LA MISSIONE IN MYANMAR - 1923 / 1988
LA MISSIONE DI MONGLIN - 1924-1955
LA MISSIONE DI MONGPING - 1955-1988
IL RIENTRO IN ITALIA - 1957
LA MORTE DI PADRE VISMARA - 1988
LE ULTIME LETTERE DI PADRE CLEMENTE
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  LE ULTIME LETTERE DI PADRE CLEMENTE

La missione nella quale padre Clemente Vismara viene inviato è la Birmania, oggi Myanmar: una terra allora avventurosa e avvolta dal mistero.

Partito da Venezia il 2 agosto 1923, arriva a Rongoon (l’attuale Yangon) il 9 settembre; non è ancora nella sua missione Monglin, che avrebbe raggiunto nell’ottobre 1924. Si ferma a Toungoo per cinque mesi, per imparare l’inglese e un po’ di lingue locali; poi con i suoi compagni di viaggio, padre Luigi Sironi e padre Erminio Bonetta fondatore della missione di Kengtung, parte per Taunggyi, estremo avamposto della colonizzazione inglese. La regione destinata a padre Vismara era oltre il fiume Salween ed era sotto l’autorità di un “Sabwa”, un re indigeno che proveniva dalla razza dominante di quella regione, gli Shan.

La missione della Birmania orientale era stata affidata dalla Santa Sede ai missionari del Seminario Lombardo (l’attuale PIME, Pontificio Istituto Missioni Estere) nel 1867, ma avevano preso il via solo nel 1911 e la Prefettura Apostolica di Kengtung viene istituita da Pio XI solo il 27 aprile 1927.

Al superiore del Seminario Lombardo, padre Paolo Manna, scrive: “Sono felicissimo di essere stato destinato per la Birmania, perché dicono che è la più apostolica fra le missioni ed era mio ardente desiderio d’andare in un luogo di sacrificio e di fatica /.../ Mi pare di andare in missione con retta e vera intenzione di voler fare del bene per la gloria di Dio (anche la mia, in Paradiso però). Amerei che il mio sacrificio fosse completo, assoluto ed oscuro, e cercherò di farlo riuscire tale con l’aiuto di Dio”.

Dotato di uno spirito di adattamento eccezionale e di una buona dose di quel “buon umore ambrosiano” espressione della serenità dell’anima, anche i disagi della vita missionaria, così come padre Clemente li descrive nelle sue prime lettere che invia a Le Missioni Cattoliche, rivista del suo Istituto, acquistano il sapore e il fascino dell’avventura e conquisteranno alla vita della missione l’entusiasmo di numerose vocazioni; così non c’è inconveniente al quale padre Clemente non trovi modo di adattarsi e di affrontarlo con buon umore che nasceva dalla sua natura serena e fiduciosa e soprattutto dalla convinzione che stava facendo tutto per Dio.

Quando padre Vismara arrivò a Kengtung la missione era ancora agli inizi, anche se contava circa 500 battezzati e un migliaio di catecumeni; i missionari avevano quasi esplorato tutta la regione della “Birmania orientale”, una sorta di triangolo grande quasi come l’Italia settentrionale che ha alla base il fiume Salween e si incunea tra la Thailandia, il Laos e la Cina.

Finalmente nell’ottobre 1924, padre Clemente arriva a Monglin, dopo aver cavalcato per sei giorni di fila da Kengtung ed aver guadato 28 tra fiumi e torrenti. Dovette attraversare anche il fiume Salween, mitico confine della missione.

Così padre Clemente ricorda quel momento in un articolo scritto a Le Missioni Cattoliche del suo Istituto: “Quanti anni di fatica, di aspirazioni, di trepidazioni metteva fine quel fiume mai prima conosciuto e pure tante volte sognato e desiderato! Quante speranze di sacrificio, di immolazioni, di dedizione per il bene dei fratelli non conosciuti, ma amati apriva il fiume! Tutto il passato ci si presentò alla mente, come di cosa lieve e ci si mostrò pure l’avvenire grande e bello e ci sentiamo come se avessimo troppo pretese e osato, anzi un brivido ci invase davanti al sacrificio. Ma fu un momento. ...

... La fede in Dio che ci ha mandati ci fece proseguire colla speranza e colla gioia di poterci offrire all’opera santa della propagazione di quella fede che ci regge e guida sulle ali divine dello Spirito. Noi siamo i sacerdoti, i giovani sacerdoti, i successori dei pescatori di Galilea. La nostra battaglia è uguale alla loro, l’arma nostra fu l’arma loro: il Crocifisso; ma la loro virtù è pure la nostra? Quanto vuoto davanti a questa domanda! Quanto bisogno di virtù, quanto bisogno di preghiere!
O voi che amate le missioni, pregate, pregate per noi, potente e santa è la preghiera. L’opra nostra sarà opera vostra. Quel che è padre di tutte le genti vedendoci uniti nel medesimo sforzo: “Sia santificato il nome tuo, venga il Regno tuo”, non potrà non benedire dal Cielo l’opera nostra che è opera sua e donarci un giorno la corona concessa solo a chi ha combattuto legittimamente le nostre battaglie”.


Con questo spirito Clemente inizia la sua missione a Monglin, uno sperduto villaggio dei monti nello Shan State.

La descrizione più fedele di Monglin è quella fornita dallo stesso Servo di Dio:

“Io credo che nessuno di voi lettori sappia dove si trova Monglin. Ma ciò non è imputabile a ignoranza, perché io pure, per sapere dove si trova questo benedetto paese, sono dovuto venir qui e stabilirmici.
Cento anni fa Monglin non esisteva, ma poco manca a festeggiare il centenario. Non è un gran paese, ma sono tanti villaggetti, uno di seguito all’altro ai lati della strada maestra per circa sei miglia.
Dicono i vecchi che il luogo ove sorgono ora tutti questi villaggi, era abitato da elefanti selvatici.
Monglin significa “territorio di confine” e si trova circa sul 21° di latitudine nord e 100° di latitudine est di Greenwich. Siamo in Indocina.
Il fiume Mekong dista 8 miglia verso sud-est. Kengtung, capitale di questo stato, dista 125 km e quasi altrettanto il confine nord del Siam. A sedici miglia a ovest si estende il Laos.
Quanti siano gli abitanti di questi villaggetti, non lo so, anche perché qui non si usa ancora tenere i registri di nascita. Mi sembrerebbe di esagerare calcolando a duemila gli abitanti”.

La prima dimora di padre Vismara è un grande stanzone diviso in cinque stanze:

“Una serve da cappella di giorno e da dormitorio di notte; un’altra stanza per noi; una terza da farmacia, da sala da pranzo e di conversazione, ecc.; quella di mezzo da cucina, e una piccola stanzetta per il catechista.
Il pavimento è un po’ ineguale, è di terra battuta. Suppellettili non ce ne sono, neppure una sedia. Le casse, portate con noi fanno tutti i servizi: da sedia, da tavolo, da credenza... e tutto intorno è boscaglia fitta nella quale, a stento, si può penetrare”.


Abbondano le zanzare, i topi, i pidocchi e ... altri animali domestici, dai quali i missionari, padre Vismara e padre Bonetta che si ferma per qualche tempo con lui, si difendono fumando la pipa con tabacco locale, così che “entrando di sera nella casa, sembra d’entrare in una caverna della suburra di Roma ai tempi del Quo Vadis” scrive Clemente in una della sue prime lettere.

A poco a poco padre Clemente prende coscienza del nuovo mondo nel quale vive: la piaga dei fumatori di oppio, la povertà, le credenze ancora pagane ben radicate e un certo fatalismo connaturato che non stimola certo la gente ad impegnarsi nel lavoro e nella realizzazione. Fin dai primi mesi di missione, Clemente scopre quale sarà il campo privilegiato del suo apostolato: i bambini ed i ragazzi che considera il futuro di quella gente, sia come cristiani che come popolo.
Nonostante la povertà estrema che padre Vismara deve affrontare, inizia ad accogliere i primi orfani. Nove sono i ragazzi che costituiscono il primo piccolo nucleo di centinaia che padre Clemente avrebbe raccolto, allevato, educato e dai quali sono usciti sacerdoti, suore e catechisti.
La povertà estrema non è la sola virtù che padre Clemente deve esercitare: la pazienza di aspettare i frutti che sembrano non maturare e il dovere di accettare la flemma filosofica degli orientali, costa molto di più al dinamico padre Vismara che, come ogni buon lombardo, vorrebbe tutto e subito:

“Noi qui si vive la vita dei poverelli di Cristo, ma si prova contento e allegria da Paradiso e la preoccupazione del domani è relativamente leggera, giacché l’opera non è nostra, è del Signore. /.../ Ai posteri un Monglin più fornito di cristiani e di necessario, a noi la prima semina”.

Descrivere quanto il Servo di Dio ha fatto negli anni della missione di Monglin, è impossibile. Costruì chiese nei diversi distretti missionari, dispensari, un ospedale, piccole scuole, convertì e battezzò centinaia di cristiani.

Al suo fianco si succedono diversi confratelli in aiuto alla sua missione, ma padre Vismara è quasi sempre solo perché a causa della povertà e degli stenti di quegli anni, molti muoiono presto, tanto che lui stesso teme per la sua vita e si prepara la cassa da morto:

“La mi preme la pelle, quindi voglio che sia messa via per bene”,

ma certo non prevedeva che la cassa, preparata con tanta cura, avrebbe dovuto rifarla e cederla per ben diciotto volte!

A Monglin costruisce prima la chiesa e solo nel 1929 la sua casa, poi l’orfanotrofio, che ancora oggi ospita molti ragazzi poveri o orfani, costruisce il convento per le suore che arriveranno a Monglin nel 1931.

Fonda nuovi distretti missionari, va in esplorazione di villaggi mai raggiunti da uno straniero. In queste visite l’attività che lo occupa maggiormente è quella di raccogliere i bambini e i ragazzi. La diffidenza della gente è vinta dal suo atteggiamento verso i poveri, i malati e dalla sua preghiera.

Nell’orfanotrofio di Monglin ben presto i ragazzi diventano centinaia: bambini e bambine abbandonati, orfani o venduti dai genitori per comprare oppio.
Padre Clemente li accoglie tutti, di qualunque razza e religione, senza calcolare se aveva posto o se il cibo bastava.
Per loro si inventa mille mestieri e insegna loro a coltivare i campi di riso, ad allevare polli e maiali, a cacciare nella foresta, a coltivare l’orto e i fiori che vengono venduti al mercato settimanale di Kengtung.
L’intelligenza e il senso pratico lo aiutavano di certo, ma soprattutto Clemente nutriva una grande fiducia nella Provvidenza. Anche quando mancava di tutto diceva: “Il Signore Provvede” e, come testimoniato da molti birmani, suore e laici, la Provvidenza veniva sempre in soccorso.

Padre Clemente restò a Monglin fino al 1955, oltre trent’anni senza mai rientrare in Italia.
Fece molto, anzi moltissimo e il segreto del suo successo era la novità che portava dentro di sé, l’entusiasmo che lo rendeva giovane anche dopo i novant’anni, la voglia di non essere mai stanco di lavorare per Dio, di rinnovarsi nei bambini, nei lebbrosi, negli ammalati.
Nel 1955 la sua era una bella missione che contava diverse conversioni anche tra i buddisti coi quali aveva ottimi rapporti di dialogo e di rispetto reciproco basati sul valore dell’uomo.
L’amore che portava per tutti era la lezione più convincente e la testimonianza più efficace. Padre Vismara era sempre sorridente, tanto che è ricordato dalla sua gente come “il prete che ride e scherza sempre” ma, affermano i testimoni birmani, anche il suo scherzare portava un insegnamento.

Il 1955, dopo 32 anni di intenso e fruttuoso lavoro a Monglin, dove padre Clemente era considerato il padre di tutti, arriva la richiesta di trasferimento in un’altra stazione missionaria.

“Caro mio, il cuore vacilla! - scrive all’amico Pietro Migone ricordando il suo trasferimento - dopo 32 anni, quando meno me l’aspettavo, fui trasferito da Monglin a Mongping (a 225 km di distanza). Ho ubbidito perché sono persuasissimo che s’io facessi qualche cosa di mia testa certamente sbaglierei e la mi andrebbe male”.

Quando il vescovo mons. Guercilena disse a Padre Clemente: “Dovresti spostarti da Monglin a Mongping”.
“Va bene – rispose Clemente – vuoi che venga via subito con te o mi dai qualche giorno di tempo per salutare tutti? /.../ Io sono contento ovunque mi mandi. Lasciami solo andare in chiesa a digerire davanti al Signore questa batosta che non mi aspettavo”.
Anche in questa circostanza padre Clemente mostra obbedienza, prontezza e grande forza d’animo.

A 58 anni inizia un’altra avventura a Mongping.

La nuova destinazione di padre Vismara non era certo come quella che aveva lasciato a Monglin:

“A Monglin avevo messo in piedi una mezza città, una scolaresca di quasi cento orfani e orfane, ecc. ecc. In più ero riuscito (meglio il Signore ha fatto) a prendere nel gregge nostro alcuni buddisti influenti del paese.
Più che i miei (ed eran tutti miei) cristiani, mi spiaceva abbandonare i pagani, sia del piano come del monte.
Ci conoscevamo tanto che per me entrare in villaggio cattolico o in villaggio pagano era la stessa accoglienza e nutrivo tante speranze.
Ora mi trovo a Mongping: una freddura per molte cause: la principale è che troppi fumano oppio; per due anni la residenza del padre ed il paese sono stati occupati dai soldati che ci lasciarono il segno morale.
Il convento che era florido e numeroso, ora è ridotto a dodici bambine piccoline piccoline.
I fabbricati tutti da riparare, solo la casa è di mattoni, la chiesa è in legno di quarant’anni fa, necessarissimo un orfanotrofio, l’attuale è una palafitta di bambù e paglia.
E’ un affare aver portato da Monglin alcuni per aiutarmi, ma mi sono riscappati là, ed io in cuor mio non sapevo dar loro torto”.

Tutto a Mongping ha il sapore della desolazione e dell’abbandono; dopo qualche mese il Servo di Dio aveva già visitato quasi tutti i villaggi della missione, ma la situazione è pesante ovunque; la guerriglia separatista, seguita all’indipendenza raggiunta nel 1948, ha aggravato la situazione di miseria e precarietà.

La seconda parte della vita missionaria del Servo di Dio è segnata dalla presenza della guerriglia e del brigantaggio:
“Sono qui a Mongping ed a me sembra d’essere caduto nel Carcere Mamertino, proprio nel secondo piano inferiore – scrive il 15 maggio 1955 al superiore generale del Pime padre Luigi Risso – ce la farò? Materialmente, specie nel cibo, mi trovo peggio, né si trova roba. Padre Gerosa (suo predecessore, n.d.r.) viveva come gli indigeni, perciò ho dovuto comperare piatti, bicchieri, sedie ed il tavolo rivide la tovaglia. Ho rifatto tutto il pavimento della casa con cemento. In casa ci piove. Ho rimesso tutti i vetri alla chiesa che ne era senza. Ho imbiancato tutta la casa e ci ho messo anche un pendolo. /.../

Mi mancano da visitare ancora due villaggi, poi la gente nostra l’ho vista tutta. In nessuna cappella ho trovato una sedia, un tavolo, nessuna comodità rudimentale, inoltre vendono oppio”.
Quella dei fumatori d’oppio era una piaga dilagante di quella missione e sembrava inarrestabile; causa di miseria morale e materiale, portava le famiglie alla rovina, a disfarsi dei figli.

Padre Clemente, a Mongping, ricomincia da capo e dopo quattro anni scrive: “...Ho lasciato il mio inobliabile Monglin con tutto: casa, chiesa, convento, ospedale, due orfanotrofi ecc. ecc. e sono venuti qui col solo vestito; per di più ho trovato quasi nulla; c’è solo la casa passabile in mattoni. Al primo anno vedevo buio, mi ci volle del tempo per rimettermi in sella. Ora la mi è passata, ma sventuratamente ho sessantacinque anni; se fossi bello come un tempo, non ci penserei”.

Padre Vismara non si scoraggia, ricomincia a fare quello che ha fatto a Monglin: raccoglie orfani e li educa; costruisce la chiesa, la scuola, l’orfanotrofio e continua a visitare i villaggi, piccoli e dispersi sui monti. Tutto questo in una realtà sempre difficile. Infatti, dal 1950 in poi inizia una aperta ostilità nei confronti dei missionari: 5 missionari del P.I.M.E. vengono uccisi nel giro di sei anni. Questo significava, per padre Vismara e i suoi confratelli, convivere con un possibile martirio.

Padre Vismara sapeva usare la dovuta prudenza e, nel 1960, lasciò la missione nascondendosi anche per non mettere a repentaglio la vita dei suoi cristiani: “Sarò irreperibile per non so quanti giorni, né so dove andrò e come andrò, perché ci sono ribelli dappertutto anche nei miei villaggi. Ma io penso di essere indegno del martirio, quindi me la svignerò sempre, come già due volte me la son svignata, pur sotto le pallottole”.

Questo non significa che non fosse pronto a dare la vita, ma padre Vismara aveva i piedi per terra: finché fosse possibile era meglio salvarsi, non tanto per se stessi, ma per il bene della popolazione; i missionari erano pochi, troppo pochi e salvarsi era prima di tutto un dovere verso la gente. Un suo confratello padre Badiali Rizieri racconta che, mentre gli altri erano abbattuti e scoraggiati per le numerose perdite, Clemente diceva: “Dobbiamo vivere noi per fare quello che loro non hanno fatto”. Lui – continua padre Badiali – aveva questa linea di fondo coraggiosa, piena di fede, di amore alla vita. Vivere con gioia il dono della vita, come ce lo regala il Signore. E poi aveva il desiderio di strappare più che poteva la vita alla morte, specie dei bambini. Salvare tante vite, tanti bambini.

Accanto all’uccisione dei missionari, non meno dolorosa è l’uccisione dei catechisti, messa in opera per spegnere la fede cattolica ed invitare la popolazione a tornare alle antiche credenze. Padre Vismara tenta tutti i mezzi per salvarli e comprende anche la loro defezione: “Tutti i catechisti si sono rifugiati qui. Mi spiace, anche perché, con la paura che hanno addosso e senza nessuno che li difenda e dia loro coraggio, non saranno da rimproverare se torneranno al paganesimo, almeno per il momento. Non so proprio cosa fare. Speriamo in giorni più sereni”.

Furono anni duri per padre Vismara, ma la sua fede e la sua speranza lo sostengono in ogni situazione.

Ancora padre Rizieri ricorda il breve periodo trascorso con padre Vismara in Myanmar: “Pregavamo insieme, nel senso che ci trovavamo in chiesa a pregare come facevano i preti di una volta. Padre Vismara pregava e pregava molto. Diceva: “Se non ci fosse la preghiera come farei ad essere allegro sempre? Ad accettare le fatiche di alcuni giorni faticosi?”. Egli pregava con grande devozione e raccoglimento e con grande fedeltà, anche quando eravamo nei villaggi pagani. Ci sosteneva molto la parola di Dio, che era il nostro riferimento costante ed il nostro cibo, perché ci indicava la via di ogni giorno, perché il Vangelo è il manuale del missionario. Padre Vismara amava particolarmente la figura di Abramo e Mosè che conduce il suo popolo dall’Egitto. Gli dava la forza di essere paziente con la gente, affermava che se Dio era stato così paziente, così doveva esserlo lui con la sua gente”.

Deciso a non ritornare più in Italia, dopo 34 anni di missione i suoi confratelli preparano il suo rientro e padre Vismara, pur con qualche reticenza, non si oppone.
Arriva in Italia nel febbraio 1957, accolto da tutti come un amico, anche se mai visto o conosciuto perché le sue lettere e i suoi scritti (ha sempre tenuto contatti con i parenti e con i numerosi benefattori) lo avevano preceduto, fatto conoscere e amare.

Padre Clemente incontra il fratello Franco, l’ultimo dei suoi fratelli ancora in vita; incontra i numerosi nipoti; arriva ad Agrate accolto dal suono delle campane e dalla banda locale; le autorità religiose e civili e gli agratesi tutti, accolgono festosi il loro missionario.

Colpisce la sua figura, non più giovane, ma dal passo sicuro e dal portamento fiero, colpisce il suo sguardo reso austero dalla lunga barba, nel quale però brillano due occhi trasparenti e dolcissimi, ma altrettanto penetranti.
L’immagine che gli agratesi conserveranno di questo incontro è quella di un uomo orgoglioso della sua scelta e felice di fare del bene.

La sua presenza ad Agrate, se pur saltuaria (spende il suo soggiorno italiano in numerosi incontri di animazione missionaria nei seminari e in varie parrocchie, suscitando entusiasmo e interesse) consolida un legame di amicizia che in 34 anni non ha conosciuto flessioni e si prepara a viverne altrettanti superando le barriere della lontananza e del tempo coinvolgendo vecchie e nuove generazioni.

Clemente approfitta delle sue vacanze per rivedere gli amici di un tempo, ma sente forte la necessità di ritemprare il suo spirito e decide di trascorre un mese intero presso la casa di spiritualità “Villa Mater Dei” di Masnago (Varese) per il mese ignaziano di esercizi spirituali, nonostante le rimostranze di amici e parenti ai quali un mese sembrava un periodo troppo lungo, considerando il fatto che rientrava in patria dopo trentaquattro anni e che, molto probabilmente, non vi avrebbe più fatto ritorno.

Padre Clemente, quasi al termine del suo soggiorno italiano, compie nel mese di settembre un pellegrinaggio a Lourdes, la Madonna a cui è particolarmente legato. Nei suoi villaggi di Monglin e Mongping c’è una grotta costruita da lui con l’aiuto della sua gente.

Si avvicina il giorno della partenza. Del resto l’Italia gli sta stretta e dopo undici mesi di intensa vacanza saluta gli agratesi dicendo: “Guardatemi bene in faccia: non ci rivedremo più”.

Ad un giornalista del quotidiano L’Italia che lo interroga sulla vita missionaria, risponde: “La redenzione è un lavoro lento, duro, penetrante, deve impossessarsi dei cuori e tutti i mezzi di cui disponiamo sono ammennicoli, accidenti..., soltanto Gesù può redimere; i missionari sono semplici cooperatori. Lui ha portato la croce, non possiamo far altro che agire come ha agito lui. Io ho ormai sessant’anni e già da tempo tengo in tasca il biglietto di ritorno. /.../ Riparto per mia necessità, per un senso del dovere non posso rimanere qui. Laggiù vi è tanta gente dispersa nei villaggi isolati, senza strade, nelle foreste; hanno bisogno del sacerdote, non si può abbandonarli”.

Clemente riparte felice il 24 dicembre 1957, pur avendo in tasca un biglietto di andata senza ritorno...

Padre Vismara riprende il suo posto a Mongping, ritemprato nel fisico e arricchito dall’incontro con una realtà in evoluzione come era quella italiana degli anni cinquanta, molto diversa da come Clemente l’aveva lasciata nel 1923. La parentesi italiana è chiusa per sempre; rimane il fatto che ha attirato nuovi amici e benefattori nell’orbita della missione.

Gli anni sessanta sono anni difficili per la Birmania. Con il colpo di stato del generale Ne Win del 2 marzo 1962 inizia la cosiddetta “via birmana al socialismo” che segna una svolta irreversibile per il paese, portandolo alla decadenza economica e politica.

Nel 1965 si affaccia all’orizzonte una nuova preoccupazione: il Governo allontana tutti i missionari entrati in Birmania dopo il 1948, anno dell’indipendenza, requisisce gli edifici costruiti dai missionari: scuola, ospedali... Sono momenti difficili perché di giorno in giorno giunge notizia di qualche espulsione. Anche a padre Vismara, pur essendo entrato in Birmania prima del 1948, dicono di stare pronto. Ma lui non perde la calma; di sicuro sapeva che avrebbe lavorato fino all’ultimo momento.

“Sarebbe barbina – scrive all’amico don Pietro Bertocchi – dopo 42 anni di lavoro dover abbandonare il mio gregge”.

“Non mi so persuadere e nonostante tutto mi illudo di rimanere fino alla fine. La mia scuola è ancora mia e noi si continua come sempre. /.../ Certamente mi spiace, ma il più che mi addolora è per gli orfani e bambini che sono una bella truppa. Non potranno neppure più studiare perché ci sono le tasse da pagare e loro sono senza nessuno. /.../ Tornerebbero nei boschi a prendere uccelli e pesci”.

Nel 1966 il Governo decreta l’espulsione di tutti i missionari stranieri e vieta l’ingresso di nuovi sacerdoti.
Per padre Clemente rimanere in missione significava rinunciare definitivamente ad un suo ritorno in Italia. Un testimone per la Causa di Canonizzazione così ricorda quel periodo e la decisione di padre Vismara:

“Quando il governo allontanò dalla Birmania tutti gli stranieri, un compagno di padre Vismara lo esortò a rientrare con loro in Italia. Padre Vismara gli disse che avrebbe deciso dopo aver celebrato la s. Messa, per mettersi in ascolto del Signore, cui avrebbe chiesto di illuminarlo sul da farsi. Decise di rimanere, come aveva sempre pensato, perché voleva morire vicino alla sua gente. Affermava che sarebbe rimasto tra noi per sempre, sino alla sua morte e che non sarebbe più tornato in Italia, perché qui era venuto per amore di Dio”.

Passano gli anni e nonostante Clemente non sia più “giovane e bello, con gli occhi color del mare” come disse di lui quando lasciò l’Italia nel 1923, continua instancabilmente il suo lavoro missionario. non si possono descrivere tutte le sue realizzazioni, quanti villaggi abbia visitato, quanti bambini abbia accolto, sfamato e istruito, ma possiamo fare un resoconto delle opere stabili e che ancora oggi sono punto di riferimento per i villaggi di Monglin e Mongping: orfanotrofi, chiese, scuole, casa del missionario, grotta della madonna di Lourdes, diverse cappelle nei villaggi e chiese in mattoni e tutto questo fino alla fine della sua vita.

Con queste costruzioni padre Clemente assicurava lavoro a molte famiglie. Ha insegnato loro a fare il muratore, l’allevatore, il coltivatore... E’ stato questo un aspetto importante della sua missionarietà: promuovendo lo sviluppo della persona, soprattutto nei giovani perché vincessero la naturale fatalità che li portava ad accettare la miseria come condizione normale e a chiedere senza impegno.

Padre Vismara raccolse ed educò centinaia, migliaia di orfani nei 65 anni della sua vita missionaria, ma tutta la sua opera educativa aveva questo fine: promuovere lo sviluppo della persona, fargli acquistare dignità.

Abituare la sua gente al lavoro era una forma di educazione che guardava al futuro. Padre Vismara fu un uomo di carità sconfinata, ma educava anche a sentire l’importanza del lavoro e per questo lavorava con loro.

“Se si accetta di fare il missionario – scrive padre Clemente - lo si deve accettare senza porre condizioni, altrimenti saremmo mercenari. Predicare non basta; celebrare non basta; battezzare ecc. non basta, Unico e solo modo per raggiungere il proprio ideale è “perdersi per salvare la vita di chi si perde”. Il missionario se vuol vivere e far vivere deve adattarsi a tutte le faccende sia nobili che meno nobili: letterato, bifolco, poeta, ciabattino, aristocratico, plebeo... e la litania continua. /.../ Nostro scopo principale non sono i soldi, ma educare alla fatica, aver l’onore di guadagnarsi il proprio cibo”.

L’accoglienza ai poveri, di qualunque religione fossero, è uno dei principi ai quali padre Clemente non è mai venuto meno. La sua fede lo metteva in grado di vedere Dio in ogni creatura, specialmente nelle persone povere e abbandonate. Alle suore di Maria Bambina che si occupavano dell’orfanotrofio femminile, amava ripetere: “Non preoccupatevi. La Provvidenza non mancherà”. Anche nei suoi ultimi giorni di vita, prima di morire, raccomandò loro di non rifiutare nessuno e che dal Cielo avrebbe provveduto ai suoi piccoli.

La sua casa non era chiusa neppure per i soldati, accampati nei pressi della missione, malvisti dalla popolazione, ma dai quali padre Vismara fu sempre rispettato.

Molte conversioni soprattutto dal paganesimo nascevano da questa carità che il Servo di Dio viveva senza distinzioni.

La coerenza, fra parola e vita, dava credibilità a quello che lui insegnava, abituato ad affrontare la vita con semplicità giorno per giorno, senza speculazioni.

Padre Clemente non divenne mai vecchio; la sua era una giovinezza che si rinnovava nel dono sempre nuovo di se stesso.

A 76 anni, in occasione del suo giubileo sacerdotale scriveva: “Io non sono invecchiato, credo di essere passato attraverso tre successive giovinezze. L’aurora: giovinezza di sogni, spensierata, irrequieta ed anche incosciente; il meriggio: giovinezza di sacerdote, fattiva, laboriosa, faticosa, ma soddisfacente; il tramonto: giovinezza pacata e lenta, meno rumorosa, ma più efficace, sperimentata, forse più umana... La vita non può fiorire se rimane rinchiusa nei suoi angusti limiti; essa si rinnova e si moltiplica offrendola. Ho creduto nell’amore ed ho amato senza la pretesa di essere riamato. Disillusioni e malinconie non so cosa siano”.

La lunga vita di padre Clemente giunge alla sua meta il 15 giugno 1988.

Il ricordo di mons. Than, già vescovo di Kengtung dal 1969 al 2002, così ricorda padre Vismara: “Incontrai per la prima volta padre Clemente nel 1957 in Yangon. Padre Vismara era di ritorno dall’Italia e io ero in partenza per Roma. Fu un incontro fugace. Poi il Signore ha voluto che ci incontrassimo di nuovo molti anni dopo, il 5 giugno 1969, e siamo rimasti insieme nella diocesi di Kengtung per 19 anni e 10 giorni, fino al 15 giugno 1988, giorno della sua morte.

In tutti questi anni abbiamo parlato, viaggiato e discusso circa molte cose, in modo particolare circa i suoi orfani, che mi raccomandò di custodire anche dopo la sua morte. Perché gli orfani sono la nostra speranza futura:

“Almeno qualcuno di loro diventerà prete e prenderà il nostro posto. Alcuni diventeranno suore, alcuni diventeranno buoni catechisti e il resto dei buoni cattolici”,

diceva il nostro Vismara. Da lui ho avuto esempi molto buoni e edificanti per la mia vita spirituale e pastorale.

Padre Clemente Vismara fu soprattutto un uomo di fede.

Vedeva le cose e gli eventi quotidiani con gli occhi della fede. La sua fede lo metteva in grado di vedere Dio in ogni creatura specialmente nelle persone povere e abbandonate.

Era solito dire: “Come Dio ha creato me, ha creato anche i poveri; come Egli ama me, ama anche i poveri; come Egli vive in me, vive anche nei poveri. Noi siamo tutti suoi amati figli. Così se amo i poveri, io amo Dio. Se non amo i poveri, non amo Dio”.

Padre Clemente fu un uomo di speranza.

La sua forte speranza e fiducia in Dio e nella Sua Divina Provvidenza, lo fece deciso ad accettare un gran numero, il più possibile, di orfani nel suo orfanotrofio.

Era solito dire: “Per i poveri orfani io farò del mio meglio, e Dio farà il resto. Con il mio lavoro manuale nel giardino e con la lingua in bocca e con le mie due mani, io sarò capace, con l’aiuto di Dio e la Sua Benedizione, di prendermi cura e di nutrire molti orfani che sono suoi figli. Io mi prendo cura, nutro ed educo i suoi ragazzi e Dio sicuramente, senza fallo, aiuta me. Non c’è problema. Non importa se nessuno mi aiuta a sfamare così tanti orfani perché la Divina Provvidenza mi verrà in aiuto. Confido in Lui e sono sicuro che Lui mai mi lascerà solo. Più di questo, ho piena speranza e assoluta fiducia che un giorno lui ci porterà nella sua casa esterna in Paradiso, dopo la nostra morte. Io e i miei poveri orfani viviamo insieme qui sulla terra e in seguito saremo di nuovo insieme in Paradiso. Quale felicità, quale gioia! Mia sola fiducia e speranza è Dio e la Sua Divina Provvidenza”.

Padre Clemente Vismara fu un uomo di carità.

La carità di padre Clemente fu eccellente. Il suo amore per il prossimo, specialmente per i poveri orfani, parlano da sé. Egli amava Dio con tutto il suo cuore e la sua anima, con tutta la sua mente e amava il suo prossimo come se stesso per amore di Dio. E questa era la sua seconda vita.

Fu veramente buono e premuroso anche verso i suoi confratelli preti, specialmente i più poveri. Sempre divideva con loro i pochi soldi che riceveva dai suoi generosi amici benefattori.

Padre Clemente fu un uomo di povertà.

Sebbene lui stesso poteva essere un ricco sacerdote nel campo missionario con i soldi e altri aiuti ricevuti dai suoi cari in Italia e altri buoni e generosi benefattori del mondo, egli non ha voluto essere così. Ma lui piuttosto preferiva dividere i soldi e altre cose con i suoi poveri e le persone abbandonate. Spesse volte condivideva il suo cibo con i suoi orfani ammalati.

Egli era solito dire: “Cristo si è fatto povero per fare noi ricchi... Egli spogliò se stesso per riempire noi. Anch’io devo vuotare me stesso per dare ai miei poveri orfani sufficiente cibo quotidiano”.

Quando padre Vismara morì il 15 giugno 1988, furono trovati solo 1500 kiats, equivalenti a più o meno 15 dollari, ma molti erano gli orfani lasciati in eredità al suo successore.

Dal 1 al 6 giugno 1988 padre Vismara era a Kengtung e il 7 giugno, sentendosi poco bene, volle ritornare a Mongping perché diceva che voleva morire tra i suoi orfanelli.

Così ricorda mons. Than gli ultimi istanti di vita di padre Clemente: “Al mio ritorno da un villaggio mi dissero che padre Clemente stava poco bene, era il 15 giugno, ed io mi affrettai ad andare a Mongping. Partii alle 11,00 e arrivai da padre Clemente alle 18,15, ma non poteva più dirmi niente. Sono stato vicino a lui per ben due ore facendo tutto ciò che dovevo fare per lui, pregando, dando gli ultimi riti ecc. ecc. Alle 20.15 padre Clemente ha chiuso i suoi occhi per sempre in grande pace. Un grandissimo dolore per noi tutti!

Secondo il desiderio dei suoi cristiani la sua salma è stata conservata in un’aula per ben 6 giorni, dando l’opportunità a tutti i cristiani, ai suoi amici buddisti e pagani di venire a pregare e dare l’ultimo saluto al loro Padre per l’ultima volta. I suoi orfanelli lo circondavano.

Fui sorpreso di sentire i miei sacerdoti, suore, catechisti e fedeli chiedere la vecchia e usata veste e i vestiti di padre Clemente Vismara come reliquia. Ciò mi colpì e mi fece capire che loro e i bambini lo riconoscevano come uomo santo, un santo in anticipo.

Sono felice di ripetere ancora che l’intero popolo della diocesi di Kengtung sostiene pienamente la Causa di Canonizzazione di padre Clemente Vismara.

Vi dico poi infinite grazie per tutto ciò che fate per lui e per gli orfani del nostro carissimo indimenticabile padre Clemente Vismara, il vostro compaesano missionario.

Preghiamo per averlo presto Beato e Santo p. Clemente Vismara al più presto”.

Mons. Abramo Than, Vescovo Emerito di Kengtung

Mongping, 20 dicembre 1987

Sto contemplando le vostre belle facce. Voi avete tutti i capelli neri, io invece ho i capelli bianchi. Voi avete le facce bianche ed io ho la faccia nera. Eppure siamo tutti belli belli perché siamo Brianzoli di Agrate Brianza. Ma tutti noi, io e voi, abbiamo il cuore caldo e rosso. Vorremmo cioè che tutto il mondo conoscesse ed amasse il buon Dio vero ed unico.

Quest’anno ho costruito un’altra chiesa in legno. Tranne 5 tutte le mie chiese sono di bambù col tetto di paglia. E’ arrivato un ordine a tutti i montanari di scendere dai monti e costruire villaggi in pianura, lungo la strada maestra. Dicono però che tornando la pace permetteranno il ritorno. Che ne sarà dei campi di riso ai monti? E’ un problema insolubile!

Qui non c’è pane, si mangia solo riso. Fortunati voi che mangiate minestra di riso senza la fatica di coltivarlo. Oh! Ma finirà la camorra!

Nella foto voi siete in 22 giovanotti. Io qui sono solo della mia specie e genere, ma vivono con me e mangiano me oltre 200 orfanelli.

Vi auguro ogni bene.

Ci rivedremo in Paradiso.

Con affetto


Clemente

Mongping, 10 aprile 1988

Rev.mo Sig. Parroco,

Nonostante i 65 anni di lontananza il proprio nido non lo si può dimenticare!

Ormai sento pur io d’esser giunto alla fine: da un anno ci vedo da un sol occhio, però sono ancora bello. Sono nato nel secolo scorso al 6 settembre, chi mi battezzò (se non erro) fu don Umberto andato in Paradiso da anni. Ho fatto anche la guerra nell’80° Reggimento Fanteria. Sono Cavaliere di Vittorio Veneto e ricevo ogni anno 150 mila lire.
Che volete di più da un brianzolo pari mio?

Della mia specie e genere sono qui solo solo, ho tanti orfanelli, orfanelle, infanti, 22 vedove, una quarantina di villaggi ai monti. Tutte san fare il segno di Croce. Vi basti sapere che la suora mette ogni giorno in padella due sacchi e mezzo di riso. Tutti mangiano e nessuno guadagna.

Preti, a nome Clemente, siamo in quattro. Io sono di Agrate, gli altri tre di tribù Akà. Qui con me ho suor Clementina da Kengtung, suor Giuseppina, ecc.

Del tutto non sto bene. La prima mia casa era di fango e tetto di paglia. In veranda avevo tre cavalli: uno da sella e due da porto. E giravo, giravo il mondo facendo da medico, distribuendo Chinino e facendo iniezioni, ecc. Qui è luogo malarico.

La gente non sapeva chi ero io, io non sapevo chi erano loro. Ma, col tempo, finimmo per conoscerci e perfino volerci bene, bene.

Qui la durata della vita è troppo breve, nessuno crede ch’io abbia 91 anni. Anche i missionari volaron via troppo presto a 27 - 29 - 30 - 33 - 40 ecc. Il più vecchio ha 65 anni. Ora non è più permesso a missionari stranieri entrare e vivere in Birmania. Ma ora i preti indigeni sono 12 e fanno bene, meglio di noi.

Tanti saluti e auguri di bene.


P. Clemente