Nostro scopo principale non sono i soldi, ma educare alla fatica, aver
l’onore di guadagnarsi il proprio cibo”.
L’accoglienza ai poveri, di qualunque religione fossero, è uno dei principi
ai quali padre Clemente non è mai venuto meno. La sua fede lo metteva in
grado di vedere Dio in ogni creatura, specialmente nelle persone povere e
abbandonate. Alle suore di Maria Bambina che si occupavano
dell’orfanotrofio femminile, amava ripetere: “Non preoccupatevi. La
Provvidenza non mancherà”. Anche nei suoi ultimi giorni di vita, prima di
morire, raccomandò loro di non rifiutare nessuno e che dal Cielo avrebbe
provveduto ai suoi piccoli.
La sua casa non era chiusa neppure per
i soldati, accampati nei pressi della missione, malvisti dalla popolazione, ma
dai quali padre Vismara fu sempre rispettato.
Molte conversioni
soprattutto dal paganesimo nascevano da questa carità che il Servo di
Dio viveva senza distinzioni.
La coerenza, fra parola e vita, dava
credibilità a quello che lui insegnava, abituato ad affrontare la vita con
semplicità giorno per giorno, senza speculazioni.
Padre Clemente non
divenne mai vecchio; la sua era una giovinezza che si rinnovava nel dono
sempre nuovo di se stesso.
A 76 anni, in occasione del suo giubileo
sacerdotale scriveva: “Io non sono invecchiato, credo di essere passato
attraverso tre successive giovinezze. L’aurora: giovinezza di sogni,
spensierata, irrequieta ed anche incosciente; il meriggio: giovinezza di
sacerdote, fattiva, laboriosa, faticosa, ma soddisfacente; il tramonto:
giovinezza pacata e lenta, meno rumorosa, ma più efficace,
sperimentata, forse più umana... La vita non può fiorire se rimane rinchiusa
nei suoi angusti limiti; essa si rinnova e si moltiplica offrendola. Ho creduto
nell’amore ed ho amato senza la pretesa di essere riamato. Disillusioni e
malinconie non so cosa siano”.
La lunga vita di padre Clemente giunge alla sua meta il 15 giugno
1988.
Il ricordo di mons. Than, già vescovo di Kengtung dal 1969
al 2002, così ricorda padre Vismara: “Incontrai per la prima volta padre
Clemente nel 1957 in Yangon. Padre Vismara era di ritorno dall’Italia e io
ero in partenza per Roma. Fu un incontro fugace. Poi il Signore ha voluto
che ci incontrassimo di nuovo molti anni dopo, il 5 giugno 1969, e siamo
rimasti insieme nella diocesi di Kengtung per 19 anni e 10 giorni, fino al
15 giugno 1988, giorno della sua morte.
In tutti questi anni
abbiamo parlato, viaggiato e discusso circa molte cose, in modo particolare
circa i suoi orfani, che mi raccomandò di custodire anche dopo la sua morte.
Perché gli orfani sono la nostra speranza futura:
“Almeno
qualcuno di loro diventerà prete e prenderà il nostro posto. Alcuni
diventeranno suore, alcuni diventeranno buoni catechisti e il resto dei buoni
cattolici”,
diceva il nostro Vismara. Da lui ho avuto esempi
molto buoni e edificanti per la mia vita spirituale e pastorale.
Padre Clemente Vismara fu soprattutto un uomo di fede.
Vedeva le
cose e gli eventi quotidiani con gli occhi della fede. La sua fede lo metteva
in grado di vedere Dio in ogni creatura specialmente nelle persone povere e
abbandonate.
Era solito dire: “Come Dio ha creato me, ha creato
anche i poveri; come Egli ama me, ama anche i poveri; come Egli vive in me, vive
anche nei poveri. Noi siamo tutti suoi amati figli. Così se amo i poveri, io amo
Dio. Se non amo i poveri, non amo Dio”.
Padre Clemente fu un uomo di speranza.
La sua forte speranza e
fiducia in Dio e nella Sua Divina Provvidenza, lo fece deciso ad accettare un
gran numero, il più possibile, di orfani nel suo orfanotrofio.
Era
solito dire: “Per i poveri orfani io farò del mio meglio, e Dio farà il
resto. Con il mio lavoro manuale nel giardino e con la lingua in bocca e con le
mie due mani, io sarò capace, con l’aiuto di Dio e la Sua Benedizione, di
prendermi cura e di nutrire molti orfani che sono suoi figli. Io mi prendo
cura, nutro ed educo i suoi ragazzi e Dio sicuramente, senza fallo, aiuta me.
Non c’è problema. Non importa se nessuno mi aiuta a sfamare così tanti
orfani perché la Divina Provvidenza mi verrà in aiuto. Confido in Lui e
sono sicuro che Lui mai mi lascerà solo. Più di questo, ho piena speranza e
assoluta fiducia che un giorno lui ci porterà nella sua casa esterna in
Paradiso, dopo la nostra morte. Io e i miei poveri orfani viviamo insieme
qui sulla terra e in seguito saremo di nuovo insieme in Paradiso. Quale
felicità, quale gioia! Mia sola fiducia e speranza è Dio e la Sua Divina
Provvidenza”.
Padre Clemente Vismara fu un uomo di carità.
La
carità di padre Clemente fu eccellente. Il suo amore per il prossimo,
specialmente per i poveri orfani, parlano da sé. Egli amava Dio con tutto il
suo cuore e la sua anima, con tutta la sua mente e amava il suo prossimo
come se stesso per amore di Dio. E questa era la sua seconda vita.
Fu
veramente buono e premuroso anche verso i suoi confratelli preti,
specialmente i più poveri. Sempre divideva con loro i pochi soldi che riceveva
dai suoi generosi amici benefattori.
Padre Clemente fu un uomo di povertà.
Sebbene lui stesso poteva
essere un ricco sacerdote nel campo missionario con i soldi e altri aiuti
ricevuti dai suoi cari in Italia e altri buoni e generosi benefattori del
mondo, egli non ha voluto essere così. Ma lui piuttosto preferiva dividere i
soldi e altre cose con i suoi poveri e le persone abbandonate. Spesse volte
condivideva il suo cibo con i suoi orfani ammalati.
Egli era
solito dire: “Cristo si è fatto povero per fare noi ricchi... Egli
spogliò se stesso per riempire noi. Anch’io devo vuotare me stesso per dare
ai miei poveri orfani sufficiente cibo quotidiano”.
Quando
padre Vismara morì il 15 giugno 1988, furono trovati solo 1500 kiats,
equivalenti a più o meno 15 dollari, ma molti erano gli orfani lasciati in
eredità al suo successore.
Dal 1 al 6 giugno 1988 padre Vismara era
a Kengtung e il 7 giugno, sentendosi poco bene, volle ritornare a Mongping
perché diceva che voleva morire tra i suoi orfanelli.
Così ricorda mons. Than gli ultimi istanti di vita di padre Clemente: “Al mio
ritorno da un villaggio mi dissero che padre Clemente stava poco bene, era il 15
giugno, ed io mi affrettai ad andare a Mongping. Partii alle 11,00 e arrivai da
padre Clemente alle 18,15, ma non poteva più dirmi niente. Sono stato vicino a
lui per ben due ore facendo tutto ciò che dovevo fare per lui, pregando, dando
gli ultimi riti ecc. ecc. Alle 20.15 padre Clemente ha chiuso i suoi occhi per
sempre in grande pace. Un grandissimo dolore per noi tutti!
Secondo il
desiderio dei suoi cristiani la sua salma è stata conservata in un’aula per ben
6 giorni, dando l’opportunità a tutti i cristiani, ai suoi amici buddisti e
pagani di venire a pregare e dare l’ultimo saluto al loro Padre per
l’ultima volta. I suoi orfanelli lo circondavano.
Fui sorpreso di
sentire i miei sacerdoti, suore, catechisti e fedeli chiedere la vecchia e
usata veste e i vestiti di padre Clemente Vismara come reliquia. Ciò mi
colpì e mi fece capire che loro e i bambini lo riconoscevano come uomo
santo, un santo in anticipo.
Sono felice di ripetere ancora che l’intero
popolo della diocesi di Kengtung sostiene pienamente la Causa di
Canonizzazione di padre Clemente Vismara.
Vi dico poi infinite grazie
per tutto ciò che fate per lui e per gli orfani del nostro carissimo
indimenticabile padre Clemente Vismara, il vostro compaesano
missionario.
Preghiamo per averlo presto Beato e Santo p.
Clemente Vismara al più presto”.
Mons. Abramo Than, Vescovo
Emerito di Kengtung
Mongping, 20 dicembre 1987
Sto contemplando le vostre belle facce.
Voi avete tutti i capelli neri, io invece ho i capelli bianchi. Voi avete le
facce bianche ed io ho la faccia nera. Eppure siamo tutti belli belli perché
siamo Brianzoli di Agrate Brianza. Ma tutti noi, io e voi, abbiamo il cuore
caldo e rosso. Vorremmo cioè che tutto il mondo conoscesse ed amasse il buon Dio
vero ed unico.
Quest’anno ho costruito un’altra chiesa in legno. Tranne
5 tutte le mie chiese sono di bambù col tetto di paglia. E’ arrivato un
ordine a tutti i montanari di scendere dai monti e costruire villaggi in
pianura, lungo la strada maestra. Dicono però che tornando la pace permetteranno
il ritorno. Che ne sarà dei campi di riso ai monti? E’ un problema
insolubile!
Qui non c’è pane, si mangia solo riso. Fortunati voi che
mangiate minestra di riso senza la fatica di coltivarlo. Oh! Ma finirà la
camorra!
Nella foto voi siete in 22 giovanotti. Io qui sono solo
della mia specie e genere, ma vivono con me e mangiano me oltre 200
orfanelli.
Vi auguro ogni bene.
Ci rivedremo in
Paradiso.
Con affetto
Clemente
Mongping, 10 aprile 1988
Rev.mo Sig. Parroco,
Nonostante i 65
anni di lontananza il proprio nido non lo si può dimenticare!
Ormai
sento pur io d’esser giunto alla fine: da un anno ci vedo da un sol occhio, però
sono ancora bello. Sono nato nel secolo scorso al 6 settembre, chi mi battezzò
(se non erro) fu don Umberto andato in Paradiso da anni. Ho fatto anche la
guerra nell’80° Reggimento Fanteria. Sono Cavaliere di Vittorio Veneto e ricevo
ogni anno 150 mila lire.
Che volete di più da un brianzolo pari mio?
Della mia specie e genere sono qui solo solo, ho tanti orfanelli, orfanelle,
infanti, 22 vedove, una quarantina di villaggi ai monti. Tutte san fare il segno
di Croce. Vi basti sapere che la suora mette ogni giorno in padella due sacchi e
mezzo di riso. Tutti mangiano e nessuno guadagna.
Preti, a nome
Clemente, siamo in quattro. Io sono di Agrate, gli altri tre di tribù Akà. Qui
con me ho suor Clementina da Kengtung, suor Giuseppina, ecc.
Del tutto
non sto bene. La prima mia casa era di fango e tetto di paglia. In veranda avevo
tre cavalli: uno da sella e due da porto. E giravo, giravo il mondo facendo da
medico, distribuendo Chinino e facendo iniezioni, ecc. Qui è luogo
malarico.
La gente non sapeva chi ero io, io non sapevo chi erano loro.
Ma, col tempo, finimmo per conoscerci e perfino volerci bene, bene.
Qui
la durata della vita è troppo breve, nessuno crede ch’io abbia 91 anni. Anche i
missionari volaron via troppo presto a 27 - 29 - 30 - 33 - 40 ecc. Il più
vecchio ha 65 anni. Ora non è più permesso a missionari stranieri entrare e
vivere in Birmania. Ma ora i preti indigeni sono 12 e fanno bene, meglio di noi.
Tanti saluti e auguri di bene.
P. Clemente