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Marco Goldin - 1988

Cristina Fedrigo - 1995

Enzo Di Grazia - 1995

Walter  Schönenberger - 1996

Giulia Calligaro - 2002

 

 

 

Giovanni Padovan. nel 1965 Pordenone ne saluta natali. ma la sua storia di scultore, autodidatta, comincia nel 1984 tra intagli e piccole figure. Due anni dopo iniziano le prime esposizioni. che si susseguono con sempre maggiore regolarità; neppure i primi ricono­scimenti si fanno attendere per questo giovane artista della pietra. In questa materia così apparentemente fredda ed inerte, Giovanni trova un giorno, quasi per sfida, la sua strada più autentica, colpo dopo colpo, con paziente capacità di attendere che la figura sbocci da un masso. Gia ora può raccontare dei suoi periodi di diversa creatività, di ricerca, di una sostanziosa parentesi astratta su vari materiali, della storia di comunanza con lo scultore Mauro Corona e il suo modo selvaggio di comprendere le fascinose suggestioni del legno. Ma anche il legno, come il marmo, oggi, per un nuovamente figurativo Giovanni, è mate­ria per una più personale e introspettiva ricerca del bello. Ora levigata, ora ruvida e immediata, la superficie diviene la pelle di un corpo sinuoso di donna, di un volto intenso e raccolto, di un nodo poetico che sembra dipingere un’anima felicemente nuda, fuori dal guscio. Non manca il colore di differenti materiali nella ricerca di Giovanni, non manca la varietà delle forme tra le scelte che conducono all’a­strattezza dei contenuti come alla figurazione precisa dell’immagine. Ma tutto è poeticamente raccolto, apparentemente silenzioso e contemplativo, le statue non gridano ma parlano con pacatezza di una dimensione personale ed interiore. Nessuna aggressione, nessuna enfasi nel bello che si vede amato e perseguito con decisione e dolcezza. C’è una soave determinazione nei calcoli che costruiscono la gabbia alla figura che nascerà dal marmo, che avrà sofferto ogni colpo, il rischio della ferita che sfregia per sempre l’idea e che, infine, sorride alla vita dopo il travaglio artigiano. E che ancor più quand’è di pietra invoglia e stupisce ad accarezzare.

Cristina Fedrigo

mostra personale alla Galleria “La Roggia” Novembre 1995

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Partimmo con lo spirito da gita parrocchiale della domenica pomeriggio, che io ancora ricordavo con una certa chiarezza, e che, invece, i due amici che erano con me forse, per la loro età più matura, avevano in qualche modo dimenticato, quantunque sia sempre molto difficile dimenticare i giochi, i boschi del primo bacio, i fuochi accesi a sera vicino alla campagna; e poi di campagna ce n’era stata più per loro che per me. Pensavo alle gite in bicicletta lungo il Sile alla periferia di Treviso, proprio la domenica pomeriggio, con un’aria di festa che era più della festa per le occhiate furtive alle ragazze.

Renato mi aveva segnalato la presenza di un giovane scultore, bravo a suo dire, in un piccolo paese di mezza montagna, in provincia di Pordenone. Erto l’avevo già sentito nominare perché un amico pittore vi aveva vinto, forse un paio d’anni fa, un premio di pittura. Non avevo chiara l’idea di dove si trovasse, però. La cosa strana fu che Renato venne con macchina e autista, ma volle guidare di persona, sostenendo che le strade di montagna gli potevano generare qualche malessere. L’autista, lo capii subito, era abituato a queste pietose bugie, e si sistemò in modo del tutto mansueto sul sedile posteriore, da dove poteva controllare la situazione e dare, di tanto in tanto, qualche utile consiglio stradale all’autista-imprenditore.

L’aria da gita parrocchiale non cessò nemmeno saliti in auto, poiché tutti e tre cominciammo a raccontare quelle storie che si usano tirar fuori quando c’è voglia di ricordare e di star bene in compagnia. Non mancò nemmeno, giunti sotto la diga del Vajont (nel frattempo avevo appreso che Erto si trovava al di sopra della diga stessa, e che, venticinque anni prima, aveva subito, come Longarone, la furia dell’acqua), la sosta nel bar del paese, dove Renato non potè esimersi dal corteg­giare la gentile ragazza al banco, fingendo di farlo per mio conto. Il vero autista, che aveva capito tutto, decretò la nostra ritirata.

L’atmosfera un po’ goliardica cessò immediatamente giunti in vista

delle prime, in realtà pochissime, case di Erto, paese diviso in due da una linea ideale che separava la parte bassa, rimasta ferma a venticin­que anni prima, e la parte alta, ricostruita con orribili tronconi di cemento armato. Fu come una violenta frustata, quella desolazione leggera che coglie il cuore e subito se ne impossessa, senza poter più dire parola. Attratti dalle case diroccate ci infilammo in mezzo, con la pretesa di scoprire e ritrovare i segni certi di qualche storia che lì era avvenuta. La casa del giovane scultore non la trovammo, poiché le indicazioni che egli aveva date telefonicamente a Renato erano incomplete e quanto mai imprecise. La cosa chiara era che in paese di scultori ce n’erano due: non dovevamo confonderci!

Ed in effetti, come nelle storie che si rispettano, trovammo subito l’altro scultore, che però era amico anche del giovane, e ce lo indicò mentre scendeva le scale del bar di fronte. Mauro, dunque pure lui scultore, era il tipo che sempre vorresti trovare quando fa freddo, per entrare in casa e ascoltare qualcuno che racconti delle storie, le più incredibili e fantastiche. Mentre i suoi tre bambini ci giravano intorno, ci disse della sua passione per la montagna più che per la scultura, e ci annunciò che avrebbe passato il fine settimana in Carnia a sbronzarsi. Ma noi eravamo venuti per Giovanni, Giovanin come lo chiamava Mauro, predicendogli grande fortuna e fama, al contrario di quella che era toccata a lui, che, per sbarcare il lunario, era costretto a intagliare le formelle in legno per il Comune in occasione dell’anniversario del Vajont.

La casa di Giovanni guardava la montagna, quella montagna dalla quale si era staccato il lastrone della morte. Era bella e tranquilla, un presepio prima del tempo, con qualche casa, una fila d’alberi, un prato rasato alla perfezione. Sotto, il fiume; poi, più su, il prato ripido che conduceva alla sua casa isolata dal resto del paese, in quella parte che l’alluvione aveva portato via. Le sue sculture, in pietra e in legno, erano abitate dal silenzio, quello stesso silenzio padrone dei luoghi. Ci fece vedere le ultime cose: disse della sua passione recente per il lavoro con la motosega. Poi, in un angolo, trovammo un volto di donna scavato nella pietra, come fosse stato staccato dalla montagna e posto lì quasi per caso. Un volto sofferente, ma dal bel riflesso che quasi ricordava i fascinosi volti della scultura romana. E fu come se quel pezzo di pietra fosse riapparso dopo l’eruzione di Pompei, con la stessa grazia di quegli affreschi così lontani nel tempo, nella medesi­ma bestialità del dolore ritrascritta in solenne armonia.

Quel silenzio poi ci venne dietro. Quelle immagini di donne scolpite ci seguirono nella giornata e ancora oltre. Fu bello pensare che lì, tra le montagne fredde popolate di sogni e distanze, un ragazzo dava vita a quanto, in realtà, sembrava perduto per sempre.

Marco Goldin

Mostra Personale , “Oratorio dell’ Assunta” , Conegliano (TV), Dicembre 1988

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Sensualità e bellezza classica

Giovanni Padovan sa fondere le esigenze della modernità e i canoni inalterabili della storia

La possibilità di ricondurre a unità gli elementi della cultura “materna” e quelli della temperie culturale del momento è senza dubbio uno degli obiettivi fondamentali di qualsiasi grafia artistica, e risulta quasi sempre evidente in una mostra che proponga una sintesi del lavoro di un autore. Nel caso di Giovanni Padovan (alla Roggia Triveneto di Pordenone, fi­no al 24 novembre) i dati caratterizzanti della personalità artistica sono l’amore viscerale per le montagne della zona, per le rocce e per gli alberi che vi crescono, una sensibilità assai classica della scultura riportata alla manualità specifica dell’intaglio e della scalpellatura, un occhio attento, infine, agli autori contemporanei che già, per altre vie, hanno mirato alla stessa armonia tra passato, presente e inalterabilità delle cose.

Da un lato, la sensualità del trattamento della materia indi­ca un autore attento alla realtà del quotidiano, da cui Padovan ricava i materiali propri del suo lavoro, manipolati con le tecniche più antiche e proprie del genere, sia quando si preoccu­pa della definizione quasi mi­nuziosa della forma reale, sia anche quando affida al “non finito” il compito di far emergere la forza plastica della forma appena sbozzata. Per un altro verso, il riferimento alla figura in tutta la canonica bellezza classica indica un rigore assoluto e quasi severo, il desiderio di non disancorarsi dalla realtà pur nelle arditezze delle forme nuove. Infine, il riferimento quasi esplicito ai grandi protagonisti della scultura contemporanea — nella direzione, beninteso, della classicità rivisitata, come accade in Brancusi o Moore — dimostra la possibilità illimitata che l’arte ha di fondere insieme esigenze di sempre attuale modernità con canoni inalterabili della storia e del genere specifico.

Enzo Di Grazia

Messaggero Veneto , 8 Novembre 1995

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GIOVANNI PADOVAN

Nato nel 1965 a Pordenone. Èautodidatta. Ha esposto nel 1988 alla Biennale dei Giovani Artisti di Padova e lo stesso anno, m una personale all’Oratorio dell’Assunta di Conegliano.

Nel 1995, personale alla Galleria La Roggia di Pordenone e partecipazione a una collettiva alla Galleria Grigoletti di Pordenone. Nel 1996 collettiva a Berlino alla Galleria Treff (“Kunst aus Friaul’).

Alla mia solita domanda sulla scultura, Giovanni Padovan ha risposto: “Scolpire è togliere, togliere per scoprire qualcosa che è dentro di me”; una dichiarazione che va molto oltre i problemi dell’artista, perché sottolinea l’utilizzo di una pratica, di certe tecniche, quale sostegni per un viaggio interiore. Una sorta di ricerca mistica che richiama quella antica, del buon artista-artigiano che trovava le “risposte” attraverso il suo lavoro. Togliere nel sasso, nel legno (perché Padovan utilizza ambedue i materiali) significa ripercorrere il percorso della scultura più antica e più “vera”: quella che fa “nascere” dalla materia inerte. A Valdestali , Frisanco (Pn) dove vive e lavora, Padovan trova abbondanza di pietre e di legni pronti a sollecitarlo a sbozzare, intagliare nella loro materia. Però, l’artista non disdegna materiali provenienti da più lontano, come l’ulivo. Padovan si appoggia molto alla figura umana che fa emergere dalla materia come una sorta di sogno solidificato.

Dott. Walter  Schönenberger

Mostra Collettiva “Incontra la Scultura” , Povoletto (UD) Agosto 1996

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Padovan, lo stoico scultore del paese dove fumano due camini

Ormai l’attendevano gli amici e non solo una mostra dello scultore pordenonese Giovanni Padovan, da anni eroicamente residente in la Colvera, a Valdestali, dove due soli camini fumano nelle fredde serate invernali, il suo e quello di Megumi Isono, una rinomata cuoca giapponese. Strani destini delle nostre belle montagne.

Ma ora Giovanni ha deciso che è tempo di fare anche il cammino a ritroso e mostrare finalmente i frutti di questi anni di profonda introspezione e ricerca personale ed artistica. Ed ecco che ieri a Villa Giacomini di Varmo è stata inaugurata la sua personale, che resterà aperta fino al 17 febbraio2002. L’iniziativa è promossa dall’associazione culturale Punto 6 “per l’arte contemporanea” di San Vito al Tagliamento.

Padovan, scultore di pietra e di legno, si è formato artisticamente dapprima frequentando una scuola in Jugoslavia, quindi andando “a bottega” da Mauro Corona; ma non è fuori luogo per lui la definizione di “autodidatta” che stringe forte per mano quella di “artista per intima necessità”. Ha esposto in varie città europee, da Berlino a Halle, e ha tenuto vari Workshop in Spagna; il tutto in un ritmo di sistole e diastole di apertura e chiusura alla vita. Arte e vita non possono che camminare assieme per lui. Dalla vita alle opere, così si potrebbe dunque leggere il suo cammino degli ultimi anni: dopo la grande lacerazione che lo portava a tagliare le figure scolpite in membra dolorose che astraevano l’armonia realistica, si colloca oggi in una posizione intermedia tra il rispecchiamento figurativo del reale e la stilizzazione estrema delle forme. Due linguaggi che spesso si ritrovano uniti anche nella stessa opera.

Lo si vede bene nelle dodici sculture esposte a Varmo, tutte su legno, dove la centralità della figura umana implode a tratti in forme levigate plurisense, di cui le rotondità sublimi permettono l’avvicinamento alla poetica del grande Brancusi .

Giulia Calligaro

Il Gazzettino, domenica 3 febbraio 2002.  

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