Giovanni Padovan. nel 1965 Pordenone ne saluta natali. ma la sua storia di scultore, autodidatta, comincia nel 1984 tra intagli e piccole figure. Due anni dopo iniziano le prime esposizioni. che si susseguono con sempre maggiore regolarità; neppure i primi riconoscimenti si fanno attendere per questo giovane artista della pietra. In questa materia così apparentemente fredda ed inerte, Giovanni trova un giorno, quasi per sfida, la sua strada più autentica, colpo dopo colpo, con paziente capacità di attendere che la figura sbocci da un masso. Gia ora può raccontare dei suoi periodi di diversa creatività, di ricerca, di una sostanziosa parentesi astratta su vari materiali, della storia di comunanza con lo scultore Mauro Corona e il suo modo selvaggio di comprendere le fascinose suggestioni del legno. Ma anche il legno, come il marmo, oggi, per un nuovamente figurativo Giovanni, è materia per una più personale e introspettiva ricerca del bello. Ora levigata, ora ruvida e immediata, la superficie diviene la pelle di un corpo sinuoso di donna, di un volto intenso e raccolto, di un nodo poetico che sembra dipingere un’anima felicemente nuda, fuori dal guscio. Non manca il colore di differenti materiali nella ricerca di Giovanni, non manca la varietà delle forme tra le scelte che conducono all’astrattezza dei contenuti come alla figurazione precisa dell’immagine. Ma tutto è poeticamente raccolto, apparentemente silenzioso e contemplativo, le statue non gridano ma parlano con pacatezza di una dimensione personale ed interiore. Nessuna aggressione, nessuna enfasi nel bello che si vede amato e perseguito con decisione e dolcezza. C’è una soave determinazione nei calcoli che costruiscono la gabbia alla figura che nascerà dal marmo, che avrà sofferto ogni colpo, il rischio della ferita che sfregia per sempre l’idea e che, infine, sorride alla vita dopo il travaglio artigiano. E che ancor più quand’è di pietra invoglia e stupisce ad accarezzare. Cristina Fedrigo mostra personale alla Galleria “La Roggia” Novembre 1995 |
Partimmo
con lo spirito da gita parrocchiale della domenica pomeriggio, che
io ancora ricordavo con una certa chiarezza, e che, invece, i due amici
che erano con me forse, per la loro età più matura, avevano in qualche
modo dimenticato, quantunque sia sempre molto difficile dimenticare i
giochi, i boschi del primo bacio, i fuochi accesi a sera vicino alla
campagna; e poi di campagna ce n’era stata più per loro che per me.
Pensavo alle gite in bicicletta lungo il Sile alla periferia di Treviso,
proprio la domenica pomeriggio, con un’aria di festa che era più
della festa per le occhiate furtive alle ragazze. Renato mi aveva segnalato la
presenza di un giovane scultore, bravo a suo dire, in un piccolo paese
di mezza montagna, in provincia di Pordenone. Erto l’avevo già
sentito nominare perché un amico pittore vi aveva vinto, forse un paio
d’anni fa, un premio di pittura. Non avevo chiara l’idea di dove si
trovasse, però. La cosa strana fu che Renato venne con macchina e
autista, ma volle guidare di persona, sostenendo che le strade di
montagna gli potevano generare qualche malessere. L’autista, lo capii
subito, era abituato a queste pietose bugie, e si sistemò in modo del
tutto mansueto sul sedile posteriore, da dove poteva controllare la
situazione e dare, di tanto in tanto, qualche utile consiglio stradale
all’autista-imprenditore. L’aria da gita parrocchiale
non cessò nemmeno saliti in auto, poiché tutti e tre cominciammo a
raccontare quelle storie che si usano tirar fuori quando c’è voglia
di ricordare e di star bene in compagnia. Non mancò nemmeno, giunti
sotto la diga del Vajont (nel frattempo avevo appreso che Erto si
trovava al di sopra della diga stessa, e che, venticinque anni prima,
aveva subito, come Longarone, la furia dell’acqua), la sosta nel bar
del paese, dove Renato non potè esimersi dal corteggiare la gentile
ragazza al banco, fingendo di farlo per mio conto. Il vero autista, che
aveva capito tutto, decretò la nostra ritirata. L’atmosfera un po’
goliardica cessò immediatamente giunti in vista delle prime, in realtà
pochissime, case di Erto, paese diviso in due da una linea ideale che
separava la parte bassa, rimasta ferma a venticinque anni prima, e la
parte alta, ricostruita con orribili tronconi di cemento armato. Fu come
una violenta frustata, quella desolazione leggera che coglie il cuore e
subito se ne impossessa, senza poter più dire parola. Attratti dalle
case diroccate ci infilammo in mezzo, con la pretesa di scoprire e
ritrovare i segni certi di qualche storia che lì era avvenuta. La casa
del giovane scultore non la trovammo, poiché le indicazioni che egli
aveva date telefonicamente a Renato erano incomplete e quanto mai
imprecise. La cosa chiara era che in paese di scultori ce n’erano due:
non dovevamo confonderci! Ed in effetti, come nelle
storie che si rispettano, trovammo subito l’altro scultore, che però
era amico anche del giovane, e ce lo indicò mentre scendeva le scale
del bar di fronte. Mauro, dunque pure lui scultore, era il tipo che
sempre vorresti trovare quando fa freddo, per entrare in casa e
ascoltare qualcuno che racconti delle storie, le più incredibili e
fantastiche. Mentre i suoi tre bambini ci giravano intorno, ci disse
della sua passione per la montagna più che per la scultura, e ci
annunciò che avrebbe passato il fine settimana in Carnia a sbronzarsi.
Ma noi eravamo venuti per Giovanni, Giovanin come lo chiamava Mauro,
predicendogli grande fortuna e fama, al contrario di quella che era
toccata a lui, che, per sbarcare il lunario, era costretto a intagliare
le formelle in legno per il Comune in occasione dell’anniversario del
Vajont. La
casa di Giovanni guardava la montagna, quella montagna dalla quale si
era staccato il lastrone della morte. Era bella e tranquilla, un
presepio prima del tempo, con qualche casa, una fila d’alberi, un
prato rasato alla perfezione. Sotto, il fiume; poi, più su, il prato
ripido che conduceva alla sua casa isolata dal resto del paese, in
quella parte che l’alluvione aveva portato via. Le sue sculture, in
pietra e in legno, erano abitate dal silenzio, quello stesso silenzio
padrone dei luoghi. Ci fece vedere le ultime cose: disse della sua
passione recente per il lavoro con la motosega. Poi, in un angolo,
trovammo un volto di donna scavato nella pietra, come fosse stato
staccato dalla montagna e posto lì quasi per caso. Un volto sofferente,
ma dal bel riflesso che quasi ricordava i fascinosi volti della scultura
romana. E fu come se quel pezzo di pietra fosse riapparso dopo
l’eruzione di Pompei, con la stessa grazia di quegli affreschi così
lontani nel tempo, nella medesima bestialità del dolore ritrascritta
in solenne armonia. Quel
silenzio poi ci venne dietro. Quelle immagini di donne scolpite ci
seguirono nella giornata e ancora oltre. Fu bello pensare che lì, tra
le montagne fredde popolate di sogni e distanze, un ragazzo dava vita a
quanto, in realtà, sembrava perduto per sempre. Marco Goldin Mostra Personale , “Oratorio dell’ Assunta” , Conegliano (TV), Dicembre 1988 |
Sensualità e bellezza classica Giovanni Padovan sa fondere le esigenze della modernità e i canoni inalterabili della storia La possibilità di ricondurre a unità gli elementi della cultura “materna” e quelli della temperie culturale del momento è senza dubbio uno degli obiettivi fondamentali di qualsiasi grafia artistica, e risulta quasi sempre evidente in una mostra che proponga una sintesi del lavoro di un autore. Nel caso di Giovanni Padovan (alla Roggia Triveneto di Pordenone, fino al 24 novembre) i dati caratterizzanti della personalità artistica sono l’amore viscerale per le montagne della zona, per le rocce e per gli alberi che vi crescono, una sensibilità assai classica della scultura riportata alla manualità specifica dell’intaglio e della scalpellatura, un occhio attento, infine, agli autori contemporanei che già, per altre vie, hanno mirato alla stessa armonia tra passato, presente e inalterabilità delle cose. Da
un lato, la sensualità del trattamento della materia indica un autore
attento alla realtà Enzo Di Grazia |
GIOVANNI PADOVAN Nato nel 1965 a
Pordenone. Èautodidatta. Ha esposto nel 1988 alla Biennale dei Giovani
Artisti di Padova e lo stesso anno, m una personale all’Oratorio
dell’Assunta di Conegliano. Nel
1995, personale alla Galleria La Roggia di Pordenone e partecipazione a
una collettiva alla Galleria Grigoletti di Pordenone. Nel 1996
collettiva a Berlino alla Galleria Treff (“Kunst aus Friaul’). Alla
mia solita domanda sulla scultura, Giovanni Padovan ha risposto:
“Scolpire è togliere, togliere per scoprire qualcosa che è dentro di
me”; una dichiarazione che va molto oltre i problemi dell’artista,
perché sottolinea l’utilizzo di una pratica, di certe tecniche, quale
sostegni per un viaggio interiore. Una sorta di ricerca mistica che
richiama quella antica, del buon artista-artigiano che trovava le
“risposte” attraverso il suo lavoro. Togliere nel sasso, nel legno
(perché Padovan utilizza ambedue i materiali) significa ripercorrere il
percorso della scultura più antica e più “vera”: quella che fa
“nascere” dalla materia inerte. A Valdestali , Frisanco (Pn) dove
vive e lavora, Padovan trova abbondanza di pietre e di legni pronti a
sollecitarlo a sbozzare, intagliare nella loro materia. Però,
l’artista non disdegna materiali provenienti da più lontano, come
l’ulivo. Padovan si appoggia molto alla figura umana che fa emergere
dalla materia come una sorta di sogno solidificato. Dott.
Walter Schönenberger |
Padovan,
lo stoico scultore del paese dove fumano due camini Ormai
l’attendevano gli amici e non solo una mostra dello scultore
pordenonese Giovanni Padovan, da anni eroicamente residente in la
Colvera, a Valdestali, dove due soli camini fumano nelle fredde serate
invernali, il suo e quello di Megumi Isono, una rinomata cuoca
giapponese. Strani destini delle nostre belle montagne. Ma
ora Giovanni ha deciso che è tempo di fare anche il cammino a ritroso e
mostrare finalmente i frutti di questi anni di profonda introspezione e
ricerca personale ed artistica. Ed ecco che ieri a Villa Giacomini di
Varmo è stata inaugurata la sua personale, che resterà aperta fino al
17 febbraio2002. L’iniziativa è promossa dall’associazione
culturale Punto 6 “per l’arte contemporanea” di San Vito al
Tagliamento. Padovan,
scultore di pietra e di legno, si è formato artisticamente dapprima
frequentando una scuola in Jugoslavia, quindi andando “a bottega” da
Mauro Corona; ma non è fuori luogo per lui la definizione di
“autodidatta” che stringe forte per mano quella di “artista per
intima necessità”. Ha esposto in varie città europee, da Berlino a
Halle, e ha tenuto vari Workshop in Spagna; il tutto in un ritmo di
sistole e diastole di apertura e chiusura alla vita. Arte e vita non
possono che camminare assieme per lui. Dalla vita alle opere, così si
potrebbe dunque leggere il suo cammino degli ultimi anni: dopo la grande
lacerazione che lo portava a tagliare le figure scolpite in membra
dolorose che astraevano l’armonia realistica, si colloca oggi in una
posizione intermedia tra il rispecchiamento figurativo del reale e la
stilizzazione estrema delle forme. Due linguaggi che spesso si ritrovano
uniti anche nella stessa opera. Lo
si vede bene nelle dodici sculture esposte a Varmo, tutte su legno, dove
la centralità della figura umana implode a tratti in forme levigate
plurisense, di cui le rotondità sublimi permettono Giulia
Calligaro Il
Gazzettino, domenica 3 febbraio 2002. |