di
Galileo Galilei
INDICE
I A Belisario Vinta, 7 maggio 1610
II A Matteo
Carosi, 24 maggio 1610
III A Giuliano de’ Medici, 13 novembre
1610
IV A Benedetto Castelli, 30 dicembre
1610
V A Cristoforo
Clavio, 30 dicembre
1610
VI A Giuliano de’ Medici, I° gennaio
1611
VII A Paolo Sarpi, 12 febbraio 1611
VIII A Marco Velseri, tre lettere sulle
macchie solari,
IX A Maffeo
Barberini, 2 giugno 1612
X A Paolo Gualdo, 16 giugno 1612
XI A Benedetto Castelli, 21 dicembre
1613
XII A Piero Dini, 16 febbraio 1615
XIII A Piero Dini, 23 marzo 1615
XIV A madama Cristina di Lorena, (1615)
XV A Elia
Diodati, 16 agosto 1631
XVI Ad Andrea Cioli, 6 ottobre 1632
XVII A Francesco
Barberini, 13 ottobre 1632
XVIII A Cesare Marsili, 16 ottobre 1632
XIX Ad Andrea Cioli, 19 febbraio 1633
XX
A Geri Bocchineri, 23 aprile 1633
XXI Ad Andrea
Cioli, 23 luglio 1633
XXII A Elia
Diodati, 7 marzo 1634
XXIII A Elia Diodati, 25 luglio 1634
XXIV A Fortunio Liceti, 15 settembre 1640
XXV Sopra il candore della luna
APPENDICE
A BELISARIO VINTA IN FIRENZE
(Padova, 7 maggio 1610)
Ill.mo Sig.re et Padre Col.mo
Come per la mia passata
accennai a V. S. Ill.ma, ho fatte 3 lezioni publiche in materia de i 4 Pianeti
Medicei e delle altre mie osservazioni; e avendo auta l’udienza di tutto lo
Studio, ho fatto restare in modo ciascheduno capace e satisfatto, che finalmente
quei primarii medesimi che erano stati acerbissimi impugnatori e contrarii
assertori alle cose da me scritte, vedendosela finalmente disperata e persa a
fatto, costretti o da virtù o da necessità, hanno coram populo detto, sé
non solamente esser persuasi, ma apparecchiati a difendere e sostener la mia
dottrina contro a qualunque filosofo che ardisse impugnarla: sì che le
scritture minacciate saranno assolutamente svanite, come è svanito tutto il
concetto che questi tali avevano sin qui procurato di suscitarmi contro, con
speranza forse di esser per sostenerlo, credendo che io, atterrito dalla loro
autorità o sbigottito dal profluvio de i lor creduli seguaci, fussi per
ritirarmi in un cantone e ammutirmi. Ma il negozio è passato tutto al rovescio;
e ben conveniva che la verità restasse di sopra.
Saprà a presso V. S. Ill.ma,
e per lei loro Ser.me Al.ze, come dal Matematico dell’Imperatore ho ricevuta
una lettera, anzi un intero trattato di 8 fogli, scritto in approbazione di
tutte le particole contenute nel mio libro, senza pur contradire o dubitare in
una sola minima cosa. E creda pur V. S. Ill.ma che l’istesso averiano anco
parimente detto da principio i literati d’Italia, s’io fussi stato in Alemagna
o più lontano; in quella guisa a punto che possiamo credere, che gl’altri
principi circumvicini d’Italia con occhio un poco più torbido rimirino la
eminenza e potere del nostro Ser.mo Signore, che gl’immensi tesori e forze del
Mosco o del Chinese, per tanto intervallo remoti. Ora il negozio è qua in stato
tale, che l’invidia ora mai non ha più attacco di abbassarlo, col convincerlo
di falsità, né pur anco col metterlo in dubbio. Resta a noi, ma principalmente
a i nostri Ser.mi Padroni, di sostenerlo con reputazione e grandezza, col
mostrare di farne quella stima che a così segnalata novità si conviene, essendo
ella in effetto stimata per tale da tutti quelli che ne parlano con sincero
animo.
L’Ill.mo S. Ambasciator
Medici mi scrive di Praga, non essere in quella Corte occhiali se non di assai
mediocre efficacia, e per ciò me ne domanda uno, accennandomi essere desiderato
anco da S. M.à; e mi scrive che io lo deva far consegnare in Venezia al
Secretario del S. Residente, acciò lo mandi sicuro. Io però intendo che detto
Secretario non riceverà o manderà cosa alcuna senza l’ordine di V. S. Ill.ma;
però, contentandosi S.A. che io ne mandi per tal via sarà V. S. Ill.ma servita
di dar ordine in Venezia che siano ricevuti e mandati. Intanto, non me ne
ritrovando di esquisiti, vedrò di condurne a fine un paro o dui, se bene a me è
grandissima fatica, né io vorrei essere necessitato a mostrare ad altri il modo
vero del lavorargli, se non a qualche servitore del G.D., come per altra gli ho
scritto. Però, e per altri rispetti ancora e principalissimamente per quietarmi
di animo, desidero grandemente la resoluzione dell’altro negozio, statomi più
volte accennato, ma particolarmente da V. S. Ill.ma ultimamente in Pisa: perché
sono in tutti i modi resoluto, vedendo che ogni giorno passa un giorno, di
mettere il chiodo allo stato futuro della vita che mi avanza, e attendere con
ogni mio potere a condurre a fine i frutti delle fatiche di tutti i miei studii
passati, da i quali posso sperarne qualche gloria. E dovendo trapassare quelli
anni che mi restano o qui o in Firenze, secondo che piacerà al nostro Ser.mo
Signore, io dirò a V. S. Ill.ma quello che ho qui, e quello che desidererei
costà, rimettendomi però sempre al comandamento di S.A.S.
Qui ho di stipendio fermo
fiorini 1000 l’anno in vita mia, e questi sicurissimi, venendomi da un principe
immortale e immutabile. Più di altrettanto posso guadagnarmi da lezioni
private, tuttavolta che io voglia leggere a signori oltramontani; e quando io
fussi inclinato a gl’avanzi, tutto questo e più ancora potrei mettere da canto
ogn’anno col tenere gentil’uomini scolari in casa, col soldo de i quali potrei
largamente mantenerla. In oltre, l’obligo mio non mi tien legato più di 60
mez’ore dell’anno, e questo tempo non così strettamente, che per qualunque mio
impedimento io non possa, senza alcun pregiudizio, interpor anco molti giorni
vacui: il resto del tempo sono liberissimo, e assolutamente mei iuris.
Ma perché e le lezioni private e gli scolari domestici mi sariano d’impedimento
e ritardanza a i miei studi, voglio da questi totalmente, e in gran parte da
quelle, vivere esente; però, quando io dovessi ripatriarmi, desidereri che la
prima intenzione di S.A.S. fusse di darmi ozio e comodità di potere tirare a
fine le mie opere, senza occuparmi in leggere.
Né vorrei che per ciò
credesse S.A. che le mie fatiche fussero per esser men profittevoli agli
studiosi della professione, anzi assolutamente sariano più; perché nelle
publiche lezioni non si può leggere altro che i primi elementi, per il che
molti sono idonei; e tal lettura è solo di impedimento e di niuno aiuto al
condurre a fine le opere mie, le quali tra le cose della professione credo che
non terranno l’ultimo luogo. Per simile rispetto, sì come io reputerei sempre a
mia somma gloria il poter leggere a i Principi, così all’incontro non vorrei
aver necessità di leggere ad altri. E in somma vorrei che i libri miei,
indrizzati sempre al Ser.mo nome del mio Signore, fussero quelli che
guadagnassero il pane; non restando intanto di conferire a S.A. tante e tali
invenzioni, che forse niun altro principe ne ha di maggiori, delle quali io non
solo ne ho molte in effetto, ma posso assicurarmi di esser per trovarne molte
ancora alla giornata, secondo le occasioni che si presentassero: oltre che di
quelle invenzioni che dependono da la mia professione, potria esser S.A. sicura
di non esser per impiegare in alcuna di esse i suoi danari inutilmente, come
per avventura altra volta è stato fatto e in grossissime somme, né anco per
lasciarsi uscir delle mani qualunque trovato propostogli da altri, che veramente
fusse utile e bello.
Io de i secreti particolari,
tanto di utile quanto di curiosità e admirazione, ne ho tanta copia, che la
sola troppa abbondanza mi nuoce e mi ha sempre nociuto; perché se io ne avessi
auto un solo, l’averei stimato molto, e con quello facendomi innanzi, potrei a
presso qualche principe grande avere incontrata quella ventura, che sin ora non
ho né incontrata né ricercata. “Magna longeque admirabilia apud me habeo”: ma
non possono servire, o, per dir meglio, essere messe in opera, se non da
principi, perché loro fanno e sostengono guerre, fabricano e difendono
fortezze, e per loro regii diporti fanno superbissime spese, e non io o
gentil’uomini privati. Le opere che ho da condurre a fine sono principalmente 2
libri “De sistemate seu constitutione universi”, concetto immenso e pieno di
Filosofia, astronomia e geometria: tre libri “De motu locali”, scienza
interamente nuova, non avendo alcun altro, né antico né moderno, scoperto
alcuno de i moltissimi sintomi ammirandi che io dimostro essere ne i movimenti
naturali e ne i violenti, onde io la posso ragionevolissimamente chiamare
scienza nuova e ritrovata da me sin da i suoi primi principi: tre libri delle
mecaniche, due attenenti alle demostrazioni de i principii e fondamenti, e uno
de i problemi; e benché altri abbino scritto questa medesima materia, tutta via
quello che ne è stato scritto sin qui, né in quantità né in altro è il quarto
di quello che ne scrivo io. Ho anco diversi opuscoli di soggetti naturali, come
“De sono et voce, De visu et coloribus, De maris estu, De compositione
continui, De animalium motibus”, e altri ancora. Ho anco in pensiero di
scrivere alcuni libri attenenti al soldato, formandolo non solamente in idea,
ma insegnando con regole molto esquisite tutto quello che si appartiene di
sapere e che depende dalle matematiche, come la cognizione delle
castrametazioni, ordinanze, fortificazioni, espugnazioni, levar piante, misurar
con la vista, cognizioni attenenti alle artiglierie, usi di varii strumenti,
etc. Mi abbisogna di più ristampare l’Uso del mio Compasso Geometrico,
dedicato a S. A., non se ne trovando più copie; il quale strumento è stato
talmente abbracciato dal mondo, che veramente adesso non si fanno altri
strumenti di questo genere, e io so che sin ora ne sono stati fabbricati alcune
migliaia. Io non dirò a V. S. Ill.ma quale occupazione mi sia per apportare il
seguir di osservare e investigare i periodi esquisiti de i quattro nuovi
pianeti; materia, quanto più vi penso, tanto più laboriosa, per il si disseparar
mai, se non per brevi intervalli l’uno dall’altro, e per esser loro e di colore
e di grandezza molto simili.
Sì che, Ill.mo S., bisogna
che i’ pensi al disoccuparmi da quelle occupazioni che possono ritardare i miei
studi, e massime da quelle che altri può fare in cambio mio; però la prego a
proporre a loro Alt.e, e a sé medesima, queste considerazioni, e avvisarmi poi
la loro resoluzione.
Intanto non voglio restar di
dirgli, come circa lo stipendio mi contenterò di quello che lei mi accennò in
Pisa, essendo onorato per un servitore di tanto principe; e sì come io non
soggiungo niente sopra la quantità, così son sicuro che, dovendo io levarmi di
qua, la benignità di S. A. non mi mancherebbe di alcuna di quelle comodità che
si sono usate con altri, bisognosi anco meno di me, e però non ne parlo adesso.
Finalmente, quanto al titolo e pretesto del mio servizio, io desidererei, oltre
al nome di Matematico, che S. A. ci aggiungesse quello di Filosofo, professando
io di avere studiato più anni in filosofia, che mesi in matematica pura: nella
quale qual profitto io abbia fatto, e se io possa e deva meritar questo titolo
potrò far vedere a loro Alt.e, qual volta sia di loro piacimento il concedermi
campo di poterne trattare alla presenza loro con i più stimati in tal facoltà.
Ho scritto lungamente per
non aver più a ritornare sopra tal materia con suo nuovo tedio: mi scusi V. S.
Ill.ma, perché, se bene questo a lei, che è consueta a maneggiar negozii
gravissimi parerà frivolissimo e leggiero, a me però è egli il più grave che io
possa incontrare, concernendo o la mutazione o la confirmazion di tutto lo
stato e l’esser mio. Aspetterò sua risposta; e in tanto supplicandola ad
inchinarsi umilmente in mio nome a loro Ser.e, bacio a V. S. Ill.ma con ogni
reverenza le mani, e dal Signore Dio gli prego somma felicità
Di Pad.a, li 7 di maggio
1610.
Di V. S.
Ill.rna Ser.re Oblig.mo
Galileo Galilei
A MATTEO CAROSI IN PARIGI
(Padova, 24 maggio 1610)
Ill.re Sig.re
Mando a V. S. l’Avviso
astronomico domandatomi da lei, acciò possa con suo comodo vederlo. Quello
che mi scrive in proposito di quello che dicono i mattematici di costì, mi
viene scritto da altre bande ancora, e fu similmente pensiero d’altri qui
circunvicini, ai quali, col fargli io vedere lo strumento e i Pianeti Medicei,
ne è rimossa ogni dubitazione. Il simile potrei fare ancora con i remoti, se
potessi abboccarmi con loro. Ben è vero che le loro ragioni di dubitare sono
molto frivole e puerili, potendosi persuadere che io sia tanto insensato, che
con lo sperimentare centomila volte in centomila stelle e altri oggetti il mio
strumento, non abbia potuto o saputo conoscere quegl’inganni che essi, senza
averlo mai veduto, stimano avervi conosciuto; o pure che io sia così stolido,
che senza necessità alcuna abbia voluto mettere la mia reputazione in
compromesso e burlare il mio Principe. L’occhiale è arciveridico, e i pianeti
Medicei sono pianeti, e saranno sempre, come gli altri: hanno i loro moti
velocissimi intorno a Giove, sì che il più tardo fa il suo cerchio in 15 giorni
incirca. Ho seguitato di osservargli, e séguito ancora, se bene oramai per la
vicinanza dei raggi del sole cominceranno a non si poter veder più per qualche
mese.
Questi che parlano,
doveriano (per farci il giuoco del pari) mettersi come ho fatto io, cioè
scrivere, e non commettere le parole al vento. Qua ancora si aspettavano 25 che
mi volevano scrivere contro; ma finalmente sin ora non si è veduto altro che
una scrittura del Keplero, Mattematico Cesareo, in confirmazione di tutto
quello che ho scritto io, senza pur repugnare a un iota: la quale scrittura si
ristampa ora in Venezia, e in breve V. S. la vedrà sicome ancora vedrà le mie
osservazioni molto più ampliate e con le soluzioni di mille instanze, benché
frivolissime; ma tuttavia bisogna rimuoverle, giacché il mondo e tanto
abbondante di poveretti. Non sarò più lungo con V. S.; mi conservi la sua
grazia e mi comandi.
Di Pad.a, li 24 di Maggio
1610
Di V. S. Ser.re
Aff.mo
Galileo Galilei
A GIULIANO DE' MEDICI IN
PRAGA
(Firenze, 13 novembre 1610)
Ma passando ad altro, già che il S. Keplero ha in
questa ultima Narrazione stampate le lettere che io mandai a V. S. Ill.ma
trasposte, venendomi anco significato come S. M.à ne desidera il senso, ecco
che io lo mando a V. S. Ill.ma, per participarlo con S. M.à, col S. Keplero, e
con chi piacerà a V Ill.ma, bramando io che lo sappi ogn'uno. Le lettere
dunque, combinate nel loro vero senso, dicono così:
“Altissimum planetam
tergeminum observavi”.
Questo è, che Saturno, con mia grandissima
ammirazione; ho osservato essere non una stella sola, ma tre insieme, le quali
quasi si toccano; sono tra di loro totalmente immobili, e costituite in questa
guisa oOo; quella di mezzo è assai più grande delle laterali; sono situate una
da oriente e l'altra da occidente, nella medesima linea retta a capello; non
sono giustamente secondo la dirittura del zodiaco, ma la occidentale si eleva
alquanto verso borea; forse sono parallele all'equinoziale. Se si riguarderanno
con un occhiale che non sia di grandissima multiplicazione, non appariranno 3
stelle ben distinte, ma parrà che Saturno sia una stella lunghetta in forma di
una uliva, così (_); ma servendosi di un occhiale che multiplichi più di mille
volte in superficie, si vedranno li 3 globi distintissimi, e che quasi si
toccano, non apparendo tra essi maggior divisione di un sottil filo oscuro. Or
ecco trovata la corte a Giove, e due servi a questo vecchio, che l'aiutano a
camminare né mai se gli staccano dál fianco. Intorno a gl'altri pianeti non ci
è novità alcuna. Etc.
A BENEDETTO CASTELLI IN
BRESCIA
(Firenze, 30 dicembre 1610)
Al molto R.do P. e mio Sig.re Col.mo
Il P. D. Benedetto Castelli, Monaco Casinense.
Brescia,
S. Faustino.
Molto R.do P.re,
Alla gratissima di V. S.
molto R. delli 5 di Xmbre darò breve risposta, ritrovandomi ancora aggravato da
una mia indisposizione, la quale per molti giorni m’ha tenuto al letto.
Ho con grandissimo gusto
sentito il suo pensiero di venir a stanziare in Firenze, il quale mi rinova la
speranza di poterla ancora godere e servire qualche tempo: mantengasi in questo
proposito, e sia certa che mi averà sempre prontissimo ad ogni suo comodo,
benché la felicità del suo ingegno non la fa bisognosa dell’opera mia né di
altri. Quanto alle sue dimande, posso in parte satisfarla; il che fo
volentierissimo.
Sappia dunque che io, circa
tre mesi fa, cominciai a osservar Venere con lo strumento, e la vidi di figura
rotonda, e assai piccola; andò di giorno in giorno crescendo in mole, e
mantenendo pur la medesima rotondità, sin che finalmente, venendo in assai gran
lontananza dal sole, cominciò a sciemar dalla rotondità dalla parte orientale,
e in pochi giorni si ridusse al mezo cerchio. In tale figura si è mantenuta
molti giorni, ma però crescendo tuttavia in mole: ora comincia a farsi falcata,
e sin che si vederà vespertina, anderà assotigliando le sue cornicelle, sin che
svanirà: ma ritornando poi matutina, sio vedrà con le corna sottilissime e pure
averse al sole, e anderà crescendo verso il mezo cerchio sino alla sua massima
digressione. Manterassi poi semicircolare per alquanti giorni, diminuendo però
in mole; e poi dal mezo cerchio passerà al tutto tondo in pochi giorni, e
quindi per molti mesi si vedrà, e Lucifero e Vesperugo, tutta tonda, ma
piccoletta di mole. Le evidentissime conseguenze che di qui si traggono, sono a
V.R.a notissime.
Quanto a Marte, non ardirei
di affermare niente di certo; ma osservandolo da quattro mesi in qua, parmi che
in questi ultimi giorni, sendo in mole a pena il terzo di quello che era il
Settembre passato, si mostri da oriente alquanto scemo, se già l’affetto non
m’inganna, il che non credo. Pure meglio si vedrà al principio di Febraio
venturo, intorno al suo quadrato; se bene, per l’apparire egli così piccolo,
difficilmente si distingue la sua figura, se sia perfetta rotonda o se manchi
alcuna cosa. Ma Venere la veggo così spedita e terminata quanto l’istessa luna,
mostrandomela l’occhiale di diametro uguale al semidiametro di essa luna veduta
con l’occhio naturale.
O quante e quali conseguenze
ho io dedutte, D. Benedetto mio, da queste e da altre mie osservazioni! “Sed
quid inde?” Mi ha quasi V. R.a fatto ridere, col dire che con queste apparenti
osservazioni si potranno convincere gl’ostinati. Adunque non sapete, che a
convincere i capaci di ragione, e desiderosi di saper il vero, erano a bastanza
le altre demostrazioni, per l’addietro addotte, ma che a convincere gl’ostinati,
e non curanti altro che un vano applauso dello stupidissimo e stolidissimo
volgo, non basterebbe il testimonio delle medesime stelle, che sciese in terra
parlassero di sé stesse? Procuriamo pure di sapere qualche cosa per noi,
quietandosi in questa sola sodisazione; ma dell’avanzarsi dell’opinione
popolare, o del guadagnarsi l’assenso dei filosofi “in libris”, lasciamone il
desiderio e la speranza.
Che dirà V. R.a. di Saturno,
che non è una stella sola, ma tre congionte insieme e immobili tra di loro,
poste in linea parallela all’equinoziale, così o O o? La media è maggiore delle
laterali tre o quattro volte; tale io l’ho osservato da Luglio in qua, ma ora
in mole sono diminuite assai.
Orsù, venga a Firenze, che
ci goderemo e averemo mille cose nove e ammirande da discorrere. E io in tanto,
restandogli servitore, gli bacio le mani e gli prego da Dio felicità. Renda i
saluti duplicati al P.D. Serafino e alli Sig.ri Lana e Albano.
Di Firenze, li 30 di Xmbre
1610.
Di V. S. molto R. Ser.re Aff.mo
Galileo
Galilei
A CRISTOFORO CLAVIO IN ROMA
(Firenze, 30 dicembre 1610)
Molto Rev.do P.re e mio
Sig.r Col.mo
La lettera di V.R. mi è
stata tanto più grata, quanto più desiderata e meno aspettata; e avendomi ella
trovato assai indisposto e quasi fermo a letto, mi ha in gran parte sollevato
dal male, portandomi il guadagno di un tanto testimonio alla verità delle mie
nuove osservazioni: il quale, prodotto, ha guadagnato alcuno degl’increduli; ma
però i più ostinati persistono, e reputano la lettera di V.R. o finta o
scrittami a compiacenza, e in somma aspettano che io trovi modo di far venire
almeno uno dei quattro Pianeti Medicei di cielo in terra a dar conto dell’esser
loro e a chiarir questi dubbii; altramente, non bisogna che io speri il loro
assenso. Io credevo, a quest’ora dovere essere a Roma, avendo non piccolo
bisogno di venirvi; ma il male mi ha trattenuto: tuttavia spero in breve di
venirvi, dove con strumento eccellente vedremo il tutto. In tanto non voglio
celare a V.R. quello che ho osservato di Venere da 3 mesi in qua.
Sappia dunque, come nel
principio della sua apparizione vespertina la cominciai ad osservare e la veddi
di figura rotonda, ma piccolissima; continuando poi le osservazioni, venne
crescendo in mole notabilmente, e pur mantenendosi circolare, sin che,
avvicinandosi alla maxima digressione, cominciò a diminuir dalla rotondità
nella parte aversa al sole, e in pochi giorni si ridusse alla figura
semicircolare; nella qual figura si è mantenuta un pezzo, ciò è sino che ha cominciato
a ritirarsi verso il sole, allontanandosi pian piano dalla tangente: ora
comincia a farsi notabilmente cornicolata, e così anderà assottigliandosi sin
che si vedrà vespertina, e a suo tempo la vedremo mattutina, con le sue
cornicelle sottilissime e averse al sole, le quali intorno alla massima
digressione faranno mezzo cerchio, il quale manterranno inalterato per molti
giorni. Passerà poi Venere dal mezzo cerchio al tutto tondo prestissimo, e poi
per molti mesi la vedremo così interamente circolare, ma piccolina, sì che il
suo diametro non sarà la 6a parte di quello che apparisce adesso. Io
ho modo di vederla così netta, così schietta e così terminata, come veggiamo
l’istessa luna con l’occhio naturale; e la veggo adesso adesso di diametro
eguale al semidiametro della luna veduta con la vista
semplice. Ora, eccoci, Signor mio, chiariti come Venere (e indubitamente farà
l'istesso Mercurio) va intorno al sole, centro senza alcun dubbio delle massime
rivoluzioni di tutti i pianeti; in oltre siamo certi che essi pianeti sono per
sé tenebrosi e solo risplendono illustrati dal sole, il che non credo che
occorra delle stelle fisse, per alcune mie osservazioni, e come questo sistema
de i pianeti sta sicuramente in altra maniera di quello che si è comunemente tenuto,
così nel determinare la grandezza delle stelle (trattone il sole e la luna) si
sono presi errori nella maggior parte de i pianeti e in tutte le fisse, di 3, 4
e 5 mila per cento, e più ancora.
Quanto a Saturno, non mi
meraviglio che non l’abbino potuto distintamente osservare; prima perché ci
bisogna strumento che multiplichi le superficie almanco 1000 volte; di più,
Satutno adesso è tanto lontano dalla terra, che non si vede se non
piccolissimo; tuttavia l'ho fatto vedere qui a molti dei loro fratelli così
distintamente, che non vi hanno alcuna dubitanza; e si vede giusto così oOo.
Cinque mesi sono, si vedeva assai maggiore: da quel tempo è diminuito molto, né
però si è mutata pure un capello la costituzione delle sue 3 stelle, le quali
per quanto io stimo, sono esattamente parallele non al zodiaco ma
all'equinoziale. [...]
Ora, per rispondere
interamente alla sua lettera, restami di dirgli come ho fatto alcuni vetri
assai grandi, benché non ne ricuopra gran parte, e questo per due ragioni:
l'una, per potergli lavorar più giusti, essendo che una superficie spaziosa si
mantiene meglio nella debita figura, che una piccola; l'altra è, che volendo
veder più grande in un'occhiata, si può scoprire il vetro: ma bisogna presso
all'occhio mettere un vetro meno acuto e scorciare il cannone, altramente si
vedrebbono gli oggetti assai annebbiati. Che poi tale strumento sia incomodo ad
usarsi, un poco di pratica leva ogni incomodità; e io gli mostrerò come lo uso
facilissimamente e con minor fatica assai che altri non fa nell'astrolabio,
quadrante, armille, o altro astronomico strumento.
Averò soverchiamente tediata
S.R.: scusi il diletto che ho nel trattar seco, e continui di conservarmi la
sua grazia, di che la supplico con ogni istanza, come anco che ella mi procacci
quella dell'altro Padre Cristoforo, suo discepolo, da me stimatissimo per le
relazioni che ho del suo gran valore nelle matematiche. E per fine dell'uno et
all'altro con ogni reverenza bacio le mani, e dal Signore Dio prego felicità.
Di Firenze, li 30 Dicembre
1610.
Di V. S. M. R.da Servitore
Devotissimo
Galileo
Galilei
A GIULIANO DE' MEDICI IN
PRAGA
(Firenze, I° gennaio 1611)
Ill.mo et Rever.mo Sig.re
mio Col.mo
È tempo che io deciferi a V.
S. Ill.ma e R.ma, e per lei al S. Keplero, le lettere trasposte, le quali
alcune settimane sono gli inviai: è tempo, dico, già che sono interissimamente
chiaro della verità del fatto, sì che non ci resta un minimo scrupolo o dubbio.
Sapranno dunque come, circa
3 mesi fa, vedendosi Venere vespertina, la cominciai ad osservare
diligentemente con l'occhiale, per veder col senso stesso quello di che non
dubitava l'intelletto. La veddi dunque, sul principio, di figura rotonda,
pulita e terminata, ma molto piccola: di tal figura si mantenne sino che
cominciò ad avvicinarsi alla sua massima digressione, tutta via andò crescendo
in mole. Cominciò poi a mancare dalla rotondità nella sua parte orientale e
aversa al sole, e in pochi giorni si ridusse ad essere un mezo cerchio
perfettissimo; e tale si mantenne, senza punto alterarsi, sin che cominciò a
ritirarsi verso il sole, allontanandosi dalla tangente. Ora va calando dal mezo
cerchio e si mostra cornicolata, e anderà assottigliandosi sino
all'occultazione, riducendosi allora con corna sottilissime; quindi passando ad
apparizione mattutina, la vedremo pur falcata e sottilissima, e con le corna
averse al sole; anderà poi crescendo sino alla massima digressione, dove sarà
semicircolare, e tale, senza alterarsi, si manterrà molti giorni; e poi dal
mezo cerchio passerà presto al tutto tondo, e così rotonda si conserverà poi
per molti mesi. Ma è il suo diametro adesso circa cinque volte maggiore di
quello che si mostrava nella sua prima apparizione vespertina: dalla quale
mirabile esperienza aviamo sensata e certa dimostrazione di due gran questioni,
state sin qui dubbie tra' maggiori ingegni del mondo. L'una è, che i pianeti
tutti sono di lor natura tenebrosi (accadendo anco a Mercurio l'istesso che a
Venere): l'altra, che Venere necessariissimamente si volge intorno al sole,
come anco Mercurio e tutti li altri pianeti, cosa ben creduta da i Pittagorici,
Copernico, Keplero e me, ma non sensatamente provata, come ora in Venere e in
Mercurio. Averanno sunque il Signor Keplero e gli altri Copernicani da
gloriarsi di avere creduto e filosofato bene, se bene ci è toccato, e ci è per
toccare ancora, ad esser reputati dall'universalità de i filosofi “in libris”
per poco intendenti e poco meno che stolti. Le parole dunque che mandai
trasposte, e che dicevano “Haec immatura a me iam frustra leguntur o y”,
ordinate “Cynthiae figuras aemulatur mater amorum” ciò è che Venere imita le
figure della luna.
Osservai 3 notti sono
l'eclisse, nella quale non vi è cosa notabile: solo si vede il taglio
dell'ombra indistinto, confuso e come annebiato, e questo per derivare essa
ombra da la terra, lontanissimamente da essa Luna.
Voleva scrivere altri
particolari; ma sendo stato trattenuto molto da alcuni gentiluomini, e essendo
l'ora tardissima, son forzato a finire. Favoriscami salutare in mio nome i
signori Keplero, Asdalee Segheti; e a V. S. Ill.ma con ogni reverenza bacio le
mani, e dal S. Dio gli prego felicità.
Di Firenze, il primo di
Gennaio, anno 1611
Di V. S. Ill.ma et. Rev.ma Servitore
Devotissimo
Galileo Galilei
A PAOLO SARPI (IN VENEZIA)
(Firenze, 12 febbraio I611)
Molto Rev. Padre e io
Signore Colendissimo,
È tempo che io rompa uno
assai lungo silenzio; sebbene ove ha taciuto la lingua e quietato la mano, ha
però continuamente parlato il pensiero, ricordevole in tutti i momenti della
virtù e dei meriti di Vostra Sign. Molto Rev., siccome degli obblighi infiniti
che gli tengo. Io non inarrerò perdono di questa mia apparente negligenza verso
i debiti che ho seco, come quello che son sicuro che ella non dubiti che in
qualunque occorrenza concernente al suo o mio bisogno avrei avuta la penna non
meno pronta dell'animo e dell'effetto ad ogni debito dell'antica amicizia e
della osservanza che ho alla sua persona. Ora, stimando io che ella, per
l'affezione verso di me, sia per volentieri intendere dello stato mio, sì
quanto al corpo come quanto alla fortuna e quanto alla mente, vengo non meno
volentieri a darle di ciascheduno di questi particolari contezza.
E prima, quanto al primo,
non posso veramente dirle cosa né di suo né di mio gusto, provando, per il
disuso di tanti anni questa sottilissima aria iemale crudissima inimica alla
mia testa ed a tutto il resto del corpo; sì che le doglie per le mie freddure,
il profluvio del sangue, con una grandissima languidezza di stomaco, mi tengono
da tre mesi in qua debole, disgustatissimo e melanconico, quasi continuamente
in casa, anzi in letto, ma però senza sonno e quiete. Solamente li giorni
passati, che mi trattenni, mentre la Corte era a Pisa, per lo spazio di tre
settimane coll'Illustrissimo Signor Filippo Salviati, gentiluomo di grandissimo
spirito, in una sua villa in questi poggi, stetti assai bene, e conobbi
immediate la bontà di quell'aria, e in conseguenza la malignità di questa della
città; sì che mi converrà far pensiero di farmi abitator dei monti, se no de'
sepolcri: ed in questa occasione, ritornato il Serenissimo Gran Duca ed inteso
il mio stato, mi ha per sua benignità fatto offerta dell'abitazione di qual mi
piacesse delle sue ville qui circumvicine, di aria perfetta. Ma non solo in
questo, anzi in ogni altro particolare concernente al mio comodo, provo la
benignità di questo signor inclinatissima a favorirmi: onde non devo della
fortuna querelarmi, come dell'abito del corpo.
Quanto alle occupazioni
della mente, non mi è mancato che fare, a difendermi con la lingua e con la
penna da infiniti contradittori e oppositori contro alle mie osservazioni;
sebbene non me la sono né anco presa con quell'ardore che pareva a molti che
contro all'ardire degli opponenti fusse bisognato, essendoché ero certo che il
tempo averebbe chiarite tutte le partite, siccome in gran parte è sin qui
succeduto. Poiché i matematici di maggior grido di diversi paesi, e di Roma in
particolare, dopo essersi risi, ed in scrittura ed in voce, per lungo tempo e
in tutte le occasioni e in tutti i luoghi, delle cose da me scritte, ed in
particolare intorno alla luna ed ai Pianeti Medicei, finalmente, forzati dalla
verità, mi hanno spontaneamente scritto, confessando ed ammettendo il tutto:
talché al presente non provo altri contrari che i Peripatetici, più parziali di
Aristotele che egli medesimo non sarebbe, e sopra gli altri quelli di Padova,
sopra i quali io veramente non spero vittoria. Queste occupazioni non mi hanno
però interamente rimosso dalle inquisizioni celesti, sì che io non abbia potuto
investigare qualche altra cosa di nuovo: di che devo far parte a V. S. molto
R., e per lei a quei miei Signori e Padroni che ella sa che sono per sentirla
volentieri.
Parmi ricordare che sino
l'Agosto passato io conferissi seco l'osservazione di Saturno: il quale non è
altramente una sola stella, come gli altri pianeti, ma sono tre, congiunte
insieme in linea retta parallela all'equinoziale; e stanno così oOo, cioè la
media circa quattro volte maggiore delle laterali, le quali sono tra di loro
eguali. Non hanno, in sette mesi che le ho osservate, fatta mutazione alcuna;
onde assolutamente sono tra di loro immobili, perché (giacché sono così vicine
che pare che si tocchino) ogni moto che avessero, benché minimo, si saria fatto
sensibile. Perché, per mio avviso, il diametro delle due minori non arriva a
quattro secondi: sicché, o si sariano totalmente congiunte con la media, o
evidentemente separate, quando il lor moto fusse anco dieci volte più tardo di
quello delle stelle fisse; tuttavia, come ho detto, in sette mesi non hanno
fatto mutazione alcuna, se non di mostrarsi più piccole tutte tre per la
maggiore lontananza dalla terra, ora che sono alla congiunzione, che quando
erano all'opposizion del sole: la qual differenza è sensibilissima.
Stimando pure esser
verissimo che tutti i pianeti si volghino intorno al sole come centro dei loro
orbi, e più credendo che siano tutti per sé tenebrosi ed opachi come la terra e
la luna, mi posi quattro mesi sono, a osservar Venere, la quale, essendo
vespertina, mi si mostrò perfettamente rotonda, ma assai piccola; e di tal
figura si mantenne molti giorni, crescendo però notabilmente in mole.
Avvicinandosi poi alla medesima digressione, cominciò a sciemare dalla
rotondità nella parte verso oriente, ed in pochi giorni si ridusse ad esser
semicircolare; e di tal figura si mantenne circa un mese, senza vedersi altra
mutazione che di mole, la quale notabilmente si accresceva. Finalmente nel
ritirarsi verso il sole cominciò ad incavarsi dove era retta, ed a farsi pian
piano corniculata: ed ora è ridotta in una sottilissima falce, simile alla luna
quattriduana. La mole però della sua sfera è fatta tanto grande, che dalla sua
prima apparizione, quando la veddi rotonda, a che si mostrò mezza ed a quello
che si vede adesso, ci è la differenza che mostrano le tre presenti figure o D
)). Sciemerà ancora sino alla occultazione, ed a mezzo quest'altro mese la
vederemo orientale, sottilissima; e seguitando di lontanarsi dal sole,
crescendo di lume e sciemando di mole, nello spazio di tre mesi incirca si
ridurrà a mezzo cerchio, e tale, senza conoscervi sensibile mutamento, si
manterrà circa un mese; poi, seguitando sempre di sciemare in mole, si farà in
pochi giorni interamente rotonda, della qual figura si mostrerà per più di
dieci mesi continui, trattone quei tre mesi incirca che starà invisibile sotto
i raggi del sole.
Or eccoci fatti certi che Venere
si volge intorno al sole, e non sotto (come credette Tolommeo), dove mai non si
mostrerebbe se non minore di mezzo cerchio; né meno sopra (come piacque ad
Aristotele), perché se fusse superiore al sole, non si vedrebbe mai falcata, ma
sempre più di mezza assaissimo, e quasi sempre perfettamente rotonda. E
l'istesse mutazioni son sicuro che vedremo fare a Mercurio. Perché poi tali
diversità di forme e di grandezze in Venere siano impercettibili con la vista
naturale, so io benissimo per le sue cagioni non occulte all'ingegno di Vost.
Riverenza: tra le quali la piccolezza e la gran lontananza di essa Venere, in
comparazion della luna, ne è la principale, siccome anco l'esperienza ci
mostra; perché rivoltando il cannone sì che rappresenti li oggetti piccoli e
lontanissimi, la medesima luna, quando è corniculata di tre giorni e non più,
ci apparisce rotonda e radiante, similissima a Venere veduta con la vista
naturale. Siamo in oltre da queste medesime apparizioni di Venere fatti certi
come i pianeti tutti ricevono il lume dal sole, essendo per lor natura
tenebrosi. Ma io di più sono, per dimostrazione necessaria, sicurissimo che le
stelle fisse sono per sé medesime lucidissime, né hanno bisogno
dell'irradazione del sole; la quale Dio sa se arriva in tanta lontananza.
Ho finalmente investigato il
modo di poter sapere le vere grandezze dei pianeti tutti: nell'assegnar delle
quali, trattone il sole e la luna, si sono ingannati quelli che ne hanno
trattato, in tutti gli altri pianeti grandissimamente, ed in taluno di loro di
più di seimila per cento.
Quanto ai Pianeti Medicei,
vo continuando di osservargli; ed avendo migliorato lo strumento, gli scorgo
più apparenti assai che le stelle della seconda grandezza: di che ne è certo
argomento il vedergli adesso poco dopo il tramontar del sole, ed un pezzo
avanti che si scorghino i Gemelli o il Cingolo di Orione. E spero di aver
trovato il modo da poter determinare i periodi di tutti quattro; cosa stimata
per impossibile dal Keplero e da altri matematici.
Io speravo di esser per
venir costà questa quadragesima, per ristampar queste mie osservazioni: ma mi
sono tanto multipliplicate per le mani, che mi sarà forza indugiare a fatto
Pasqua. Intanto non voglio mancar di dire a V. S. molto R. e all'Illustris.
Sign. Sebastiano Veniero, che caso che gl'Illustriss. Signori Riformatori non
abbino fin qui fatto provisione di Matematico per Padova, voglino proccurar di
trattenergli; perché spero di esser per metter loro per le mani persona di
grande stima ed atta a poter difendere la dignità ed eccellenza di così nobil
professione contro a quelli che cercano di esterminarla, li quali in Padova non
mancano, come benissimo sanno. E so che tali proccureranno che sia condotto
qualche soggetto da poterlo dominare e spaventare, acciocché se mai si scuopre
qualche cosa vera e di garbo, ella resti dalla loro tirannide soffogata Ma mi
giova sperare nella prudenza di tanti che intendono in cotesto Senato, che non
seguirà elezione se non ottima.
Ora io l'ho impedita assai:
perdoni al diletto che ho di parlar con lei; e volendo favorirmi di sue
lettere, potrà mandarmele come questa, sotto quelle dell'Illustriss. Signor
Veniero. Restami a pregarla di farmi grazia di ricordarmi servitore devotissimo
a tanti Illustriss. miei Signori, dei quali vivo, come sempre fui devotissimo
servitore; e con ogni affetto gli bacio le mani.
Di Firenze, li 12 di
Febbraio 1611
Di V. S.
molto R. Servitore
Devotissimo
Galileo Galilei.
PRIMA LETTERA DEL SIG.
GALILEO GALILEI
AL SIG. MARCO VELSERI I
CIRCA LE MACCHIE SOLARI
(Villa delle Selve, 4 maggio
1612)
Illustrissimo Sig. e Padron
Colendissimo,
Alla cortese lettera di V.
S. Illustrissima, scrittami tre mesi fa, rendo tarda risposta, essendo stato
quasi necessitato a usare tanto silenzio da varii accidenti, ed in particolare
da una lunga indisposizione, o, per meglio dire, da lunghe e molte
indisposizioni, le quali, vietandomi tutti gli altri esercizii ed occupazioni,
mi toglievano principalmente di potere scrivere, sì come anco in gran parte me
lo levano al presente, pure non tanto rigidamente, che io non possa almeno
rispondere ad alcuna delle lettere de gli amici e padroni, delle quali mi
ritrovo non picciol numero, che tutte aspettano risposta. Ho anco taciuto su la
speranza di potere dar qualche satisfazione alla domanda di V. S. intorno alle
macchie solari, sopra il quale argomento ella mi ha mandato quei brevi discorsi
del finto Apelle; ma la difficoltà della materia e 'l non avere io potuto far
molte osservazioni continuate mi hanno tenuto e tengono ancora sospeso ed
irresoluto: ed a me conviene andare tanto più cauto e circospetto, nel
pronunziare novità alcuna, che a molti altri, quanto che le cose osservate di
nuovo e lontane da i comuni e popolari pareri, le quali, come ben sa V. S.,
sono state tumultuosamente negate ed impugnate, mi mettono in necessità di
dovere ascondere e tacere qual si voglia nuovo concetto, sin che io non ne
abbia dimostrazione più che certa e palpabile; perché da gl'inimici delle
novità, il numero de i quali è infinito, ogni errore, ancor che veniale, mi
sarebbe ascritto a fallo capitalissimo, già che è invalso l'uso che meglio sia
errar con l'universale, che esser singolare nel rettamente discorrere.
Aggiugnesi che io mi contento più presto di esser l'ultimo a produrre qualche
concetto vero, che prevenir gli altri per dover poi disdirmi nelle cose con
maggior fretta e con minor considerazione profferite. Questi rispetti mi hanno
reso lento in risponder alle domande di V. S. Illustrissima, e tuttavia mi
fanno timido in produrre altro che qualche proposizion negativa, parendomi di
saper più tosto quello che le macchie solari non sono, che quello che elleno veramente
siano, ed essendomi molto più difficile il trovar il vero, che 'l convincere il
falso. Ma per satisfare almeno in parte al desiderio di V. S., anderò
considerando quelle cose che mi paiono degne di esser avvertite nelle tre
lettere del finto Apelle, già che ella così comanda, e che in quelle si
contiene ciò che sin qui è stato immaginato per definire circa l'essenza il
luogo ed il movimento di esse macchie.
E prima, che esse siano cose
reali, e non semplici apparenze o illusioni dell'occhio o de i cristalli, non
ha dubbio alcuno, come ben dimostra l'amico di V. S. nella prima lettera; ed io
le ho osservate da 18 mesi in qua, avendole fatte vedere a diversi miei
intrinseci, e pur l'anno passato, appunto in questi tempi, le feci osservare in
Roma a molti prelati ed altri signori. È vero ancora, che non restano fisse nel
corpo solare, ma appariscono muoversi in relazion di esso, ed anco di movimenti
regolati, come il medesimo autore ha notato nella medesima lettera. È ben vero
che a me pare che il moto sia verso le parti contrarie a quelle che l'Apelle
asserisce, cioè da occidente verso oriente, declinando dal mezzogiorno in
settentrione, e non da oriente verso occidente e da borea verso mezzogiorno; il
che anco nell'osservazioni descritte da lui medesimo, le quali in questo
confrontano con le mie e con quante io ne ho vedute di altri, assai chiaramente
si scorge: dove si veggon le macchie osservate nel tramontar del Sole mutarsi
di sera in sera, descendendo dalle parti superiori del Sole verso le inferiori;
e quelle della mattina ascendendo dalle inferiori verso le superiori,
scoprendosi nel primo apparire nelle parti più australi del corpo solare, ed
occultandosi o separandosi da quello nelle parti più boreali, descrivendo in
somma nella faccia del Sole linee per quel verso appunto che fariano Venere o
Mercurio, quando nel passar sotto 'l Sole s'interponessero tra quello e
l'occhio nostro. Il movimento, dunque, delle macchie rispetto al Sole appar
simile a quello di Venere e di Mercurio e de gli altri pianeti ancora intorno
al medesimo Sole, il qual moto è da ponente a levante, e per l'obliquità
dell'orizonte ci sembra declinare da mezzogiorno in settentrione. Se Apelle non
supponesse che le macchie girassero intorno al Sole, ma che solamente gli
passassero sotto, è vero che il moto loro doveria chiamarsi da levante a
ponente; ma supponendo che quelle gli descrivino intorno cerchii, e che ora gli
siano superiori ora inferiori, tali revoluzioni devono chiamarsi fatte da
occidente verso oriente, perché per tal verso si muovono quando sono nella
parte superiore de i loro cerchi.
Stabilito che ha l'autore,
che le macchie vedute non sono illusioni dell'occhiale o difetti dell'occhio,
cerca di determinare in universale qualche cosa circa il luogo loro, mostrando che
non sono né in aria né nel corpo solare. Quanto al primo, la mancanza di
parallasse notabile mostra di concluder necessariamente, le macchie non esser
nell'aria, cioè vicine alla Terra, dentro a quello spazio che comunemente si
assegna all'elemento dell'aria. Ma che le non possin esser nel corpo solare,
non mi par con intera necessità dimostrato; perché il dire, come egli mette
nella prima ragione, non esser credibile che nel corpo solare siano macchie
oscure, essendo egli lucidissimo, non conclude: perché in tanto doviamo noi
dargli titolo di purissimo e lucidissimo, in quanto non sono in lui state
vedute tenebre o impurità alcuna; ma quando ci si mostrasse in parte impuro e
macchiato, perché non doveremmo noi chiamarlo e macolato e non puro? I nomi e gli
attributi si devono accomodare all'essenza delle cose, e non l'essenza a i
nomi; perché prima furon le cose, e poi i nomi. La seconda ragione
concluderebbe necessariamente, quando tali macchie fussero permanenti ed
immutabili; ma di questa parlerò più di sotto.
Quello che in questo luogo
vien detto da Apelle, cioè che le macchie apparenti nel Sole siano molto più
negre di quelle che mai si siano vedute nella Luna, credo che assolutamente sia
falso; anzi stimo che le macchie vedute nel Sole siano non solamente meno
oscure delle macchie tenebrose che nella Luna si scorgono, ma che le siano non
meno lucide delle più luminose parti della Luna, quand'anche il Sole più
direttamente l'illustra: e la ragione che a ciò creder m'induce, è tale. Venere
nel suo esorto vespertino, ancor che ella sia di così gran splendor ripiena,
non si scorge se non poi che è per molti gradi lontana dal Sole, e massime se
amndue saranno elevati dall'orizonte; e ciò avviene per esser le parti
dell'etere, circonfuse intorno al Sole, non meno risplendenti dell'istessa
Venere: dal che si può arguire, che se noi potessimo por la Luna accanto al
Sole, splendida dell'istessa luce che ella ha nel plenilunio, ella veramente
resterebbe invisibile, come quella che verria collocata in un campo non meno
splendente e chiaro della sua propria faccia. Ora pongasi mente, quando col
telescopio, cioè con l'occhiale, rimiriamo il lucidissimo disco solare, quanto
e quanto egli ci appar più splendido del campo che lo circonda; ed, in oltre,
paragoniamo la negrezza delle macchie solari sì con la luce dell'istesso Sole
come con l'oscurità dell'ambiente contiguo: e troveremo, per l'uno e per
l'altro paragone, non esser le macchie del Sole più oscure del campo
circonfuso. Se dunque l'oscurità delle macchie solari non è maggior di quella
del campo che circonda il medesimo Sole, e se, di più, lo splendor ella Luna
resterebbe impercettibile nella chiarezza del medesimo ambiente, adunque per
necessaria consequenza si conclude, le macchie solari non esser punto men chiare
delle parti più splendide della Luna, ben che, situate nel fulgidissimo campo
del disco solare, ci si mostrino tenebrose e nere: e se esse non cedono di
chiarezza alle più luminose parti della Luna, quali saranno elleno in
comparazione delle più oscure macchie di essa Luna? e massime se noi volessimo
intender delle macchie tenebrose cagionate dalle proiezzioni dell'ombre delle
montuosità lunari, le quali in comparazione delle parti illuminate non sono
manco nere che l'inchiostro rispetto a questa carta. E questo voglio che sia
detto non tanto per contradire ad Apelle, quanto per mostrare come non è
necessario por la materia di esse macchie molto opaca e densa, quale si deve
ragionevolmente stimare che sia quella della Luna e de gli altri pianeti; ma una
densità ed opacità simile a quella di una nugola è bastante, nell'interporsi
tra 'l Sole e noi, a far una tale oscurità e negrezza.
Quanto poi a quello che
l'Apelle in questo luogo accenna e che più diffusamente tratta nella seconda
epistola, cioè di poter con quella strada venir in certezza se Venere e
Mercurio faccino le loro revoluzioni sotto o pur intorno al Sole, io mi sono
alquanto maravigliato che non gli sia pervenuto all'orecchie, o, se pur gli è
pervenuto, che ei non abbia fatto capitale del mezzo esquisitissimo, sensato e
che frequentemente potrà usarsi, scoperto da me quasi due anni sono, e
communicato a tanti che ormai è fatto notorio: e questo è, che Venere va
mutando le figure nell'istesso modo che la Luna, ed in questi tempi potrà
Apelle osservarla col telescopio, e la vedrà di figura perfetta circolare e
molto piccola, se bene assai minore si vedeva nel suo esorto vespertino; potrà
poi seguitare di osservarla, e la vedrà, intorno alla sua massima digressione,
in figura di mezzo cerchio; dalla qual figura ella passerà alla forma falcata,
assottigliandosi pian piano secondo che ella si anderà avvicinando al Sole;
intorno alla cui congiunzione si vedrà così sottile come la Luna di due o tre
giorni; la grandezza del suo visibil cerchio sarà in guisa accresciuta, che ben
si conoscerà l'apparente suo diametro nell'esorto vespertino esser meno che la
sesta parte di quello che si mostrerà nell'occultazione vespertina o esorto
mattutino, ed in consequenza il suo disco apparir quasi 40 volte maggiore in questa
positura che in quella: le quali cose non lascieranno luogo ad alcuno di
dubitare qual sia la revoluzione di Venere, ma con assoluta necessità
conchiuderanno, conforme alle posizioni de i Pitagorici e del Copernico, il suo
rivolgimento esser intorno al Sole, intorno al quale come centro delle lor
revoluzioni, si raggirano tutti gli altri pianeti. Non occorre, dunque,
aspettar congiunzioni corporali per accertarsi di così manifesta conclusione,
né produr razioni soggette a qualche risposta, ben che debole, per guadagnarsi
l'assenso di quelli la cui filosofia viene stranamente perturbata da questa
nuova costituzion dell'universo; perché loro, quand'altro non gli stringesse,
diranno che Venere o risplenda per sé stessa, o sia di sustanza penetrabile da
i raggi solari, sì che ella venga illustrata non solamente secondo la
superficie, ma secondo tutta la profondità ancora; e tanto più animosamente
potranno farsi scudo di questa risposta, quanto non sono mancati filosofi e
matematici che hanno creduto così (e questo sia detto con pace d'Apelle che
scrive altramente), ed al Copernico medesimo convien amettere come possibile,
anzi pur come necessaria, una delle dette posizioni, non avendo egli potuto
render ragione in qual guisa Venere, quando è sotto 'l Sole, non si mostri
cornicolata: e veramente altro non poteva dirsi avanti che il telescopio
venisse a farci vedere come ella è veramente per sé stessa tenebrosa come la
Luna, e che come quella va mutando figure. Ma io, oltre a ciò, posso muover
gran dubbio nell'inquisizione d'Apelle, mentre egli, nella congiunzione presa
da lui, cerca di veder Venere nel disco del Sole, supponendo che veder vi si
dovrebbe in guisa d'una macchia assai maggiore d'alcuna delle vedute, essendo
il suo visibil diametro minuti tre, ed in consequenza la sua superficie più di
una delle centotrenta parti di quella del Sole: ma ciò, con sua pace, non è
vero, ed il visibil diametro di Venere non era allora né anco la sesta parte di
un minuto, e la sua superficie era minore di una delle quarantamila parti della
superficie del Sole, sì come io so per sensata esperienza ed a suo tempo farò
manifesto ad ogn'uno. Vegga dunque V. S. gran campo che si lascerebbe a coloro
che volessero pur con Tolomeo ritener Venere sotto il Sole, i quali potrebbon dire
che in vano si cercasse di veder un sì picciol neo nell'immensa e lucidissima
faccia di quello. E finalmente aggiungo, che tale esperienza non convincerà
necessariamente quelli che negassero la revoluzione di Venere intorno al Sole,
perché potrebbon sempre ritirarsi a dire che ella fosse superior al Sole,
fortificandosi appresso con l'autorità di Aristotele che tale la stimò. Non
basta, dunque, che Apelle mostri che Venere nelle corporali congiunzioni
mattutine non passa sotto 'l Sole, se egli non mostrasse ancora come nelle
congiunzioni vespertine ella gli passasse sotto: ma tali congiunzioni
vespertine, che siano però corporali, si fanno rarissime volte, ed a noi non
succederà il poterne vedere: adunque l'argomento d'Apelle è manchevole per
concluder il suo intento.
Vengo ora alla terza
lettera, nella quale Apelle più risolutamente determina del luogo, del
movimento e della sustanza di queste macchie, concludendo che siano stelle, le
quali, poco lontane dal corpo solare, intorno se gli vadino volgendo alla guisa
di Mercurio e di Venere.
Per determinar del luogo
comincia a dimostrar, quelle non esser nell'istesso corpo del Sole, il quale
col rivolgersi in sé stesso ce le rappresenti mobili; perché, passando il
veduto emisfero in giorni quindici, doveriano ogni mese ritornar l'istesse, il
che non succede.
L'argomento sarebbe
concludente, tuttavolta che prima constasse che tali macchie fussero
permanenti, cioè che non si producessero di nuovo, ed anco si cancellassero e
svanissero; ma chi dirà che altre si fanno ed altre si disfanno, potrà anco
sostenere che il Sole, rivolgendosi in sé stesso, le porti seco senza necessità
di rimostrarci mai le medesime, o nel medesimo ordine disposte, o delle
medesime forme figurate. Ora, il provar che elle sian permanenti, l'ho per cosa
difficile, anzi impossibile ed a cui il senso repugni; ed il medesimo Apelle ne
averà vedute alcune mostrarsi, nel primo apparir, lontane dalla circonferenza
del Sole, ed altre svanire e perdersi prima che finischino di traversare il
Sole, perché io ancora di tali ne ho osservate molte. Non però affermo o nego
che le siano nel Sole, ma solamente dico non esser a sufficienza stato
dimostrato che le non vi siino.
Nel resto poi, che l'autore
soggiugne per dimostrare che le non sono in aria o in alcun de gli orbi
inferiori al Sole, mi par di scorgervi qualche confusione, ed in un certo modo
incostanza, ripigliand'ei, pur come vero, l'antico e comune sistema di Tolomeo,
della cui falsità ei medesimo poco avanti ha mostrato di essersi accorto, mentre
che ha concluso che Venere non ha altramente la sua sfera inferiore al Sole, ma
che intorno a quello si raggira, essendo ora di sopra ed ora di sotto, ed
affermato l'istesso di Mercurio, le cui digressioni, essendo assai minori di
quelle di Venere, necessitano a porlo più propinquo al Sole; tuttavia in questo
luogo, quasi rifiutando quella che egli ha poco fa creduta, e che in effetto è,
verissima costituzione, introduce la falsa, facendo alla Luna succeder
Mercurio, ed a lui Venere. Volsi scusar questo poco di contradizione con dir
che egli non avesse fatto stima di nominar, dopo la Luna, prima Mercurio che
Venere, o questa che quello, come che poco importasse il registrargli
preposteramente in parole, pur che in fatto si ritenessero nella vera disposizione:
ma il vedergli poi provar per via della parallasse che le macchie solari non
sono nella sfera di Mercurio, e soggiugner che tal mezzo non sarebbe per
avventura efficace in Venere per la piccolezza della parallasse simile a quella
del Sole, rende nulla la mia scusa, perché Venere averà delle parallassi
maggiori assai che quelle di Mercurio e del Sole.
Parmi per tanto di scorgere
che Apelle, come d'ingegno libero e non servile, e capacissimo delle vere
dottrine, cominci, mosso dalla forza di tante novità, a dar orecchio ed assenso
alla vera e buona filosofia, e massime in questa parte che concerne alla
costituzione dell'universo, ma che non possa ancora staccarsi totalmente dalle
già impresse fantasie, alle quali torna pur talora l'intelletto abituato dal lungo
uso a prestar l'assenso: il che si scorge altresì, pur in questo medesimo
luogo, mentre egli cerca di dimostrare che le macchie non sono in alcun de gli
orbi della Luna di Venere o di Mercurio, dove ei va ritenendo come veri e reali
e realmente tra loro distinti e mobili quelli eccentrici totalmente o in parte,
quei deferenti, equanti, epicicli etc., posti da i puri astronomi per facilitar
i lor calcoli, ma non già da ritenersi per tali da gli astronomi filosofi, li
quali, oltre alla cura del salvar in qualunque modo l'apparenze, cercano
d'investigare, come problema massimo ed ammirando, la vera costituzione
dell'universo, poi che tal costituzione è, ed è in un modo solo, vero, reale ed
impossibile ad esser altramente, e per la sua grandezza e nobiltà degno d'esser
anteposto ad ogn'altra scibil questione da gl'ingegni specolativi. Io non nego
già i movimenti circolari intorno alla Terra e sopra altro centro che quello di
lei, né tanpoco gli altri moti circolari separati totalmente dalla Terra, cioé
che non la circondano e riserrano dentro i cerchi loro; perché Marte, Giove e
Saturno, con i loro appressamenti e discostamenti, mi accertano di quelli, e
Venere e Mercurio e più i quattro pianeti Medicei; mi fanno toccar con mano
questi, e per consequenza son sicurissimo che ci sono moti circolari che
descrivono cerchi eccentrici ed epicicli: ma che per descriverli tali la natura
si serva realmente di quella faragine di sfere ed orbi figurati da gli
astronomi, ciò reputo io così poco necessario a credersi, quanto accomodato
all'agevolezza de' computi astronomici; e sono d'un parer medio tra quegli
astronomi li quali ammettono non solo i movimenti eccentrici delle stelle, ma
gli orbi e le sfere ancora eccentriche, le quali le conduchino, e quei filosofi
che parimente negano e gli orbi e i movimenti ancora intorno ad altro centro
che quello della Terra. Però, mentre si tratta d'investigar il luogo delle
macchie solari, avrei desiderato che Apelle non l'avesse scacciate da un luogo
reale che si trova tra gli immensi spazii ne i quali si raggirano i piccioli
corpicelli della Luna di Venere e di Mercurio, scacciate, dico, in virtù d'una
immaginaria supposizione, che tali spazii sieno interamente occupati da orbi
eccentrici epicicli e deferenti, disposti, anzi necessitati, a portar con loro
ogn'altro corpo che in essi venisse situato, sì ch'ei non potesse per se stesso
vagare verso niun'altra banda, se non dove con troppo dura catena il ciel
ambiente gli rapisse: e tanto meno vorrei questo, quanto io veggo il medesimo Apelle
a canto a canto conceder questo stesso che prima avea negato. Avea detto che le
macchie non possono essere in alcuno de gli orbi della Luna di Venere o di
Mercurio, perché se in quelli fossero, seguiterebbono il movimento loro:
suppone, dunque, che elleno movimento alcuno proprio aver non vi potessero:
concludendo poi che le siano nell'orbe del Sole, ammette che le vi si muovino
con revoluzioni proprie; sì che le siano potenti a vagar per la solare sfera:
ma se mi sarà conceduto che le possino muoversi per il cielo del Sole, non
doverà essermi negato che le possino similmente discorrer per quel di Venere; e
se mi vien conceduto il muoversi un poco ed il non ubbidire interamente al
rapimento della sfera continente, io non averò per inconveniente il muoversi
molto e 'l non ubbidir punto.
Io non voglio passar un
altro poco di scrupolo che mi nasce sopra questo medesimo luogo, nel chiuder
che fa Apelle la sua ultima illazione: dove par ch'ei determini che le macchie
siano finalmente nel ciel del Sole (ed è ben necessario il porvele, poi che,
per suo parere, le si raggirano intorno ad esso, ed in cerchi molto angusti);
soggiugne poi, quelle non poter essere nell'eccentrico del Sole, né negli
eccentrici “secundum quid”, né in altro orbe, e altro ve ne fosse. Or qui non
posso intendere, in qual modo e possino essere nel cielo del Sole ed intorno al
corpo solare aggirarsi, senza esser in alcun de gli orbi de' quali la sfera del
Sole vien composta.
Li tre argomenti che Apelle
pone appresso per necessariamente convincenti, le macchie muoversi
circolarmente intorno al Sole, par che abbino ben assai del probabile; non però
mancano di qualche ragione di dubitare. Quanto al primo, lo scemar la larghezza
delle macchie vicino al lembo del Sole darebbe segno che le fussero stelle, che
girandosi in cerchi poco più ampli del corpo solare, cominciassero a mostrar la
parte illustrata alla guisa della Luna o di Venere, onde la parte tenebrosa
venisse a diminuirsi. Se non che ad alcuni che diligentemente hanno osservato,
pare che la diminuzione delle tenebre si faccia al contrario di quello che
bisognerebbe, cioè non nella parte che risguarda verso il centro del Sole, ma
nell'aversa; ed a me non appare altro, se non che le si assottigliano. Quanto
al secondo, il dividersi quella, che vicino alla circonferenza pareva una
macchia sola, in molte, ha questa difficoltà, che anco nella parti di mezzo si
scorgono grandissime mutazioni d'accrescimento, di diminuzione, di
accoppiamento e di separazione tra esse macchie; ed io porrò appresso alcune
mutazioni osservate da me. La differenza poi che si scorge tra la velocità del
moto loro circa le parti medie e la tardità nell'estreme, presa per il terzo
argomento, essendo, come pare, molto notabile, parrebbe che arguisse più
presto, quelle dover esser nell'istesso corpo solare e muoversi al movimento di
quello in sé stesso, che il raggirarsegli intorno in altri cerchi, perché simil
differenza di velocità resterebbe quasi impercettibile al semplice senso, ogni
volta che tali cerchi per qualche notabile spazio, ben che non molto grande, si
allargassero dalla superficie del Sole, come nella medesima figura posta da
Apelle si comprende. E qui par che nasca in lui un poco di contradizzione a sé
stesso: perché in questo luogo è necessario porre i cerchi delle conversioni
delle macchie vicinissimi al globo solare; altramente l'accrescimento della
velocità del moto, e la separazione ed allontanamento delle macchie verso il
mezzo del disco, le quali presso alla circonferenza mostravano di toccarsi,
resterebbono nulli: all'incontro, dall'argomento col quale ei poco di sopra
provò le macchie non esser contigue al Sole, bisogna che necessariamente ei
concludesse, i detti cerchi esser dal medesimo assai lontani; poi che solamente
la quinta parte al più della lor circonferenza poteva restar interposta tra 'l
disco solare e l'occhio nostro, già che, traversando le macchie l'emisfero
veduto in 15 giorni, non erano ancora ritornate a comparire in due mesi.
Bisogna, dunque, diligentemente osservare con qual proporzione vada crescendo,
e poi diminuendo, la detta velocità dal primo apparir di qualche macchia
all'ultimo ascondersi; perché da tal proporzione si potrà poi arguire, se il
movimento suo è fatto nella superficie stessa del corpo solare, o pure in
qualche cerchio da quella separato, posto però che tal mutazione di macchie
dependa da semplice movimento circolare.
Restaci da considerar quello
che Apelle determina circa l'essenza e sustanza di esse macchie: ch'è in somma,
che le non siano né nugole né comete, ma stelle che vadino raggirandosi intorno
al Sole. Circa a cotal determinazione, io confesso a V. S. non aver sin ora
tanto di resoluto appresso di me, ch'io m'assicuri di stabilire ed affermare
conclusione alcuna come certa; essendo molto ben sicuro, la sustanza delle
macchie poter essere mille cose incognite ed inopinabili a noi, e gli accidenti
che in esse scorgiamo, cioè la figura l'opacità ed il movimento, per esser
comunissimi, o niuna o poca e molto general cognizione ci possono
somministrare: onde io non crederei che di biasimo alcuno fosse degno quel
filosofo, il qual confessasse di non sapere, e di non poter sapere, qual sia la
materia delle macchie solari. Ma se noi vorremo, con una certa analogia alle
materie nostre familiari e conosciute, proferir qualche cosa di quello che le
sembrino di poter essere, io sarei veramente di parere in tutto contrario
all'Apelle; perché ad esse non mi par che si adatti condizione alcuna
dell'essenziali che competono alle stelle, ed all'incontro non trovo in quelle
condizione alcuna, che di simili non si vegghino nelle nostre nugole. Il che
troveremo discorrendo in tal guisa.
Le macchie solari si
producono e si dissolvono in termini più e men brevi; si condensano alcune di
loro e si distraggono grandemente da un giorno all'altro; si mutano di figure,
delle quali le più sono irregolarissime, e dove più e dove meno oscure, ed
essendo o nel corpo solare o molto a quello vicine, è necessario che siano moli
vastissime; sono potenti, per la loro difforme opacità, a impedir più e meno
l'illuminazion del Sole; e se ne producono talora molte, tal volta poche, ed
anco nessuna. Ora, moli vastissime ed immense, che in tempi brevi si produchino
e si dissolvino, e che talora durino più lungo tempo e tal ora meno che si
distragghino e si condensino, che facilmente vadino mutandosi di figura, che
siano in queste parti più dense ed opache ed in quelle meno, altre non si
trovano appresso di noi fuori che le nugole; anzi, che tutte l'altre materie
sono lontanissime dalla somma di tali condizioni. E non è dubbio alcuno, che se
la Terra fosse per sé stessa lucida, e che di fuori non li sopragiugnesse
l'illuminazione del Sole, a chi potesse da grandissima lontananza risguardarla,
ella veramente farebbe simili apparenze: perché, secondo che or questa ed or
quella provincia fosse dalle nuvole ingombrata, si mostrerebbe sparsa di
macchie oscure, dalle quali, secondo la maggior o minor densità delle lor
parti, verrebbe più o meno impedito lo splendor terrestre; onde esse dove più e
dove meno oscure apparirebbono; vedrebbonsene or molte; or poche, ora
allargarsi, ora ristringersi; e se la Terra in sé stessa si rivolgesse, quelle
ancora il suo moto seguirebbono; e per esser di non molta profondità rispetto
all'ampiezza secondo la quale comunemente elle si distendono, quelle che nel
mezzo dell'emisfero veduto apparirebbono molto larghe, venendo verso
l'estremítà parrebbono ristringersi; ed in somma accidente alcuno non credo che
si scorgesse, che simile non si vegga nelle macchie solari. Ma perché la Terra
è oscura, e l'illuminazione viene dal lume esterno del Sole, se ora potesse da
lontanissimo luogo esser veduta, non si vedrebbe assolutamente in lei negrezza
o macchia alcuna cagionata dallo spargimento delle nugole, perché queste ancora
riceverebbono e refletterebbono il lume del Sole. [...]
Da queste osservazioni e da
altre fatte, e da quelle che potranno di giorno in giorno farsi, manifestamente
si raccoglie, niuna materia esser tra le nostre, che imiti più gli accidenti di
tali macchie, che le nugole: e le ragioni che Apelle adduce per mostrar che le
non possin esser tali, mi paiono di pochissima efficacia. Perché al dir egli:
“Chi porrebbe mai nubi intorno al Sole?”, risponderei: “Quello che vedesse tali
macchie, e che volesse dir qualche verisimile della loro essenza; perché non
troverà cosa alcuna da noi conosciuta che più le rassimigli.”
All'interrogazione ch'ei fa, quant'esse fussero grandi, direi: “Quali noi le
veggiamo essere in comparazione del Sole; grandi quanto quelle che talvolta
occupano una gran provincia della Terra”; e se tanto non bastasse, direi due,
tre, quattro e dieci volte tanto. E finalmente, al terzo impossibile ch'ei
produce, come esse potessero far tant'ombra, risponderei, la lor negrezza esser
minore di quella che ci rappresenterebbono le nostre nugole più dense, quando
tra l'occhio nostro ed il Sole fossero interposte: il che si potrà osservare
benissimo, quando tal volta una delle più oscure nugole ricuopre una parte del
Sole, e che nella parte scoperta vi sia alcuna delle macchie, perché si
scorgerà tra la negrezza di questa e di quella non piccola differenza, ancor
che l'estremità della nugola, che traversa il Sole, non possa esser di gran
profondità; perloché possiamo arguire che una crassissima nugola potrebbe far
una negrezza molto maggiore di quella delle più scure macchie. Ma quando pur
ciò non fosse, chi ci vieterebbe il credere e dire, alcuna delle nubi solari
esser più densa e profonda delle terrene?
Io non per questo affermo,
tali macchie esser nugole della medesima sustanza delle nostre, costituite da
vapori aquei sollevati dalla Terra ed attratti dal Sole; ma solo dico che noi
non aviamo cognizione di cosa alcuna che più le rassimigli: siano poi o vapori,
o esalazioni, o nugole, o fumi prodotti dal corpo solare, o da quello attratti
da altre bande, questo a me è incerto, potendo esser mille altre cose
impercettibili da noi.
Dalle cose dette si può
raccòrre, come a queste macchie mal convenga il nome di stelle: poi che le
stelle, o siano fisse o siano erranti, mostrano di mantener sempre la loro
figura, e questa essere sferica; non si vede che altre si dissolvino ed altre
di nuovo si produchino, ma sempre si conservano le medesime; ed hanno i
movimenti loro periodici, li quali dopo alcun determinato tempo ritornano: ma queste
macchie non si vede che ritornino le medesime, anzi all'incontro alcune si
veggono dissolvere in faccia del Sole; e credo che in vano si aspetti il
ritorno di quelle che par ad Apelle che possino rivolgersi intorno al Sole in
cerchi molto angusti. Mancano, dunque, delle principali condizioni che
competono a quei corpi naturali a i quali noi abbiamo attribuito il nome di
stelle. Che poi le si debbino chiamare stelle perché son corpi opachi, e più
densi della sostanza del cielo, e però che resistino al Sole, e da quello
grandemente venghino illustrate in quella parte ch'è percossa da i raggi, e
dall'opposta produchino ombra molto profonda etc., queste son condizioni che
competono ad ogni sasso, al legno, alle nugole più dense, ed in somma a tutti i
corpi opachi: ed una palla di marmo resiste per la sua opacità al lume del
Sole, da quello viene illustrata, come la Luna o Venere, e dalla parte opposta
produce ombra, tal che per questi rispetti potrebbe nominarsi una stella; ma
perché gli mancano l'altre condizioni più essenziali, delle quali sono altresì
spogliate le macchie solari, però par che il nome di stella non deva esserli
attribuito.
Io non vorrei già, che
Apelle annumerasse in questa schiera come egli fa, i compagni di Giove (credo
che voglia intender de' quattro pianeti Medicei); perché loro si mostrano
costantissimi come ogn'altra stella, sempre lucidi, eccetto che quando
incorrono nell'ombra di Giove, perché allora s'eclissano, come la Luna in
quella della Terra; hanno i lor periodi ordinatissimi e tra di loro differenti,
e già da me precisamente ritrovati; né si muovono in un cerchio solo, come
Apelle mostra o d'aver creduto o almeno pensato che altri abbino creduto, ma
hanno i lor cerchi distinti e di grandezze diverse, intorno a Giove come lor centro,
le quali grandezze ho parimente ritrovate; come anco mi son note le cause del
quando e perché or l'uno or l'altro di loro declina o verso borea o verso
austro in relazione a Giove, e forse potrei aver le risposte all'obiezzioni che
Apelle accenna cadere in questa materia, quando ei l'avesse specificate. Ma che
tali pianeti siano più de i quattro sin qui osservati, come Apelle dice di
tener per certo, forse potrebbe esser vero; e l'affermativa così resoluta di
persona, per quel ch'io stimo, molto intendente, mi fa creder ch'ei ne possa
aver qualche gran coniettura, della quale io veramente manco: e però non
ardirei d'affermare cosa alcuna, perché dubiterei di non m'aver poi col tempo a
disdire. E per questo medesimo rispetto non mi risolverei a porre intorno a
Saturno altro che quello che già osservai e scopersi, cioè due piccole stelle,
che lo toccano una verso levante e l'altra verso ponente, nelle quali non s'è
mai per ancora veduta mutazione alcuna, né resolutamente è per vedersi per
l'avvenire, se non forse qualche stravagantissimo accidente, lontano non pur da
gli altri movimenti cogniti a noi, ma da ogni nostra immaginazione. Ma quella
che pone Apelle, del mostrarsi Saturno ora oblongo ed or accompagnato con due
stelle a i fianchi, creda pur V. S. ch'è stata imperfezzione dello strumento o
dell'occhio del riguardante; perché, sendo la figura di Saturno così oOo, come
mostrano alle perfette viste i perfetti strumenti, dove manchi tal perfezzione
apparisce così O non si distinguendo perfettamente la separazione e figura delle tre
stelle. Ma io, che mille volte in diversi tempi con eccellente strumento l'ho
riguardato, posso assicurarla che in esso non si è scorta mutazione alcuna: e
la ragione stessa, fondata sopra l'esperienze che aviamo di tutti gli altri
movimenti delle stelle, ci può render certi che parimente non vi sia per
essere; perché, quando in tali stelle fosse movimento alcuno simile a i
movimenti delle Medicee o di altre stelle, già doveriano essersi separate o
totalmente congiunte con la principale stella di Saturno, quando anche il
movimento loro fosse mille volte più tardo di qualsivoglia altro di altra
stella che vadia vagando per lo cielo.
A quello che da Apelle vien
posto per ultima conclusione cioè che tali macchie siano più presto stelle
erranti che fisse, e che tra il Sole e Mercurio e Venere ce ne siano
assaissime, delle quali quelle sole ci si manifestino che s'interpongono tra il
Sole e noi; dico, quanto alla prima parte, che non credo che le siano né
erranti né fisse né stelle, né meno che si muovino intorno al Sole in cerchi
separati e lontani da quello: e se ad un amico padrone dovessi dir in
confidenza l'opinion mia, direi che le macchie solari si producessero e
dissolvessero intorno alla superficie del Sole, e che a quella fossero
contigue, e che il medesimo Sole, rivolgendosi in sé stesso in un mese lunare
in circa, le portasse seco, e forse riconducendone tal volta alcuna di loro di
più lunga durazione che non è il tempo d'una sua conversione, ma tanto mutate
di figura e di accompagnature, che non possiamo agevolmente riconoscerle: e per
quanto sin ora s'estende la mia coniettura, ho grande speranza che V. S. abbia
a vedere questo negozio terminato in questo che gli ho accennato. Che poi possa
essere qualche altro pianeta tra il Sole e Mercurio, il quale si vadia movendo
intorno al Sole, ed a noi resti invisibile per le sue piccole digressioni e
solo potesse farcisi sensibile quando passasse linearmente sotto il disco
solare, ciò non ha appresso di me improbabilità alcuna, e parmi egualmente
credibile che non vene siano e che vene siano: ma non crederei già gran
moltitudine, perché se fossero in gran numero, ragionevolmente spesso se ne
doverebbe vedere alcuno sotto il Sole, il che a me sin ora non è accaduto, né
vi ho veduto altro che di queste macchie; e non ha del probabile che tra quelle
possa esser passata alcuna sì fatta stella, ben che questa ancora fosse per
mostrarsi, quant'all'aspetto, in forma d'una macchia nera. Non ha, dico, del
probabile, perché il movimento suo doverebbe apparire uniforme, e velocissimo
rispetto a quel delle macchie: velocissimo, perché, movendosi in cerchio minore
di quello di Mercurio, è verisimile secondo l'analogia de i movimenti di tutti
gli altri pianeti, che 'l suo periodo fosse più breve, ed il suo moto più
veloce del moto del periodo di Mercurio; il qual Mercurio nel passar sotto il
Sole traversa il suo disco in 6 ore in circa, tal che altro pianeta più veloce
di moto non gli doverebbe restar congiunto per più lungo spazio; se già non si
volesse far muovere in un cerchio così piccolo, che quasi toccasse il corpo
solare, il che par che avesse poi troppo del chimerico; ma in cerchi pur che
fussero di diametro due o tre volte maggior del diametro del Sole, seguirebbe
quanto ho detto: ora le macchie restano molti giorni congiunte col Sole:
adunque tra loro, o sotto loro spezie, non è credibile che passi pianeta
alcuno. Il quale, oltre alla velocità, doverebbe ancora muoversi quasi
uniformemente, sendo però per qualche spazio notabile distante dal Sole: perché
poca parte del suo cerchio resterebbe sottoposta al Sole, e quella poca,
diretta e non obliquamente opposta a i raggi dell'occhio nostro; per lo che
parti eguali di lei sarebbon vedute sotto angoli insensibilmente diseguali,
cioè quasi eguali, onde il moto in essa apparirebbe uniforme: il che non accade
nel moto delle macchie, le quali velocemente trapassano le parti di mezzo, e
quanto più sono vicine alla circonferenza, tanto più pigramente caminano. Poche,
dunque, in numero possono essere verisimilmente le stelle che tra il Sole e
Mercurio vadano vagando, e meno tra Mercurio e Venere: perché, avendo queste
necessariamente le lor massime digressioni maggiori di quelle di Mercurio,
doverebbono, nella guisa di Venere e dell'istesso Mercurio, esser visibili,
come splendide, e massime sendo poco distanti dal Sole e dalla Terra; sì che
per la poca lontananza da noi e per l'efficace illuminazione del Sole vicino si
farebbono vedere, mediante la vivezza del lume, quando ben fossero piccolissime
di mole.
Io conosco d'aver con gran
lunghezza di parole e con poca resoluzione soverchiamente tediato V. S.
Illustrissima. Riconosca nella lunghezza il gusto che ho di parlar seco, ed il
desiderio di obedirla e servirla, pur che le forze me 'l permettessero; e per
questi rispetti perdoni la troppa loquacità, e gradisca la prontezza
dell'affetto: la irresoluzione resti scusata per la novità e difficoltà della
materia, nella quale i vari pensieri e le diverse opinioni che per la fantasia
sin ora mi son passate, or trovandovi assenso or repugnanza e contradizzione,
m'hanno reso in guisa timido e perplesso, che non ardisco quasi d'aprir bocca
per affermar cosa nessuna. Non per questo voglio disperarmi ed abbandonar
l'impresa, anzi voglio sperar che queste novità mi abbino mirabilmente a
servire per accordar qualche canna di questo grand'organo discordato della
nostra filosofia; nel qual mi par veder molti organisti affaticarsi in vano per
ridurlo al perfetto temperamento, e questo perché vanno lasciando e mantenendo
discordate tre o quattro delle canne principali, alle quali è impossibile cosa
che l'altre rispondino con perfetta armonia.
Io desidero, come servitore
di S. V., esser a parte dell'amicizia che tien con Apelle, stimandolo io
persona di sublime ingegno ed amator del vero: però la supplico a salutarlo
caramente in mio nome, facendogl'intendere che fra pochi giorni gli manderò alcune
osservazioni e disegni delle macchie solari d'assoluta giustezza, sì nelle
figure d'esse macchie come ne' siti di giorno in giorno variati, senza error
d'un minimo capello, fatte con un modo esquisitissimo ritrovato da un mio
discepolo, le quali potranno essergli per avventura di giovamento nel
filosofare circa la loro essenza. È tempo di finir di noiarla: però,
baciandogli con ogni riverenza le mani, nella sua buona grazia mi raccomando, e
dal Signore Dio gli prego somma felicità.
Dalla Villa delle Selve, li
4 di Maggio 1612.
Di V. S.
Illustrissima
Devotissimo
Servitore
Galileo Galilei L.
SECONDA LETTERA DEL SIG.
GALILEO GALILEI
AL SIG. MARCO VELSERI DELLE
MACCHIE SOLARI
(Firenze, 14 agosto 1612)
Illustrissimo Sig. e Padron
Colendissimo,
Inviai più giorni sono una
mia lettera assai lunga a V. S. Illustrissima, scritta in proposito delle cose
contenute nelle tre lettere del finto Apelle, dove promossi quelle difficoltà
che mi ritraevano dal prestar assenso alle opinioni di quello autore, e più le
accennai in parte dove inclinava allora il mio pensiero; dalla quale
inclinazione io non pure da quel tempo in qua non mi sono rimosso, ma
totalmente mi vi sono confermato, mostrandomi le continuate osservazioni di
giorno in giorno, con ogni rincontro possibile ad aversi e col mancamento di
qualsivoglia contradizzione, essersi la mia opinione incontrata col vero: di
che mi è parso darne conto a V. S., con l'occasione del mandargli alcune figure
di esse macchie con giustezza disegnate, ed anco il modo del disegnarle,
insieme con una copia di un mio trattatello intorno alle cose che stanno sopra
l'acqua o che in essa descendono, che pur ora si è finito di stampare.
Replico dunque a V. S.
Illustrissima e più resolutamente confermo, che le macchie oscure, le quali col
mezo del telescopio si scorgono nel disco solare, non sono altramente lontane
dalla superficie di esso, ma gli sono contigue, o separate di così poco
intervallo, che resta del tutto impercettibile: di più, non sono stelle o altri
corpi consistenti e di diuturna durazione, ma continuamente altre se ne
producono ed altre se ne dissolvono, sendovene di quelle di breve durazione,
come di uno, due o tre giorni, ed altre di più lunga, come di 10, 15 e, per mio
credere, anco di 30 e 40 e più, come appresso dirò: sono per lo più di figure
irregolarissime, le quali figure si vanno mutando continuamente, alcune con
preste e differentissime mutazioni, ed altre con più tardezza e minor
variazione: si vanno ancora alterando nell'incremento e decremento dell'oscurità,
mostrando come tal ora si condensano e tal ora si distraggono e rarefanno;
oltre al mutarsi in diversissime figure, frequentemente si vede alcuna di loro
dividersi in tre o quattro, e spesso molte unirsi in una, e ciò non tanto
vicino alla circonferenza del disco solare, quanto ancora circa le parti di
mezo: oltre a questi disordinati e particolari movimenti, di aggregarsi insieme
e disgregarsi, condensarsi e rarefarsi e cangiarsi di figure, hanno un massimo
comune ed universal moto, col quale uniformemente ed in linee tra di loro
parallele vanno discorrendo il corpo del Sole: da i particolari sintomi del
qual movimento si viene in cognizione, prima, che il corpo del Sole è
assolutamente sferico; secondarianente, ch'egli in sé stesso e circa il proprio
centro si raggira, portando seco in cerchi paralleli le dette macchie, e
finendo una intera conversione in un mese lunare in circa, con rivolgimento
simile a quello de gli orbi de i pianeti, cioè da occidente verso oriente. Di
più, è cosa degna di esser notata, come la moltitudine delle macchie par che
caschi sempre in una striscia o vogliamo dir zona del corpo solare, che vien
compresa tra due cerchi che rispondono a quelli che terminan le declinazioni de
i pianeti, e fuori di questi limiti non mi par di aver sin ora osservata
macchia alcuna, ma tutte dentro a tali confini; sì che né verso borea né verso
austro mostrano di declinar dal cerchio massimo della conversion del Sole più
di 28 0 29 gradi in circa.
Le loro differenti densità e
negrezze, le mutazioni di figure e gli accozzamenti e le separazioni sono per
sé stesse manifeste a senso, senz'altro bisogno di discorso; onde basteranno
alcuni semplici rincontri di tali accidenti sopra i disegni che gli mando, li
quali faremo più a basso: ma che le siano contigue al Sole e che a rivolgimento
di quello venghino portate in giro, ha bisogno che la ragione discorrendo lo
deduca e concluda da certi particolari accidenti che le sensate osservazioni ci
somministrano.
E prima, il vederle sempre
muoversi con un moto universale e comune a tutte, ancor che in numero ben
spesso siano più di 20 ed ancor 30, era fermo argomento, una sola esser la
causa d tale apparente mutazione, e non che ciascheduna da per sé andasse
vagando nella guisa de i pianeti intorno al corpo solare, e molto meno in
diversi cerchi e diverse distanze dal medesimo Sole; onde si doveva
necessariamente concludere, o che elle fossero in un orbe solo, il quale a
guisa di stelle fisse le portasse intorno al Sole, o vero che le fossero
nell'istesso corpo solare, il quale, rivolgendosi in sé stesso, seco le
conducesse. Delle quali due posizioni, questa seconda, per mio parere, è vera,
e l'altra falsa; sì come falsa ed impossibile si troverà esser qualsivoglia
altra posizione che assumere si volesse, come tenterò di dimostrare col mezo di
manifeste repugnanze e contradizzioni.
All'ipotesi che le siano
contigue alla superficie del Sole e che dal rivolgimento di quello venghino
portate in volta, rispondono concordemente tutte l'apparenze, senza che
s'incontri inconveniente o difficoltà veruna. Per il che dichiarar, è ben che
determiniamo nel globo del Sole i poli, i cerchi, le lunghezze e le larghezze,
conformi a quelle che noi intendiamo nella celeste sfera. Però, dunque, quando
il Sole si rivolga in sé stesso e sia di superficie sferica, i due punti
stabili si diranno i suoi poli, e tutti gli altri punti notati nella sua
superficie descriveranno circonferenze di cerchi paralleli fra di loro,
maggiori o minori secondo la maggiore o minore distanza da i poli; e massimo
sarà il cerchio di mezzo, egualmente distante da ambedue i poli. La longitudine
o lunghezza della superficie solare sarà la dimensione che si considera secondo
l'estensione delle circonferenze de' cerchi detti; ma la latitudine o larghezza
sarà la dilatazione per l'altro verso, cioè dal cerchio massimo verso i poli:
onde la lunghezza delle macchie si chiamerà la dimensione presa con una linea
parallela a i sopradetti cerchii, cioè presa per quel verso secondo 'l quale si
fa la conversione del Sole; e la larghezza s'intenderà esser quella che
s'estende verso i poli, e che vien determinata da una linea perpendicolare alla
linea della lunghezza.
Dichiarati questi termini,
cominceremo a considerar tutti i particolari accidenti che si osservano nelle
macchie solari, da i quali si possa venire in cognizione del sito e movimento
loro. E prima, il mostrarsi generalmente le macchie, nel lor primo apparir e
nell'ultimo occultarsi vicino alla circonferenza del Sole, di pochissima
lunghezza ma di larghezza eguale a quella che hanno quando sono nelle parti più
interne del disco solare; a quelli che intenderanno, in virtù di perspettiva,
ciò che importi lo sfuggimento della superficie sferica vicino all'estremità
dell'emisfero veduto, sarà manifesto argomento sì della globosità del Sole,
come della prossimità delle macchie alla solar superficie, e del venir esse poi
portate sopra la medesima superficie verso le parti di mezo, scoprendosi sempre
accrescimento nella lunghezza e mantenendosi la medesima larghezza. E se bene
non tutte si mostrano, quando sono vicinissime alla circonferenza, egualmente
attenuate e ridotte a una sottigliezza d'un filo, ma alcune formano il loro
ovato più gracile ed altre meno, ciò proviene perché le non sono semplici
macchie superficiali, ma hanno grossezza ancora, o vogliamo dir altezza, ed
altre maggiore, altre minore; sì come nelle nostre nugole accade, le quali,
distendendosi per lo più, quanto alla lunghezza e larghezza, decine e tal or
centinaia di miglia, quanto poi alla grossezza son ben or più ed or meno
profonde, ma non si vede che tal profondità passi molte centinaia o al più
migliaia di braccia. Così, potendo esser la grossezza delle macchie solari,
ancor che picciola in comparazione dell'altre due dimensioni, maggiore in una macchia
e minore in un'altra, accaderà che le macchie più sottili, vicine alla
circonferenza del Sole, dove vengono vedute per taglio, si mostrino
gracilissime (e massime perché la metà interiore di esso taglio viene
illustrata dal lume prossimo del Sole), ed altre di maggior profondità
apparischino più grosse. Ma che molte di loro si riducessero alla sottigliezza
di un filo, come l'esperienza ci insegna, ciò non potrebbe in conto alcuno
accadere se il movimento col quale mostrano di traversare il disco del Sole
fosse fatto in cerchii lontani, ben che per breve intervallo, dal globo solare;
perché la diminuzion grande delle lunghezze si fa sullo sfuggimento massimo,
cioè su la svolta del cerchio, la quale verrebbe a cascar fuori del corpo del
Sole, quando le macchìe fossero portate in circonferenze per qualche spazio
notabile lontane dalla superficie di lui.
Notasi, nel secondo luogo,
la quantità de gli spazii apparenti secondo i quali le macchie medesime
mostrano di andarsi movendo di giorno in giorno; ed osservasi che gli spazii
passati in tempi eguali dalla medesima macchia appariscono sempre minori,
quanto più si trovano vicini alla circonferenza del Sole; e vedesi,
diligentemente osservando, che tali diminuzioni ed incrementi, notati l'un dopo
l'altro con l'interposizione di tempi eguali, molto proporzionatamente
rispondono a i sini versi e loro eccessi congruenti ad archi eguali: il qual fenomeno
non ha luogo in verun altro movimento che nel circolar contiguo all'istesso
Sole; perché in cerchii, ancor che non molto, lontani dal globo solare, gli
spazii passati in tempi eguali incontro alla superficie del Sole apparirebbono
pochissimo tra di loro differenti.
Il terzo accidente, che
mirabilmente conferma questa conclusione, si cava da gl'interstizii che sono
tra macchia e macchia, de i quali altri si mantengono sempre gli stessi, altri
grandissimamente si agumentano verso le parti di mezo del disco solare, li
quali furon avanti, e son poi dopo, brevissimi, ed anco quasi insensibili
vicino alla circonferenza, ed altri pur si mutano, ma con mutazioni
differentissime; tuttavia son tali, che simili non potrebbono incontrarsi in
altro moto che nel circolare, fatto da diversi punti diversamente posti sopra
un globo che in sé stesso si converta. Le macchie che hanno la medesima
declinazione, cioè che sono poste nell'istesso parallelo, nel primo apparire
par quasi che si tocchino, quando la lor vera distanza sia breve; che se sarà
alquanto maggiore, appariranno ben separate, ma più vicine assai che quando si
trovano verso il mezo del disco solare; e secondo che si discostano dalla
circonferenza, vengono separandosi ed allontanandosi l'una dall'altra sempre più,
sin che si trovano con pari distanze remote dal centro del disco, nel qual
luogo è la lor massima separazione; d'onde partendosi, tornano di nuovo a
ravvicinarsi tra di loro più e più, secondo che s'appressano alla
circonferenza: e se con accuratezza si noteranno le proporzioni di tali
appressamenti e discostamenti, si vedrà che parimente non possono aver luogo,
se non in movimenti fatti sopra l'istessa superficie del globo solare.
Dico di più, che tali
macchie non solamente sono vicinissime e forse contigue, alla superficie del
Sole, ma, oltre a ciò, si elevano poco da quella, in quanto alla lor grossezza
o vogliamo dire altezza; cioè dico che sono assai sottili, in comparazion della
lunghezza e larghezza loro. Il che raccolgo dall'apparire che fanno i loro
interstizii divisi e distinti ben spesso sino all'ultimo lembo del disco
solare, ancor che si osservino macchie poco tra lor distanti e poste
nell'istesso parallelo. [...] Avvertisco di più, che non tutte le macchie tra
di sé vicinissime si mostrano separate sino all'ultima circonferenza, anzi
alcune par che si unischino: il che può accadere talvolta per essere, la più
remota dalla circonferenza, più grossa ed alta della più vicina; oltre che ci
sono i movimenti lor proprii irregolati e vagabondi, che possono cagionare
varie apparenze in questo particolare: ma noto bene universalmente, che la
negrezza di tutte si diminuisce assai assai quando son vicine all'estremo
termine del disco; il che accade, per mio parere, dallo scoprirsi il taglio
illuminato e dallo ascondersi molto i dorsi oscuri delle macchie, le cui
tenebre restano assai confuse a gli occhi nostri dalla copia della luce. Io
potrei addurre a V. S. molti altri esempli, ma sarei troppo prolisso, e mi
riserberò a scriverne più diffusamente in altro luogo; e voglio per ora
contentarmi di avergli accennato il mio parere, nato dalla continuazione di
molte osservazioni: che è in somma, che la lontananza delle macchie dalla
superficie del Sole sia o nulla, o così poca che non possa cagionare accidente
alcuno comprensibile da noi e che la profondità o grossezza loro sia parimente
poca in comparazion dell'altre due dimensioni, imitando anco in questo
particolare le nostre maggiori nugolate.
E questi sono gl'incontri
che aviamo dalle macchie che si trovano nell'istesso parallelo. Le macchie poi
che sono poste in diversi paralleli, ma sono, per così dire, sotto 'l medesimo
meridiano, cioè che la linea che le congiugne, taglia i paralleli a squadra, e
non obliquamente, non mutano distanza fra di loro, ma quella che ebbero nel
loro primo comparire, vanno mantenendo sempre sino all'ultima occultazione: le
altre poi che sono in diversi paralleli ed in diversi meridiani, vanno pur
crescendo e poi diminuendo i lor intervalli, ma con maggiori differenze quelle
che si rimirano più obliquamente, cioè che sono in paralleli più vicini ed in
meridiani più remoti, e con minor varietà di all'incontro quelle che meno
obliquamente sono tra loro situate: e chi bene andrà commensurando tutte le
simili diversità, troverà il tutto rispondere e con giusta simmetria concordar
solamente con la nostra ipotesi, e discordar da qualunque altra. Devesi però
tuttavia avvertire, che non sendo tali macchie totalmente fisse ed immutabili
nella faccia del Sole, anzi andandosi continuamente per lo più mutando di
figura ed aggregandosi alcune insieme ed altre disgregandosi, può per simili
picciole mutazioni cagionarsi qualche poco di varietà ne i rincontri precisi
delle narrate osservazioni; le quali diversità, per la lor picciolezza in
proporzion della massima ed universal conversione del Sole, non dovran
partorire scrupolo alcuno a chi giudiziosamente andrà, per così dire, tarando
l'eguale e general movimento con queste accidentarie alterazioncelle.
Ora, quanto, per tutti
questi rincontri, l'apparenze che si osservano nelle macchie, puntualmente
rispondono all'esser loro contigue alla superficie del Sole, all'esser quella
sferica, e non d'altra figura, ed all'esser dal medesimo Sole portate in giro
dal suo rivolgimento in sé stesso, tanto con incontri di manifeste repugnanze
contrariano ad ogni altra posizione che si tentasse di dargli.
Imperò che se alcuno volesse
costituirle nell'aria, dove pare che altre impressioni simili a quelle
continuamente si vadano producendo e dissolvendo, con accidenti conformi di
aggregarsi e dividersi, condensarsi e rarefarsi, e con mutazioni di figure
inordinatissime; prima, ingombrando esse molto piccoli spazii nel disco solare
mentre fra l'occhio nostro e quello s'interpongono, ed essendo così vicine alla
Terra, bisognerebbe che le fossero a moli non maggiori di picciolissime
nugolette, poi che ben minima domanderemo una nugola che non basti ad
occultarci il Sole: e se così è, come in sì piccole moli sarà tal densità di
materia che possa con tanta contumacia resistere alla forza de i raggi solari,
sì che né le penetrino col lume, né le dissolvino per molti e molti giorni con
la lor virtù? Come, generandosi nelle regioni circonvicine alla Terra, e, s'io
bene stimo, per detto altrui forse delle evaporazioni di quella, come, dico,
cascano tutte tra 'l Sole e noi, e non in altra parte dell'aria? poi che niuna
se ne scorge sotto la faccia della Luna illuminata, né si vede separata dal
Sole, in aspetto oscuro o vero illustrata da i suoi raggi, come delle nugole
accade, delle quali continuamente ne veggiamo dell'oscure e dell'illuminate,
intorno al Sole ed in ogni altra parte dell'aria? Più, scorgendo noi la materia
di tali macchie esser per sua natura mutabile, poi che senza regola alcuna
s'aggregano fra di loro e si separano, qual virtù sarà poi quella che gli possa
communicare e con tanta regola contemperar il movimento diurno, sì che mai
preterischino di accompagnare il Sole, se non quanto un movimento comune a
tutte e regolato le fa trascorrere in 15 giorni in circa il disco solare, dove
che l'altre aeree impressioni trascorrono in minimi momenti di tempo non pur la
faccia del Sole ma spazii molto maggiori?
A simili ragioni, come molto
probabili, risponder non si può senza introdur grand'improbabilità. Ma ci
restano le dimostrazioni necessarie e che non ammettono risposta veruna: delle
quali una è il vedersi quelle, nel tempo medesimo, da diversi luoghi della
Terra e molto tra di loro distanti, disposte con l'istesso ordine e nelle parti
medesime del Sole, sì come per varii rincontri di disegni ricevuti da diverse
bande ho potuto osservare, argomento necessario della lor grandissima
lontananza dalla Terra al che con ammirabil assenso si accorda il cader tutte
dentro a quella fascia del globo solare che risponde allo spazio della sfera
celeste che vien compreso dentro a i tropici o, per meglio dire dentro a i due
paralleli che determinano le massime declinazioni de i pianeti; il che non devo
io credere che sia particolar privilegio della città di Firenze, dove io abito,
ma ben devo stimare che dentro a i medesimi confini siano vedute da ogni altro
luogo quanto si voglia più australe o boreale. Di più, il non fare altra
mutazione di luogo sotto il disco solare che quella universale e comune a tutte
le macchie, con la quale in 15 giorni in circa lo traversano, e quelle piccole
ed accidentarie secondo le quali tal ora alcune si aggregano ed altre si
separano, necessariamente convince a porle molto superiori alla Luna; perché
altramente, come ben nota ancora Apelle, bisognerebbe che nel tempo tra 'l
nascere e 'l tramontar del Sole tutte uscissero fuori del disco solare mediante
la parallasse. E se pure alcuno volesse attribuir loro qualche movimento
proprio, per il quale la diversità d'aspetto fosse compensata, non potrebbono
le medesime macchie, vedute oggi da noi, tornar a mostrarsi dimane; il che è
contro l'esperienza poi che non pure ritornano a farsi vedere il secondo
giorno, ma il terzo e quarto, e sino al quartodecimo.
Son dunque le macchie, per
necessarie dimostrazioni, superiori di assai alla Luna; ed essendo nella region
celeste, niun'altra posizione che nella superficie del Sole, e niun altro
movimento fuori che la conversion di quello in sé stesso, se gli può senz'altre
repugnanze assegnare. Imperò che tra tutte l'imaginabili ipotesi, la più
accomodata a satisfare alle apparenze narrate sarebbe porre una sferetta tra il
corpo solare e noi, sì che l'occhio nostro ed i centri di quella e del Sole
fossero in linea retta, e, più, che il suo diametro apparente fosse eguale a quel
del corpo solare, nella superficie della quale sfera si producessero e
dissolvessero tali macchie, e dal rivolgimento della medesima in sé stessa
venissero portate in volta: tal posizion, dico, che satisferebbe alle
sopradette apparenze, quando però se gli assegnasse luogo tanto superiore alla
Luna, che fosse libero dall'oppugnazione delle parallassi, così di quella che
depende dal moto diurno come dell'altra che nasce dalle diverse posizioni in
Terra, e questo acciò che a tutte l'ore ed a tutti i riguardanti i centri di
detta sfera e del Sole si mantenessero nella medesima linea retta; ma con tutto
questo una inevitabil difficoltà ci convince, ed è che noi doveremmo vedere le
macchie muoversi sotto il disco solare con movimenti contrarii: imperò che quelle
che fossero nell'emisfero inferiore della imaginata sfera, si moverebbono verso
il termine opposto a quello verso il quale caminassero l'altre, poste
nell'emisfero superiore; il che non si vede accadere. Oltre che, sì come a
gl'ingegni specolativi e liberi, che ben intendono non esser mai stato con
efficacia veruna dimostrato, né anco potersi dimostrare, che la parte del mondo
fuori del concavo dell'orbe lunare non sia soggetta alle mutazioni ed
alterazioni, niuna difficoltà o repugnanza al credibile ha apportato il veder
prodursi e dissolversi tali macchie in faccia al Sole stesso; così gli altri,
che vorrebbono la sustanza celeste inalterabile, quando si vegghino astretti da
ferme e sensate esperienze a porre esse macchie nella parte celeste, credo che
poco fastidio di più gli darà il porle contigue al Sole che in altro luogo.
Convinta ch'è di falsità
l'introduzione di tale sfera tra 'l Sole e noi, che sola, ma con poco guadagno
di chi volesse rimuovere le macchie dal Sole, poteva sodisfare a buona parte de
i fenomeni, non occorre che perdiamo tempo in riporvar ogni altra imaginabile
posizione; perché ciascheduno per sé stesso immediatamente incontrerà
impossibili e contradizioni manifeste, tuttavolta che sia ben restato capace di
tutti i fenomeni che di sopra ho raccontati, e che veramente si osservano di
continuo in esse macchie.
Quanto poi alle massime
durazioni delle maggiori e più dense, ben che non si possa affermare di certo
se alcune ritornino l'istesse in più d'una conversione, rispetto a i continui
mutamenti di figure che ci tolgono il poterle raffigurare, tuttavia io sarei
d'opinione che alcuna ritornasse a mostrarcisi più d'una volta: ed a così
credere m'indece il vederne alcuna comparire grande assai ed accrescersi
sempre, sin che l'emisfero veduto dà volta; e sì come è credibile ch'ella si
fosse generata molto avanti la venuta sua, così è ragionevole il credere
ch'ella sia per durare assai dopo la partita, sì che la durazion sua venga ad
esser molto più lunga del tempo di una meza conversion del Sole: e come questo
è, alcune macchie possono senza dubbio, anzi necessariamente, esser da noi
vedute due volte; e queste sarebbono tal una di quelle che si producessero
nell'emisfero veduto vicino all'occultarsi, e poi, passando nell'altro,
seguitassero di prender argumento, né si dissolvessero sin che tornassero
ancora a scoprircisi; e per ciò fare basta la durazione di tre o quattro giorni
più del tempo di una meza conversione. Ma io, di più, credo che ve ne siano di
quelle che più d'una volta traversino tutto l'emisfero veduto; quali son quelle
che dal primo comparrire, si vanno sempre augumentando sin che le veggiamo, e
fannosi di straordinaria grandezza, le quali possono continuar di crescere
ancora mentere ci si occultano, e non è credibile che poi in più breve tempo si
diminuischino e dissolvino, perché niuna delle grandissime si è osservato che
repentinamente si disfaccia: ed io ho più volte osservato, dopo la partita di
alcuna delle massime sendo scorso il tempo di una meza conversione, tornare a comparire
una, ch'era, per mio credere, l'istessa, e passar per l'istesso parallelo.
Dalle cose dette sin qui,
parmi, s'io non m'inganno, che necessariamente si conchiuda, le macchie solari
esser contigue o vicinissime al corpo del Sole. esser materie non permanenti e
fisse, ma variabili di figura e di densità, e mobili ancora, chi più e chi
meno, di alcuni piccoli movimenti indeterminati ed irregolari, ed
universalmente tutte prodursi e dissolversi, altre in più brevi, altre in più
lunghi tempi; è anco manifesta ed indubitabile la lor conversione intorno al
Sole: ma il determinare se ciò avvenga perché il corpo stesso del Sole si
converta e rigiri in sé stesso portandole seco, o pure che, restando il corpo
solare immoto, il rivolgimento sia dell'ambiente, il quale le contenga e seco
le conduca, resta in certo modo dubbio, potendo essere e questo e quello.
Tuttavia a me pare assai più probabile che il movimento sia del globo solare,
che dell'ambiente. Ed a ciò credere m'induce, prima, la certezza che io prendo
dell'esser tale ambiente molto tenue fluido e cedente, dal veder così
facilmente mutarsi di figura aggregarsi e dividersi le macchie in esso
contenute, il che in una materia solida e consistente non potrebbe accadere
(proposizione che parrà assai nuova nella comune filosofia): ora un movimento
costante e regolato, quale è l'universale di tutte le macchie, non par che
possa aver sua radice e fondamento primario in una sostanza flussibile e di
parti non coerenti insieme, e però soggette alle commozioni e conturbamenti di
molti altri movimenti accidentarii, ma bene in un corpo solido e consistente,
ove per necessità un solo è il moto del tutto e delle parti; e tale è credibile
che sia il corpo solare, in comparazion del suo ambiente. Tal moto poi,
participato all'ambiente per il contatto, ed alle macchie per l'ambiente, o pur
conferito per il medesimo contatto immediatamente alle macchie, le può portar
intorno. Di più, quando bene altri volesse che la circolazione delle macchie
intorno al Sole procedesse da moto che risedesse nell'ambiente, e non nel Sole,
io crederei ad ogni modo esser quasi necessario che il medesimo ambiente
comunicasse per il contatto l'istesso movimento al globo solare ancora.
Imperò che mi par di
osservare che i corpi naturali abbino naturale inclinazione a qualche moto,
come i gravi al basso, il qual movimento vien da loro, per intrinseco principio
e senza bisogno di particolar motore esterno, esercitato, qual volta non
restino da qualche ostacolo impediti; a qualche altro movimento hanno repugnanza,
come i medesimi gravi al moto in su, e però già mai non si moveranno in cotal
guisa se non cacciati violentemente da un motore esterno; finalmente, ad alcuni
movimenti si trovano indifferenti, come pur gl'istessi gravi al movimento
orizontale, al quale non hanno inclinazione, poi che ei non è verso il centro
della Terra, né repugnanza, non si allontanando dal medesimo centro: e però,
rimossi tutti gl'impedimenti esterni, un grave nella superficie sferica e
concentrica alla Terra sarà indifferente alla quiete ed a i movimenti verso
qualunque parte dell'orizonte, ed in quello stato si conserverà nel qual una
volta sarà stato posto; cioè se sarà messo in stato di quiete, quello
conserverà, e se sarà posto in movimento, verbigrazia verso occidente, nell'istesso
si manterrà: e così una nave, per essempio, avendo una sol volta ricevuto
qualche impeto per il mar tranquillo, si moverebbe continuamente intorno al
nostro globo senza cessar mai, e postavi con quiete, perpetuamente quieterebbe,
se nel primo caso si potessero rimuovere tutti gl'impedimenti estrinseci, e nel
secondo qualche causa motrice esterna non gli sopraggiugnesse. E se questo è
vero, sì come è verissimo, che farebbe un tal mobile di natura ambigua, quando
si trovasse continuamente circondato da un ambiente mobile d'un moto al quale
esso mobile naturale fosse per natura indifferente? Io non credo che dubitar si
possa, ch'egli al movimento dell'ambiente si movesse. Ora il Sole, corpo di
figura sferica, sospeso e librato circa il proprio centro, non può non
secondare il moto del suo ambiente, non avendo egli, a tal conversione,
intrinseca repugnanza né impedimento esteriore. Interna repugnanza aver non
può, atteso che per simil conversione né il tutto si rimuove dal luogo suo, né
le parti si permutano tra di loro o in modo alcuno cangiano la lor naturale
costituzione, tal che, per quanto appartiene alla costituzione del tutto con le
sue parti, tal movimento è come se non fosse. Quanto a gl'impedimenti esterni,
non par che ostacolo alcuno possa senza contatto impedire (se non forse la
virtù della calamita): ma nel nostro caso tutto quel che tocca il Sole, che è
il suo ambiente, non solo non impedisce il movimento che noi cerchiamo di
attribuirgli, ma egli stesso se ne muove, e movendosi lo comunica ove egli non
trovi resistenza, la qual esser non può nel Sole: adunque qui cessano tutti gli
esterni impedimenti. Il che si può maggiormente ancora confermare: perché,
oltre a quello che si è detto, non par che alcun mobile possa aver repugnanza
ad un movimento senz'aver propension naturale all'opposto (perché nella
indifferenza non è repugnanza); e perciò chi volesse por nel Sole renitenza al
moto circolare del suo ambiente, pur vi porrebbe natural propensione al moto
circolare opposto a quel dell'ambiente; il che mal consuona ad intelletto ben
temperato.
Dovendosi, dunque, in ogni
modo por nel Sole l'apparente conversione delle macchie, meglio è porvela
naturale, e non per participazione, per la prima ragione da me addotta.
Molte altre considerazioni
potrei arrecar per confirmazion maggiore della mia opinione, ma di troppo
trapasserei i termini di una lettera; però, per finir di più tenerla occupata,
vengo a satisfare alla promessa ad Apelle, cioè al modo del disegnar le macchie
con somma giustezza, ritrovato, come nell'altra gli accennai, da un mio
discepolo, monaco Cassinense, nominato D. Benedetto de i Castelli, famiglia
nobile di Brescia, uomo d'ingegno eccellente e, come conviene, libero nel
filosofare. Ed il modo è questo. Devesi drizzare il telescopio verso il Sole,
come se altri lo volesse rimirare; ed aggiustatolo e fermatolo, espongasi una
carta bianca e piana incontro al vetro concavo, lontana da esso vetro quattro o
cinque palmi; perché sopraessa caderà la specie circolare del disco del Sole, con
tutte le macchie che in esso si ritrovano, ordinate e disposte con la medesima
simmetria a capello che nel Sole son situate; e quanto più la carta si
allontanerà dal cannone, tanto tal immagine verrà maggiore e le macchie meglio
si figureranno, e senz'alcuna offesa si vedranno tutte sino a molte picole, le
quali, guardando per il cannone, con fatica grande e con danno della vista
appena si potrebbono scorgere. E per disegnarle giuste, io descrivo prima sopra
la carta un cerchio, della grandezza che più mi piace, e poi, accostando o
rimovendo la carta dal cannone, trovo il giusto sito dove l'immagine del Sole
si allarga alla misura del descritto cerchio: il quale mi serve anco per norma
e regola di tener il piano del foglio retto, e non inclinato al cono luminoso
de i raggi solari ch'escono del telescopio; perché quando e' fosse obliquo, la
sezzione viene ovata, e non circolare, e però non si aggiusta con la
circonferenza segnata sopra 'l foglio; ma inclinando più o meno la carta, si
trova facilmente la positura giusta, che è quando l'immagine del Sole
s'aggiusta col cerchio segnato. Ritrovata che si è tal positura, con un
pennello si va notando, sopra le macchie stesse, le figure grandezze e siti
loro: ma convien andare destramente secondando il movimento del Sole, e, spesso
movendo il telescopio, bisogna procurare di mantenerlo ben dritto verso il
Sole; il che si conosce guardando nel vetro concavo, dove si vede un piccolo
cerchietto luminoso, il quale sta concentrico ad esso vetro quando il
telescopio è ben diritto verso il Sole. E per veder le macchie distintissime e
terminate, è ben inscurir la stanza serrando ogni finestra, sì che altro lume
non vi entri che quello che vien per il cannone; o almeno inscuricasi più che
si può, ed al cannone si accomodi un cartone assai largo, che faccia ombra
sopra la carta dove si ha da disegnare e impedisca che altro lume del Sole non
vi caschi sopra, fuor che quello che vien per i vetri del cannone. Devesi
appresso notare, che le macchie escono del cannone inverse, e poste al
contrario di quello che sono nel Sole, cioè le destre vengono sinistre, e le
superiori inferiori, essendo che i raggi s'intersegano dentro al cannone,
avanti ch'eschino fuori del vetro concavo; ma perché noi le disegniamo sopra
una superficie opposta al Sole, quando noi, volgendoci verso il Sole, tenghiamo
la carta disegnata opposta alla nostra vista, già la superficie dove prima
disegnammo non è più contrapposta ma aversa al Sole, e però le parti destre si
sono già ridrizzate, rispondendo alle destre del Sole, e le sinistre alle
sinistre, onde resta che solamente s'invertano le superiori ed inferiori; però,
rivoltando il foglio a rovescio facendo venire il di sopra di sotto, e
guardando per la trasparenza della carta contro al chiaro, si veggono le macchie
giuste. come se guardassimo direttamente nel Sole; ed in tale aspetto si devono
sopra un altro foglio lucidare e descrivere, per averle ben situate.
Io ho poi riconosciuto la
cortesia della natura, la quale, mille e mille anni sono, porse facoltà di poter
venire in notizia di tali macchie, e per esse di alcune gran consequenze;
perché, senz'altri strumenti, da ogni piccolo foro per il quale passino i raggi
solari viene in distanze grandi portata e stampata sopra qual si voglia
superficie opposta l'immagine del Sole con le macchie. Ben è vero che non sono
a gran pezzo così terminate come quelle del telescopio; tuttavia le maggiori si
scorgono assai distinte: e V. S. vedendo in chiesa da qualche vetro rotto e
lontano cader il lume del Sole nel pavimento, vi accorra con un foglio bianco e
disteso, ché vi scorgerà sopra le macchie. Ma più dirò, esser la medesima
natura stata così benigna, che per nostro insegnamento ha tal ora macchiato il
Sole di macchia così grande ed oscura, ch'è stata veduta da infiniti con la
sola vista naturale; ma un falso ed inveterato concetto, che i corpi celesti
fossero esenti da ogni alterazione e mutazione, fece credere che tal macchia
fosse Mercurio interposto tra il Sole e noi, e ciò non senza vergogna de gli
astronomi di quell'età: e tale fu senza alcun dubbio quella di cui si fa
menzione ne gli Annali ed Istorie de i Franzesi ex Bibliotheca P. Pithoei I.
C., stampat'in Parigi l'anno 1588, dove, nella vita di Carlo Magno, a fogli 62,
si legge essersi per otto giorni continui veduta dal popol di Francia una
macchia nera nel disco solare, della quale l'ingresso e l'uscita per
l'impedimento delle nugole non potette esser osservata, e fu creduta esser
Mercurio allora congiunto col Sole. Ma questo è troppo grand'errore, essendo che
Mercurio non può restar congiunto col Sole né anco per lo spazio di ore sette;
tale è il suo movimento, quando si viene a interporre tra 'l Sole e noi. Fu,
dunque, tal fenomeno assolutamente una delle macchie grandissima ed
oscurissima; e delle simili se ne potranno incontrare ancora per l'avvenire, e
forse, applicandoci diligente osservazione, ne potremo veder alcuna in breve
tempo. Se questo scoprimento fosse seguito alcuni anni avanti, averebbe
levat'al Keplero la fatica d'interpretar e salvar questo luogo con le
alterazioni del testo ed altre emendazioni di tempi: sopra di che io non starò
al presente ad affaticarmi, sicuro che detto autore, come vero filosofo e non
renitente alle cose manifeste, non prima sentirà queste mie osservazioni e
discorsi, che gli presterà tutto l'assenso.
Ora, per raccòr qualche
frutto dalle inopinate meraviglie che sino a questa nostra età sono state
celate, sarà bene che per l'avvenire si torni a porgere orecchio a quei saggi
filosofi che della celeste sustanza diversamente da Aristotele giudicarono, e
da i quali Aristotele medesimo non si sarebbe allontanato se delle presenti
sensate osservazioni avesse auta contezza: poi che egli non solo ammesse le
manifeste esperienze tra i mezi potenti a concludere circa i problemi naturali,
ma diede loro il primo luogo. Onde se egli argomentò l'immutabilità de' cieli
dal non si esser veduta in loro ne' decorsi tempi alterazione alcuna, è ben
credibile che quando 'l senso gli avesse mostrato ciò che a noi fa manifesto,
arebbe seguita la contraria opinione, alla quale con sì mirabili scoprimenti
venghiamo chiamati noi. Anzi dirò di più, ch'io stimo di contrariar molto meno
alla dottrina d'Aristotele col porre (stanti vere le presenti osservazioni) la
materia celeste alterabile, che quelli che pur la volessero sostenere
inalterabile; perché son sicuro che egli non ebbe mai per tanto certa la
conclusione dell'inalterabilità, come questa, che all'evidente esperienza si
deva posporre ogni umano discorso: e però meglio si filosoferà prestando l'assenso
alle conclusioni dependenti da manifeste osservazioni, che persistendo in
opinioni al senso stesso repugnanti, e solo confermate con probabili o
apparenti ragioni. Quali poi e quanti sieno i sensati accidenti che a più certe
conclusioni c'invitano, non è difficile l'intenderlo. Ecco, da virtù superiore,
per rimuoverci ogni ambiguità, vengono inspirati ad alcuno metodi necessarii,
onde s'intenda, la generazion delle comete esser nella regione celeste; a
questo, come testimonio che presto trascorre e manca, resta ritroso il numero
maggiore di quelli che insegnano a gli altri: eccoci mandate nuove fiamme di
più lunga durazione, in figura di stelle lucidissime, prodotte pure e poi
dissolutesi nelle remotissime parti del Cielo: né basta questo per piegar quelli
alla mente de i quali non arrivano le necessità delle dimostrazioni
geometriche: ecco finalmente scoperto in quella parte del Cielo che meritamente
la più pura e sincera stimar si deve, dico in faccia del Sole stesso, prodursi
continuamente ed in brevi tempi dissolversi innumerabile moltitudine di materie
oscure dense e caliginose; eccoci una vicissitudine di produzioni e
disfacimenti che non finirà in tempi brevi, ma, durando in tutti i futuri
secoli darà tempo a gl'ingegni umani di osservare quanto lor piacerà e di
apprendere quelle dottrine che del sito loro gli possa rendere sicuri. Ben che
anco in questa parte doviamo riconoscere la benignità divina; poi che di assai
facile e presta apprensione son quei mezi che per simile intelligenza ci
bastano; e chi non è capace di più, procuri di aver disegni fatti in regioni
remotissime, e gli conferisca con i fatti da sé ne gli stessi giorni, ché
assolutamente gli ritroverà aggiustarsi con i suoi: ed io pur ora ne ho
ricevuti alcuni fatti in Brusselles dal Sig. Daniello Antonini ne i giorni 11,
12, 13, 14, 20 e 21 di Luglio, li quali si adattano a capello con i miei e con
altri mandatimi di Roma dal Sig. Lodovico Cigoli, famosissimo pittore ed
architetto; argomento che dovrebbe bastar per sé solo a persuader ogn'uno, tali
macchie esser di lungo tratto superiori alla Luna.
E con questo voglio finir di
occupar più V. S. Illustrissima. Favoriscami di mandar con suo comodo i disegni
ad Apelle, accompagnati con un mio singolare affetto verso la persona sua; ed a
V. S. reverentemente bacio le mani, e dal Signore Dio gli prego felicità.
Di Firenze, li 14 di Agosto
1612.
Di V. S.
Illustrissima
Servitore
Devotissimo
Galileo
Galilei L.
TERZA LETTERA DEL SIG.
GALILEO GALILEI
AL SIG. MARCO VELSERI DELLE
MACCHIE SOLARI
nella quale anco si tratta
di Venere, della Luna e Pianeti Medicei,
e si scoprono nuove
apparenze di Saturno.
(Villa delle Selve, I°
dicembre 1612)
Illustrissimo Sig. e Padron
Colendissimo
Trovomi a dover rispondere a
due gratissime lettere di V. S. Illustrissima, scritte l'una sotto li 28 di
Settembre, e l'altra li 5 di Ottobre. Con la prima ricevei i secondi discorsi
del finto Apelle, e nell'altra mi avvisa la ricevuta della mia seconda lettera
in proposito delle macchie solari, la quale io gl'inviai sino li 23 di Agosto:
risponderò prima brevemente alla seconda, poi verrò alla prima, ponderando un
poco più diffusamente alcuni particolari contenuti in questa replica di Apelle;
già che l'aver considerate le sue prime lettere, e l'aver egli vedute le mie
considerazioni, mi mette in certo modo in obbligo di soggiugnere alcune cose
concernenti alla mia prima lettera ed alle sue seconde scritture.
Quanto all'ultima di V. S.,
ho ben sentito con diletto che ella in una repentina scorsa abbia trapassate
come verisimili ed assai probabili le ragioni da me addotte per confermar le
conclusioni che io prendo a dimostrare; ma il punto sta in quello a che la
persuaderà la seconda e le altre letture, non essendo impossibile: che alcuni,
ben che di perspicacissimo giudizio, possino talora in una prima occhiata
ricever per opera di mediocre perfezione quello che poi, ricercato più
accuratamente, gli riesca di assai minor merito, e massime dove una particolare
affezione verso l'autore ed una concepita opinion buona preoccupino l'affetto
indifferente ed ignudo: onde io con animo ancor sospeso starò attendendo altro
suo giudizio, il quale mi servirà per quietarmi, sin che, come
prudentissimamente dice V. S., ci sortisca, per grazia del vero Sole, puro ed
immacolato, apprendere in Lui con tutte le altre verità quello che ora,
abbagliati e quasi alla cieca, andiamo ricercando nell'altro Sole materiale e
non puro.
Ma non però doviamo, per
quel che io stimo, distorci totalmente dalle contemplazioni delle cose, ancor
che lontanissime da noi, se già non avessimo prima determinato, esser ottima
resoluzione il posporre ogni atto specolativo a tutte le altre nostre
occupazioni. Perché, o noi vogliamo specolando tentar di penetrar l'essenza vera
ed intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in
notizia d'alcune loro affezioni. Il tentar l'essenza, l'ho per impresa non meno
impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sustanze elementari che
nelle remotissime e celesti: e a me pare essere egualmente ignaro della
sustanza della Terra che della Luna, delle nubi elementari che delle macchie
del Sole; né veggo che nell'intender queste sostanze vicine aviamo altro
vantaggio che la copia de' particolari, ma tutti egualmente ignoti, per i quali
andiamo vagando, trapassando con pochissimo o niuno acquisto dall'uno
all'altro. E se, domandando io qual sia la sustanza delle nugole, mi sarà detto
che è un vapore umido, io di nuovo desidererò sapere che cosa sia il vapore; mi
sarà per avventura insegnato, esser acqua, per virtù del caldo attenuata, ed in
quello resoluta; ma io, egualmente dubbioso di ciò che sia l'acqua,
ricercandolo, intenderò finalmente, esser quel corpo fluido che scorre per i
fiumi e che noi continuamente maneggiamo e trattiamo: ma tal notizia dell'acqua
è solamente più vicina e dependente da più sensi, ma non più intrinseca di
quella che io avevo per avanti delle nugole. E nell'istesso modo non più
intendo della vera essenza della terra o del fuoco, che della Luna o del Sole;
e questa è quella cognizione che ci vien riservata da intendersi nello stato di
beatitudine, e non prima. Ma se vorremo fermarci nell'appressione di alcune
affezioni, non mi par che sia da desperar di poter conseguirle anco ne i corpi
lontanissimi da noi, non meno che ne i prossimi, anzi tal una per aventura più
esattamente in quelli che in questi. E chi non intende meglio i periodi de i
movimenti de i pianeti, che quelli dell'acque di diversi mari? chi non sa che
molto prima e più speditamente fu compresa la figura sferica nel corpo lunare
che nel terrestre? e non è egli ancora controverso se l'istessa Terra resti
immobile o pur vadia vagando, mentre che noi siamo certissimi de i movimenti di
non poche stelle? Voglio per tanto inferire, che se bene indarno si tenterebbe
l'investigazione della sustanza delle macchie solari, non resta però che alcune
loro affezioni, come il luogo, il moto, la figura, la grandezza, l'opacità, la
mutabilità, la produzione ed il dissolvimento, non possino da noi esser
apprese, ed esserci poi mezi a poter meglio filosofare intorno ad altre più
controverse condizioni delle sustanze naturali; le quali poi finalmente
sollevandoci all'ultimo scopo delle nostre fatiche, cioè all'amore del divino
Artefice, ci conservino la speranza di poter apprender in Lui, fonte di luce e
di verità, ogn'altro vero.
Il debito del ringraziare
resta in me con molti altri obblighi che tengo a V. S. Illustrissima; perché,
se averò investigato qualche proposizion vera, sarà stato frutto de i
comandamenti suoi, e i medesimi diranno mia scusa quando non mi succeda il
conseguir l'intero d'impresa nuova e tanto difficile.
Circa a quello che ella
m'accenna del pensiero dell'Eccellentissimo Sig. Federico Cesi Principe, è ben
vero che io mandai a S. E. copia delle due lettere solari, ma non con
intenzione che fossero pubblicate con le stampe, ché in tal caso vi arei
applicato studio e diligenza maggiore; perché, se ben l'assenso e l'applauso di
V. S. sola è da me desiderato e stimato egualmente come di tutto 'l mondo
insieme, tuttavia tal indulto mi prometto dalla benignità sua e dalla cortese
propensione del suo genio verso me e le cose mie, quale prometter non mi devo
dalle scrupolose inquísizioni e severe censure di molti altri. Ed alcune cose mi
restano ancora non ben digeste, né determinate a modo mio; delle quali una
principale è l'incidenza delle macchie sopra luoghi particolari della solar
superficie, e non altrove: perché, rappresentandocisi i progressi di tutte le
macchie sotto specie di linee rette (argomento necessario, l'asse di tali
conversioni esser eretto al piano che passa per i centri del Sole e della
Terra, il quale è il solo cerchio dell'eclittica), resta, per mio parere, degno
di gran considerazione, onde avvenga che le caschino solamente dentro ad una
zona che per larghezza non si allontana più di 29 o 30 gradi di qua e di là dal
cerchio massimo di tal conversione, sì che appena delle mille una trasgredisca,
e ben di poco, tali confini; imitando in ciò le leggi de i pianeti, alli quali
vengono da simili intervalli limitate le digressioni dal cerchio massimo della
conversion diurna. Questo e qualche altro rispetto mi fanno ritardar il
pubblicar in più diffuso trattato questa materia. Con tutto ciò il Sig.
Principe può disporre ed è padrone assoluto delle cose mie; l'esser poi io
sicuro del purgatissimo suo giudizio e del zelo che egli ha della reputazion
mia, mi assicura, col lasciarle egli vedere, di averle stimate degne della
luce.
Quanto ad Apelle, a me
ancora dispiace che e non abbia veduta la mia seconda lettera avanti la
pubblicazione della sua Più Accurata Disquisizione, e che la mia ambiguità e
pigrizia nello scrivere non abbia potuto tener dietro alla sua resoluzione e
prontezza: ben è vero che buona causa della dilazione n'è stato l'esser
trattenute le mie lettere più d'un mese in Venezia, dalla troppa stima che di
esse fece l'Illustrissimo Sig. Gio. Francesco Sagredo, volendo che ne restasse
copia in quella città, dove a me pareva d'essere a bastanza onorato da una
semplice sua lettura; il che per la moltitudine delle figure ricercò assai
tempo. Dispiacemi ancora della difficoltà che apporta ad Apelle l'aver io
scritto nella nostra favella fiorentina; il che ho fatto per diversi rispetti,
uno de i quali è il non volere in certo modo abusare la ricchezza e perfezion
di tal lingua, bastevole a trattare e spiegar e' concetti di tutte le
facoltadi; e però dalle nostre Accademie e da tutta la città vien gradito lo
scrivere più in questo che in altro idioma. Ma in oltre ci ho auto un altro mio
particolar interesse, ed è il non privarmi delle risposte di V. S. in tal
lingua, vedute da me e da gli amici miei con molto maggior diletto e meraviglia
che se fossero scritte del più purgato stile latino; e parci, nel leggere
lettere di locuzione tanto propria, che Firenze estenda i suoi confini, anzi il
recinto delle sue mura, sino in Augusta.
Quello che V. S. mi scrive
essergli intervenuto nel leggere il mio trattato Delle cose che stanno su
l'acqua, cioè che quelli che da principio gli parvero paradossi, in ultimo gli
riuscirono conclusioni vere e manifestamente dimostrate, sappia che è accaduto
qua a molti, reputati per altri lor giudizii persone di gusto perfetto e saldo
discorso. Restano solamente in contradizzione alcuni severi difensori di ogni
minuzia peripatetica, li quali, per quel che io posso comprendere, educati e
nutriti sin dalla prima infanzia de i lor studii in questa opinione, che il
filosofare non sia né possa esser altro che un far gran pratica sopra i testi
di Aristotele, sì che prontamente ed in gran numero si possino da diversi
luoghi raccòrre ed accozzare per le prove di qualunque proposto problema, non
vogliono mai sollevar gli occhi da quelle carte, quasi che questo gran libro
del mondo non fosse scritto dalla natura per esser letto da altri che da
Aristotele, e che gli occhi suoi avessero a vedere per tutta la sua posterità.
Questi, che si sottopongono a così strette leggi, mi fanno sovvenire di certi
obblighi a i quali tal volta per ischerzo si astringono capricciosi pittori, di
voler rappresentare un volto umano o altra figura con l'accozzamento ora de'
soli strumenti dell'agricoltura, ora de' frutti solamente o de i fiori di
questa o di quella stagione: le quali bizzarrie, sin che vengono proposte per
ischerzo, son belle e piacevoli, e mostrano maggior perspicacità in questo
artefice che in quello, secondo che egli averà saputo più acconciamente elegger
ed applicar questa cosa o quella alla parte imitata; ma se alcuno, per aver
forse consumati tutti i suoi studii in simil foggia di dipignere, volesse poi
universalmente concludere, ogni altra maniera d'imitare esser imperfetta e
biasimevole, certo che 'l Cigoli e gli altri pittori illustri si riderebbono di
lui. Di questi che mi son contrarii di opinione, alcuni hanno scritto ed altri
stanno scrivendo; in pubblico non si è veduto sin ora altro che due scritture,
una di Accademico Incognito, e l'altra di un lettor di lingua greca nello
Studio di Pisa, ed amendue le invio con la presente a V. S. Gli amici miei son
di parere, ed io da loro non discordo, che non comparendo opposizioni più
salde, non sia bisogno di risponder altro; e stimano che per quietar questi che
restano ancora inquieti, ogn'altra fatica sarebbe vana, non men che superflua
per i già persuasi; ed io devo stimar le mie conclusioni vere e le ragioni
valide, poi che, senza perder l'assenso di alcuno di quei che sin da principio
sentivano meco, ho guadagnato quel di molti che erano di contrario parere. Però
staremo attendendo il resto, e poi si risolverà quello che parrà più a
proposito.
Vengo ora all'altra lettera
di V. S. Illustrissima, condolendomi sopra modo che la pertinacia della sua
infermità conturbi, con l'afflizione di V. S., la quiete di tanti suoi amici e
servidori, e di me sopra tutti gli altri, travagliato altresì da più mie
indisposizioni familiari, le quali, con l'impedirmi quasi continuamente tutti
gli esercizii, mi tengono ricordato quanto, rispetto alla velocità de gli anni,
sarebbe necessario lo stare in esercizio continuo a chi volesse lasciar qualche
vestigio di esser passato per questo mondo. Or, qualunque si sia il corso della
nostra vita, doviamo riceverlo per sommo dono dalla mano di Dio, nella quale
era riposto il non ci far nulla; anzi non pur doviamo riceverlo in grado ma
infinitamente ringraziar la sua bontà, la quale con tali mezzi ci stacca dal
soverchio amore delle cose terrene e ci solleva a quello delle celesti e
divine.
Le scuse dell'esser breve
nello scrivere sono superflue appresso di me, che sempre sono per appagarmi
nell'intender solamente che ella mi continui la sua buona grazia: dovrei ben io
scusar la mia prolissità, o, per meglio dire, pregar lei a scusarla, e lo farei
quando io dubitassi delle scuse che io mi prometto dalla sua cortesia.
Ricevei con la lettera di V.
S. la seconda scrittura del finto Apelle, e mi messi a leggerla con gran
curiosità, mosso sì dal nome dell'autore, come dalla qualità del titolo, il
quale promette una più accurata disquisizione non solo intorno alle macchie
solari, ma ancora intorno a i pianeti Medicei. E perché il termine relativo di
“disquisizione più accurata” non può non riferirsi all'altre disquisizioni
fatte intorno alla medesima materia, non si può dubitare che ei non abbia
riguardo ancora al mio Avviso Sidereo, che pure è in rerum natura e non
viene eccettuato da Apelle: onde io entrai in speranza d'esser per trovar
resoluto tutto quest'argomento, del quale non potei toccarne, in detto mio
Avviso, altro che i primi abbozzamenti. Oltre alle cose promesse nel titolo, vi
ho trovato l'osservazion di Venere più diffusamente esplicata che nelle prime
lettere, e di più alcuni particolari intorno alla Luna: nelle quali tutte
materie scorgo molte opinioni di Apelle contrarie alle mie, e varie ragioni e
risposte implicite alle cose prodotte da me nella prima lettera che scrissi a
V. S.; le quali, per la stima che io fo dell'autore, non conviene che io
trapassi o dissimuli, perché, non avendo dinanzi tavola che m'asconda e possa
impedirmi la vista di chi passa innanzi e indietro, convien che per termine io
gli saluti almeno. E perché tutto il progresso di queste differenze si è sin
qui trattato innanzi e indietro, convien che per termine io gli saluti almeno.
E perché tutto il progresso di queste differenze si è sin qui trattato innanzi
a V. S. Illustrissima, di nuovo costituendomivi produrrò, più brevemente che
potrò, quanto mi occorre in questo proposito. E seguendo l'ordine tenuto da
Apelle, considero l'ultimo scopo della sua prima parte, che è di dimostrare
come la circolazion di Venere è intorno al Sole, e non in altra guisa; e fonda
tutta la sua dimostrazione, come anco fece nella prima scrittura, sopra la
congiunzione mattutina di essa stella col Sole, occorsa circa li 11 di Dicembre
1611, aggiugnendoci adesso una investigazione della quantità del suo moto sotto
'l disco solare, raccolta con calcoli e dimostrazioni geometriche. E qui mi
nascono due scrupoli: l'uno intorno alla maniera di maneggiare tali
demostrazioni, non interamente da sodisfare a perfetto matematico; e l'altro
circa l'utilità che apporta tal apparato e progresso all'intenzion primaria
dell'autore.
Quanto alla maniera del
dimostrare, trappasso che qualche astronomo più scrupoloso di me potrebbe
risentirsi nel veder trattar archi di cerchi come se fossero linee rette,
sottoponendogli a gli stessi sintomi: ma io non ne voglio tener conto, perché
nel caso nostro particolare non cascano in uso archi così grandi, che l'error
nel computo riesca poi di soverchio notabile.
Ma ammessa anco per
esquisita tutta la dimostrazione di Apelle, io non però posso ancor penetrar
interamente quello che egli abbia, in virtù di essa, preteso di ottenere da chi
volesse persistere in negare la conversione di Venere intorno al Sole: perché, o
gli avversarii ammetteranno per giusti i calcoli del Magini, o gli averanno per
dubbii e fallaci; se gli hanno per dubbii, la fatica d'Apelle resta come
inefficace, con dimostrando ella che Venere veramente venisse alla corporal
congiunzione; ma se gli concedono per veri, non era necessario altro computo,
bastando la sola differenza de i movimenti del Sole e della stella, insieme con
la sua latitudine, presa dall'istesse Efemeridi, a intender come tal
congiunzione doveva necessariamente durar tante ore, che molte e molte volte si
poteva replicar l'osservazione. Né meno era necessariio il far triplicato esame
sopra 'l principio mezo e fine del congresso, essendo notissimo che i calcoli
sono aggiustati al mezo della congiunzione; li quali quando ammettessero
errore, non però verrebbono necessariamente emendati dal riferirgli al
principio o al fine del congresso, non constando ragion alcuna per la qual
s'intenda non esser possibile in un calcolo d'una congiunzione errar di maggior
tempo di quello della durazione del congresso. Ma io non credo che i
contradittori ricorressero al negar la giustezza de i computi astronomici, e
massime avendo refugii più sicuri, quali sono quelli che io proposi nella prima
lettera. E sì come a i molto periti nella scienza astronomica bastava l'aver
inteso quanto scrive il Copernico nelle sue Revoluzionii per accertarsi del
rivolgimento di Venere intorno al Sole e della verità del resto del suo
sistema, così per quelli che intendono solamente sotto la mediocrità faceva di
bisogno rimuovere le da me sopradette ritirate; delle quali io non veggo che
Apelle; abbia toccate se non due, e quelle anco mi par che non restino
totalmente atterrate.
Io dissi nella prima
lettera, che gli avversarii potrebbono ritirarsi a dire, che Venere o non si
vegga sotto 'l Sole per la sua piccolezza, o vero perché sia lucida per sé
stessa, o vero perche ella sia sempre superiore al Sole.
Quello che Apelle produce
per levar la prima fuga a i contradittori, non basta: perché loro primieramente
negheranno che l'ombra di Venere sotto 'l Sole deva apparir così grande come la
luce della medesima fuori del Sole ma vicina a quello, perché l'irradiazione
ascitizia rappresenta la stella assai maggiore del vero; il che è manifesto
nella istessa Venere, la quale quando è sottilmente falcata, ed in conseguenza
per pochi gradi separata dal Sole, si mostra in ogni modo, alla vista naturale,
rotonda come l'altre stelle, ascondendo la sua figura tra l'irradiazione del
suo splendore, per lo che non si può dubitare che ella ci si mostri assai
maggiore che se fosse priva di lume; ed all'incontro, costituita sotto 'l
lucidissimo disco del Sole, non è dubbio che il suo corpicello tenebroso
verrebbe diminuito non poco (dico quanto all'apparenza) dall'ingombramento del
fulgor del Sole: e però resta molto fallace il concluder che ella fussi per
apparir eguale alle macchie di mediocre grandezza. E chi sa che tali macchie,
per doverci apparire nel campo splendido del Sole, non sieno molto maggiori di
quello che mostrano? Anzi che pur di ciò può esser ottimo testimonio a sé
stesso il medesimo Apelle, riducendosi in mente quello che scrisse nella terza
delle prime lettere, al secondo corollario, cioè: “maculas satis magnas esse;
alias Sol magnitudine sua illas irradiando penitus absorberet”: e l'istesso
conviene affermar del corpo di Venere. Doppiamente, adunque, si può errare
nell'agguagliar la grandezza di Venere luminosa a quella delle macchie oscure,
poi che quanto questa vien apparentemente diminuita dal vero, mediante lo
splendor del Sole, tanto quella vien ingrandita.
Né con maggior efficacia
conclude quel che Apelle soggiugne in questo medesimo luogo, per mantenere pur
Venere incomparabilmente maggiore di quello che è e che io accennai nella prima
lettera: e contro a quello che ci mostra il senso e l'esperienza, in vano si
produce l'autorità d'uomini per altro grandissimi, li quali veramente
s'ingannarono nell'assegnar il diametro visuale di Venere subdecuplo a quel del
Sole; ma sono in parte degni di scusa, ed in parte no. Gli scusa in parte il
mancamento del telescopio, venuto ad apportar agumento non piccolo alle scienze
astronomiche; ma due particolari lasciano da desiderar qualche cosa nella
diligenza loro. Uno è, che bisognava osservar la grandezza di Venere veduta di
giorno, e non di notte, quando la capellatura de' suoi raggi la rappresenta
dieci o più volte maggiore che 'l giorno, mentre ella ne è priva; ed arebbono
facilmente compreso, che 'l diametro del suo piccolissimo globo non agguaglia
tal volta la centesima parte del diametro solare. Era, secondariamente,
necessario distinguere una costituzione da un'altra, e non indifferentemente
pronunziare, il diametro visuale di Venere esser la decima parte di quel del
Sole, essendo che tal diametro quando la stella è vicinissima alla Terra è più
di sei volte maggiore che quando è lontanissima; la qual differenza se bene non
è precisamente osservabile se non col telescopio, è nondimeno assai
percettibile anco con la vista semplice. Cessa, dunque, in questo particolare
l'autorità degli astronomi citati da Apelle, sopra la quale egli si appoggia. E
quando bene si ammettesse, taluna macchia esser visibile nel disco solare che
non agguaglia in lunghezza la centesima parte del diametro né in superficie una
delle diecimila parti del cerchio visibile del Sole, non creda per ciò di aver
concluso maggiormente l'apparizion di Venere; perché io gli replico, che il suo
diametro nella congiunzione mattutina non pareggia la dugentesima, né la sua
superficie la quarantamilesima parte, del diametro e del visibil disco del
Sole.
Quanto alla seconda fuga de
gli avversarii, cioè che non sia necessario che Venere oscuri parte del Sole,
potendo ella esser corpo per sé stesso lucido, non resta, per mio parere,
convinta per quello che produce Apelle; perché, quanto alla semplice autorità
de gli antichi e moderni filosofi e matematici, dico che non ha vigore alcuno
in stabilire scienza di veruna conclusione naturale, ed il più che possa
operare e l'indurre opinione e inclinazion al creder più questa che quella cosa.
Oltre che, io non so quanto sia vero che Platone s'inducesse a por Venere sopra
'l Sole rispetto al non vederla nelle congiunzioni sotto 'l suo disco in vista
tenebrosa: so ben che Tolommeo parla in questo proposito molto diversamente da
quello che vien allegato da Apelle; e troppo grave errore sarebbe stato nel
principe de gli astronomi il negar le congiunzioni dirette di Venere e del
Sole. Quello che dice Tolommeo nel principio del libro nono della sua Gran
Costruzione, mentre e' ricerca qual si deva più probabilmente costituir
l'ordine de i pianeti, impugnando la ragion di quelli che mettevano Venere e
Mercurio superiori al Sole perché non l'avevano mai veduto oscurar da loro,
mostra l'infirmità di questo argomento, dicendo non esser necessario che ogni
stella inferiore al Sole gli faccia eclisse, potendo esser sotto 'l Sole, ma
non in alcun de' cerchi che passano per il centro di quello e per l'occhio
nostro: ma non per questo afferma, ciò accadere a Venere; anzi, soggiugnendo
egli l'essempio della Luna, la quale nella maggior parte delle congiunzioni non
adombra 'l Sole, mostra chiaramente che e' non ha voluto intender altro di
Venere, se non che ella può esser sotto 'l Sole, né però oscurarlo in tutte le
congiunzioni, onde possa benissimo esser accaduto, le congiunzioni osservate da
quei tali non essere state dell'eclittiche. Molto sicuramente parla il Molto
Reverendo P. Clavio, affermando tale ombra restar invisibile a noi per la sua
piccolezza; e se bene da i detti di questi autori par che gl'inclinassero a
stimar Venere non splendida per sé stessa, ma tenebrosa, tuttavia tale opinione
pura non basta a convincer gli avversarii, a' quali non mancherà il poter
produrre opinioni di altri in contrario.
L'altro argomento che Apelle
produce, tolto dall'ottenebrazione della Luna nel passar sotto 'l Sole, non può
aver vigore s'e' non dimostra prima che 'l mancamento nel Sole si faccia
cospicuo sin quando la Luna occupa del suo disco meno di una delle quarantamila
parti; altramente la proporzion dalla Luna a Venere non procede. Or quanto ciò
sia diffilcile ad esequirsi, e manifesto ad ogn'uno.
Che Mercurio sia stato da
diversi veduto sotto 'l Sole, è non solamente dubbio, ma inclina assai
all'incredibile, come nell'altra accennai a V. S.: e quanto al Keplero citato
in questo luogo, io non dubito punto che, come d'ingegno perspicacissimo e
libero, e amico assai più del vero che delle proprie opinioni, ei sia per
restar persuasissimo, tali negrezze vedute nel Sole essere state alcune delle
macchie, e le congiunzioni di Mercurio aver solamente porto occasione
d'applicarvi in quelle ore più fissa ed accurata considerazione; con la qual
diligenza anco in altri tempi si sarieno vedute, sì come frequentemente si sono
per vedere per l'innanzi, e già le ho fatte vedere a molti.
Resti per tanto
indubitabilmente dimostrata l'oscurità di Venere dalla sola esperienza che io
scrissi nella prima lettera, e che ora pone qui Apelle nel terzo luogo, cioè
dal vedersi variar in lei le figure al modo della Luna; e siaci, oltre a ciò,
per solo fermo e così forte argomento da stabilir la revoluzione di Venere
circa 'l Sole, che non lasci luogo alcuno di dubitare: e però si deve reputare
degno d'esser da Apelle delineato, come figura principalissima, nella più
cospicua e nobil parte della sua tavola, e non in un angolo in guisa di
pilastro, per appoggio e sostegno di qualche figura che senz'esso sembrasse a'
riguardanti di minacciar rovina.
Ma passo ad alcune
considerazioni intorno a quello che Apelle in parte replica ed in parte
aggiugne al già scritto in proposito delle macchie solari. Dove in generale mi
par che nelle loro determinazioni e' vadia più presto manco resoluto che avanti
non aveva fatto, se ben insieme insieme si mostra desideroso di presentarle più
tosto modificate che diversificate, anzi che nel fine afferma, tutte le cose
dette nelle prime lettere restar costanti; con tutto ciò vengo in qualche
speranza d'averlo a vedere nella terza scrittura d'opinioni intrinsecamente
assai conformi alle mie, non dico già in virtù di queste lettere, le quali per
la difficoltà della lingua non possono da lui esser vedute, ma perché col
pensare verranno ancora a lui in mente quelle osservazioni, quelle ragioni e
quelle soluzioni medesime, che hanno persuaso me a scrivere ciò che ho scritto
nella prima e nella seconda lettera e che aggiungo nella presente. E già si
vede quanti particolari e' mette in questa seconda scrittura, non osservati
ancora nella prima. Stimò avanti, le macchie solari essere tutte di figura
sferica, dicendo che se si potessero veder separate dal Sole, ci apparirebbono
tante piccole lune, altre falcate, altre in forma di mezzo cerchio, altre di
più che mezzo, e forse altre interamente piene: ora con maggior verità scrive,
rarissime essere sferiche, e spessissime di figure irregolari. Ha parimente
osservato, come rarissime o nessuna mentengono la medesima figura per tutto 'l
tempo che restano cospicue, ma stravagantemente si vanno mutando, ed ora
crescendo ora scemando; e, quello che è più, ha veduto come improvisamente
altre nascono, altre si dissolvono, anco nel mezo del Sole, e come alcune si
dividono in due o più ed, all'incontro, molte si uniscono in una: i quali
particolari furon da me toccati nella prima lettera. Stimò già, che le fossero
stelle erranti, e situate in diverse lontananze dal Sole, sì che alcune fussero
meno ed altre più remote, in guisa che moltissime andassero vagando tra 'l Sole
e Mercurio e ancora tra Mercurio e Venere, in debite distanze, facendosi
visibili solamente quando s'incontrano col Sole; ma ora non sento raffermar una
tanta lontananza, e parmi che e' si contenti di mostrar che le non sono dentro
al corpo solare né contigue alla sua superficie, ma fuori, in lontananza
solamente di qualche considerazione, come si può ritrarre dalle ragioni che egli
usa in dimostrar la sua opinione.
Io facilmente converrei con
Apelle in creder che le non sieno nel Sole, cioè immerse dentro alla sua
sustanza; ma non affermerei già questo in vigor delle ragioni addotte da esso,
nella prima delle quali e' piglia un supposto che senz'altro gli sarà negato da
chi volesse difender il contrario: perché non è alcuno così semplice, che
volendo sostener le macchie esser immerse dentro alla solar sostanza, e
appresso ammetter la loro continua mutabilità di figura di mole di separazione
ed accozzamento, conceda insieme il Sole esser duro ed immutabile; ma
resolutamente negherà tale assunto e la prova che di esso apporta Apelle,
fondata su l'opinione, per suo detto, comune di tutti i filosofi e matematici:
né piccola ragione averà di negarla, sì perché l'autorità dell'opinione di
mille nelle scienze non val per una scintilla di ragione di un solo, sì perché
le presenti osservazioni spogliano d'autorità i decreti de' passati scrittori,
i quali se vedute l'avessero, avrebbono diversamente determinato. In oltre,
quei medesimi autori che hanno stimato il Sole non esser cedente né mutabile,
hanno molto men creduto ch'e' fosse sparso di macchie tenebrose; e però dove
fosse forza che l'opinione del non esser macchiato cedesse all'esperienza,
indarno si ricorrerebbe per difesa all'opinione della durezza e
dell'immutabilità, perché dove cede quella che pareva più salda, molto meno
resisteranno le men gagliarde: anzi gli avversarii, acquistando forza,
negheranno il Sole esser duro o immutabile, poi che non la semplice opinione,
ma l'esperienza glie lo mostra macchiato. E quanto a i matematici, non si sa
che alcuno abbia mai trattato della durezza ed immutabilità del corpo solare,
né che l'istessa scienza matematica sia bastante a formar dimostrazioni di
simili accidenti.
La seconda ragione, fondata
sul vedersi alcune macchie più oscure verso la circonferenza del Sole che poi
quando sono verso le parti medie, dove par che si vadino rischiarando, non par
che stringa l'avversario a doverle por fuori del Sole; sì perché l'esperienza
del fatto per lo più, se non sempre, accade in contrario, sì perché la
rarefazione e condensazione, accidenti non negati alle macchie, son bastanti
per render ragione di tal effetto, e forse non men di quello che Apelle n'apporta
dicendo che l'irradiazione più diretta e più forte, fatta quando la macchia è
intorno al mezo del disco che quando è vicina alla circonferenza, produce tal
diminuzion di negrezza. [...] E però, per mio parere, meglio per avventura
sarebbe il dire (qual volta non si volesse ricorrere al più o men denso e raro)
che l'istessa macchia appar meno oscura intorno al centro che verso
l'estremità, perché qui vien veduta per coltello e quivi per piatto, accadendo
in questo l'istesso che in una piastra di vetro, la quale veduta per taglio
appare oscura e opaca molto, ma per piano chiara e trasparente; e questo
servirebbe per argomento a dimostrar che la larghezza di tali macchie è molto
maggior che la loro profondità.
Quello che si soggiugne per
provare che le macchie non son lagune o cavernose voragini nel corpo solare, si
può liberamente concedere tutto, perché io non credo che alcuno sia per
introdur mai una tale opinione per vera. Ma perché né io né, che io sappia,
altri ha conteso che le macchie siano immerse nella sustanza del Sole, ma ben
ho replicatamente scritto a V. S., e, s'io non m'inganno, necessariamente
concluso, che le siano o contigue al Sole o per distanza a noi insensibile
separate da quello, è bene che io esamini le ragioni che Apelle produce per
argomenti irrefragabili onde la di loro lontananza non piccola dalla solar
superficie ci si faccia manifesta.
Prende Apelle la sua ragione
dal vedersi le macchie dimorar a tempi ineguali sotto la faccia del Sole, e
quelle che la traversano per la linea massima, passando per lo centro, dimorar
più che quelle che passano per linee remote dal centro; e ne adduce
l'osservazion di due, l'una delle quali dimorò giorni 16 nel diametro, e
l'altra, passando alquanto lontana dal centro, scorse la sua linea in giorni
14. Or qui vorrei trovar parole di poter senza offesa di Apelle, il quale io
intendo di onorar sempre, negare tale esperienza; perché, avendo io circa
questo particolare fatte molte e molte diligentissime osservazioni, non ho
trovato incontro alcuno onde si possa concluder altro, se non che le macchie
tutte indifferentemente dimorano sotto 'l solar disco tempi eguali, che al mio
giudizio sono qualche cosa più di giorni 14: e questo affermo tanto più
resolutamente, quanto che sarà per avanti in potestà di ciascheduno il farne
senza incomodo mille e mille osservazioni. E quanto alla particolare esperienza
che Apelle ci propone, v'ho qualche scrupolo, per aver egli eletto nella prima
osservazione non il transito di una macchia sola, ma di un drappello assai
numeroso, e di macchie che molto si andarono variando di posizione tra di loro;
dalle quali cose ne conséguita che tale osservazione, come soggetta a molte
accidentarie alterazioni, non sia a bastanza sicura per determinare essa sola
una tanta conclusione. Anzi gl'irregolari movimenti particolari di esse macchie
rendono le osservazioni soggette a tali alterazioni, che non è da prender
resoluzione se non dalla conferenza di molti e molti particolari: il che ho
fatto sopra la moltitudine di più di 100 disegni grandi ed esatti, ed ho
incontrate bene alcune piccole differenze di tempi ne i passaggi, ma ho anco
trovato alternatamente esser non meno talor più tarde le macchie de' cerchi più
vicini al centro del disco, che altra volta quelle de' più remoti.
Ma quando anco non ci fosse
in pronto di poter far incontri sopra i disegni già fatti e sopra quelli che si
faranno, parmi ad ogni modo di poter dalle cose stesse proposte ed ammesse da
Apelle ritrar certa contradizione, per la quale molto ragionevolmente si possa
dubitare circa la verità dell'addotta osservazione ed, in consequenza, della
conclusione che indi si deduce. Imperò che io prima considero, che dovendo egli
valersi della disegualità de' tempi de' passaggi delle macchie come di
argomento necessariamente concludente la notabil lontananza loro dalla
superficie del Sole, è forza che e' supponga, quelle essere in una sola sfera
che di un moto comune a tutte si vada volgendo; perché se e' volesse che
ciascuna avesse suo moto particolare, niente da ciò si potrebbe raccòrre che
concernesse alla prova della remozion loro dal Sole, perché si potria sempre
dire che la maggior o la minor dimora di queste o di quelle nascesse non dalla
distanza della lor sfera dal Sole, ma dalla vera e reale desegualità de' lor
proprii moti. [...]
E perché, come ho detto
ancora, questo è punto principalissimo in questa materia, e la differenza tra
Apelle e me è grande (poi che le conversioni delle macchie a me paiono tutte
eguali e traversare il disco solare in giorni l4 e mezzo in circa, e ad esso
tanto ineguali, che alcuna consumi in tal passaggio giorni 16 o più, ed altra 9
solamente), parmi che sia molto necessario il tornar con replicato esame a
ricercar l'esatto di questo particolare; ricordandoci che la natura, sorda ed
inesorabile a' nostri preghi, non è per alterare o ner mutare il corso de' suoi
effetti, e che quelle cose che noi procuriamo adesso d'investigare e poi
persuadere a gli altri, non sono state solamente una volta e poi mancate, ma
seguitano e seguiteranno gran tempo il loro stile, sì che da molti e molti
saranno vedute ed osservate: il che ci deve esser gran freno per renderci tanto
più circospetti nel pronunziare le nostre proposizioni, e nel guardarci che
qualche affetto, o verso noi stessi o verso altri, non ci faccia punto piegare
dalla mira della pura verità. [...]
Io spero che da quanto sin
qui ho detto Apelle doverà restar satisfatto, e massime aggiugnendovi quello
che ho scritto nella seconda lettera; e crederò ch'e' non sia per metter
difficoltà non solo nella massima vicinanza delle macchie al globo solare ma né
anco nella di lui revoluzione in sé medesimo. In confirmazion di che, posso
aggiugnere alle ragioni che scrissi nella seconda lettera a V. S., che nella
medesima faccia del Sole, si veggono tal volta alcune piazzette più chiare del
resto, nelle quali, con diligenza osservate, si vede il medesimo movimento che
nelle macchie; e che queste sieno nell'istessa superficie del Sole, non credo
che possa restar dubbio ad alcuno, non essendo in verun modo credibile che si
trovi fuor del Sole sustanza alcuna più di lui risplendente: e se questo è, non
mi par che rimanga luogo di poter dubitare del rivolgimento del globo solare in
sé medesimo. E tale è la connession de' veri, che di qua poi
corrispondentemente ne séguita la contiguità delle macchie alla superficie del
Sole, e l'esser dalla sua conversione menate in volta; non apparendo veruna
probabil ragione, come esse (quando fossero per molto spazio separate dal Sole)
dovessero seguitare il di lui rivolgimento.
Restami ora il considerare
alcune consequenze che Apelle va deducendo dalle cose disputate: la somma delle
quali par che tenda al sostentamento di quel ch'egli si trova avere stabilito
nelle sue prime lettere, cioè che tali macchie in fine altro non sieno che
stelle vaganti intorno al Sole; perché non solamente e' torna a nominarle
stelle solari, ma va accomodando alcune convenienze e requisiti tra esse e
l'altre stelle, acciò resti tolta ogni discrepanza e ragione di segregarle
dalle vere stelle. Per tal rispetto ed anco per applauder alle mie montuosità
lunari (del quale affetto io gli rendo grazie), dice che tal mia opinione non è
improbabile scorgendosi anco l'istesso nella maggior parte di queste macchie;
ragione, in vero, che congiunta con le altre dimostrazioni ch'io produco,
doverà quietare ogn'uno.
Che il parer di quelli che
pongono abitatori in Giove, in Venere in Saturno e nella Luna sia falso e
dannando, intendendo però per abitatori gli animali nostrali e sopra tutto gli
uomini, io non solo concorro con Apelle in reputarlo tale, ma credo di poterlo
con ragioni necessarie dimostrare. Se poi si possa probabilmente stimare, nella
Luna o in altro pianeta esser viventi e vegetabili diversi non solo da i
terrestri, ma lontanissimi da ogni nostra immaginazione, io per me né lo
affermerò né lo negherò, ma lascerò che più di me sapienti determinino sopra
ciò, e seguiterò le loro determinazioni; sicuro che sieno per esser meglio
fondate della ragione addotta da Apelle in questo luogo, cioè che sarebbe assurdo
il mettergli in tanti corpi, quasi che il porre animali, per essempio, nella
Luna non si potesse far senza porgli anco nelle macchie solari. Né anco ben
capisco l'illazione che fa Apelle del doversi conceder qualche lume reflesso
alla Terra, persuadendone ciò le macchie solari: anzi, perché la loro
reflessione non è molto cospicua, e quello che in esse scorgiamo non può esser
altro che lume refratto, se nulla convenisse dedur da tale accidente sarebbe
più presto che la Terra fosse di sostanza trasparente e permeabile dal lume del
Sole; il che poi non appar vero. Non però dico che la Terra non lo refletta;
anzi per molte ragioni ed esperienze son sicurissimo ch'ella non meno
s'illustra di qualunque altra stella, e che con la sua reflessione luce assai
maggiore rende alla Luna di quella che da lei riceve.
Ma poi che Apelle si rende
così difficile a conceder questa così potente reflessione di lume fatta dal
globo terreste, e così facile ad ammettere il corpo lunare traspicuo e
penetrabile da i raggi solari, come in questo luogo ed ancor più apertamente
replica verso il fine di questi discorsi, voglio produrre una o due delle molte
ragioni che mi persuadono quella conclusione per vera e questa per falsa; le
quali, per avventura risolute con qualche occasione da Apelle, potrebbono farmi
cangiar opinione. Non tacerò intanto che io fortemente dubito, che questo comun
concetto, che la Terra, come opachissima oscura ed aspra che l'è, sia inabile a
reflettere il lume del Sole, sì come all'incontro molto lo reflette la Luna e
gli altri pianeti, sia invalso tra 'l popolo perché non ci avvien mai il
poterla vedere da qualche luogo tenebroso e lontano nel tempo che il Sole la
illumina, come, per l'opposito, frequentemente vediamo la Luna, quando ed ella
si trova nel campo oscuro del cielo, e noi siamo ingombrati dalle tenebre
notturne; ed accadendoci, dopo aver non senza qualche meraviglia fissati gli
occhi nello splendor della Luna e delle stelle, abbassargli in Terra, restiamo
dalla sua oscurità in certo modo attristati, e di lei formiamo una tale
apprensione, come di cosa repugnante per sua natura ad ogni lucidezza; non
considerando più oltre, come nulla rileva al ricevere e reflettere il lume del
Sole, la densità oscurità ed asprezza della materia e che l'illuminare è dote e
virtù del Sole, non bisognosa d'eccellenza veruna ne i corpi che devono essere
illuminati, anzi più presto sendo necessario il levargli certe condizioni più
nobili, come la trasparenza della sustanza e la lisciezza della superficie,
facendo quella opaca e questa ruvida e scabrosa: ed io son molto ben sicuro,
contro alla comune opinione, chè quando la Luna fosse polita e tersa come uno
specchio, ella non solamente non ci refletterebbe, come fa, il lume del Sole,
ma ci resterebbe assolutamente invisibile, come se la non fosse al mondo; il
che a suo luogo con chiare dimostrazioni farò manifesto.
Ma per non traviare dal
particolare che ora tratto, dico che facilmente m'induco a credere, che se già
mai non ci fosse occorso il veder la Luna di notte, ma solamente di giorno,
avremmo di lei fatto il medesimo concetto e giudizio che della Terra: perché,
se porremo cura alla Luna il giorno, quando talvolta, sendo più che 'l quarto
illuminata, ella s'imbatte a trovarsi tra le rotture di qualche nugola bianca o
vero incontro a qualche sommità di torre o altro muro di color mezzanamente
chiaro, quando rettamente sono illustrati dal Sole, sì che della chiarezza di
quelli si possa far parallelo col lume della Luna, certo si troverà la lor
lucidezza non esser inferiore a quella della Luna; onde se loro ancora
potessero mantenersi così illustrati sin alle tenebre della notte, lucidi ci si
mostrerieno non meno della Luna, né men di quella illuminerebbono i luoghi a
loro circonvicini, sin a tanta distanza da quanta la lor grandezza non
apparisse minor della faccia lunare; ma le medesime nugole e l'istesse
muraglie, spogliate de' raggi del Sole, rimangono poi la notte, non men della
Terra, tenebrose e nere. Di più, gran sicurezza doveremo noi pur prender
dall'efficace reflession della Terra dal veder quanto lume si sparga in una
stanza priva d'ogn'altra luce, e solo illuminata dalla reflession di qualche
muro oppostogli e tocco dal Sole, ancor che tal reflessione passi per un foro
così angusto, che dal luogo dove ella vien ricevuta non apparisca il suo
diametro sottendere ad angolo maggiore che 'l visual diametro della Luna; nulla
di meno tal luce secondaria è così potente, che, ripercossa e rimandata dalla
prima in una seconda stanza, sarà ancor tanta che non punto cederà alla prima
reflessione della Luna: di che si ha chiara e facile esperienza dal veder che
più agevolmente leggeremo un libro con la seconda reflession del muro, che con
la prima della Luna. Aggiungo finalmente, che pochi saranno quelli a' quali,
scorgendo di notte da lontano qualche fiamma sopra d'un monte, non sia accaduto
star in dubbio, se fosse un fuoco o una stella radente l'orizonte, non ci
apparendo il lume della stella superiore a quel d'una fiamma; dal che ben si
può credere che se la Terra fosse tutta ardente e piena di fiamme, veduta dalla
parte tenebrosa della Luna, si mostrerebbe non men lucida d'una stella: ma ogni
sasso ed ogni zolla percossa dal Sole e assai più lucida che se ardesse; il che
si conoscerà facilmente, accostando una candela accesa appresso una pietra o un
legno direttamente ferito dal raggio solare, al cui paragone la fiamma resta
invisibile: adunque la Terra, percossa dal Sole, veduta dalla parte tenebrosa
della Luna, si mostrerà lucida come ogn'altra stella; e tanto maggior lume refletterà
nella Luna, quanto ella vi si dimostra di smisurata grandezza, cioè di
superficie circa 12 volte maggiore di quello che la Luna apparisce a noi; oltre
che, trovandosi la Terra nel novilunio più vicina al Sole che la Luna nel
plenilunio, e però sendo più gagliardamente, cioè più d'appresso, illuminata
quella che questa, più gagliardamente, in consequenza refletterà il lume la
Terra verso la Luna, che la Luna verso la Terra.
Per queste e per molte altre
ragioni ed esperienze, che per brevità tralascio, dovrebbe, per mio credere,
stimarsi la reflession della Terra bastante alla secondaria illuminazion della
luna, senza bisogno d'introdurvi alcuna perspicuità, e massime perspicuità in
in quel grado che da Apelle ci viene assegnata, nella quale mi par di scorgere
alcune inesplicabili contradizioni. Egli scrive, la trasparenza del corpo
lunare esser tanta, che ne gli eclissi del Sole, mentre di lui una parte era
ricoperta dalla Luna, si scorgeva sensibilmente per la di lei profondità
tralucer il disco del Sole, notabilmente dintornato e distinto. Ora io noto,
che una semplice nugola, e non delle più dense, interponendosi tra il Sole e
noi, talmente ce l'asconde, che indarno cercheremo di appostare a molti gradi
il luogo dove ei si ritrova nel Cielo, non che potessimo vedere il suo
perimetro distinto e terminato; e molto frequentemente si vedrà il Sole mezo
coperto da una nugola, senza che appaia né anco accennato un minimo vestigio
della circonferenza della parte celata; e pure siamo sicuri che la grossezza di
tal nugola non sarà molte decine o al più centinaia di braccia: ed oltre a ciò,
se tal volta, essendo sul giogo di qualche montagna, c'imbattiamo a passar per
una tal nugola, non la troviamo esser tanto densa e opaca, che almeno per
alcune poche braccia non dia il transito alla nostra vista; il che non farebbe
per avventura altrettanta grossezza di vetro o di cristallo: onde per
necessaria consequenza si raccoglie, se e vero quanto Apelle scrive, che la
trasparenza della Luna sia infinitamente maggiore che quella d'una nugola, poi
che molto meno impediscono il passaggio de' raggi solari duemila miglia di
profondità della sustanza lunare, che poche braccia di grossezza d'una nugola;
sarà, dunque, la sustanza lunare assai più trasparente del vetro o del cristallo:
la qual cosa poi per altri rispetti si convince d'impossibilità. Perché,
primieramente da un diafano nel quale tanto si profondassero i raggi solari,
niuna o pochissima reflessione si farebbe; dove che, all'incontro, grandissima
si fa dalla Luna. Secondariamente, il termine che distinguesse la parte
illuminata della Luna dalla parte non tocca da i raggi diretti del Sole sarebbe
nullo o indistintissimo, come si può vedere in una gran palla di vetro piena
d'acqua, ben che torbida, o d'altro liquore non interamente trasparente (ché se
fosse acqua limpida, tal termine non si vedrebbe punto). Terzo, essendo tanto
trasparente la sustanza lunare, che in grossezza di duemila miglia desse il
transito al lume del Sole, non si può dubitare che una grossezza della medesima
materia che non fosse più di una delle dugento o trecento parti sarebbe in
tutto trasparentissima; al che totalmente repugnano le montuosità lunari, le
quali tutte, ben che molte di loro si vegghino assai sottili e strette,
oscurano d'ombre nerissime le parti circonvicine e basse, come in luoghi
innumerabili si scorge, e massime nel confine tra l'illuminato e l'oscuro, dove
taglientissimamente e crudamente, quanto più imaginar si possa, i lumi
conterminano con le ombre, il quale accidente in verun modo non può aver luogo
se non in materie simili in asprezza ed opacità alle nostre più alpestri
montagne. Finalmente, quando lo splendor del Sole penetrasse tutta la
corpulenza della Luna, la chiarezza dell'emisfero non tocco da i raggi dovria
mostrarsi sempre l'istessa né mai diminuirsi, poi che sempre è nell'istesso
modo illuminata la metà della Luna: o se pur diversità alcuna veder vi si
dovesse dovrebbesi nel novilunio veder la parte di mezzo più oscura del resto,
essendo quivi maggior la profondità della materia da esser penetrata; e nelle
quadrature maggior chiarezza dovria esser vicino al confin della luce, e minor
nella parte più remota. Le quali cose, e molte altre che per brevità trapasso,
rendono iscordissima tal ipotesi dall'apparenze; dove che l'assunto
dell'opacità e dell'asprezza della Luna, e la reflessione del lume del Sole
nella Terra, ipotesi tutte e vere e sensate, con mirabil facilità e pienezza
satisfanno ad ogni particolar problema. Ma di ciò più diffusamente tratto in
altra occasione.
E tornando a i particolari
d'Apelle, sento nascermi qualche poco d'inclinazione a dubitar ch'egli,
trasportato dal desiderio di mantenere il suo primo detto, né potendo
puntualmente accomodar le macchie a gli accidenti per l'addietro creduti
convenirsi all'altre stelle, accomodi le stelle a gli accidenti che veggiamo
convenirsi alle macchie: il che assai manifesto par che si scorga in due altri
gran particolari ch'egli introduce. L'uno de' quali è, che probabilmente si
possa dire, anco le altre stelle esser di varie figure ed apparir rotonde
mediante il lume e la distanza, come accade nella fiamma della candela (e ci si
potria aggiugnere, in Venere cornicolata): e in vero tale asserzione non si
potrebbe convincer di manifesta falsità, se il telescopio, col mostrarci la
figura di tutte le stelle, così fisse come erranti, di assoluta rotondità, non
decidesse tal dubbio. L'altro particolare è, che non si potendo negare che le
macchie si produchino e si dissolvino, per non le sequestrar per tale accidente
dall'altre stelle, non dubita d'affermare che anco le altre stelle si vadino
disfacendo e redintegrando; ed in particolare reputa per tali quelle ch'io ho
osservato muoversi intorno a Giove, delle quali torna a replicare il medesimo
che scrisse nelle prime lettere, raffermandolo come fondatamente detto, cioè
che, al modo stesso dell'ombre solari, altre repentinamente appariscono ed
altre svaniscono, sì che, pur come quelle, altre sempre ad altre succedono,
senza mai ritornar le medesime: né picciolo argomento cava in confirmazion di
ciò dalla difficoltà e forse impossibilità, come egli stima, del cavare i loro
periodi ordinati dalle osservazioni, delle quali egli afferma averne molte ed
esatte, e sue; proprie e di altri. Or qui desidererei bene che Apelle non continuasse
di reputarmi per uomo così vano e leggiero, che non solo i' avessi palesate ed
offerte al mondo macchie ed ombre per istelle, ma, quello che più importa,
avessi dedicato alla gloria di sì gran Principe qual è il Serenissimo Gran Duca
mio Signore, ed all'eternità di casa tanto regia, cose momentanee instabili e
transitorie. Replicogli per tanto, che i quattro pianeti Medicei sono stelle
vere e reali, permanenti e perpetue come l'altre, né si perdono o ascondono se
non quanto si congiungono tra loro o con Giove, o si oscurano tal volta per
poche ore nell'ombra di quello, come la Luna in quella della Terra: hanno i lor
moti regolatissimi ed i lor periodi certi, li quali se egli non ha potuto
investigare, forse non vi si è affaticato quanto me, che dopo molte vigilie pur
li guadagnai, e già gli ho palesati con le stampe nel proemio del mio trattato
Delle cose che stanno su l'acqua o che in quella si muovono, come V. S. arà
potuto vedere; ed acciò che Apelle possa tanto maggiormente deporre ogni
dubbio, io mando a V. S. le costituzioni future per due mesi, cominciando dal
dì primo di Marzo 1613, con le annotazioni de i progressi e mutazioni che d'ora
in ora son per fare, le quali egli potrà andar incontrando, e troveralle
rispondere esattamente, se già non mi sarà per inavvertenza occorso qualche
errore nel calcolarle. Desidero appresso, che con nuova diligenza torni ad
osservarne il numero che troverà non esser più di 4: e quella quinta che e'
nomina, fu senz'altro una fissa, e le conietture dalle quali e' si lasciò
sollevare a stimarla errante, ebbero per lor fondamento varie fallacie;
conciosia cosa che le sue osservazioni, primieramente sono errate bene spesso,
come io veggo da' suoi disegni, perché lasciano qualche stella che in quelle
ore fu cospicua: secondariamente, gl'interstizi tra di loro e rispetto a Giove
sono errati quasi tutti, per mancamento, com'io credo, di modo e di strumento
da potergli misurare; terzo, vi sono grandi errori nella permutazione delle
stelle, scambiandole il più delle volte l'una dall'altra e confondendo le
superiori con l'inferiori, senza riconoscerle di sera in sera; le quali cose
gli sono state causa dell'inganno.
[...] Ma più: qual
incostanza è questa d'Apelle a voler, per provare una sua fantasia, suppor in
questo luogo che le stelle notate nelle sue osservazioni e conrassegnate con i
medesimi caratteri si conservino le medesime; dicendo poi poco più a basso,
creder fermamente che le si vadino continuamente producendo e successivamente
dissolvendo, senza ritornar mai l'istesse? E se questo è, qual cosa vuol egli,
e può, raccòrr da questi suoi discorsi?
All'altra ragione che Apelle
adduce pur in confirmazione della vera esistenza del suo quinto pianeta
Gioviale, non mi permettendo la fede e l'autorità, ch'ei tiene appresso di me,
ch'io metta dubbio nell'an sit, non posso dir altro se non che io non
son capace, come possa accadere che una stella, veduta col telescopio di mole e
splendore pari ad una della prima grandezza, possa in manco 10 giorni, e, quel
che più mi confonde, senza muoversi d'un quarto o di un ottavo di grado, anzi,
per più ver dire, senza punto mutar luogo, possa, dico, diminuirsi in maniera,
che anco del tutto si perda. Non so che simil portento sia mai stato veduto in
cielo, fuori che le due, nominate, Stelle Nuove, del 72 in Cassiopea, e
del 604 nel Serpentario: e se questa fu una tal cosa, o tanto inferior di
condizione quanto men lucida e più fugace, provido fu il consiglio di Apelle
nel procurargli durazion e lume dall'Illustrissima casa Velsera.
Non son dunque le Gioviali,
né l'altre stelle, macchie ed ombre, né l'ombre e macchie solari sono stelle.
Ben è vero ch'io metto così poca difficoltà sopra i nomi, anzi pur so ch'è in
arbitrio di ciascuno l'imporgli, a modo suo, che, tuttavolta che col nome altri
non credesse di conferirgli le condizioni intrinseche ed essenziali, poco caso
farei del nominarle stelle: in quella guisa che stelle si dissero le
sopranominate del 72 e del 604; stelle nominano i meteorologici le crinite, le
cadenti e le discorrenti per aria, ed essendo in fin permesso a gli amanti ed
a' poeti chiamare stelle gli occhi delle lor donne,
Quando si vidde il successor
d'Astolfo
sopra apparir quelle ridenti
stelle.
Con simile ragione potransi
chiamare stelle anco le macchie solari; ma essenzialmente averanno condizioni
differenti non poco dalle prime stelle: avvenga che le vere stelle ci si
mostrano sempre di una sola figura, ed è la regolarissima fra tutte; e le macchie,
d'infinite, ed irregolarissime tutte: quelle, consistenti né mai mutatesi di
grandezza o di forma; e queste, instabili sempre e mutabili: quelle, l'istesse
sempre, e di permanenza che supera le memorie di tutti i secoli decorsi;
queste, generabili e dissolubili dall'uno all'altro giorno: quelle, non mai
visibili, se non piene di luce; queste, oscure sempre, e splendide non mai:
quelle, o in tutto immobili, o mobili ogn'una per sé, di moti proprii, regolari
e tra di loro differentissimi; queste, mobili di un moto solo, comune a tutte,
regolare solamente in universale, ma da infinite particolari disagguaglianze
alterato: quelle, costituite tutte in particolare in diverse lontananze dal
Sole; e queste, tutte contigue, o insensibilmente remote dalla sua superficie:
quelle, non mai visibili se non quando sono assai separate dal Sole; queste,
non mai vedute se non congiuntegli: quelle, di materia probabilissimamente
densa ed opacissima; queste, rare a guisa di nebbia o fumo. Ora io non so per
qual ragione le macchie si devino ascrivere tra quelle cose con le quali non
hanno pure una particolar convenienza che non ve l'abbino ancora cento altre
che stelle non sono, più presto che tra quelle con le quali mostrano di
convenire in ogni particolare. Io le agguagliai alle nostre nugole o a fumi; e
certo chi volesse con alcuna delle nostre materie imitarle, non credo che
facilmente si trovasse più aggiustata imitazione, che 'l porre sopra una
rovente piastra di ferro alcune piccole stille di qualche bitume di difficil
combustione, il quale sul ferro imprimerebbe una macchia nera, dalla quale,
come da sua radice, si eleverebbe un fumo oscuro, che in figure stravaganti e
mutabili si anderebbe spargendo. E se alcuno pur volesse opinabilmente stimare,
che alla restaurazione dell'immensa luce che da sì gran lampada continuamente
si diffonde per l'espansion del mondo, facesse di mestiere che continuamente
fusse somministrato pabulo e nutrimento, ben averebbe non una sola, ma 100 e
tutte l'esperienze concordemente favorevoli, nelle quali vediamo tutte le
materie, fatte prossime all'incendersi e convertirsi in luce, ridursi prima ad
un color nero ed oscuro; così vediamo ne' legni nella paglia, nella carta,
nelle candele, ed in somma in tutte le cose ardenti, esser la fiamma impiantata
e sorgente dalle contigue parti di tali materie, prima convertite in color
nero. E più direi, che forse più accuratamente osservando le sopranominate
piazzette, lucide più del resto del disco solare, si potrebbe ritrovare, quelle
esser i luoghi medesimi dove poco avanti si fossero dissolute alcune delle
macchie più grandi. Io però non intendo di asserire alcuna di queste cose per
certa, né di obbligarmi a sostenerla, non mi piacendo di mescolar le cose
dubbie tra le certe e resolute.
Di qua dall'Alpi va attorno,
come intendo tra non piccol numero de i filosofi peripatetici a i quali non
grava il filosofare per desiderio del vero e delle sue cause (perché altri che
indifferentemente negano tutte queste novità e sene burlano, stimandole
illusioni, è ormai ternpo che ci burliamo di loro, e che essi restino
invisibili ed inaudibili insieme), va attorno, dico, per difender
l'inalterabilità del cielo (la quale forse Aristotele medesimo in questo secolo
abbandonerebbe), una opinione conforme a questa d'Apelle, e solamente diversa,
che dove egli pone per ciascuna macchia una stella sola, questi fanno le
macchie congerie di molte minutissime, le quali con loro differenti movimenti
aggregandosi, or in maggior copia, ora in minore, e quindi separandosi, formino
e maggiori e minori macchie, e di sregolate e diversissime figure. Io, già che
ho passato il segno della brevità con V. S., sì che ella è per leggere in più
volte la presente lettera, mi prenderò libertà di toccare qualche particolare
sopra questo punto.
Nel quale il primo concetto
che mi viene in mente è, che i seguaci di questa opinione non abbino auto
occasione di far molte e molto diligenti e continuate osservazioni; perché mi
persuado che alcune difficoltà gli averebbono resi non poco dubbii e perplessi nell'accomodare
una tal posizione alle apparenze. Perché, se bene è vero in genere che molti
oggetti, ben che per la lor piccolezza o lontananza invisibili ciascuno per sé
solo, uniti insieme possono formare un aggregato che divenga percettibile alla
nostra vista, tuttavia non è da fermarsi su questa generalità, ma bisogna che
descendiamo a i particolari proprii delle stelle ed a quelli che si osservano
nelle macchie, e che diligentemente andiamo esaminando, con qual concordia
questi e quelli possino mischiarsi e convenire insieme; e per non far come quel
castellano che, sendo con piccol numero di soldati alla difesa d'una fortezza,
per soccorrer quella parte che vede assalita vi accorre con tutte le forze
lasciando intanto altri luoghi indifesi ed aperti, conviene che, mentre ci
sforziamo di difender l'immutabilità del cielo, non ci scordiamo de i pericoli
a i quali per avventura potriano restar esposte altre proposizioni, pur
necessarie alla conservazione della filosofia peripatetica. E però, se questa
deve restare nella sua integrità e saldezza, conviene che, per mantenimento
d'altre sue proposizioni, diciamo primieramente, delle stelle altre esser
fisse, altre erranti: chiamando fisse quelle che, sendo tutte in un medesimo
cielo, al moto di quello si muovono tutte, restando intanto immobili tra di
loro; ma erranti, quelle.che hanno ogn'una per sé movimento proprio: affermando
di più, che le conversioni non meno di queste che di quelle sono ciascheduna
equabile in sé medesima, non convenendo dare alle lor motrici intelligenze
briga di affaticarsi or più or meno, che saria condizione troppo repugnante
alla nobiltà ed alla inalterabilità loro e delle sfere. Stanti queste
proposizioni, non si può, primieramente, dire che tali stelle solari sien
fisse; perché, quando non si mutassero tra di loro, impossibil sarebbe vedere
le mutazioni continue che pur si scorgono nelle macchie, ma sempre vedremo
ritornar le medesime configurazioni. Resta, dunque, che le siano mobili,
ciascheduna per sé, di movimenti diseguali fra di loro, ma ben ciascuno
equabile in sé medesimo: ed in tal guisa potrà seguire l'accozzamento e la
separazione di alcune di loro, ma non però potranno mai formar le macchie; il
che intenderemo considerando alcuni particolari che nelle macchie si scorgono.
Uno de' quali è, che vedendosene alcune molto grandi prodursi e dissolversi, è
forza che le siano composte non di due o di quattro stelle solamente, ma di 50
e 100, perché altre macchiette pur si veggono, minori della cinquantesima parte
d'una delle grandi; se, dunque, una di queste si dissolve, sì che totalmente
svanisce da gli occhi nostri, è necessario che la si divida in più di 50
stellette, ciascheduna delle quali ha il suo proprio e particolar moto,
equabile e differente da quello d'ogn'altra, perché due che avessero il moto
comune non si congiugnerebbono o non si separerebbono già mai in faccia del
Sole: ma se queste cose son vere, chi non vede essere assolutamente impossibile
la formazione delle macchie? e massime durando esse non solamente molte ore, ma
molti giorni; sì come è impossibile che cinquanta barche, movendosi tutte con
velocità differenti, si unischino già mai, e per lungo spazio vadino di
conserva. Quando le stellette fussero disunite, e però invisibili, non potriano
essere se non per lunghi ordini disposte, l'una dopo l'altra, secondo la
lunghezza de' lor paralleli, ne i quali (sì come nelle visibili macchie si
scorge) tutte verso la medesima parte si vanno movendo; onde tantum abest
che 40 o 50 o100 di loro potessero tanto frequentemente aggregarsi e così unite
per lungo spazio conservarsi, che per l'opposito rarissime volte accader
potrebbe che, tra momenti diseguali, cadesse sì numeroso concorso di stelle in
un sol luogo: ma assolutamente poi sarebbe impossibile che e' non si dissolvesse
in brevissimo tempo; e pur, all'incontro, si veggono molte macchie conservarsi
talora per molti giorni, con poca alterazion di figura. Chi, dunque, vorrà
sostener, le macchie esser congerie di minute stelle, bisogna che introduca nel
cielo ed in esse stelle e movimenti innumerabili, tumultuarii, difformi e
lontani da ogni regolarità; il che non ben consuona con alcuna probabil
filosofia.
Sarà, di più, necessario
porle più numerose di tutte l'altre visibili stelle: perché, se noi
riguarderemo la moltitudine e grandezza di tutte le macchie che tal volta si
son vedute sotto l'emisferio del Sole, e quelle andremo risolvendo in
particelle così piccole che divenghino incospicue, troveremo bisognar che
necessariamente le siano molte centinaia; ed essendo, di più, credibile che
altre ne siano non solamente sopra l'altro emisferio, ma dalle bande ancora del
Sole, non si potrà ragionevolmente sfuggire di dover porle oltre al migliaio.
Or qual simmetria si andrà conservando tra le lontananze delle stelle erranti
ed i tempi delle lor conversioni, se discendendo dall'immenso cerchio di
Saturno sin all'angustissirno di Mercurio non s'incontrano più di 10 o 12
stelle né più di 6 conversioni di periodi differenti intorno al Sole, dovendone
poi collocar centinaia e migliaia dentro a così piccolo orbe? ché pur saria
necessario racchiuderle dentro alle digressioni di Mercurio, poi che già mai
non si rendono visibili in aspetto lucido e separate dal Sole. Ma che dico io
di racchiuderle dentro all'orbe di Mercurio? diciamo pure, che essendosi
necessariamente dimostrato, le macchie esser tutte contigue o insensibilmente
remote dalla superficie del Sole, bisogna, a chi le vuol far creder congerie di
minute stelle, trovar prima modo di persuadere che sopra la solar superficie
molte e molte centinaia di globi oscuri e densi vadino serpendo con differenti
velocitadi, e spesso urtandosi e tra di loro facendosi ostacolo, onde le scorse
de' più veloci restino per alcuni giorni impedite da i più pigri; sì che dal
concorso di gran moltitudine si formino in molti luoghi varii drappelli, di
ampiezza a noi visibile, sin tanto che la calca della sopravvegnente
moltitudine, sforzando finalmente i precedenti, si faccia strada e si disperda
il gregge.
A grandi angustie bisogna
ridursi: e poi, per sostener che? e con quale efficacia dimostrato? Per
mantenere la materia celeste aliena dalle condizioni elementari, insino da ogni
picciola alterazioncella. Se quella che vien chiamata corruzzione fosse
annichilazione, averebbono i Peripatetici qualche ragione a essergli così
nemici; ma se non è altro che una mutazione, non merita cotanto odio; né parmi
che ragionevolmente alcuno si querelasse della corruzion dell'uovo, mentre di
quello si genera il pulcino. In oltre, essendo questa che vien detta generazione
e corruzione, solo una piccola mutazioncella in poca parte de gli elementi e
quale né anco dalla Luna, orbe prossimo, si scorgerebbe, perché negarla nel
cielo. Pensano forse, argomentando dalla parte al tutto, che la Terra sia per
dissolversi e corrompersi tutta, in guisa che sia per venir tempo nel quale il
mondo, avendo Sole Luna e l'altre stelle sia per trovarsi senza Terra? Non
credo già che abbino tal sospetto. E se le sue piccole mutazioni non minacciano
alla Terra la sua total destruzione, né gli sono d'imperfezione, anzi di sommo
ornamento, perché privarne gli altri corpi mondani, e temer tanto la
dissoluzione del cielo per alterazioni non più di queste nemiche della natural
conservazione? Io dubito che 'l voler noi misurar il tutto con la scarsa misura
nostra ci faccia incorrere in strane fantasie, e che l'odio nostro particolare
contro alla morte ci renda odiosa la fragilità: tuttavia non so dall'altra
banda quanto, per divenir manco mutabili, ci fosse caro l'incontro d'una testa
di Medusa, che ci convertisse in un marmo o in un diamante, spogliandoci de'
sensi e di altri moti, li quali senza le corporali alterazioni in noi sussister
non potrebbono. Io non voglio passar più innanzi né entrar a esaminare la forza
delle peripatetiche ragioni, al che mi riserbo in altro tempo: questo solo
soggiugnerò, parermi azione non interamente da vero filosofo il voler
persistere, siami lecito dir quasi ostinatamente in sostener conclusioni
peripatetiche scoperte manifestamente false, persuadendosi forse che Aristotele,
quando nell'età nostra Si ritrovasse, fosse per far il medesimo; quasi che
maggior segno di perfetto giudizio e più nobil effetto di profonda dottrina sia
il difendere il falso, che 'l restar persuaso dal vero. E parmi che simili
ingegni dieno occasione altrui di dubitare, che loro per avventura apprezzin
manco l'esattamente penetrar la forza delle peripatetiche e delle contrarie
ragioni, che 'l conservar l'imperio all'autorità d'Aristotele, come ch'ella sia
bastante con tanto lor minor travaglio e fatica a schivargli tutte
l'opposizioni pericolose, quanto è men difficile il trovar testi e 'l
confrontar luoghi che l'investigar conclusioni vere e 'l formar di loro nuove e
concludenti dimostrazioni. E parmi, oltre a ciò, che troppo vogliamo abbassar la
condizion nostra, e non senza qualche offesa della natura e direi quasi della
divina Benignità (la quale per aiuto all'intender la sua gran costruzione ci ha
conceduti 2000 anni più d'osservazioni e vista 20 volte più acuta, che ad
Aristotele), col voler più presto imparar da lui quello ch'egli né seppe né
potette sapere, che da gli occhi nostri e dal nostro proprio discorso. Ma per
non m'allontanar più dal mio principal intento, dico bastarmi per ora l'aver
dimostrato che le macchie non sono stelle né materie consistenti né locate
lontane dal Sole, ma che si producono e dissolvono intorno ad esso, con maniera
non dissimile a quella delle nugole o altre fumosità intorno alla Terra.
Questo è quanto per ora m'è
parso di dire a V. S. Illustrissima in proposito di questa materia, la quale io
credeva che dovesse essere il sigillo di tutti i nuovi scoprimenti che ho fatti
nel cielo, e che per l'avvenire mi fosse per restar ozio libero di poter
tornare senza interrompimenti ad altri miei studii, già che mi era anco
felicemente succeduto l'investigare, dopo molte vigilie e fatiche, i tempi
periodici di tutti quattro i pianeti Medicei, e fabbricarne le tavole e ciò che
appartiene a' calcoli ed altri loro particolari accidenti; le quali cose in
breve manderò in luce, con tutto il resto delle considerazioni fatte intorno
all'altre celesti novità: ma è restato fallace il mio pensiero per
l'inaspettata meraviglia con la quale Saturno è venuto ultimamente a
perturbarmi; di che voglio dar conto a V. S.
Già le scrissi come circa a
3 anni fa scopersi, con mia grande ammirazione, Saturno esser tricorporeo, cioè
un aggregato di tre stelle disposte in linea retta parallela all'equinoziale,
delle quali la media era assai maggiore delle laterali. Queste furono credute
da me esser immobili tra di loro: né fu la mia credenza irragionevole; poi che,
avendole nella prima osservazione vedute tanto propinque che quasi mostravano
di toccarsi, e tali essendosi conservate per più di due anni, senza apparire in
loro mutazione alcuna, ben dovevo io credere che le fossero tra di sé
totalmente immobili, perché un solo minuto secondo (movimento incomparabilmente
più lento di tutti gli altri, anco delle massime sfere) Si sarebbe in tanto
tempo fatto sensibile, o col separare o coll'unire totalmente le tre stelle.
Triforme ho veduto ancora Saturno quest'anno circa il solstizio estivo; ed
avendo poi intermesso di osservarlo per più di due mesi, come quello che non
mettevo dubbio sopra la sua costanza, finalmente, tornato a rimirarlo i giorni
passati, l'ho ritrovato solitario senza l'assistenza delle consuete stelle, ed
in somma perfettamente rotondo e terminato come Giove, e tale si va tuttavia
mantenendo. Ora che si ha da dir in così strana metamorfosi? forse si sono
consumate le due minor stelle, al modo delle macchie solari? forse sono sparite
e repentinamente fuggite? forse Saturno si ha divorato i proprii figli? o pure
è stata illusione e fraude l'apparenza con la quale i cristalli hanno per tanto
tempo ingannato me con tanti altri che meco molte volte gli osservarono? è
forse ora venuto il tempo di rinverdir la speranza, già prossima al seccarsi,
in quelli che, retti da più profonde contemplazioni, hanno penetrato tutte le
nuove osservazioni esser fallacie, né poter in veruna maniera sussistere? Io non
ho che dire cosa resoluta in caso così strano inopinato e nuovo la brevità del
tempo, l'accidente senza esempio, la debolezza dell'ingegno e 'l timore
dell'errare, mi rendono grandemente confuso. Ma siami per una volta permesso di
usare un poco di temerità, la quale mi dovrà tanto più benignamente esser da V.
S. perdonata, quanto io la confesso per tale, e mi protesto che non intendo di
registrar quello che son per predire tra le proposizioni dependenti da
principii certi e conclusioni sicure, ma solo da alcune mie verisimili
conietture, le quali allora farò palesi, quando mi bisogneranno o per mostrare
la scusabile probabilità dell'opinione alla quale per ora inclino, o per
stabilire la certezza dell'assunta conclusione, qual volta il mio pensiero incontri
la verità. Le proposizioni son queste: Le due minori stelle Saturnie, le quali
di presente stanno celate, forse si scopriranno un poco per due mesi intorno al
solstizio estivo dell'anno prossimo futuro 1613, e poi s'asconderanno, restando
celate sin verso il brumal solstizio dell'anno 1614; circa il qual tempo
potrebbe accadere che di nuovo per qualche mese facessero di sé alcuna mostra,
tornando poi di nuovo ad ascondersi sin presso all'altra seguente bruma; al
qual tempo credo bene con maggior risolutezza che torneranno a comparire, né
più si asconderanno, se non che nel seguente solstizio estivo che sarà
dell'anno 1615, accenneranno alquanto di volersi occultare ma non però credo
che si asconderanno interamente, ma ben, tornando poco dopo a palesarsi, le
vedremo distintissime e più che mai lucide e grandi; e quasi risolutamente
ardirei di dire che le vedremo per molti anni senza interrompimento veruno. Sì
come, dunque, del ritorno io non ne dubito, così vo con riserbo ne gli altri
particolari accidenti, fondati per ora solamente su probabil coniettura: ma, o
succedino così per appunto o in altro modo, dico bene a V. S. che questa stella
ancora, e forse non men che l'apparenza di Venere cornicolata, con ammirabil
maniera concorre all'accordamento del gran sistema Copernicano, al cui
palesamento universale veggonsi propizii venti indirizzarci con tanto lucide
scorte, che ormai poco ci resta da temere tenebre o traversie.
Finisco di occupar più V. S.
Illustrissima, ma non senza pregarla ad offerir di nuovo l'amicizia e la
servitù mia ad Apelle: e se lei determinasse di fargli vedere questa lettera,
la prego a non la mandar senza l'accompagnatura di mie scuse, se forse gli
paresse ch'io troppo dissentissi dalle sue opinioni; perché, non desiderando
altro che 'l venire in cognizion del vero, ho liberamente spiegata l'opinion
mia, la quale son anco disposto a mutare qualunque volta mi sieno scoperti gli
errori miei, e terrò obbligo particolare a chiunque mi farà grazia di
palesargli e castigargli.
Bacio a V. S. Illustrissima
le mani, e caramente la saluto d'ordine dell'Illustrissimo Sig. Filippo
Salviati, nella cui amenissima villa mi ritrovo a continuar in sua compagnia
l'osservazioni celesti. Nostro Signore Dio gli conceda il compimento d'ogni suo
desiderio.
Dalla Villa delle Selve, il
I° di Dicembre 1612.
Di
V. S. Illustrissima
Devotissimo Servitore
Galileo
Galilei Linceo.
A MAFFEO BARBERINI IN
BOLOGNA
(Firenze, 2 giugno 1612)
Ill.mo e Rev.mo Sig.re e
P.ron Colen.mo
Tra i molti favori riceuti da
V. S. Ill.ma e R.ma, mi resta fisso nella memoria quello che ella mi fece alla
tavola del Ser.mo Gran Duca mio Sig.re nel passar ella ultimamente di qua,
quando, disputandosi di certa quistion filosofica, lei sostenne la parte mia
contro all'Ill.mo e R.mo Sig.re Cardinal Gonzaga e altri di opinione contraria
alla mia; e perché mi è convenuto, per comandamento di S.A., mettere più
distintamente in carta le mie ragioni, e appresso publicarle con la stampa, che
pur ora si è compita, mi è parso di doverne mandare una copia a V. S. R.ma, e
appresso supplicarla che con sua comodità resti servita di vedere o sentire
quanto io propongo in questo trattato, dove credo che ella non meno scorgerà
che prese il patrocinio tanto di un suo servitore quanto della verità stessa.
Credo che averà inteso il
romore, che va a torno in proposito delle macchie oscure che continuamente si
scorgono e osservano con l'occhiale nel corpo del sole; e perché di costì mi
viene scritto che uomini di molta stima di cotesta città se ne burlano come di
paradosso e assurdo gravissimo, mi è parso di toccare brevemente a V. S. Ill.ma
quanto passa circa a questo negozio
Sono circa a diciotto mesi,
che riguardando con l'occhiale nel corpo del sole, quando era vicino al suo
tramontare, scorsi in esso alcune macchie assai oscure; e ritornando più volte
alla medesima osservazione, mi accorsi come quelle andavano mutando sito, e che
non sempre si vedevano le medesime, o nel medesimo ordine disposte, e che tal
volta ve n'eron molte, altra volta poche, e tal ora nessune. Feci ad alcuni mia
amici vedere tale stravaganza, e pur l'anno passato in Roma le mostrai a molti
prelati e altri uomini di lettere; di lì fu sparso il grido per diverse parti
d'Europa, e da quattro mesi ha qua mi sono state mandate da varii luoghi varie
osservazioni disegnate, e in particolare tre lettere circa a questo argomento
scritte al Sig.r Marco Velsero d'Augusta, e date alle stampe con un nome finto
di Apelles latens post tabulam; le quali lettere mi furon mandate da l'istesso
Velsero, il quale mi ricercò del mio parere intorno alle dette lettere, e più
circa a quello che io stimavo di poter sapere dell'essenza di esse macchie. Io
gli scrissi una lettera di sei fogli in tal proposito, confutando l'opinione
del finto Apelle e di quelli che sin qui ne avevano parlato; e finalmente, dopo
molti e varii pensieri che mi sono passati per la fantasia, mi risolvo a
concludere e indubitatamente tenere, che le dette macchie siano contigue alla
superficie del corpo solare, e che quivi se ne generino e se ne dissolvino
continuamente, essendo altre di più lunga e altre di più breve durata: sonvene
delle più dense e oscure, e delle meno; per lo più si vanno di giorno in giorno
mutando di figura, la quale è il più delle volte irregolarissima;
frequentemente alcuna di loro si divide in due, tre o più, e altre, prima
divise, si uniscono in una; e finalmente, in virtù di un loro universale e
comune movimento, son venuto in certezza indubitabile che il sole si rivolge in
sé stesso da occidente verso oriente, cioè secondo tutte le altre revoluzioni
de' pianeti terminando un'intera conversione in un mese lunare in circa. E per
quanto ho osservato, la moltitudine massima di tali macchie si genera tra due
cerchi del globo solare che rispondono ai tropici, e fuori di tali cerchi non
ho quasi mai osservata alcuna di tali macchie; le quali, quanto alla
generazione e dissoluzione, rarefazione, condensazione, distrazione e mutamenti
di figura e ogn'altro accidente, se io dovesse agguagliare ad alcuna delle
materie nostre familiari non se ne troverebbe altra che più l'imitasse che le
nostre nugole.
Tutto questo che dico a V.
S. Ill.ma e R.ma è talmente vero, e per tanti e tanto necessari riscontri da me
confermato, che non mi perito punto a darlo omai fuori per sicuro; e il
burlarsene molti, come intendo, non mi spaventa punto, perché siamo in materie
che sempre potranno da infiniti e in tutte le parti del mondo esser osservate,
e di mano in mano da quelli di miglior senso riconosciute per vere: onde io animosamente
ardisco di esser il primo a dar fuora conclusioni che hanno sembianza di sì
strani paradossi. Solo mi dispiace che quelli che se ne burlano, giuocano, come
si suol dire, al sicuro, certi di non perdere e con rischio di guadagnar assai;
perché, se quanto io affermo e loro negano si trovasse esser falso, loro senza
fatica nessuna avrebbono il vanto di aver meglio inteso, che altri doppo molte
e laboriose osservazioni; e quando si venga in certezza che quanto io dico sia
vero, essi restano scusati dal non avere prestato l'assenso a cose tanto
inopinate. Se V. S. Ill.ma averà vedute le tre lettere del finto Apelle, io gli
potrò mandare copia della lettera che scrivo al Sig. Velsero in tal materia
intanto gli mando alcuni disegni delle macchie solari, fatti con somma
giustezza tanto circa al numero quanto circa alla grandezza, figura e
situazione di esse di giorno in giorno nel disco solare. Se occorrerà a V. S.
Ill.ma trattare di questa mia resoluzione con i litterati di cotesta città,
averò per grazia il sentire alcuna cosa de i loro pareri e in particolare de i
filosofi Peripatetici, poi che questa novità pare il giudizio finale della loro
filosofia, poi che iam fuerunt signa in luna, stellis et sole, insieme
con la mutabilità, corruzione e generazione anco della più eccellente sustanza
del cielo, tal dottrina accenna corruzione e mutazione, ma non senza speranza
di rigenerarsi in melius.
Ho tediato a bastanza V. S.
Ill.ma e R.ma: scusimi per la sua infinita benignità, e per la medesima mi
conservi il luogo che si è degnata donarmi nella grazia sua. E umilmente me
l'inchino.
Di Firenze, li 2 di Giugno
1612.
Di V. S.
Ill.ma e R.ma
Devot.mo e
Oblig.mo Ser.re
Galileo
Galilei.
A PAOLO GUALDO IN PADOVA
(Firenze, 16 giugno 1612)
Molto Ill.re e molto R.do
Sig.re Osser.mo
Ho inteso per la gratissima
sua quanto passa sin ora in proposito della lettera mia circa le macchie
solari; di che mi prendo gusto, e in particolare di quelli che, per non avere a
credere, non vogliono vedere; e il gusto procede perché io sto sempre sul
guadagnare e mai sul perdere, perché continuamente si vien convertendo qualche
incredulo, e de i già persuasi mai non se ne ribella veruno; perché tutto 'l
giorno si vanno scoprendo nuovi rincontri in confirmazion della verità; la
quale chi l'ha dalla banda sua, sta bene, e può ridere nel veder gl'avversarii
sbattersi e affaticarsi in vano. Ho anco un'altra consolazione: che queste
macchie solari e gl'altri miei scoprimenti non son cose che col tempo passino
via e non tornino così per fretta, come le stelle nuove del 72 e 604 o come le
comete, che pur finalmente si perdono e danno agio, con la lor mancanza, di
riposarsi a coloro che, mentre esse furon presenti, stettero in qualche
angustia; ma queste gli terranno sempre al tormento, perché sempre si vedranno:
ed è ben ragione che la natura mandi una volta a vendicarsi contro
l'ingratitudine di coloro che tanto tempo l'hanno bistrattata, e che per certa
loro sciocca ostinazione voglion tener serrati gl'occhi contro a quel lume ch'ella,
per loro insegnamento gli tien sempre davanti. Ecco che ella finalmente con
caratteri indelebili ci mostra chi ell'è e quanto ella sia nemica dell'ozio, ma
che sempre e in ogni luogo gli piace di operare, generare, produrre e
dissolvere, e queste sono le sue somme eccellenze. Ma non voglio ora entrare in
materie da non esser capite in una lettera.
Ho ricevuto dal S. Velsero
aviso come la mia gl'è pervenuta, e che gl'è stata grata; ma che Apelle per ora
non potrà vederla, per non intender la lingua. Io l'ho scritta vulgare, perché
ho bisogno che ogni persona la possi leggere, e per questo medesimo rispetto ho
scritto nel medesimo idioma questo ultimo mio trattatello: e la ragione che mi
muove, è il vedere, che mandandosi per gli Studii indifferentemente i gioveni
per farsi medici, filosofi etc., sì come molti si applicano a tali professioni
essendovi inettissimi, così altri, che sariano atti, restano occupati o nelle
cure familiari o in altre occupazioni aliene dalla letteratura. [...] Con tutto
ciò vorrei che anco l'Apelle e gl'altri oltramontani potessero vederla; e qui,
per esser io occupatissimo, averei bisogno del favore di V. S. e del S.
Sandeli, il quale mi facesse grazia di trasferirla quanto prima in latino e
mandarmela poi subito, perché in Roma è chi si è preso cura di farla stampare
insieme con alcune altre mie. Io intanto anderò finendo la seconda per farne
l'istesso, e parimente l'invierò a V. S.; e caso che il S. Sandeli voglia
favorirmi, perché so che alcuni termini proprii e alcune frasi dell'arte
potriano dargli qualche fastidio, non occorre che guardi a ciò, perchè io in
questa parte la ridurrò a i proprii nostri termini. Se io potrò aver tal
grazia, V. S. me n'avvisi subito, e ne procuri quanto prima l'espedizione; e
intanto si comincerà a far stampar la italiana in Roma, e il tutto resti inter
nos. Che sarà per fine di questa, con baciar a V. S. e a tutti gl'amici con
ogni affetto le mani, pregandogli da Dio ogni contento .
Di Firenze, li 16 di Giugno
1612.
Di V. S. molto I. e molto
R.da
Se.re
Oblig.mo
Galileo
Galilei.
A DON BENEDETTO CASTELLI IN
PISA
(Firenze, 21 dicembre
1613)
Molto reverendo Padre e
Signor mio Osservandissimo,
Ieri mi fu a trovare il
signor Niccolò Arrighetti, il quale mi dette ragguaglio della Paternità Vostra:
ond'io presi diletto infinito nel sentir quello di che io non dubitavo punto,
ciò è della satisfazion grande che ella dava a tutto cotesto Studio, tanto a i
sopraintendenti di esso quanto a gli stessi lettori e a gli scolari di tutte le
nazioni: il qual applauso non aveva contro di lei accresciuto il numero de gli
emoli, come suole avvenir tra quelli che sono simili d'esercizio, ma più presto
l'aveva ristretto a pochissimi; e questi pochi dovranno essi ancora quietarsi,
se non vorranno che tale emulazione, che suole anco tal volta meritar titolo di
virtù, degeneri e cangi nome in affetto biasimevole e dannoso finalmente più a
quelli che se ne vestono che a nissun altro. Ma il sigillo di tutto il mio
gusto fu il sentirgli raccontar i ragionamenti ch'ella ebbe occasione, mercé
della somma benignità di coteste Altezze Serenissime, di promuovere alla tavola
loro e di continuar poi in camera di Madama Serenissima, presenti pure il Gran
Duca e la Serenissima Arciduchessa, e gl'Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori
D. Antonio e D. Paolo Giordano ed alcuni di cotesti molto eccellenti flosofi. E
che maggior favore può ella desiderare, che il veder Loro Altezze medesime
prender satisizione di discorrer seco, di promuovergli dubbii, di ascoltarne le
soluzioni, e finalmente di restar appagate delle risposte della Paternità
Vostra?
I particolari che ella
disse, referitimi dal signor Arrighetti, mi hanno dato occasione di tornar a
considerare alcune cose in generale circa 'l portar la Scrittura Sacra in
dispute di conclusioni naturali ed alcun'altre in particolare sopra 'l luogo di
Giosuè, propostoli, in contradizione della mobilità della Terra e stabilità del
Sole, dalla Gran Duchessa Madre, con qualche replica della Serenissima
Arciduchessa.
Quanto alla prima domanda generica
di Madama Serenissima, parmi che prudentissimamente fusse proposto da quella e
conceduto e stabilito dalla Paternità Vostra, non poter mai la Scrittura Sacra
mentire o errare, ma essere i suoi decreti d'assoluta ed inviolabile verità.
Solo avrei aggiunto, che, se bene la Scrittura non può errare, potrebbe
nondimeno talvolta errare alcuno de' suoi interpreti ed espositori, in varii
modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero
fermarsi sempre nel puro significato delle parole, perché così vi apparirebbono
non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che
sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti
corporali e umani, come d'ira, di pentimento, d'odio, e anco talvolta
l'obblivione delle cose passate e l'ignoranza delle future. Onde, sì come nella
Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle
parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa per
accomodarsi alI'incapacità del vulgo, così per quei pochi che meritano d'esser
separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori produchino i veri
sensi, e n'additino le ragioni particolari per che siano sotto cotali parole
stati profferiti.
Stante, dunque, che la
Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa
d'esposizioni diverse dall'apparente significato delle parole, mi par che nelle
dispute naturali ella doverebbe esser riserbata nell'ultimo luogo: perché,
procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come
dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli
ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi
all'intendimento dell'universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto
al significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all'incontro, essendo la
natura inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e
modi d'operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini, per lo
che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli; pare che quello
de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi
o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser
revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch'avesser nelle parole diverso
sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così
severi com'ogni effetto di natura. Anzi, se per questo solo rispetto,
d'accomodarsi alla capacità de' popoli rozzi e indisciplinati, non s'è astenuta
la Scrittura d'adombrare de' suoi principalissimi dogmi, attribuendo sino
all'istesso Dio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, chi vorrà
asseverantemente sostenere che ella, posto da banda cotal rispetto, nel parlare
anco incidentemente di Terra o di Sole o d'altra creatura, abbia eletto di
contenersi con tutto rigore dentro a i limitati e ristretti significati delle
parole? E massime pronunziando di esse creature cose lontanissime dal primario
instituto di esse Sacre Lettere, anzi cose tali, che, dette e portate con
verità nuda e scoperta, avrebbon più presto danneggiata l'intenzion primaria,
rendendo il vulgo più contumace alle persuasioni de gli articoli concernenti
alla salute
Stante questo, ed essendo di
più manifesto che due verità non posson mai contrariarsi, è ofizio de' saggi
espositori affaticarsi per trovare i veri sensi de' luoghi sacri, concordanti
con quelle conclusioni naturali delle quali prima il senso manifesto o le
dimostrazioni necessarie ci avesser resi certi e sicuri. Anzi, essendo, come ho
detto, che le Scritture, ben che dettate dallo Spirito Santo, per l'addotte
cagioni ammetton in molti luoghi esposizioni lontane dal suono litterale, e, di
più, non potendo noi con certezza asserire che tutti gl'interpreti parlino
inspirati divinamente, crederei che fusse prudentemente fatto se non si
permettesse ad alcuno l'impegnar i luoghi della Scrittura e obbligargli in
certo modo a dover sostenere per vere alcune conclusioni naturali, delle quali una
volta il senso e le ragioni dimostrative e necessarie ci potessero manifestare
il contrario. E chi vuol por termine a gli umani ingegni? chi vorrà asserire,
già essersi saputo tutto quello che è al mondo di scibile ? E per questo, oltre
a gli articoli concernenti alla salute ed allo stabilimento della Fede, contro
la fermezza de' quali non è pericolo alcuno che possa insurger mai dottrina
valida ed efficace, sarebbe forse ottimo consiglio il non ne aggiunger altri
senza necessità: e se così è, quanto maggior disordine sarebbe l'aggiugnerli a
richiesta di persone, le quali, oltre che noi ignoriamo se parlino inspirate da
celeste virtù, chiaramente vediamo ch'elleno son del tutto ignude di quella
intelligenza che sarebbe necessaria non dirò a redarguire, ma a capire, le
dimostrazioni con le quali le acutissime scienze procedono nel confermare
alcune lor conclusioni ?
Io crederei che l'autorità
delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini
quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e
superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro
mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell'istesso Spirito Santo. Ma che
quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d'intelletto, abbia
voluto, posponendo l'uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per
quelli possiamo conseguire, non penso che sia necessario il crederlo, e massime
in quelle scienze delle quali una minima particella e in conclusioni divise se
ne legge nella Scrittura; qual appunto è l'astronomia, di cui ve n'è così
piccola parte, che non vi si trovano né pur nominati i pianeti, Però se i primi
scrittori sacri avessero auto pensiero di persuader al popolo le disposizioni e
movimenti de' corpi celesti, non ne avrebbon trattato così poco, che è come
niente in comparazione dell'infinite conclusioni altissime e ammirande che in
tale scienza si contengono.
Veda dunque la Paternità
Vostra quanto, s'io non erro, disordinatamente procedino quelli che nelle
dispute naturali, e che direttamente non sono de Fide, nella prima
fronte costituiscono luoghi della Scrittura, e bene spesso malamente da loro
intesi. Ma se questi tali veramente credono d'avere il vero senso di quel luogo
particolar della Scrittura, ed in consequenza si tengon sicuri d'avere in mano
l'assoluta verità della quistione che intendono di disputare, dichinmi appresso
ingenuamente, se loro stimano, gran vantaggio aver colui che in una disputa
naturale s'incontra a sostener il vero, vantaggio, dico, sopra l'altro a chi
tocca sostener il falso? So che mi risponderanno di sì, e che quello che
sostiene la parte vera, potrà aver mille esperienze e mille dimostrazioni
necessari; per la parte sua, e che l'altro non può aver se non sofismi
paralogismi e fallacie. Ma se loro, contenendosi dentro a' termini naturali né
producendo altr'arme che le filosofiche, sanno d'essere tanto superiori
all'avversario, perché, nel venir poi al congresso, por subito mano a un'arme
inevitabile e tremenda, che con la sola vista atterrisce ogni più destro ed
esperto campione? Ma, s'io devo dir il vero, credo che essi sieno i primi
atterriti, e che, sentendosi inabili a potere star forti contro gli assalti
dell'avversario, tentino di trovar modo di non se lo lasciar accostare. Ma perché,
come ho detto pur ora, quello che ha la parte vera dalla sua, ha gran
vantaggio, anzi grandissimo, sopra l'avversario, e perché è impossibile che due
verità si contrariino, però non doviamo temer d'assalti che ci venghino fatti
da chi si voglia, pur che a noi ancora sia dato campo di parlare e d'essere
ascoltati da persone intendenti e non soverchiamente alterate da proprie
passioni e interessi.
In confermazione di che,
vengo ora a considerare il luogo particolare di Giosuè, per il qual ella
apportò a loro Altezze Serenissime tre dichiarazioni; e piglio la terza, che
ella produsse come mia, sì come veramente è, ma v'aggiungo alcuna
considerazione di più, qual non credo d'avergli detto altra volta.
Posto dunque e conceduto per
ora all'avversario, che le parole del testo sacro s'abbino a prender nel senso
appunto ch'elle suonano, ciò è che Iddio a' preghi di Giosuè facesse fermare il
Sole e prolungasse il giorno, ond'esso ne conseguì la vittoria; ma richiedendo
io ancora, che la medesima determinazione vaglia per me, sì che l'avversario
non presumesse di legar me e lasciar sé libero quanto al poter alterare o
mutare i significati delle parole; io dico che questo luogo ci mostra
manifestamente la falsità e impossibilità del mondano sistema Aristotelico e Tolemaico,
e all'incontro benissimo s'accomoda co 'l Copernicano.
E prima, io dimando
all'avversario, s'egli sa di quali movimenti si muova il Sole? Se egli lo sa, è
forza che e' risponda, quello muoversi di due movimenti, cioè del movimento
annuo da ponente verso levante, e del diurno all'opposito da levante a ponente.
Ond'io, secondariamente, gli
domando se questi due movimenti, così diversi e quasi contrarii tra di loro,
competono al Sole e sono suoi proprii egualmente ? È forza risponder di no, ma
che un solo è suo proprio e particolare, ciò è l'annuo, e l'altro non è
altramente suo, ma del cielo altissimo, dico del primo mobile, il quale rapisce
seco il Sole e gli altri pianeti e la sfera stellata ancora, constringendoli a
dar una conversione 'ntorno alla Terra in 24 ore, con moto, come ho detto,
quasi contrario al loro naturale e proprio.
Vengo alla terza
interrogazione, e gli domando con quale di questi due movimenti il Sole produca
il giorno e la notte, cioè se col suo proprio o pure con quel del primo mobile
? È forza rispondere, il giorno e la notte esser effetti del moto del primo
mobili e dal moto proprio del Sole depender non il giorno e la notte, ma le
stagioni diverse e l'anno stesso.
Ora, se il giorno depende
non dal moto del Sole ma da quel del primo mobile, chi non vede che per
allungare il giorno bisogna fermare il primo mobile, e non il Sole? Anzi, pur
chi sarà ch'intenda questi primi elementi d'astronomia e non conosca che, se
Dio avesse fermato 'l moto del Sole, in cambio d'allungar il giorno l'avrebbe
scorciato e fatto più breve? perché, essendo 'l moto del Sole al contrario
della conversione diurna, quanto più 'l Sole si movesse verso oriente, tanto
più si verrebbe a ritardar il suo corso all'occidente; e diminuendosi o
annullandosi il moto del Sole, in tanto più breve tempo giugnerebbe all'occaso:
il qual accidente sensatamente si vede nella Luna, la quale fa le sue
conversioni diurne tanto più tarde di quelle del Sole, quanto il suo movimento
proprio è più veloce di quel del Sole. Essendo, dunque, assolutamente
impossibile nella costituzion di Tolomeo e d'Aristotile fermare il moto del
Sole e allungare il giorno, sì come afferma la Scrittura esser accaduto,
adunque o bisogna che i movimenti non sieno ordinati come vuol Tolomeo, o
bisogna alterar il senso delle parole, e dire che quando la Scrittura dice che
Iddio fermò il Sole, voleva dire che fermò 'l primo mobile, ma che, per
accomodarsi alla capacità di quei che sono a fatica idonei a intender il
nascere e 'l tramontar del Sole, ella dicesse al contrario di quel che avrebbe
detto parlando a uomini sensati
Aggiugnesi a questo, che non
è credibile ch'Iddio fermasse il Sole solamente, lasciando scorrer l'altre
sfere; perché senza necessità nessuna avrebbe alterato e permutato tutto
l'ordine, gli aspetti e le disposizioni dell'altre stelle rispett'al Sole, e
grandemente perturbato tutto 'l corso della natura: ma è credibile ch'Egli
fermasse tutto 'l sistema delle celesti sfere, le quali, dopo quel tempo della
quiete interposta, ritornassero concordemente alle lor opre senza confusione o
alterazion alcuna
Ma perché già siamo
convenuti, non doversi alterar il senso delle parole del testo, è necessario
ricorrere ad altra costituzione delle parti del mondo, e veder se conforme a
quella il sentimento nudo delle parole cammina rettamente e senza intoppo, sì
come veramente si scorge avvenire.
Avendo io dunque scoperto e
necessariamente dimostrato, il globo del Sole rivolgersi in sé stesso, facendo
un'intera conversione in un mese lunare in circa, per quel verso appunto che si
fanno tutte l'altre conversioni celesti; ed essendo, di più, molto probabile e
ragionevole che il Sole, come strumento e ministro massimo della natura, quasi
cuor del mondo, dia non solamente, com'egli chiaramente dà, luce, ma il moto
ancora a tutti i pianeti che intorno se gli raggirano; se, conforme alla
posizion del Copernico, noi attribuirem alla Terra principalmente la conversion
diurna; chi non vede che per fermar tutto il sistema, onde, senza punto alterar
il restante delle scambievoli relazioni de' pianeti, solo si prolungasse lo
spazio e 'l tempo della diurna illuminazione, bastò che fosse fermato il Sole,
com'appunto suonan le parole del sacro testo? Ecco, dunque, il modo secondo il
quale, senza introdur confusione alcuna tra le parti del mondo e senza
alterazion delle parole della Scrittura, si può, col fermar il Sole, allungar
il giorno in Terra
Ho scritto più assai che non
comportano le mie indisposizioni: però finisco, con offerirmegli servitore, e gli
bacio le mani, pregandogli da Nostro Signore le buone feste e ogni felicità.
Di Firenze, li 21 Dicembre
1613
Di Vostra Paternità molto
Reverenda
Servitore
Affezionatissimo
Galileo Galilei.
A MONSIGNOR PIERO DINI IN
ROMA
(Firenze, 16 febbraio
1615)
Molto Illustre e
Reverendissimo Signor mio Colendissimo,
Perché so che Vostra
Signoria molto Illustre e Reverendissima fu subito avvisata delle replicate
invettive che furono, alcune settimane fa, dal pulpito fatte contro la dottrina
del Copernico e suoi seguaci, e più contro i matematici e la matematica stessa,
però non gli replicherò nulla sopra questi particolari che da altri intese: ma
desidero bene che lei sappia, come, non avendo né io né altri fatte un minimo
moto o risentimento sopra gl'insulti di che fummo non con molta carità
aggravati, non però si son quietate l'acces'ire di quelli; anzi, essendo
ritornato da Pisa il medesimo Padre che si era fatto sentire quell'anno in
privati colloqui, ha aggravato di nuovo la mano sopra di me: ed essendogli
pervenuta, non so donde, copia di una lettera ch'io scrissi l'anno passato al
Padre Matematico di Pisa in proposito dell'apportare le autorità sacre in
dispute naturali ed in esplicazione del luogo di Giosuè, vi vanno esclamando
sopra, e ritrovandovi, per quanto dicono, molte eresie, ed insomma si sono
aperti un nuovo campo di lacerarmi Ma perché da ogni altro che ha veduta detta
lettera non mi è stato fatto pur minimo segno di scrupolo, vo dubitando che
forse chi l'ha trascritta possa inavvertentemente aver mutata qualche parola;
la qual mutazione, congiunta con un poco di disposizione alle censure, possa
far apparire le cose molto diverse dalla mia intenzione. E perché alcuni di
questi Padri, ed in particolare quest'istesso che ha parlato, se ne son venuti
costà per far, come intendo, qualche altro tentativo con la sua copia di detta
mia lettera, mi è parso non fuor di proposito mandarne una copia a Vostra
Signoria Reverendissima nel modo giusto che l'ho scritta io, pregandola che mi
favorisca di leggerla insieme col Padre Grembergiero Gesuita, matematico
insigne e mio grandissimo amico e padrone, ed anche lasciargliela, se forse
parrà opportuno a Sua Reverenza di farla con qualche occasione pervenire in
mano dell'illustrissimo Cardinal Bellarmino, al quale questi Padri Domenicani
si son lasciati intendere di voler far capo, con isperanza di far, per lo meno,
dannar il libro del Copernico e la sua oppinione e dottrina
La lettera fu da me scritta currenti
calamo; ma queste ultime concitazioni ed i motivi che questi Padri adducono
per mostrare i demeriti di questa dottrina, ond'ella meriti di essere abolita
mi hanno fatto veder qualche cosa di più scritta in simili materie: e veramente
non solo ritrovo, tutto quello che ho scritto essere stato detto da loro, ma
molto più ancora, mostrando con quanta circonspezione bisogni andar intorno a
quelle conclusioni naturali che non son de Fide, alle quali possono
arrivare l'esperienze e le dimostrazioni necessarie, e quanto perniciosa cosa
sarebbe l'asserir come dottrina risoluta nelle Sacre Scritture alcuna
proposizione della quale una volta si potesse aver dimostrazione in contrario.
Sopra questi capi ho distesa una scrittura molto copiosa ma non l'ho ancora al
netto in maniera che ne possa mandar copia a Vostra Signoria, ma lo farò quanto
prima: nella quale, quel che si sia dell'efficacia delle mie ragioni e
discorsi, di questo ben son sicuro, che ci si troverà molto più zelo verso
Santa Chiesa e la dignità delle Sacre Lettere, che in questi miei persecutori;
poi che loro proccurano di proibir un libro ammesso tanti anni da Santa Chiesa,
senza averlo pur mai lor veduto, non che letto o inteso; ed io non fo altro che
esclamare che si esamini la sua dottina e si ponderino le sue ragioni da
persone cattolichissime ed intendentissime, che si rincontrino le sue posizioni
con l'esperienze sensate, e che in somma non si danni se prima non si trova
falso, se è vero che una proposizione non possa insieme esser vera ed erronea.
Non mancano nella cristianità uomini intendentissimi della professione, il
parer de' quali circa la verità o falsità della dottrina non doverà esser
posposto all'arbitrio di chi non è punto informato e che pur troppo chiaro si
conosce essere da qualche parziale affetto alterato, sì come benissimo
conoscono molt; che si trovono qua in fatto, e che veggono tutti gli andamenti
e son informati, almeno in parte, delle macchine e trattato
Niccolò Copernico fu uomo
non pur cattolico, ma religioso e canonico; fu chiamato a Roma sotto Leone X,
quando nel Concilio Lateranense si trattava l'emendazione del calendario
ecclesiastico, facendosi capo a lui come a grandissimo astronomo. Restò
nondimeno indecisa tal riforma per questa sola cagione, perché la quantità de
gli anni e de' mesi de' moti del Sole e della Luna non erano abbastanza
stabiliti: onde egli, d'ordine del vescoro Semproniense, che allora era
sopraccapo di questo negozio, si messe con nuove osservazioni ed accuratissimi
studii all'investigazione di tali periodi; e ne conseguì in somma tal
cognizione, che non solo regolò tutti i moti de' corpi celesti, ma si acquistò
il titolo di sommo astronomo, la cui dottrina fu poi seguita da tutti, e
conforme ad essa regolato ultimamente il calendario. Ridusse le sue fatiche intorno
a' corsi e costituzioni de' corpi celesti in sei libri, li quali, a richiesta
di Niccolò Scombergio, cardinale Capuano, mandò in luce, e gli dedicò a Papa
Paolo III, e da quel tempo in qua si son veduti publicamente senza scrupolo
nessuno. Ora questi buoni frati, solo per un sinistro affetto contro di me,
sapendo che; stimo questo autore, si vantano di dargli il premio delle sue
fatiche con farlo dichiarare eretico.
Ma quello che è più degno di
considerazione, la prima lor mossa contro questa oppinione fu il lasciarsi
metter su da alcuni miei maligni che gliela dipinsero per opera mia propria,
senza dirli che ella fosse già 70 anni fa stampata; e questo medesimo stile
vanno tenendo con altre persone, nelle quali cercano d'imprimer sinistro
concetto di me: e questo gli va succedendo in modo tale, che, sendo pochi
giorni sono arrivato qua Monsignor Gherardini, vescovo di Fiesole, nelle prime
visite a pien popolo, dove si abbatterono alcuni amici miei, proroppe con
grandissima veemenza contro di me, mostrandesi gravemente alterato, e dicendo
che n'era per far gran passata con Loro Altezze Serenissime, poi che tal mia
stravagante oppinione ed erronea dava che dire assai in Roma; e forse avrà a
quest'ora fatto il debito, se già non l'ha ritenuto l'essere destramente fatto
avvertito, che l'autore di questa dottrina non è altramente un Fiorentino
vivente, ma un Tedesco morto, che la stampò già 70 anni sono, dedicando il
libro al Sommo Pontefice
Io vo scrivendo, né mi
accorgo che parlo a persona informatissima di questi trattamenti, e forse tanto
più di me, quanto che ella si trova nel luogo dove si fanno gli strepiti
maggiori. Scusimi della prolissità; e se scorge equità nessuna nella causa mia
prestimi il suo favore, chè gliene viverò perpetunente obbligato. Con che le
bacio riverentemente le mani, e me gli ricordo servitore devotissimo, e dal
Signore Dio gli prego il colmo di felicità.
Di Firenze, li 16 Febbraio
1615
Di V. S. molto Illustre e
Reverendissima
Servitore
Obbligatissimo
Galileo
Galilei
Poscritta. Ancorché io
difficilmente possa credere che si fosse per precipitare in prendere una tal
risoluzione di annullar questo autore, tuttavia, sapendo per altre prove quanta
sia la potenza della mia disgrazia, quando è congiunta con la malignità ed
ignoranza de' miei avversari, mi par di aver cagione di non mi assicurar del
tutto sopra la somma prudenza e santità di quelli da chi ha da dipender
l'ultima risoluzione, sì che quella ancora non possa esser in parte affascinata
da questa fraude che va in volta sotto il manto di zelo e di carità. Però, per
non mancare, per quanto posso, a me stesso ed a quello che dalla mia scrittura
vedrà in breve Vostra Signoria Reverendissima che è vero e purissimo zelo,
desiderando che almanco ella possa prima esser veduta, e poi prendasi quella
risoluzione che piaceri a Dio (ché io quanto a me son tanto bene edificato e
disposto, che prima che contravvenire a' miei superiori, quando non potessi far
altro, e che quello che ora mi pare di credere e toccar con mano mi avesse ad
essere di pregiudizio all'anima, eruerem oculum meum ne me scandalizaret);
io credo che il più presentaneo rimedio sia il battere alli Padri Gesuiti come
quelli che sanno assai sopra le comuni lettere de' frati: però gli potrà dar la
copia della lettera, ed anco leggergli se le piacerà, questa che scrivo a lei;
e poi, per la sua solita cortesia, si degnerà di farmi avvisato di quanto avrà
potuto ritrarre. Non so se fosse opportuno essere col signor Luca Valerio, e
dargli copia di detta lettera, come uomo che è di casa del Cardinale
Aldobrandino e potrebbe fare con Sua Santità qualche offizio. Di questo e di
ogni altra cosa mi rimetto alla sua bontà e prudenza, e gli raccomando la
riputazion mia, e di nuovo gli bacio le mani.
A MONSIGNOR PlERO DINI IN
ROMA
(Firenze, 23 marzo 1615)
Molto Illustre e
Reverendissimo Sig. mio Colendissimo,
Risponderò succintamente
alla cortesissima lettera di Vostra Signoria molto Illustre e Reverendissima,
non mi permettendo il poter far altramente il mio cattivo stato di sanità.
Quanto al primo particolare
che ella mi tocca, che al più che potesse esser deliberato circa il libro del
Copernico, sarebbe il mettervi qualche postilla, che la sua dottrina fusse
introdotta per salvar l'apparenze, nel modo ch'altri introdussero gli
eccentrici e gli epicicli senza poi credere che veramente e' sieno in natura,
gli dico (rimettendomi sempre a chi più di me intende, e solo per zelo che ciò
che si è per fare sia fatto con ogni maggior cautela) che quanto a salvar
l'apparenze il medesimo Copernico aveva già per avanti fatta la fatica, e
satisfatto alla parte de gli astrologi secondo la consueta e ricevuta maniera
di Tolomeo; ma che poi, vestendosi l'abito di filosofo, e considerando se tal
costituzione delle parti dell'universo poteva realmente sussistere in rerum
natura, e veduto che no, e parendogli pure che il problema della vera
costituzione fusse degno d'esser ricercato, si messe all'investigazione di tal
costituzione, conoscendo che se una disposizione di parti finta e non vera
poteva satisfar all'apparenze, molto più ciò si arebbe ottenuto dalla vera e
reale, e nell'istesso tempo si sarebbe in filosofia guadagnato una cognizione
tanto eccellente, qual è il sapere la vera disposizione delle parti del mondo;
e trovandosi egli per l'osservazioni e studii di molti anni, copiosissimo di
tutti i particolari accidenti osservati nelle stelle, senza i quali tutti
diligentissimamente appresi e prontissimamente affissi nella mente è
impossibile il venir in notizia di tal mondana constituzione, con replicati
studii e lunghissime fatiche conseguì quello che l'ha reso poi ammirando a
tutti quelli che con diligenza lo studiano, sì che restino capaci de' suoi
progressi tal che il voler persuadere che il Copernico non stimasse vera la
mobilità della Terra, per mio credere non potrebbe trovar assenso se non forse
appresso chi non l'avesse letto, essendo tutti 6 i suoi libri pieni di dottrina
dependente dalla mobilità della Terra, e quella esplicante e confermante. E se
egli nella sua dedicatoria molto ben intende e confessa che la posizione della
mobilità della Terra era per farlo reputare stolto appresso l'universale, il
giudizio del quale egli dice di non curare, molto più stolto sarebb'egli stato
a voler farsi reputar tale per un'opinione da sé introdotta, ma non interamente
e veramente creduta.
Quanto poi al dire che gli
attori principali che hanno introdotto gli eccentrici e gli epicicli non gli
abbino poi reputati veri, questo non crederò io mai; e tanto meno, quanto con
necessità assoluta bisogna ammettergli nell'età nostra, mostrandocegli il senso
stesso. Perché, non essendo l'epiciclo altro che un cerchio descritto dal moto
d'una stella la quale non abbracci con tal suo rivolgimento il globo terrestre,
non veggiamo noi di tali cerchi esserne da quattro stelle descritti quattro
intorno a Giove? e non gli è più chiaro che 'l Sole, che Venere descrive il suo
cerchio intorno ad esso Sole senza comprender la Terra, e per conseguenza forma
un epiciclo? e l'istesso accade anco a Mercurio. In oltre, essendo l'eccentrico
un cerchio che ben circonda la Terra, ma non la contiene nel suo centro, ma da una
banda, non si ha da dubitare se il corso di Marte sia eccentrico alla Terra,
vedendosi egli ora più vicino ed ora più remoto, in tanto che ora lo veggiamo
piccolissimo ed altra volta di superficie 60 volte maggiore; adunque, qualunque
si sia il suo rivolgimento, egli circonda la Terra, e gli è una volta otto
volte più presso che un'altra. E di tutte queste cose e d'altre simili in gran
numero ce n'hanno data sensata esperienza gli ultimi scoprimenti: tal che il
voler ammettere la mobilità della Terra solo con quella concessione e
probabilità che si ricevono gli eccentrici; e gli epicicli, è un ammetterla per
sicurissima, verissima e irrefragabile.
Ben è vero che di quelli che
hanno negato gli eccentrici e gli epicicli io ne trovo 2 classi. Una è di
quelli che, sendo del tutto ignudi dell'osservazioni de' movimenti delle stelle
e di quello che bisogni salvare, negano senza fondamento nessuno tutto quello
che e' non intendono: ma questi son degni che di loro non si faccia alcuna
considerazione. Altri, molto più ragionevoli, non negheranno i movimenti
circolari descritti da i corpi delle stelle intorno ad altri centri che quello
della Terra, cosa tanto manifesta, che, all'incontro, è chiaro, nessuno de'
pianeti far il suo rivolgimento concentrico ad essa Terra; ma solo negheranno,
ritrovarsi nel corpo celeste una struttura di orbi solidi e tra sé divisi e
separati che arrotandosi e fregandosi insieme, portino i corpi de' pianeti,
etc.: e questi crederò io che benissimo discorrino; ma questo non è un levar i
movimenti fatti dalle stelle in cerchi eccentrici alla Terra o in epicicli che
sono i veri e semplici assunti di Tolomeo e de gli astronomi grandi, ma è un
repudiar gli orbi solidi materiali e distinti, introdotti da i fabbricatori di
teoriche per agevolar l'intelligenza de i principianti ed i computi de'
calculatori; e questa sola parte è fittizia e non reale, non mancando a Iddio
modo di far camminare le stelle per gl'immensi spazii del cielo, ben dentro a
limitati e certi sentieri, ma non incatenate o forzate
Però, quanto al Copernico,
egli, per mio avviso, non è capace di moderazione, essendo il principalissimo
punto di tutta la sua dottrina e l'universal andamento la mobilità della Terra
e stabilità del Sole: però, o bisogna dannarlo del tutto o lasciarlo nel suo
essere, parlando sempre per quanto comporta la mia capacità. Ma se sopra una
tal resoluzione e' sia bene attentissimamente considerare, ponderare,
esaminare, ciò che egli scrive, io mi sono ingegnato di mostrarlo in una mia
scrittura, per quanto da Dio benedetto mi è stato conceduto, non avendo mai
altra mira che alla dignità di Santa Chiesa e non dirizzando ad altro fine le
mie deboli fatiche; il qual purissimo e zelantissimo affetto son ben sicuro che
in essa scrittura si scorgerà chiaro, quando per altro ella fusse piena
d'errori o di cose di poco momento: e già l'averei inviata a Vostra Signoria
Reverendissima, se alle mie tante e sì gravi indisposizioni non si fusse
ultimamente aggiunto un assalto di dolori colici che m'ha travagliato assai; ma
la manderò quanto prima. Anzi, per il medesimo zelo, vo' mettendo insieme tutte
le ragioni del Copernico, riducendole a chiarezza intelligibile da molti, dove
ora sono assai difficili, e più aggiungendovi molte e molte altre
considerazioni fondate sempre sopra osservazioni celesti, sopra esperienze
sensate e sopra incontri di effetti naturali, per offerirle poi a i piedi del
Sommo Pastore ed all'infallibile determinazione di santa Chiesa, che ne faccia
quel capitale che parrà alla sua somma prudenza.
Quanto al parere del molto
reverendo Padre Grembergero, io veramente lo laudo, e volentieri lascio la
fatica delle interpretazioni a quelli che intendono infinitamente più di me. Ma
quella breve scrittura che mandai a Vostra Signoria Reverendissima è, come vede,
una lettera privata, scritta più d'un anno fa all'amico mio, per esser letta da
lui solo; ma avendon'egli, pur senza mia saputa, lasciato prender copia, e
sentendo io che l'era venuta nelle mani di quel medesimo che tanto acerbamente
m'aveva sin dal pulpito lacerato, e sapendo ch'ei l'aveva portata costà,
giudicai ben fatto che ve ne fusse un'altra copia, per poterla in ogni
occasione incontrare, e massime avendo quello ed altri suoi aderenti teologi
sparso qua voce, come detta mia lettera era piena d'eresie. Non è, dunque, il
mio pensiero di metter mano a impresa tanto superiore alle mie forze; e se ben
non si deve anco diffidare che la Benignità divina tal volta si degni di
inspirare qualche raggio dalla sua immensa sapienza in intelletti umili, e
massime quando son almeno adornati di sincero e santo zelo; oltre che, quando
si abbino a concordar luoghi sacri con dottrine naturali nuove e non comuni, è
necessario aver intera notizia di tali dottrine, non potendo accordar due corde
insieme col sentirne una sola. E se io conoscessi di potermi prometter alcuna
cosa dalla debolezza del mio ingegno, mi piglierei ardire di dire di ritrovar
tra alcuni luoghi delle Sacre Lettere e di questa mondana constituzione alcune
convenienze che nella vulgata filosofia non così ben mi pare che consuonino; e
l'avermi Vostra Signoria Reverendissima accennato, come il luogo del Salmo 18 è
de i reputati più repugnanti a questa opinione, m'ha fatto farci sopra nuova
reflessione, la quale mando a Vostra Signoria con tanto minor renitenza, quanto
ella mi dice che l'illustrissimo e Reverendissimo Cardinal Bellarmino
volentieri vedrà se ho alcun altro di tali luoghi. Però, avendo io satisfatto
al semplice cenno di Sua Signoria Illustrissima e Reverendissima, veduta che
abbia Sua Signoria Illustrissima questa mia, qualunque ella si sia,
contemplazione, ne faccia quel tanto che la sua somma prudenza ordinerà; ché io
intendo solamente di riverire e ammirare le cognizioni tanto sublimi, e
obbedire a i cenni de' miei superiori, ed all'arbitrio loro sottoporre ogni mia
fatica.
Però, non mi arrogando che,
qualunque si sia la verità della supposizione ex parte naturæ, altri non
possino apportare molto più congruenti sensi alle parole del Profeta, anzi
stimandomi io inferiore a tutti, e però a tutti i sapienti sottoponendomi,
direi, parermi che nella natura si ritrovi una substanza spiritosissima,
tenuissima e velocissima, la quale, diffondendosi per l'universo, penetra per
tutto senza contrasto, riscalda, vivifica e rende feconde tutte le viventi creature;
e di questo spirito par che 'l senso stesso ci dimostri il corpo del Sole
esserne ricetto principalissimo, dal quale espandendosi un'immensa luce per
l'universo, accompagnata da tale spirito calorifico e penetrante per tutti i
corpi vegetabili, gli rende vivi e fecondi. Questo ragionevolmente stimar si
può essere qualche cosa di più del lume, poi che ei penetra e si diffonde per
tutte le sustanze corporee, ben che densissime, per molte delle quali non così
penetra essa luce: tal che, sì come dal nostro fuoco veggiamo e sentiamo uscir
luce e calore, e questo passar per tutti i corpi, ben che opaci e solidissimi,
e quella trovar contrasto dalla solidità e opacità, così l'emanazione del Sole
è lucida e calorifica, e la parte calorifica è la più penetrante. Che poi di
questo spirito e di questa luce il corpo solare sia, come ho detto, un ricetto
e, per così dire, una conserva che ab extra gli riceva, più tosto che un
principio e fonte primario dal quale originariamente si derivino, parmi che se
n'abbia evidente certezza nelle Sacre Lettere, nelle quali veggiamo, avanti la
creazione del Sole, lo spirito con la sua calorifica e feconda virtù “foventem
aquas seu incubantem super aquas”, per le future generazioni; e parimente
aviamo la creazione della luce nel primo giorno, dove che il corpo solare fu
creato il giorno quarto. Onde molto verisimilmente possiamo affermare, questo
spirito fecondante e questa luce diffusa per tutto il mondo concorrere ad
unirsi e fortificarsi in esso corpo solare, per ciò nel centro dell'universo
collocato, e quindi poi, fatta più splendida e vigorosa, di nuovo diffondersi.
Di questa luce primogenita e
non molto splendida avanti la sua unione e concorso nel corpo solare, ne aviamo
attestazione dal Profeta nel Salmo 73, v. 16 “Tuus est dies et tua est nox: Tu
fabricatus es auroram et Solem”; il qual luogo vien interpretato, Iddio aver
fatto avanti al sole una luce simile a quella dell'aurora: di più, nel testo
ebreo in luogo d'“aurora” si legge “lume”, per insinuarci quella luce che fu
creata molto avanti il Sole, assai più debile della medesima ricevuta,
fortificata e di nuovo diffusa da esso corpo solare. A questa sentenza mostra
d'alludere l'opinione d'alcuni antichi filosofi, che hanno creduto lo splendor
del Sole esser un concorso nel centro del mondo de gli splendori delle stelle,
che, standogli intorno sfericamente disposte, vibrano i raggi loro, li quali,
concorrendo e intersecandosi in esso centro, accrescono ivi e per mille volte
raddoppiano la luce loro; onde ella poi, fortificata, si reflette e si sparge
assai più vigorosa e ripiena, dirò così, di maschio e vivace calore, e si
diffonde a vivificare tutti i corpi che intorno ad esso centro si raggirano: sì
che con certa similitudine, come nel cuore dell'animale si fa una continua
rigenerazione di spiriti vitali, che sostengono e vivificano tutte le membra,
mentre però viene altresì ad esso cuore altronde somministrato il pabulo e
nutrimento, senza il quale ei perirebbe, così nel sole, mentre ab extra
concorre il suo pabulo, si conserva quel fonte onde continuamente deriva e si
diffonde questo lume e calore prolifico, che dà la vita a tutti i membri che
attorno gli riseggono. Ma come che della mirabil forza ed energia di questo
spirito e lume del Sole, diffuso per l'universo, io potessi produr molte
attestazioni di filosofi e gravi scrittori, voglio che mi basti un solo luogo
del Beato Dionisio Aeropagita nel libro De divinis nominibus, il quale è
tale: “Lux etiam colligit convertitque ad se omia, quæ videntur, quæ moventur,
quæ illustrantur, quæ calescunt, et uno nomine ea quæ ab eius splendore
continentur. Itaque Sol Ilios dicitur, quod omnia congreget colligatque
dispersa.” E poco più a basso scrive dell'istesso: “Si enim Sol hic, quem
videmus, eorum quæ sub sensum cadunt essentias et qualitates, quamquam multæ
sint ac dissimiles, tamen ipse, qui unus est æqualibiterque lumen fundit,
renovat, alit, tuetur, perficit, dividit, coiniungit, fovet, fœcunda reddit,
auget, mutat, firmat, edit, movet, vitaliaque facit omnia, et unaquæque res
huius universitatis, pro captu suo, unius atque eiusdem Solis est particeps,
causasque multorum, quæ participant, in se æquabiliter anticipatas habet; certe
maiore ratione etc.”
Ora, stante questa
filosofica posizione, la quale è forse una delle principali porte per cui si
entri nella contemplazione della natura, io crederrei, parlando sempre con
quella umiltà e reverenza che devo a Santa Chiesa e tutti i suoi dottissimi
Padri, da me riveriti e osservati ed al giudizio de' quali sottopongo me ed
ogni mio pensiero, crederrei, dico, che il luogo del Salmo potesse aver questo
senso, cioè che “Deus in Sole posuit tabernaculum suum” come in sede
nobilissima di tutto 'l mondo sensibile; dove poi si dice che “Ipse, tanquam
sponsum procedens de thalamo suo, exultavit ut gigas ad currendam viam”,
intenderei, ciò esser detto del Sole irradiante, ciò è del lume e del già detto
spirito calorifico e fecondante tutte le corporee sustanze, il quale, partendo
dal corpo solare, velocissimamente si diffonde per tutto 'l mondo: al qual
senso si adattano puntualmente tutte le parole. E prima, nella parola “sponsus”
aviamo la virtù fecondante e prolifica; l'“exultare” ci addita quell'emanazione
di essi raggi solari fatta, in certo modo, a salti, come 'l senso chiaramente
ci mostra; “ut gigas,” o vero “ut fortis”, ci denota l'efficacissima attività e
virtù di penetrare per tutti i corpi, ed insieme la somma velocità del muoversi
per immensi spazii, essendo l'emanazione della luce come instantanea.
Confermansi dalle parole “procedens de thalamo suo”, che tale emanazione e
movimento si deve referire ad esso lume solare, e non all'istesso corpo del
Sole; poi che il corpo e globo del Sole è ricetto e “tanquam thalamus” di esso
lume, né torna ben a dire che “thalamus procedat de thalamo”. Da quello che
segue, “a summo cæli egressio eius”, aviamo la prima derivazione e partita di
questo spirito e lume dall'altissime parti del cielo, ciò è sin dalle stelle
del firmamento o anco dalle sedi più sublimi. “Et occorsus eius usque ad summum
eius”: ecco la reflessione e, per così dire, la reimanazione dell'istesso lume
sino alla medesima sommità del mondo. Segue : “Nec est qui abscondat a calore
eius”: eccoci additato il calore vivificante e fecondante, distinto dalla luce
e molto più di quella penetrante per tutte le corporali sustanze, ben che
densissime; poi che dalla penetrazione della luce molte cose ci difendono e
ricuoprono, ma da questa altra virtù, “non est qui se abscondat a calore eius”.
Né devo tacer cert'altra mia considerazione, non aliena da questo proposito. Io
ho già scoperto il concorso continuo di alcune materie tenebrose sopra il corpo
solare, dove elleno si mostrano al senso sotto aspetto di macchie oscurissime,
ed ivi poi si vanno consumando e risolvendo; ed accennai come queste per
avventura si potrebbono stimar parte di quel pabulo, o forse gli escrementi di
esso, del quale il Sole da alcuni antichi filosofi fu stimato bisognoso per suo
sostentamento. Ho anco dimostrato, per l'osservazioni continuate di tali
materie tenebrose, come il corpo solare per necessità si rivolge in sé stesso,
e di più accennato quanto sia ragionevol il creder che da tal rivolgimento
dependino i movimenti de' pianeti intorno al medesimo Sole. Di più, noi
sappiamo che l'intenzione di questo Salmo è di laudare la legge divina,
paragonandola il profeta col corpo celeste, del quale, tra le cose corporali,
nissuna è più bella, più utile e più potente. Però, avendo egli cantati gli
encomii del Sole e non gli essendo occulto che egli fa raggirarsi intorno tutti
i corpi mobili del mondo, passando alle maggiori prerogative della legge divina
e volendola anteporre al Sole, aggiunge: “Lex Domini immaculata, convertes
animas” etc.; quasi volendo dire che essa legge è tanto più eccellente del Sole
istesso, quanto l'esser immaculato ed aver facoltà di convertire intorno a sé
le anime è più eccellente condizione che l'essere sparso di macchie, come è il
Sole, ed il farsi raggirar attorno i globi corporei e mondani.
So e confesso il mio
soverchio ardire nel voler por bocca, essendo imperito nelle Sacre Lettere, in
esplicar sensi di sì alta contemplazione: ma come che il sottomettermi io
totalmente al giudizio de' miei superiori può rendermi scusato, così quel che
segue del versetto già esplicato, “Testimonium Domini fidele, sapientiam
præstans parvulis”, m'ha dato speranza, poter esser che la infinita benignità
di Dio possa indirizzare verso la purità della mia mente un minimo raggio della
sua grazia, per la quale mi si illumini alcuno de' reconditi sensi delle sue parole.
Quanto ho scritto, signor mio, è un piccol parto, bisognoso d'esser ridotto a
miglior forma, lambendolo e ripulendolo con affezione e pazienza, essendo
solamente abbozzato e di membra capaci sì di figura assai proporzionata, ma per
ora incomposte e rozze: se averò possibilità, l'anderò riducendo a miglior
simmetria; intanto la prego a non lo lasciar venir in mano di persona che,
adoprando, invece della delicatezza della lingua materna, l'asprezza ed
acutezza del dente novercale, in luogo di ripulirlo non lo lacerasse e
dilaniasse del tutto. Con che le bacio riverentemente le mani, insieme con li
Signori Buonarroti, Guiducci, Soldani e Giraldi, qui presenti al serrar della
lettera.
Di Firenze,
li 23 Marzo 1615
Di V. S. molt'Illustre e
Reverendissima
Servitore obligatissimo
Galileo
Galilei
A MADAMA CRISTINA DI LORENA
GRANDUCHESSA DI TOSCANA
(1615)
Io scopersi pochi anni a
dietro, come ben sa l'Altezza Vostra Serenissima, molti particolari nel cielo,
stati invisibili sino a questa età; li quali, sì per la novità, sì per alcune
conseguenze che da essi dependono, contrarianti ad alcune proposizioni naturali
comunemente ricevute dalle scuole de i filosofi, mi eccitorno contro non piccol
numero di tali professori; quasi che io di mia mano avessi tali cose collocate
in cielo, per intorbidar la natura e le scienze. E scordatisi in certo modo che
la moltitudine de' veri concorre all'investigazione, accrescimento e
stabilimento delle discipline, e non alla diminuzione o destruzione, e
dimostrandosi nell'istesso tempo più affezionati alle proprie opinioni che alle
vere, scorsero a negare e far prova d'annullare quelle novità, delle quali il
senso istesso, quando avessero voluto con attenzione riguardarle, gli averebbe
potuti render sicuri; e per questo produssero varie cose, ed alcune scritture
pubblicarono ripiene di vani discorsi, e, quel che fu più grave errore, sparse
di attestazioni delle Sacre Scritture, tolte da luoghi non bene da loro intesi
e lontano dal proposito addotti: nel quale errore forse non sarebbono incorsi,
se avessero avvertito un utilissimo documento che ci dà S. Agostino intorno
all'andar con riguardo nel determinar resolutamente sopra le cose oscure e
difficili ad esser comprese per via del solo discorso; mentre, parlando pur di certa
conclusione naturale attenente a i corpi celesti, scrive così: “Nunc autem,
servata semper moderatione piæ gravitatis, nihil credere de re obscura temere
debemus, ne forte quod postea veritas patefecerit, quamvis libris sanctis, sive
Testamenti Veteris sive Novi, nullo modo esse possit adversum, tamen propter
amorem nostri errori oderimus.”.
È accaduto poi che il tempo
è andato successivamente scoprendo a tutti le verità prima da me additate, e
con la verità del fatto la diversità degli animi tra quelli che schiettamente e
senz'altro livore non ammettevano per veri tali scoprimenti, e quegli che
all'incredulità aggiugnevano qualche effetto alterato: onde, sì come i più
intendenti della scienza astronomica e della naturale restarono persuasi al mio
primo avviso, così si sono andati quietando di grado in grado gli altri tutti
che non venivano mantenuti in negativa o in dubbio da altro che
dall'inaspettata novità e dal non aver avuta occasione di vederne sensate
esperienze; ma quelli che, oltre all'amor del primo errore, non saprei qual
altro loro immaginato interesse gli rende non bene affetti non tanto verso le
cose quanto verso l'autore, quelle, non le potendo più negare, cuoprono sotto
un continuo silenzio, e divertendo il pensiero ad altre fantasie, inacerbiti
più che prima da quello onde gli altri si sono addolciti e quietati, tentano di
progiudicarmi con altri modi. De' quali io veramente non farei maggiore stima
di quel che mi abbia fatto dell'altre contraddizioni, delle quali mi risi
sempre, sicuro dell'esito che doveva avere 'l negozio, s'io non vedessi che le
nuove calunnie e persecuzioni non terminano nella molta o poca dottrina, nella
quale io scarsamente pretendo, ma si estendono a tentar di offendermi con
macchie che devono essere e sono da me più aborrite che la morte, né devo
contentarmi che le sieno conosciute per ingiuste da quelli solamente che
conoscono me e loro, ma da ogn'altra persona ancora. Persistendo dunque nel
primo loro instituto di voler con ogni immaginabil maniera atterrar me e le
cose mie, sapendo come io ne' miei studii di astronomia e di filosofia tengo,
circa alla costituzione delle parti del mondo, che il Sole, senza mutar luogo,
resti situato nel centro delle conversioni de gli orbi celesti, e che la Terra,
convertibile in se stessa, se gli muova intorno; e di più sentendo che tal
posizione vo confermando non solo col reprovar le ragioni di Tolommeo e
d'Aristotile, ma col produrne molte in contrario, ed in particolare alcune
attenenti ad effetti naturali, le cause de' quali forse in altro modo non si
possono assegnare, ed altre astronomiche, dependenti da molti rincontri de'
nuovi scoprimenti celesti, li quali apertamente confutano il sistema Tolemaico
e mirabilmente con quest'altra posizione si accordano e la confermano; e forse
confusi per la conosciuta verità d'altre proposizioni da me affermate, diverse
dalle comuni; e però diffidando ormai di difesa, mentre restassero nel campo
filosofico; si son risoluti a tentar di fare scudo alle fallacie de' lor
discorsi col manto di simulata religione e con l'autorità delle Scritture
Sacre, applicate da loro, con poca intelligenza, alla confutazione di argioni
né intese né sentite.
E prima, hanno per lor
medesimi cercato di spargere concetto nell'universale, che tali proposizioni
sieno contro alle Sacre Lettere, ed in conseguenza dannande ed eretiche; di
poi, scorgendo quanto per lo più l'inclinazione dell'umana natura sia più pronta
ad abbracciar quell'imprese dalle quali il prossimo ne venga, ben che,
ingiustamente, oppresso, che quelle ond'egli ne riceva giusto sollevamento, non
gli è stato difficile il trovare chi per tale, cio è per dannada ed eretica,
l'abbia con insolita confidenza predicata sin da i pulpiti, con poco pietoso e
men considerato aggravio non solo di questa dottrina e di chi la segue, ma di
tutte le matematiche e de' matematici insieme; quindi, venuti in maggior
confidenza, e vanamente sperando che quel seme, che prima fondò radice nella
mente loro non sincera, possa diffonder suoi rami ed alzargli verso il cielo,
vanno mormorando tra 'l popolo che per tale ella sarà in breve dichiarata
dall'autorità suprema. E conoscendo che tal dichiarazione spianterebbe non sol
queste due conclusioni, ma renderebbe dannande tutte l'altre osservazioni e
proposizioni astronomiche e naturali, che con esse hanno corrispondenza e
necessaria connessione, per agevolarsi il negozio cercano, per quanto possono,
di far apparir questa opinione, almanco appresso all'universale, come nuova e
mia particolare, dissimulando di sapere che Niccolò Copernico fu suo autore e
più presto innovatore e confermatore, uomo non solamente cattolico, ma
sacerdote e canonico, e tanto stimato, che, trattandosi nel Concilio
lateranense, sotto Leon X, della emendazion del calendario ecclesiastico, egli
fu chiamato a Roma sin dall'ultime parti di Germania per questa riforma, la
quale allora rimase imperfetta solo perché non si aveva ancora esatta
cognizione della giusta misura dell'anno e del mese lunare: onde a lui fu dato
carico dal Vescovo Semproniense, allora soprintendente a ques'impresa, di
cercar con replicati studi e fatiche di venire in maggior lume e certezza di
essi movimenti celesti; ond'egli, con fatiche veramente atlantiche e col suo
mirabil ingegno, rimessosi a tale studio, si avanzò tanto in queste scienze, e
a tale esattezza ridusse la notizia de' periodi de' movimenti celesti, che si
guadagnò il titolo di sommo astronomo, e conforme alla sua dottrina non
solamente si è poi regolato il calendario, ma si fabbricorno le tavole di tutti
i movimenti de' pianeti: ed avendo egli ridotta tal dottrina in sei libri, la
pubblicò al mondo a i prieghi del Cardinal Capuano e del Vescovo Culmense; e
come quello che si era rimesso con tante fatiche a questa impresa d'ordine del
Sommo Pontificio, al suo successore, ciò è a Paolo III, dedicò il suo libro
delle Revoluzioni Celesti, il qual, stampato pur allora, è stato ricevuto da
Santa Chiesa, letto e studiato per tutto il mondo, senza che mai si sia presa
pur minima ombra di scrupolo nella sua dottrina. La quale ora mentre si va
scoprendo quanto ella sia ben fondata sopra ben manifeste esperienze e
necessarie dimostrazioni, non mancano persone che, non avendo pur mai veduto
tal libro, procurano il premio delle tante fatiche al suo autore con la nota di
farlo dichiarare eretico; e questo solamente per sodisfare ad un lor
particolare sdegno, concepito senza ragione contro di un altro, che non ha più
interesse col Copernico che l'approvar la sua dottrina.
Ora, per queste false note
che costoro tanto ingiustamente cercano di addossarmi, ho stimato necessario
per mia giustificazione appresso l'universale, del cui giudizio e concetto, in
materia di religione e di reputazione, devo far grandissima stima, discorrer
circa a quei particolari che costoro vanno producendo per detestare ed abolire
questa opinione, ed in somma per dichiararla non pur falsa, ma eretica,
facendosi sempre scudo di un simulato zelo di religione e volendo pur
interessare le Scritture Sacre e farle in certo modo ministre de' loro non
sinceri proponimenti, col voler, di più, s'io non erro, contro l'intenzion di
quelle e de' Santi Padri, estendere, per non dir abusare, la loro autorità, sì
che anco in conclusioni pure naturali e non de Fide, si deve lasciar
totalmente il senso e le ragioni dimostrative per qualche luogo della
Scrittura, che tal volta sotto le apparenti parole potrà contenere sentimento
diverso. Dove spero di dimostrar, con quanto più pio e religioso zelo procedo
io, che non fanno loro, mentre propongo non che non si danni questo libro, ma
che non si danni, come vorrebbono essi, senza intenderlo, ascoltarlo, né pur
vederlo, e massime sendo autore che non mai tratta di cose attenenti a
religione o a fede, né con ragioni dependenti in modo alcuno da autorità di
Scritture Sacre, dove egli possa malamente averle interpretate, ma sempre se ne
sta su conclusioni naturali, attenenti a i moti celesti, trattate con
astronomiche e geometriche dimostrazioni, fondate prima sopra sensate
esperienze ed accuratissime osservazioni. Non che egli non avesse posto cura a
i luoghi delle Sacre Lettere; ma perché benissimo intendeva, che sendo tal sua
dottrina dimostrata, non poteva contrariare alle Scritture intese perfettamente:
e però nel fine della dedicatoria, parlando del Sommo Pontefice, dice così: “Si
fortasse erunt matæologi, qui, cum omnium mathematum ignari sint, tamen de
illis iudicium assumunt, propter aliquem locum Scripturæ, male ad suum
propositum detortum, ausi fuerint hoc meum institutum repræhendere ac
insectari, illos nihil moror, adeo ut etiam illorum iudicium tanquam temerarium
contemnam. Non enim obscurum est, Lactantium, celebrem alioqui scriptorem, sed
mathematicum parum, admodum pueriliter de forma Terræ loqui, cum deridet eos
qui Terram globi formam habere prodiderunt. Itaque non debet mirum videri
studiosis, si qui tales nos etiam ridebunt. Mathemata mathematicis scribuntur,
quibus et hi nostri labores (si me non fallit opinio) videbuntur etiam Republicæ
Ecclesiasticæ conducere aliquid, cuius principatum Tua Sanctitas nunc tenet.”
E di questo genere si scorge
esser questi che s'ingegnano di persuadere che tale autore si danni, senza pur
vederlo; e per persuadere che ciò non solamente sia lecito, ma ben fatto, vanno
producendo alcune autorità della Scrittura e de' sacri teologi e de' Concilii;
le quali sì come da me son reverite e tenute di suprema autorità, sì che somma
temerità stimerei esser quella di chi volesse contradirgli mentre vengono conforme
all'instituto di Santa Chiesa adoperate, così credo che non sia errore il
parlar mentre si può dubitare che alcuno voglia, per qualche suo interesse,
produrle e servirsene diversamente da quello che è nella santissima intenzione
di Santa Chiesa; però protestandomi (e anco credo che la sincerità mia si farà
per se stessa manifesta) che io intendo non solamente di sottopormi a rimuover
liberamente quegli errori ne' quali per mia ignoranza potessi in questa
scrittura incorrere in materie attenenti a religione, ma mi dichiaro ancora non
voler nell'istesse materie ingaggiar lite con nissuno, ancor che fossero punti
disputabili: perché il mio fine non tende ad altro, se non che, se in queste
considerazioni, remote dalla mia professione propria, tra gli errori che ci
potessero essere dentro, ci è qualcosa atta ad eccitar altri a qualche
avvertimento utile per Santa Chiesa, circa 'l determinar sopra 'l sistema
Copernicano, ella sia presa e fattone quel capitale che parrà a' superiori; se
no, sia pure stracciata ed abbruciata la mia scrittura, ch'io non intendo o
pretendo di guadagnarne frutto alcuno che non fusse pio e cattolico. E di più,
ben che molte delle cose che io noto le abbia sentite con i proprii orecchi,
liberamente ammetto e concedo a chi l'ha dette che dette non l'abbia, se così
gli piace, confessando poter essere ch'io abbia frainteso; e però quando
rispondo non sia detto per loro, ma per chi avesse quella opinione.
Il motivo, dunque, che loro
producono per condennar l'opinione della mobilità della Terra e stabilità del
Sole, è, che leggendosi nelle Sacre lettere, in molti luoghi, che il Sole si
muove e che la Terra sta ferma, né potendo la Scrittura mai mentire o errare,
ne séguita per necessaria conseguenza che erronea e dannanda sia la sentenza di
chi volesse asserire, il Sole esser per se stesso immobile, e mobile la Terra.
Sopra questa ragione parmi
primieramente da considerare, essere e santissimamente detto e
prudentissimamente stabilito, non poter mai la Sacra Scrittura mentire, tutta
volta che si sia penetrato il suo vero sentimento; il qual non credo che si
possa negare essere molte volte recondito e molto diverso da quello che suona
il puro significato delle parole. Dal che ne séguita, che qualunque volta
alcuno, nell'esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono literale,
potrebbe, errando esso, far apparir nelle Scritture non solo contradizioni e
proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poi che
sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, non meno affetti corporali
ed umani, come d'ira, di pentimento, d'odio, ed anco tal volta la dimenticanza
delle cose passate e l'ignoranza delle future; le quali proposizioni, sì come,
dettante lo Spirito Santo, furono in tal guisa profferite da gli scrittori
sacri per accomodarsi alla capacità del vulgo assai rozzo e indisciplinato,
così per quelli che meritano d'esser separati dalla plebe è necessario che i
saggi espositori ne produchino i veri sensi, e n'additino le ragioni
particolari per che e' siano sotto cotali parole profferiti: ed è questa
dottrina così trita e specificata appresso tutti i teologi, che superfluo
sarebbe il produrne attestazione alcuna.
Di qui mi par di poter assai
ragionevolmente dedurre, che la medesima Sacra Scrittura, qualunque volta gli è
occorso di pronunziare alcuna conclusione naturale, e massime delle più
recondite e difficili ad esser capite, ella non abbia pretermesso questo
medesimo avviso, per non aggiugnere confusione nelle menti di quel medesimo
popolo e renderlo più contumace contro a i dogmi di più alto misterio. Perché
se, come si è detto e chiaramente si scorge, per il solo rispetto d'accomodarsi
alla capacità popolare non si è la Scrittura astenuta di adombrare
principalissimi pronunziati, attribuendo sino all'istesso Iddio condizioni
lontanissime e contrarie alla sua essenza, chi vorrà asseverantemente sostenere
che l'istessa Scrittura, posto da banda cotal rispetto, nel parlare anco
incidentemente di Terra, d'acqua, di Sole o d'altra creatura, abbia eletto di
contenersi con tutto rigore dentro a i puri e ristretti significati delle
parole? E massime nel pronunziar di esse creature cose non punto concernenti al
primario instituto delle medesime Sacre Lettere, ciò è al culto divino ed alla
salute dell'anime, e cose grandemente remote dalla apprensione del vulgo.
Stante, dunque, ciò, mi par
che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle
autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle
dimostrazioni necessarie: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la
Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e
questa come osservantissima essecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di
più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all'intendimento
dell'universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al nudo
significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all'incontro, essendo la
natura inesorabile ed immutabile, e mai non trascendente i termini delle leggi
impostegli, come quella che nulla cura che le sue recondite ragioni e modi
d'operare sieno o non sieno esposti alla capacità degli uomini; pare che quello
degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi a gli occhi
o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato
in dubbio, non che condennato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle
parole diverso sembiante; poi che non ogni detto della Scrittura è legato a
obblighi così severi com'ogni effetto di natura, né meno eccelentemente ci si
scuopre Iddio negli effetti di natura che ne' sacri detti delle Scritture: il
che volse per avventura intender Tertulliano in quelle parole: “Nos definimus,
Deum primo natura cognoscendum, deinde doctrina recognoscendum: natura, ex
operibus; doctrina, ex prædicationibus.”
Ma non per questo voglio
inferire, non doversi aver somma considerazione de i luoghi delle Scritture
Sacre; anzi, venuti in certezza di alcune conclusioni naturali, doviamo
servircene per mezi accomodatissimi alla vera esposizione di esse Scritture ed
all'investigazione di quei sensi che in loro necessariamente si contengono,
come verissime e concordi con le verità dimostrate. Stimerei per questo che
l'autorità delle Sacre Lettere avesse avuto la mira a persuadere principalmente
a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, superando ogni umano
discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili,
che per la bocca dell'istesso Spirito Santo: di più, che ancora in quelle
proposizioni che non sono de Fide l'autorità delle medesime Sacre
Lettere deva esser anteposta all'autorità di tutte le Scritture umane, scritte
non con metodo dimostrativo, ma o con pura narrazione o anco con probabili
ragioni, direi doversi reputar tanto convenevole e necessario, quanto l'istessa
divina sapienza supera ogni umano giudizio e coniettura. Ma che quell'istesso
Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d'intelletto, abbia voluto,
posponendo l'uso di questi, darci con altro mezo le notizie che per quelli
possiamo conseguire, sì che anco in quelle conclusioni naturali, che o dalle
sensate esperienze o dalle necessarie dimostrazioni ci vengono esposte innanzi
a gli occhi e all'intelletto, doviamo negare il senso e la ragione, non credo
che sia necessario il crederlo, e massime in quelle scienze delle quali una
minima particella solamente, ed anco in conclusioni divise, se ne legge nella
Scrittura; quale appunto è l'astronomia, di cui ve n'è così piccola parte, che
non vi si trovano né pur nominati i pianeti, eccetto il Sole e la Luna, e duna
o due volte solamente, Venere, sotto nome di Lucifero. Però se gli scrittori
sacri avessero avuto pensiero di persuadere al popolo le disposizioni e
movimenti de' corpi celesti, e che in conseguenza dovessimo noi ancora dalle
Sacre Scritture apprender tal notizia, non ne avrebbon, per mio credere,
trattato così poco, che è come niente in comparazione delle infinite
conclusioni ammirande che in tale scienza si contengono e si dimostrano. Anzi,
che non solamente gli autori delle Sacre Letter non abbino preteso d'insegnarci
le costituzioni e movimenti de' cieli e delle stelle, e loro figure, grandezze
e distanze, ma che a bello studio, ben che tutte queste cose fussero a loro
notissime, se ne sieno astenuti, è opinione di santissimi e dottissimi Padri:
ed in sant'Agostino si leggono le seguenti parole: “Quæri etiam solet, quæ
forma et figura cæli esse credenda sit secundum Scripturas nostras: multi enim
multum disputant de iis rebus, quas maiore prudentia nostri authores omiserunt,
ad beatam vitam non profuturas discentibus, et occupantes (quod peius est)
multum prolixa et rebus salubribus impedenda temporum spatia. Quid enim ad me
pertinet, ultram cælum, sicut sphera, undique concludat Terram, in media mundi
mole libratam, an eam ex una parte desuper, velut discus, operiat? Sed quia de
fide agitur Scripturarum, propter illam causam quam non semel commemoravi, ne
scilicet quisquam, eloquia divina non intelligens, cum de his rebus tale
aliquid vel invenerit in libris nostris vel ex illis audierit quod perceptis
assertionibus adversari videatur, nullo modo eis cætera utilia monentibus vel
narrantibus vel pronunciantibus credat; breviter dicendum est, de figura cæli
hoc scisse authores nostros quod veritas habet, sed Spiritum Dei, qui per ipsos
loquebatur, noluisse ista docere homines, nulli saluti profutura.”
E pur l'istesso disprezzo
avuto da' medesimi scrittori sacri nel determinar quello che si deva credere di
tali accidenti de' corpi celesti ci vien nel seguente cap. 10 replicato dal
medesimo Sant'Agostino, nella quistione, se si deva stimare che 'l cielo si
muova o pure stia fermo, scrivendo così: “De motu etiam cæli nonnulli fratres
quæstionem movent, utrum stets an moveatur: quia si movetur, inquiunt, quomodo
firmamentum est? Si autem stat, quomodo sydera, quæ in ipso fixa creduntur, ab
oriente usque ad occidentem circumeunt, septentrionalibus breviores gyros iuxta
cardinem peragentibus, ut cælum, si est alius nobis occultus cardo ex alio
vertice, sicut sphera, si autem nullus alius cardo est, veluti discus, rotari
videatur? Quibus respondeo, multum subtilibus et laboriosis ista perquiri, ut
vere percipiatrur utrum ita an non ita sit; quibus ineundis atque tractandis
nec mihi iam tempus est, nec illis esse debet quos ad salutem suam et Sanctæ
Ecclesiæ necessariam utilitatem cupimus informari.”
Dalle quali cose descendendo
più al nostro particolare, ne séguita per necessaria conseguenza, che non
avendo voluto lo Spirito Santo insegnarci se il cielo si muova o stia fermo, né
la sua figura sia in forma di sfera o di disco o distesa in piano, né se la
Terra sia contenuta nel centro di esso o da una banda, non avrà manco avuto
intenzione di renderci certi di altre conclusioni dell'istesso genere, e
collegate in maniera con le pur ora nominate, che senza la determinazion di
esse non se ne può asserire questa o quella parte; quali sono il determinar del
moto e della quiete di essa Terra e del Sole.
E se l'istesso Spirito Santo
a bello studio ha pretermesso d'insegnarci simili proposizioni, come nulla
attenenti alla sua intenzione, ciò è alla nostra salute, come si potrà adesso
affermare, che il tener di esse questa parte, e non quella, sia tanto
necessario che l'una sia de Fide, e l'altra erronea? Potrà, dunque
essere un'opinione eretica, e nulla concernente alla salute dell'anime? o potrà
dirsi, aver lo Spirito Santo voluto non insegnarci cosa concernente alla
salute? Io qui direi che quello che intesi da persona ecclesiastica costituita
in eminentissimo grado, ciò è l'intenzione delle Spirito Santo essere
d'insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo.
Ma torniamo a considerare,
quanto nelle conclusioni naturali si devono stimar le dimostrazioni necessarie
e le sensate esperienze, e di quanta autorità le abbino reputate i dotti e i
santi teologici; da i quali, tra cent'altre attestazioni, abbiamo le seguenti:
“Illud etiam diligenter cavendum et omnino fugiendum est, ne in tractanda Mosis
doctrina quidquam affirmate et asseveranter sentiamus et dicamus, quod repugnet
manifestis experimentis et rationibus philosopiæ vel aliarum disciplinarum:
namque, cum verum omne semper cum vero congruat, non potest veritas Sacrarum
Literarum veris rationibus et experimentis humanarum doctrinarum esse
contraria.” Ed appresso sant'Agostino si legge: “Si manifestæ certæque rationi
velut Santarum Scripturarum obiicitur authoritas, non intelligit qui hoc facit;
et non Scripturæ sensum, ad quem penetrare non potuit, sed suum potius, obiicit
veritati; nec quod in ea, sed in ipso, velut pro ea, invenit, opponit.”
Stante questo, ed essendo,
come si è detto, che due verità non possono contrariarsi, è officio de' saggi
espositori affaticarsi per penetrare i veri sensi de' luoghi sacri, che
indubitabilmente saranno concordanti con quelle conclusioni naturali, delle
quali il senso manifesto e le dimostrazioni necessarie ci avessero prima resi
certi e sicuri. Anzi, essendo, come si è detto, che le Scritture per l'addotte
cagioni ammettono in molti luoghi esposizioni lontane dal significato delle
parole, e, di più, non potendo noi con certezza asserire che tutti
gl'interpreti parlino inspirati divinamente, poi che, se così fusse, niuna
diversità sarebbe tra di loro circa i sensi de' medesimi luoghi, crederei che
fusse molto prudentemente fatto se non si permettesse ad alcuno impegnare i
luoghi della Scrittura ed in certo modo obligargli a dover sostener per vere
queste o quelle conclusioni naturali, delle quali una volta il senso e le
ragioni dimostrative e necessarie ci potessero manifestare il contrario. E chi
vuol por termine alli umani ingegni? Chi vorrà asserire, già essersi veduto e
saputo tutto quello che è al mondo di sensibile e di scibile? Forse quelli che
in altre occasioni confesseranno (e con gran verità) che ea quæ scimus sunt
minima pars eorum quæ ignoramus? Anzi pure, se noi abbiamo dalla bocca
dell'istesso Spirito Santo, che Deus tradidit mundum disputationi eorum, ut
non inveniat homo opus quod operatus est Deus ab initio ad finem, non si
dovrà, per mio parere, contradicendo a tal sentenza, precluder la strada al
libero filosofare circa le cose del mondo e della natura, quasi che elleno sien
di già state con certezza ritrovate e palesate tute. Né si dovrebbe stimar
temerità il non si quietare nelle opinioni già state quasi comuni, né
dovrebb'esser chi prendesse a sdegno se alcuno non aderisce in dispute naturali
a quell'opinione che piace loro, e massime intorno a problemi stati già
migliaia d'anni controversi tra filosofi grandissimi, quale è la stabilità del
sole e mobilità della Terra: opinione tenuta da Pittagora, e da tutta la sua
setta, e da Eraclide Pontico, il quale fu dell'istessa opinione, da Filolao
maestro di Platone, e dall'istesso Platone, come riferisce Aristotile, e del
quale scrive Plutarco nella vita di Numa, che esso Platone già fatto vecchio
diceva, assurdissima cosa essere il tenere altramente. L'istesso fu creduto da
Aristarco Samio, come abbiamo appresso Archimede, da Seleuco matematico, da
Niceta filosofo, referente Cicerone, e da molti altri, e finalmente ampliata e
con molte osservazioni e dimostrazioni confermata da Niccolò Copernico. E
Seneca, eminentissimo filosofo, nel libro De cometis ci avvertisce,
doversi con grandissima diligenza cercar di venire in certezza, se sia il cielo
o la Terra in cui risegga la diurna conversione.
E per questo, oltre agli
articoli concernenti alla salute ed allo stabilimento della Fede, contro la
fermezza de' quali non è pericolo alcuno che possa insurgere mai dottrina
valida ed efficace, non saria forse se non saggio ed util consiglio il non ne
aggregar altri senza necessità: e se così è, disordine veramente sarebbe
l'aggiugnergli a richiesta di persone, le quali, oltre che noi ignoriamo se
parlino inspirate da celeste virtù, chiaramente vediamo che in esse si potrebbe
desiderare quella intelligenza che sarebbe necessaria prima a capire, e poi a
redarguire, le dimostrazioni con le quali le acutissime scienze procedono nel
confermare simili conclusioni. Ma più direi, quando mi fusse lecito produrre il
mio parere, che forse più converrebbe al decoro ed alla maestà di esse Sacre
Lettere il provvedere che non ogni leggiero e vulgare scrittore potesse, per
autorizzar sue composizioni, bene spesso fondate sopra vane fantasie, spargervi
luoghi della Scrittura Santa, interpetrati, o più presto stiracchiati, in sensi
tanto remoti dall'intenzione retta di essa Scrittura, quanto vicini alla
derisione di coloro che non senza qualche ostentazione se ne vanno adornando.
Esempli di tale abuso se ne potrebbono addur molti: ma voglio che mi bastino
due, non remoti da queste materie astronomiche. L'uno de' quali sieno le
scritture che furon pubblicate contro a i pianeti Medicei, ultimamente da me
scoperti, contro la cui esistenza furono opposti molti luoghi della Sacra
Scrittura: ora che i pianeti si fanno veder da tutto il mondo, sentirei
volentieri con quali nuove interpretazioni vien da quei medesimi oppositori
esposta la Scrittura, e scusata la lor semplicità. L'altro esempio sia di
quello che pur nuovamente ha stampato contro a gli astronomi e filosofi, che la
Luna non altramente riceve lume dal Sole, ma è per se stessa splendida; la qual
immaginazione conferma in ultimo, o, per meglio dire, si persuade di
confermare, con varii luoghi della Scrittura, li quali gli par che non si
potessero salvare, quando la sua opinione non fusse vera e necessaria. Tutta via,
che la Luna sia per se stessa tenebrosa, è non men chiaro che lo splendor del
Sole.
Quindi resta manifesto che
tali autori, per non aver penetrato i veri sensi della Scrittura, l'avrebbono,
quando la loro autorità fosse di gran momento, posta in obligo di dover
costringere altrui a tener per vere, conclusioni repugnanti alle ragioni
manifeste ed al senso: abuso che Deus avertat che andasse pigliando
piede o autorità, perché bisognerebbe vietar in breve tempo tutte le scienze
speculative; perché, essendo per natura il numero degli uomini poco atti ad
intendere perfettamente le Scritture Sacre e l'altre scienze maggiore assai del
numero degl'intelligenti, quelli, scorrendo superficialmente le Scritture, si
arrogherebbono autorità di poter decretare sopra tutte le questioni della
natura, in vigore di qualche parola mal intesa da loro ed in altro proposito
prodotta dagli scrittori sacri: né potrebbe il piccol numero degl'intendenti
reprimer il furioso torrente di quelli, i quali troverebbono tanti più seguaci,
quanto il potersi far reputar sapienti senza studio e senza fatica è più soave
che il consumarsi senza riposo intorno alle discipline laboriosissime. Però
grazie infinite doviamo render a Dio benedetto, il quale per sua benignità ci
spoglia di questo timore, mentre spoglia d'autorità simil sorte di persone,
riponendo il consultare, risolvere e decretare sopra determinazioni tanto
importanti nella somma sapienza e bontà di prudentissimi padri e nella suprema
autorità di quelli, che, scorti dallo Spirito Sabnto non possono se non
santamente ordinare, permettendo che della leggerezza di quelli altri non sia
fatto stima. Questa sorte d'uomini, per mio credere, son quelli contro i quali,
non senza ragione, si riscaldano i gravi e santi scrittori, e de i quali in particolare
scrive San Girolamo: “Hanc” (intendendo della Scrittura Sacra) “garrula anus,
hanc delirus senex, hanc sophista verbosus, hanc universi præsumunt, lacerant,
docent antequam discant. Alii, adducto supercilio, grandia verba trutinantes,
inter mulierculas de Sacris Literis philosophantur; alii discunt, proh pudor, a
fæminis quod viros doceant, et, ne parum hoc sit, quadam facilitate verborum,
imo audacia, edisserunt aliis quod ipsi non intelligunt. Taceo de mei
similibus, qui, si forte ad Scriputras Sanctas post seculares literas venerint,
et sermone composito aurem populi mulserint, quidquid dixerint, hoc legem Dei
putant, nec scire dignantur quid Prophetæ quid Apostoli senserint, sed ad
sensum suum incongrua aptant testimonia; quasi grande sit, et non vitiosissimum
docendi genus, depravare sententias, et ad voluntatem suam Scripturam trahere
repugnantem.”
Io non voglio metter nel
numero di simili scrittori secolari alcuni teologi, riputati da me per uomini
di profonda dottrina e di santissimi costumi, e per ciò tenuti in grande stima
e venerazione; ma non posso già negare di non rimaner con qualche scrupolo, ed
in conseguenza con desiderio che mi fusse rimosso, mentre sento che essi
pretendono di poter costringere altri, con l'autorità della Scrittura, a
seguire in dispute naturali quella opinione che pare a loro che più consuoni
con i luoghi di quella, stimandosi insieme di non essere in obbligo di solvere
le ragioni o esperienze in contrario. In esplicazione e confirmazione del qual
lor parere, dicono che essendo la teologia regina di tutte le scienze, non deve
in conto alcuno abbassarsi per accomodarsi a' dogmi dell'altre men degne ed a
lei inferiori, ma sì ben l'altre devono riferirsi ad essa, come a suprema
imperatrice, e mutare ed alterar le lor conclusioni conforme alli statuti e
decreti teologicali: e più aggiungono che quando nell'inferiore scienza si
avesse alcuna conlusione per sicura, in vigor di dimostrazioni o di esperienze,
alla quale si trovassi nella Scrittura altra conclusione repugnante, devono gli
stessi professori di quella scienza procurar per se medesimi di quella scienza
procurare per se medesimi di scioglier le lor dimostrazioni e scoprir le
fallacie delle proprie esperienze, senza ricorrere a i teologi e scritturali;
non convenendo, come si è detto, alla dignità della teologia abbassarsi
all'investigazione delle fallacie delle scienze soggette, ma solo bastando a
lei il determinargli la verità della conclusione, con l'assoluta autorità e con
la sicurezza di non poter errare. Le conclusioni poi naturali nelle quali dicon
essi che noi doviamo fermarci sopra la Scrittura, senza glosarla o
interpretarla in sensi diversi dalle parole, dicono essere quelle delle quali
la Scrittura parla sempre nel medesimo modo, e i Santi Padri tutti nel medesimo
sentimento le ricevono ed espongono. Ora intorno a queste determinazioni mi
accascano da considerare alcuni particolari, li quali proporrò per esserne reso
cauto da chi più di me intende di queste materie, al giudizio de' quali io
sempre mi sottopongo.
E prima, dubiterei che
potesse cader qualche poco di equivocazione, mentre che non si distinguessero
le preminenze per le quali la sacra teologia è degna del titolo di regina.
Imperò che ella potrebbe esser tale, o vero perché quello che da tutte l'altre
scienze viene insegnato, si trovasse compreso e dimostrato in lei, ma con mezi
più eccellenti e con più sublime dottrina, nel modo che, per essempio, le
regole del misurare i campi e del conteggiare molto più eminentemente si
contengono nell'aritmetica e geometria d'Euclide, che nelle pratiche degli
agrimensori e de' computisti; o vero perché il suggetto, intorno al quale si
occupa la teologia, superasse di dignità tutti gli altri suggetti che son
materia dell'altre scienze, ed anco perché i suoi insegnamenti procedessero con
mezi più sublimi. Che alla teologia convenga il titolo e la autorità regia
nella prima maniera, non credo che poss'essere affermato per vero da quei
teologi che avranno qualche pratica nell'altre scienze; de' quali nissuno crederò
io che dirà che molto più eccellente ed esattamente si contenga la geometria,
la astronomia, la musica e la medicina ne' libri sacri, che in Archimede, in
Tolommeo, in Boezio ed in Galeno. Però pare che la regia sopreminenza se gli
deva nella seconda maniera, ciò è per l'altezza del suggetto, e per l'ammirabil
insegnamento delle divine revelazioni in quelle conclusioni che per altri mezi
non potevano dagli uomini esser comprese e che sommamente concernono
all'acquisto dell'eterna beatitudine. Ora, se la teologia, occupandosi
nell'altissime contemplazioni divine e risedendo per dignità nel trono regio,
per lo che ella è fatta di somma autorità, non discende alle più basse ed umili
speculazioni delle inferiori scienze, anzi, come di sopra si è dichiarato, quelle
non cura, come non concernenti alla beatitudine, non dovrebbono i ministri e i
professori di quella arrogarsi autorità di decretare nelle professioni non
essercitate né studiate da loro; perché questo sarebbe come se un principe
assoluto, conoscendo di poter liberamente comandare e farsi ubbidire, volesse,
non essendo egli né medico né architetto, che si medicasse e fabbricasse a modo
suo, con grave pericolo della vita de' miseri infermi, e manifesta rovina degli
edifizi.
Il comandar poi a gli stessi
professori d'astronomia, che procurino per lor medesimi di cautelarsi contro
alle proprie osservazioni e dimostrazioni, come quelle che non possino esser
altro che fallacie e sofismi, è un comandargli cosa più che impossibile a
farsi; perché non solamente se gli comanda che non vegghino quel che e' veggono
e che non intendino quel che gl'intendono, ma che, cercando, trovino il
contrario di quello che gli vien per le mani. Però, prima che far questo,
bisognerebbe che fusse lor mostrato il modo di far che le potenze dell'anima si
comandassero l'una all'altra, e le inferiori alle superiori, sì che
l'immaginativa e la volontà potessero e volessero credere il contrario di quel
che l'intelletto intende (parlo sempre delle proposizioni pure naturali e che
non sono de Fide, e non delle sopranaturali e de Fide). Io vorrei
pregar questi prudentissimi Padri, che volessero con ogni diligenza considerare
la differenza che è tra le dottrine opinabili e le dimostrative; acciò,
rappresentandosi bene avanti la mente con qual forza stringhino le necessarie
illazioni, si accertassero maggiormente come non è in potestà de' professori
delle scienze demostrative il mutar l'opinioni a voglia loro, applicandosi ora
a questa ed ora a quella, e che gran differenza è tra il comandare a un
matematico o a un filosofo e 'l disporre un mercante o un legista, e che non
con, l'istessa facilità si possono mutare le conclusioni dimostrate circa le
cose della natura e del cielo, che le opinioni circa a quello che sia lecito o
no in un contratto, in un censo, in un cambio. Tal differenza è stata benissimo
conosciuta da i Padri dottissimi e santi, come l'aver loro posto grande studio
in confutar molti argumenti, o, per meglio dire, molte fallacie filosofiche ci
manifesta, e come espressamente si legge appresso alcuni di loro; ed in
patrticolare aviamo in sant'Agostino le seguenti parole: “Hoc indubitanter
tenendum est, ut quicquid sapientes huius mundi de natura rerum veraciter
demonstrare potuerint, ostendamus nostris Literis non esse contrarium; quicquid
autem illi in suis voluminibus contrarium Sacris Literis docent, sine ulla
dubitatione credamus id falsissimum esse, et, quoquomodo possumus, etiam
ostendamus; atque ita teneamus fidem Domini nostri, in quo sunt absconditi
omnes theasuri sapientæ, ut neque falsæ philosophiæ loquacitate seducamur,
neque simulatæ religionis superstitione terreamur.”
Dalle quali parole mi par
che si cavi questa dottrina, cioè che nei libri de' sapienti di questo mondo si
contenghino alcune cose della natura dimostrate veracemente, ed altre
semplicemente insegnate; e che, quanto alle prime, sia ofizio de' saggi teologi
mostrare che le non son contrarie alle Sacre Scritture; quanto all'altre,
insegnate ma non necessariamente dimostrate, se vi sarà cosa contraria alle Sacre
Lettere, si deve stimare che sia indubitatamente falsa, e tale in ogni possibil
modo si deve dimostrare. Se, dunque, le conclusioni naturali, dimostrate
veracemente, non si hanno a posporre a i luoghi della Scrittura, ma sì ben
dichiarare come tali luoghi non contrariano ad esse conclusioni, adunque
bisogna, prima che condannare una proposizion naturale, mostrar ch'ella non sia
dimostrata necessariamente: e questo devon fare non quelli che la tengon per
vera, ma quelli che la stiman falsa; e ciò par molto ragionevole e conforme
alla natura; ciò è che molto più facilmente sien per trovar le fallacie in un
discorso quelli che lo stiman falso, che quelli che lo reputan vero e
concludente; anzi in questo particolare accadrà che i seguaci di questa
opinione, quanto più andran rivolgendo le carte, esaminando le ragioni,
replicando l'osservazione e riscontrando l'esperienze, tanto più si confermino
in questa credenza. E l'Altezza Vostra sa quel che occorse al matematico
passato dello Studio di Pisa, che messosi nella sua vecchiezza a vedere la
dottrina del Copernico con speranza di poter fondatamente confutarla (poi che
in tanto la reputava falsa, in quanto non l'aveva mai veduta), gli avvenne, che
non prima restò capace de' suoi fondamenti, progressi e dimostrazioni, che ei
si trovò persuaso, e d'impugnatore ne divenne saldissimo mantenitore. Potrei
anco nominargli altri matematici, i quali, mossi da gli ultimi miei
scoprimenti, hanno confessato esser necessario mutare la già concepita
costituzione del mondo, non potendo in conto alcuno più sussistere.
Se per rimuover dal mondo
questa opinione e dottrina batasse il serrar la bocca ad un solo, come forse si
persuadono quelli che, misurando i giudizi degli altri co 'l loro proprio, gli
par impossibile che tal opinione abbia a sussistere e trovar seguaci, questo
sarebbe facilissimo a farsi; ma il negozio cammina altramente; perché, per
eseguire una tal determinazione, sarebbe necessario proibir non solo il libro
del Copernico e gli scritti degli altri autori che seguono l'istessa dottrina,
ma bisognerebbe interdire tutta la scienza d'astronomia intiera, e più, vietar
a gli uomini guardare verso il cielo, acciò non vedessero Marte e Venere or
vicinissimi alla terra or remotissimi con tanta differenza che questa si scorge
40 volte, e quello fa 60, maggior una volta che l'altra, ed acciò che la
medesima Venere non si scorgesse or rotonda or falcata con sottilissime corna,
e molte altre sensate osservazioni, che in modo alcuno non si possono adattare
al sistema Tolemaico, ma son saldissimi argumenti del Copernicano. Ma il
proibire il Copernico, ora che per molte nuove osservazioni e per
l'applicazione di molti literati alla sua lettura si va di giorno in giorno
scoprendo più vera la sua posizione e ferma la sua dottrina, avendol'ammesso
per tanti anni mentre egli era men seguito e confermato, parrebbe, a mio
giudizio, un contravvenire alla verità, e cercar tanto più di occultarla e
supprimerla, quanto più ella si dimostra palese e chiara. Il non abolire
interamente tutto il libro, ma solamente dannar per erronea questa particolar
proposizione, sarebbe, s'io non m'inganno, detrimento maggior per l'anime,
lasciandogli occasione di veder provata una proposizione, la qual fusse poi
peccato il crederla. Il proibir tutta la scienza, che altro sarebbe che un
reprovar cento luoghi delle Sacre Lettere, i quali ci insegnano come la gloria
e la grandezza del sommo Iddio mirabilmente si scorge in tutte le sue fatture,
e divinamente si legge nell'aperto libro del cielo? Né sia chi creda che la
lettura degli altissimi concetti, che sono scritti in quelle carte, finisca nel
solo veder lo splendor del Sole e delle stelle e 'l lor nascere ed ascondersi,
che è il termine sin dove penetrano gli occhi dei bruti e del vulgo; ma vi son
dentro misteri tantro profondi e concetti tanto sublimi, che le vigilie, le
fatiche e gli studi di cento e cento acutissimi ingegni non gli hanno ancora
interamente penetrati con l'investigazioni continuate per migliaia e migliaia
d'anni. E credino pure gli idioti che, sì come quello che gli occhi loro
comprendono nel riguardar l'aspetto esterno d'un corpo umano è piccolissima
cosa in comparazione de gli ammirandi artifizi che in esso ritrova un esquisito
e diligentissimo anatomista e filosofo, mentre va investigando l'uso di tanti
muscoli, tendini, nervi ed ossi, esaminando gli offizi del cuore e de gli altri
membri principali, ricercando le sedi delle facultà vitali, osservando le
maravigliose strutture de gli strumenti de' sensi, e, senza finir mai di
stupirsi e di appagarsi, contemplando i ricetti dell'immaginazione, della
memoria e del discorso; così quello che 'l puro senso della vista rappresenta,
è come nulla in proporzion de' l'alte meraviglie che, mercé delle lunghe ed
accurate osservazioni, l'ingegno degl'intelligenti scorge nel cielo. E questo è
quanto mi occorre considerare circa a questo particolare.
Quanto poi a quello che
soggiungono, che quelle proposizioni naturali delle quali la Scrittura
pronunzia sempre l'istesso e che i Padri tutti concordemente nell'istesso senso
ricevono, debbino esser intese conforme al nudo significato delle parole, senza
glose e interpretazioni, e ricevute e tenute per verissime, e che in
conseguenza, per esser tale la mobilità del Sole e la stabilità della Terra,
sia de Fide il tenerle per vere, ed erronea l'opinion contraria; mi
occorre di considerar, prima, che delle proposizioni naturali alcune sono delle
quali, con ogni umana specolazione e discorso, solo se ne può conseguire più
presto qualche probabile opinione e verisimil coniettura, che una sicura e
dimostrata scienza, come, per esempio, se le stelle sieno animate; altre sono,
delle quali o si ha, o si può credere fermamente che aver si possa, con
esperienze, con lunghe osservazioni e con necessarie dimostrazioni, indubitata certezza,
quale è, se la Terra e 'l Sole si muovino o no, se la Terra sia sferica o no.
Quanto alle prime, io non dubito punto che dove gli umani discorsi non possono
arrivare, e che di esse per conseguenza non si può avere scienza, ma solamente
opinione e fede, piamente convenga conformarsi assolutamente col puro senso
della Scrittura. Ma quanto alle altre, io crederei, come di sopra si è detto,
che prima fosse d'accertarsi del fatto, il quale ci scorgerebbe al ritrovamento
de' veri sensi delle Scritture, li quali assolutamente si troverebbero concordi
col fatto dimostrato, ben che le parole nel primo aspetto sonassero altramente;
poi che due veri non possono mai contrariarsi. E questa mi par dottrina tanto
retta e sicura, quanto io la trovo scritta puntualmente in sant'Agostino, il
quale, parlando a punto della figura del cielo e quale essa si deve credere
essere, poi che pare che quel che ne affermano gli astronomi sia contrario alla
Scrittura, stimandola quegli rotonda, e chiamandola la scrittura distesa come
una pelle, determina che niente si ha da curar che la Scrittura contrarii a gli
astronomi, ma credere alla sua autorità, se quello che loro dicono sarà falso e
fondato solamente sopra conietture dell'infirmità umana; ma se quello che loro
affermano fosse provato con ragioni indubitabili, non dice questo Santo Padre
che si comandi a gli astronomi che lor medesimi, solvendo le lor dimostrazioni,
dichiarino la lor conclusione per falsa, ma dice che si deve mostrare che
quello che è detto nella Scrittura della pelle, non è contario a quelle vere
dimostrazioni. Ecco le sue parole: “Sed ait aliquis: Quomodo non est contrarium
iis qui figuram spheræ cælo tribuunt, quod scriptum est in libris nostris, Qui
extendit cælum sicut pellem? Sit sane contarium, si falsum est quod illi
dicunt; hoc enim verum est, quod divina dicit authoritas, potius quam illud
quod humana infirmitas coniicit. Sed si forte illud talibus illi documentis
probare potuerint, ut dubitari inde non debeat, demonstrandum est, hoc quod
apud nos est de pelle dictum, veris illis rationibus non esse contrarium.”
Segue poi di ammonirci che noi non doviamo esser meno osservanti in concordare
un luogo della Scrittura con una proposizione naturale dimostrata, che con un
altro luogo della Scrittura che sonasse il contrario. Anzi mi par degna d'esser
ammirata ed immitata la circuspezzione di questo Santo, il quale anco nelle
conclusioni oscure, e delle quali si può esser sicuri che non se ne possa avere
scienza per dimostrazioni umane, va molto riservato nel determinar quello che
si deva credere, come si vede da quello che egli scrive nel fine del 2° libro De
Genesi ad literam, parlando se le stelle sieno da credersi animate: “Quod
licet in præsenti facile non possit conpræhendi, arbitror tamen, in processu
tractandarum Scripturarum opportuniora loca posse occurrere, ubi nobis de hac
re secundum sanctæ authoritatis literas, etsi non ostendere certum aliquid,
tamen credere, licebit. Nunc autem, servata semper moderatione piæ gravitatis,
nihil credere de re obscura temere debemus, ne forte quod postea veritas
patefecerit, quamvis libris sanctis, sive Testamenti Veteris sive Novi, nullo
modo esse possit adversum, tamen propter amorem nostri erroris oderimus.”
Di qui e da altri luoghi
parmi, s'io non m'inganno, la intenzione de' Santi Padri esser, che nelle
quistioni naturali e che non son de Fide prima si deva considerar se
elle sono indubitabilmente dimostrate o con esperienze sensate conosciute, o
vero se una tal cognizione e dimostrazione aver si possa: la quale ottenendosi,
ed essendo ella ancora dono di Dio, si deve applicare all'investigazione de'
veri sensi delle Sacre Lettere in quei luoghi che in apparenza mostrassero di
sonar diversamente; i quali indubitatamente saranno penetrati da' sapienti
teologi, insieme con le ragioni per che lo Spirito Santo gli abbia volsuti tal
volta, per nostro essercizio o per altra a me recondita ragione, velare sotto
parole di significato diverso.
Quanto all'altro punto,
riguardando noi al primario scopo di esse Sacre Lettere, non crederei che
l'aver loro sempre parlato nell'istesso senso avesse a perturbar questa regola;
perché, se occorrendo alla Scrittura, per accomodarsi alla capacità del vulgo,
pronunziare una volta una proposizione con parole di sentimento diverso dalla essenza
di essa proposizione; perché non dovrà ella aver osservato l'istesso, per
l'istesso rispetto, quante volte gli occorreva la medesima cosa? Anzi mi pare
che 'l fare altramente averebbe cresciuta la confusione, e scemata la credulità
nel popolo. Che poi della quiete o movimento del Sole e della Terra fosse
necessario, per accomodarsi alla capacità popolare, asserirne quello che suonan
le parole della Scrittura, l'esperienza ce lo mostra chiaro: poi che anco
all'età nostra popolo assai men rozo vien mantenuto nell'istessa opinione da
ragioni che, ben ponderate ed essaminate, si troveranno esser frivolissime, ed
esperienze o in tutto false o totalmente fuori del caso; né si può pur tentar
di rimuoverlo, non sendo capace delle ragioni contrarie, dependenti da troppo
esquisite osservazioni e sottili dimostrazioni, appoggiate sopra astrazioni,
che ad esser concepite richieggon troppo gagliarda imaginativa. Per lo che,
quando bene appresso i sapienti fusse più che certa e dimostrata la stabilità
del Sole e 'l moto della Terra, bisognerebbe ad ogni modo, per mantenersi il
credito appresso il numerosissimo volgo, proferire il contrario; poi che de i
mille uomini vulgari che venghino interrogati sopra questi particolari, forse
non se ne troverà uno solo, che non risponda, parergli, e così creder per
fermo, che 'l Sole si muova e che la Terra stia ferma. Ma non però deve alcun
prendere questo comunissimo assenso popolare per argumento della verità di quel
che viene asserito; perché se noi interrogheremo gli stessi uomini delle cause
e motivi per i quali e' credono in quella maniera, ed, all'incontro,
ascolteremo quali esperienze e dimostrazioni induchino quegli altri pochi a
creder il contrario, troveremo questi esser persuasi da saldissime ragioni, e
quelli da semplicissime apparenze e rincontri vani e ridicoli.
Che dunque fosse necessario
attribuire al Sole il moto, e la quiete alla Terra, per non confonder la poca
capacità del vulgo e renderlo renitente e contumace nel prestar fede a gli
articoli principali e che sono assolutamente de Fide, è assai manifesto:
e se così era necessario a farsi, non è punto da meravigliarsi che così sia
stato con somma prudenza esseguito nelle divine Scritture. Ma più dirò, che non
solamente il rispetto dell'incapacità del Vulgo, ma la corrente opinione di
quei tempi, fece che gli scrittori sacri nelle cose non necessarie alla
beatitudine più si accomodorno all'uso ricevuto che alla essenza del fatto. Di
che parlando san Girolamo scrive: “Quasi non multa in Scripturis Sanctis
dicantur iuxta opinionem illius temporis quo gesta referuntur, et non iuxta
quod rei veritas continebat.” Ed altrove il medesimo Santo: “Consuetudinis,
Scripturarum est, ut opinionem multarum rerum sic narret Historicus, quomodo eo
tempore ab omnibus credebatur.” E san Tommaso in Iob, al cap. 27, sopra le
parole “Qui extendit aquilonem super vacuum, et appendit Terram super nihilum”,
nota che la Scrittura chiama vacuo e niente lo spazio che abbraccia e circonda
la Terra, e che noi sappiamo non esser vòto, ma ripieno d'aria: nulla dimeno,
dice egli che la Scrittura, per accomodarsi alla credenza del vulgo, che pensa
che in tale spazio non sia nulla, lo chiama vacuo e niente. Ecco le parole di
san Tommaso: “Quod de superiori hemisphærio cæli nihil nobis apparet. nisi saptium
äere plenum, quod vulgares homines reputant vacuum: loquitur enim secundum
extimationem vulgarium hominum, pro ut est mos in Sacra Scriptura.” Ora da
questo luogo mi pare che assai chiaramente argumentar si possa, che la
Scrittura Sacra, per il medesimo rispetto, abbia avuto più gran cagione di
chiamare il Sole mobile e la Terra stabile. Perché, se noi tenteremo la
capacità degli uomini vulgari, gli troveremo molto più inetti a restar persuasi
della stabilità del Sole e mobilità della Terra, che dell'esser lo spazio, che
ci circonda, ripieno d'aria: adunque, se gli autori sacri in questo punto, che
non aveva tanta difficoltà appresso la capacità del vulgo ad esser persuaso,
nulla dimeno si sono astenuti dal tentare di persuaderglielo, non dovrà parere se
non molto ragionevole che in altre proposizioni molto più recondite abbino
osservato il medesimo stile.
Anzi, conoscendo l'istesso
Copernico qual forza abbia nella nostra fantasia un'invecchiata consuetudine ed
un modo di concepir le cose già sin dall'infanzia fattoci familiare, per non
accrescer confusione e difficoltà nella nostra astrazione, dopo aver prima
dimostrato che i movimenti li quali a noi appariscono esser del sole o del
firmamento son veramente della Terra, nel venir poi a ridurgli in tavole ed
all'applicargli all'uso, gli va nominando per del Sole e del cielo superiore a
i pianeti, chiamando nascere e tramontar del sole, delle stelle, mutazioni
nell'obliquità dello zodiaco e variazione ne' punti degli equinozii, movimento
medio, anomalia e prostaferesi del Sole, ed altre cose tali, quelle che son
veramente della Terra. Ma perché, sendo noi congiunti con lei, ed in
conseguenza a parte d'ogni suo movimento, non gli possiamo immediate
riconoscere in lei, ma ci convien far di lei relazione a i corpi celesti ne'
quali ci appariscono, però gli nominiamo come fatti là dove fatti ci
rassembrano. Quindi si noti quanto sia ben fatto l'accomodarsi al nostro più
consueto modo d'intendere.
Che poi la comun concordia
de' Padri, nel ricever una proposizione naturale dalla Scrittura nel medesimo
senso tutti, debba autenticarla in maniera che divenga de Fide il
tenerla per tale, crederei che ciò si dovesse al più intender di quelle
conclusioni solamente, le quali fussero da essi Padri state discusse e
ventilate con assoluta diligenza e disputate per l'una e per l'altra parte,
accordandosi poi tutti a reprovar quella e tener questa. Ma la mobilità della
Terra e stabilità del Sole non son di questo genere, con ciò sia che tale
opinione fosse in quei tempi totalmente sepolta e remota dalle quistioni delle
scuole, e non considerata, non che seguita, da veruno: onde si può credere che
né pur cascasse concetto a' Padri di disputarla, avendo i luoghi della
Scritture, la lor opinione, e l'assenso de gli uomini tutti, concordi
nell'istesso parere, senza che si sentisse la contradizione di alcuno. Non
basta dunque il dir che i Padri tutti ammettono la stabilità della Terra, etc.,
adunque il tenerla è de Fide; ma bisogna provar che gli abbino
condennato l'opinione contraria; imperò che io potrò sempre dire, che il non
avere avuta loro occasione di farvi sopra reflessione e discuterla, ha fatto
che l'hanno lasciata ed ammessa solo come corrente, ma non già come resoluta e
stabilita. E ciò mi par di poter dir con assai ferma ragione: imperò che o i
Padri fecero reflessione sopra questa conclusione come controversa, o no: se
no, adunque niente ci potettero, né anco in mente loro, determinare, né deve la
loro non curanza mettere in obligo noi a ricevere quei precetti che essi non hanno,
né pur con l'intenzione, imposti: ma se ci fecero applicazione e
considerazione, già l'averebbono dannata se l'avessero giudicata per erronea;
il che non si trova che essi abbino fatto. Anzi, dopo che alcuni teologi
l'hanno cominciata a considerare, si vede che non l'hanno stimata erronea, come
si legge ne i Comentari di Didaco a Stunica sopra Iob, al c. 9, v. 6, sopra le
parole “Qui commovet Terram de loco suo” etc: dove lungamente discorre sopra la
posizione Copernicana, e conclude, la mobilità della Terra non esser contro
alla Scrittura.
Oltre che io averei qualche
dubbio circa la verità di tal determinazione, ciò è se sia vero che la Chiesa
obblighi a tenere come de Fide simili conclusioni naturali, insignite
solamente di una concorde interpretazione di tutti i Padri: e dubito che
poss'essere che quelli che stimano in questa maniera, possin aver desiderato
d'ampliar a favor della propria opinione il decreto de' Concilii, il quale non
veggo che in questo proposito proibisca altro se non lo stravolger in sensi
contrarii a quel di Santa Chiesa o del comun consenso de' Padri quei luoghi
solamente che sono de Fide, o attenenti a i costumi, concernenti
all'edificazione della dottrina cristiana: e così parla il Concilio Tridentino
alla Sessione IV. Ma la mobilità o stabilità della Terra o del Sole non son de
Fide né contro a i costumi, né vi è chi voglia scontorcere luoghi della
Scrittura per contrariare a Santa Chiesa o a i Padri: anzi chi ha scritta
questa dottrina non si è mai servito di luoghi sacri, acciò resti sempre
nell'autorità di gravi e sapienti teologi l'interpretar detti luoghi conforme
al vero sentimento. E quanto i decreti de' Concilii si conformino co' santi
Padri in questi particolari, può esser assai manifesto: poi che tantum abest
che si risolvino a ricever per de Fide simili conclusioni naturali o a
reprovar come erronee le contrarie opinioni che, più presto avendo riguardo
alla primaria intenzione di Santa Chiesa, reputano inutile l'occuparsi in
cercar di venir in certezza di quelle. Senta l'Altezza Vostra Serenissima
quello che risponde sant'Agostino a quei fratelli che muovono la quistione, se
sia vero che il cielo si muova o pure stia fermo: “His respondeo, multum
subtilis et laboriosis rationibus ista perquiri, ut vere percipiatur utrum ita
an non ita sit: quibus ineundis atque tractandis nech mihi iam tempus est, nec
illis esse debet quos ad salutem suam et Sanctæ Ecclesiæ necessarium utilitatem
cupimus informari.”
Ma quando pure anco nelle
proposizioni naturali, da luoghi della Scrittura esposti concordemente nel
medesimo senso da tutti i Padri si avesse a prendere la resoluzione di
condennarle o ammetterle, non però veggo che questa regola avesse luogo nel
nostro caso, avvenga che sopra i medesimi luoghi si leggono de' Padri diverse esposizioni:
dicendo Dionisio Areopagita, che non il Sole, ma il primo mobile, si fermò;
l'istesso stima sant'Agostino, ciò è che si fermassero tutti i corpi celesti; e
dell'istessa opinione è l'Abulense. Ma più, tra gli autori Ebrei, a i quali
applaude Ioseffo, alcuni hanno stimato che veramente il Sole non si fermasse,
ma che così apparve mediante la brevità del tempo nel quale gl'Isdraeliti
dettero la sconfitta a' nemici. Così, del miracolo al tempo di Ezechia, Paulo
Burgense stima non essere stato fatto nel Sole, ma nell'orivuolo. Ma che in
effetto sia necessario glosare e interpretare le parole del testo di Iosuè,
qualunque si ponga la costituzione del mondo, dimostrerò più a basso.
Ma finalmente, concedendo a
questi signori più di quello che comandano, ciò è di sottoscrivere interamente
al parere de' sapienti teologi, ciò è che tal particolar disquisizione non si
trova essere stata fatta da i Padri antichi, potrà esser fatta da i sapienti
della nostra età, li quali, ascoltate prima l'esperienze, l'osservazioni, le
ragioni e le dimostrazioni de' filosofi ed astronomi per l'una e per l'altra
parte, poi che la controversia è di problemi naturali e di dilemmi necessarii
ed impossibili ad essere altramente che in una delle due maniere controverse,
potranno con assai sicurezza determinar quello che le divine ispirazioni gli
detteranno. Ma che senza ventilare e discutere minutissimamente tutte le
ragioni dell'una e dell'altra parte, e che senza venire in certezza del fatto
si sia per prendere una tanta resoluzione, non è da sperarsi da quelli che non
si curerebbono d'arrisicar la maestà e dignità delle Sacre Lettere per
sostentamento della reputazione di lor vane immaginazioni, né da temersi da
quelli che non ricercano altro se non che si vadia con somma attenzione
ponderando quali sieno i fondamenti di questa dottrina, e questo solo per zelo
stantissimo del vero e delle Sacre Lettere, e della maestà. dignità ed autorità
nella quale ogni cristiano deve procurare che esse sieno mantenute. La quale
dignità chi non vede con quanto maggior zelo vien desiderata e procurata da
quelli che, sottoponendosi onninamente a Santa Chiesa, domandano non che si
proibisca questa o quella opinione, ma solamente di poter mettere in
considerazione cose onde ella maggiormente si assicuri nell'elezione più
sicura, che da quelli che, abbagliati da proprio interesse o sollevati da
maligne suggestioni, predicano che ella fulmini senz'altro la spada, poi che
ella ha potestà di farlo, non considerando che non tutto quel che si può fare è
sempre utile che si faccia? Di questo parere non son già stati i Padri
santissimi: anzi, conoscendo di quanto progiudizio e quanto contro al primario
instituto della Chiesa Cattolica sarebbe il volere da' luoghi della Scrittura
definire conclusioni naturali, delle quali, o con esperienze o con
dimostrazioni necessarie, si potrebbe in qualche tempo dimostrare il contrario
di quel che suonan le nude parole, sono andati non solamente circospettissimi,
ma hanno, per ammaestramento degli altri, lasciati i seguenti precetti: “In
rebus obscuris atque a nostri oculis remotissimis, si qua inde scripta, etiam
divina, legerimus, quæ possint, salva fide qua imbuimur, aliis atque aliis
parere sententiis, in ullam earum nos præcipiti affirmatione ita proiiciamus,
ut, si forte diligentius discussa veritas eam recte labefactaverit, corruamus;
non pro sententia divinarum Scripturarum, sed pro nostra ita dimicantes, ut eam
velimus Scripturarum esse, quæ nostra est, com potius eam, quæ Scripturarum
est, nostram esse velle debeamus.” Soggiugne poco di sotto, per ammaestrarci
come nissuna proposizione può esser contro la Fede se prima non è dimostrata
esser falsa, dicendo: “Tamdiu non est contra Fidem, donec veritate certissima
refellatur: quod si factum fuerit, non hoc habebat divina Scriptura, sed hoc
senserat humana ignorantia.” Dal che si vede come falsi sarebbono i sentimenti
che noi dessimo a' luoghi della Scrittura, ogni volta che non concordassero con
le verità dimostrate: e però devesi con l'aiuto del vero dimostrato cercar il
senso sicuro della Scrittura, e non, conforme al nudo suono delle parole, che
sembrasse vero alla debolezza nostra, volere in certo modo sforzar la natura e
negare l'esperienze e le dimostrazioni necessarie.
Ma noti di più, l'Altezza
Vostra, con quante circospezzioni cammina questo santissimo uomo prima che
risolversi ad affermare alcuna interpretazione della Scrittura per certa e
talmente sicura che non si abbia da temere di poter incontrare qualche
difficoltà che ci apporti disturbo, che, non contento che alcun senso della
Scrittura concordi con alcuna dimostrazione, soggiugne: “Si autem hoc verum
esse certa ratio demonstraverit, adhuc incertum erit, utrum hoc in illis verbis
sanctorum librorum scriptor sentiri voluerit, an aliquid aliud non minus verum:
quod si cætera contextio sermonis non hoc eum voluisse probaverit, non ideo
falsum erit aliud quod ipse intelligi voluit, sed et verum et quod utlis
cognoscatur.” Ma quello che accresce la meraviglia circa la circospezzione
dìcon la quale questo autore cammina, è che, non si assicurando su 'l vedere
che e le ragioni dimostrative e quelle che suonano le parole della Scrittura ed
il resto della testura precedente e susseguente cospirino nella medesima
intenzione, aggiugne le seguenti parole: “Si autem contextio Scripturæ, hoc
voluisse intelligi scriptorem non repugnaverit, adhuc restabit quærere, utrum
et aliud non potuerit”; né si risolvendo ad accettar questo senso o escluder
quello, anzi non gli parendo di potersi stimar mai cautelato a sufficienza,
séguita: “Quod si et aliud potuisse invenerimus, incertum erit, quidnam eorum
ille voluerit; aut utrumque voluisse, non inconvenienter creditur, si utrique
sententiæ certa circumstantia suffragatur.” E finalmente, quasi volendo render
ragione di questo suo instituto, col mostrarci a quali pericoli esporrebbono sé
e le Scritture e la Chiesa quelli che, riguardando più al mantenimento d'un suo
errore che alla dignità della Scrittura, vorrebbono estender l'autorità di
quella oltre a i termini che ella stessa si prescrive, soggiugne le seguenti
parole, che per sé sole doverebbono bastare a reprimere e moderare la soverchia
licenza che tal uno pretende di potersi pigliare: “Plerumque enim accidit, ut
aliquid de Terra, de cælo,de cæteris huius munda elementis, de moti et
conversione vel etiam magnitude et intervallis siderum, de certi defectibus
Solis et Lunæ, de circuitibus annorum et temporum, de naturis animalium,
fruticum, lapidum, atque huiusmodi cæteris, etiam non Christianus ita noverit, ut
certissima ratione vel experientia teneat. Turpe autem est nimis et perniciosum
ac maxime cavendum, ut Christianum de his rebus quasi secundum Christianas
Literas loquentem ita delirare quilibet infidelis audiat, ut, quemadmodum
diciur, toto cælo errare conspiciens, risum tenere vix possit; et non tam
molestum est quod errans homo derideretur, sed quod authores nostri ab eis qui
forsi sunt talia sensisse creduntur, et, cum magno exitio eorum de quorum
salute stagimus, tamquam indoct repræhenduntur atque respuuntur. Cum enim
quemquam de numero Christianorum ea in re quam ipsi optime norunt errare
depræhenderint, et vanam sententiam suam de nostris libris asserent, quo pacto
illis libris credituri sunt de resurrectione mortuorum et de spe vitæ æternæ
regnoque cælorum, quando de his rebus quas iam experiri vel indubitatis
rationibus percipere potuerunt, fallaciter putaverint esse conscriptos?” Quanto
poi restino offesi i Padri veramente saggi e prudenti da questi tali che, per
sostener proposizioni da loro non capite, vanno in certo modo impegnando i
luoghi delle Scritture, riducendosi poi ad accrescere il primo errore col
produrr'altri luoghi meno intesi de' primi, esplica il medesimo Santo con le
parole che seguono: “Quid enim molestiæ tristiæque ingerant prudentibus
fratribus temerarii præsumptores, satis dici non potest, cum si quando de prava
et falsa opinione sua repræhendi et convinci cœperint ab eis qui nostrorum
librorum authoritate non tenentur, ad defendendum id quod levissima temeritate
et apertissima falsitate dixerunt, eosdem libros sanctos unde id probent,
proferre conantur; vel etiam memoriter, quæ ad testimonium valere arbitrantur,
multa inde verba pronunciant, non intelligentes neque quæ loquuntur neque de
quibus affirmant.”
Del numero di questi parmi
che sieno costoro, che non volendo o non potendo intendere le dimostrazioni ed
esperienze con le quali l'autore ed i seguaci di questa posizione la
confermano, attendono pure a portare innanzi le Scritture, non si accorgendo
che quante più ne producono e quanto più persiston in affermar quelle esser
chiarissime e non ammetter altri sensi che quelli che essi gli danno, di tanto
maggior progiudizio sarebbono alla dignità di quelle (quando il lor giudizio
fosse di molta autorità), se poi la verità conosciuta manifestamente in
contrario arrecasse qualche confusione, al meno in quelli che son separati da
Santa Chiesa, de' quali pur ella è zelantissima e madre desiderosa di ridurgli
nel suo grembo. Vegga dunque l'Altezza Vostra quanto disordinatamente procedono
quelli che, nelle dispute naturali, nella prima fronte costituiscono per loro
argomenti luoghi della Scrittura, e ben spesso malamente da loro intesi.
Ma se questi tali veramente
stimano e interamente credono d'avere il vero sentimento di un tal luogo particolare
della Scrittura, bisogna, per necessaria conseguenza, che si tenghino anco
sicuri d'aver in mano l'assoluta verità di quella conclusione naturale che
intendono di disputare, e che insieme conoschino d'aver grandissimo vantaggio
sopra l'avversario, a cui tocca a difender la parte falsa; essendo che quello
che sostiene il vero, può aver molte esperienze sensate e molte dimostrazioni
necessarie per la parte sua, mentre che l'avversario non può valersi d'altro
che d'ingannevoli apparenze, di paralogismi e di fallacie. Ora se loro,
contenendosi dentro a i termini naturali e non producendo altre armi che le
filosofiche, sanno ad ogni modo d'esser tanto superiori all'avversario, perché,
nel venir poi al congresso, por subito mano ad un'arme inevitabile e tremenda,
per atterrire con la sola vista il loro avversario? Ma, se io devo dir il vero,
credo che essi sieno i primi atterriti, e che, sentendosi inabili a potere star
forti contro alli assalti dell'avversario, tentino di trovar modo di non se lo
lasciar accostare, vietandogli l'uso del discorso che la Divina Bontà gli ha
conceduto, ed abusando dell'autorità giustissima della Sacra Scrittura che, ben
intesa e usata, non può mai, conforme alla comun sentenza de' teologi, oppugnar
le manifeste esperienze o le necessarie dimostrazioni. Ma che questi tali
rifugghino alle Scritture per coprir la loro impossibilità di capire, non che
di solvere, le ragioni contrarie, dovrebbe, s'io non m'inganno, essergli di
nessun profitto, non essendo mai sin qui stata cotal opinione dannata da Santa
Chiesa. Però, quando volessero procedere con sincerità, doverebbono o, tacendo,
confessarsi inabili a poter trattar di simili materie, o vero prima considerare
che non è nella potestà loro né di altri che del Sommo Pontefice o de' sacri
Concilii il dichiarare una proposizione per erronea, ma che bene sta
nell'arbitrio loro il disputar della sua falsità; dipoi, intendendo come è
impossibile che alcuna proposizione sia insieme vera ed eretica, dovrebbono
occuparsi di quella parte che più aspetta a loro, ciò è in dimostrar la falsità
di quella; la quale come avessero scoperta, o non occorrerebbe più il
proibirla, perché nessuno la seguirebbe, o il proibirla sarebbe sicuro e senza
pericolo di scandalo alcuno.
Però applichinsi prima questi
tali a redarguire le ragioni del Copernico e di altri, e lascino il condennarla
poi per erronea ed eretica a chi ciò si appartiene; ma non sperino già d'esser
per trovare nei circuspetti e sapientissimi Padri e nell'assoluta sapienza di
Quel che non può errare, quelle repentine resoluzioni nelle quali essi talora
si lascerebbono precipitare da qualche loro affetto o interesse particolare;
perché sopra queste ed altre simili proposizioni, che non sono direttamente de
Fide, non è chi dubiti che il Sommo Pontefice ritien sempre assoluta
potestà di ammetterle o di condennarle; ma non è già in poter di creatura
alcuna il farle esser vere o false, diversamente da quel che elleno per sua
natura e de facto si trovano essere. Però par che miglior consiglio sia
l'assicurarsi prima della necessaria ed immutabil verità del fatto, sopra la
quale nissuno ha imperio, che, senza tal sicurezza, col dannare una parte
spogliarsi dell'autorità e libertà di poter sempre eleggere, riducendo sotto
necessità quelle determinazioni che di presente sono indifferenti e libere e
riposte nell'arbitrio dell'autorità suprema. Ed in somma, se non è possibile
che una conclusione sia dichiarata eretica mentre si dubita che ella poss'esser
vera, vana doverà esser la fatica di quelli che pretendono di dannar la
mobilità della Terra e la stabilità del Sole, se prima non la dimostrano essere
impossibile e falsa.
Resta finalmente che
consideriamo, quanto sia vero che il luogo di Giosuè si possa prendere senza
alterare il puro significato delle parole, e come possa essere che, obedendo il
Sole al comandamento di Giosuè, che fu che egli si fermasse, ne potesse da ciò
seguire che il giorno per molto spazio si prolungasse.
La qual cosa, stante i
movimenti celesti conforme alla costituzione Tolemaica, non può in modo alcuno
avvenire: perché, facendosi il movimento del Sole per l'eclittica secondo
l'ordine de' segni, il quale è da occidente verso oriente, ciò è contrario al
movimento del primo mobile da oriente in occidente, che è quello che fa il giorno
e la notte, chiara cosa è che, cessando il Sole dal suo vero e proprio
movimento, il giorno si farebbe più corto, e non più lungo, e che all'incontro
il modo dell'allungarlo sarebbe l'affrettare il suo movimento; in tanto che,
per fare che il Sole restasse sopra l'orizonte per qualche tempo in un istesso
luogo, senza declinar verso l'occidente, converrebbe accelerare il suo
movimento tanto che pareggiasse quel del primo mobile, che sarebbe un
accelerarlo circa trecento sessanta volte più del consueto. Quando dunque Iosuè
avesse avuto intenzione che le sue parole fossero prese nel loro puro e
propriissimo significato, averebbe detto al Sole ch'egli accelerasse il suo
movimento, tanto che il ratto del primo mobile non lo portasse all'occaso; ma
perchè le sue parole erano ascoltate da gente che forse non aveva altra
cognizione de' movimenti celesti che di questo massimo e comunissimo da levante
a ponente, accomodandosi alla capacità loro, e non avendo intenzione
d'insegnargli la costituzione delle sfere, ma solo che comprendessero la
grandezza del miracolo fatto nell'allungamento del giorno, parlò conforme
all'intendimento loro.
Forse questa considerazione
mosse prima Dionisio Areopagita a dire che in questo miracolo si fermò il primo
mobile, e fermandosi questo, in conseguenza si fermoron tutte le sfere celesti:
della quale opinione è l'istesso sant'Agostino, e l'Abulense diffusamente la
conferma. Anzi, che l'intenzione dell'istesso Iosuè fusse che si fermasse tutto
il sistema delle celesti sfere, si comprende dal comandamento fatto ancora alla
Luna, ben che essa non avesse che fare nell'allungamento del giorno; e sotto il
precetto fatto ad essa Luna s'intendono gli orbi de gli altri pianeti, taciuti
in questo luogo come in tutto il resto delle Sacre Scritture, delle quali non è
stata mai intenzione d'insegnarci le scienze astronomiche.
Parmi dunque, s'io non
m'inganno, che assai chiaramente si scorga che, posto il sistema Tolemaico, sia
necessario interpretar le parole con qualche sentimento diverso dal loro puro
significato: la quale interpretazione, ammonito dagli utilissimi documenti di
sant'Agostino, non direi esser necessariamente questa, sì che altra forse
migliore e più accomodata non potesse sovvenire ad alcun altro. Ma se forse
questo medesimo, più conforme a quanto leggiamo in Giosuè, si potesse intendere
nel sistema Copernicano, con l'aggiunta di un'altra osservazione, nuovamente da
me dimostrata nel corpo solare, voglio per ultimo mettere in considerazione;
parlando sempre con quei medesimi riserbi di non esser talmente affezionato
alle cose mie, che io voglia anteporle a quelle degli altri, e creder che di
migliori e più conformi all'intenzione delle Sacre Lettere non se ne possino
addurre.
Posto dunque, prima, che nel
miracolo di Iosuè si fermasse tutto 'l sistema delle conversioni celesti,
conforme al parere de' sopra nominati autori, e questo acciò che, fermatone una
sola, non si confondesser tutte le costituzioni e s'introducesse senza
necessità perturbamento in tutto 'l corso della natura, vengo nel secondo luogo
a considerare come il corpo solare, ben che stabile nell'istesso luogo, si
rivolge però in se stesso, facendo un'intera conversione in un mese in circa,
sì come concludentemente mi par d'aver dimostrato nelle mie Lettere delle
Macchie Solari: il qual movimento vegghiamo sensatamente esser, nella parte
superior del globo, inclinato verso il mezo giorno, e quindi, verso la parte
inferiore, piegarsi verso aquilone, nell'istesso modo appunto che si fanno i
rivolgimenti di tutti gli orbi de' pianeti. Terzo, riguardando noi alla nobiltà
del Sole, ed essendo egli fonte di luce, dal qual pur, com'io necessariamente
dimostro, non solamente la Luna e la Terra, ma tutti gli altri pianeti,
nell'istesso modo per se stessi tenebrosi, vengono illuminati., non credo che
sarà lontano dal ben filosofare il dir che egli, come ministro massimo della
natura e in certo modo anima e cuore del mondo, infonde a gli altri corpi che
lo circondano non solo la luce, ma il moto ancora, co 'l rigirarsi in se
medesimo; sì che, nell'istesso modo che, cessando 'l moto del cuore
nell'animale, cesserebbono tutti gli altri movimenti delle sue membra, così,
cessando la conversion del Sole, si fermerebbono le conversioni di tutti i
pianeti. E come che della mirabil forza ed energia del Sole io potessi produrne
gli assensi di molti gravi scrittori, voglio che basti un luogo solo del Beato
Dionisio Areopagita nel libro De divinis nominibus; il quale del Sole
scrive così: “Lux etiam colligit convertitque ad se omnia, quæ videntur, quæ moventur,
quæ illustrantur, quæ calescunt, et uno nomine ea quæ ab eius splendore
continentur. Itaque Sol Ilios dicitur, quod omnia congreget colligatque
dispersa.” E poco più a basso scrive dell'istesso Sole: “Si enim Sol hic, quem
videmus, eorum quæ sub sensum cadunt essentias et qualitates, quamquam multæ
sint ac dissimiles, tamen ipse, qui unus est æquabiliterque lumen fundit,
renovat, alit, tuetur, perficit, dividit, coniungit, fovet, fœcunda reddit,
auget, mutat, firmat, edit, movet, vitaliaque facit omnia, et unaquæque rea
huis universitatis, pro captu suo, unius atque eiusdem Solis est particeps,
causasque multorum, quæ participant, in se æquabiliter anticipatas habet; certe
maiore ratione” etc. Essendo, dunque, il Sole e fonte di luce e principio de' movimenti,
volendo Iddio che al comandamento di Iosuè restasse per molte ore nel medesimo
stato immobilmente tutto 'l sistema mondano, bastò fermare il Sole, alla cui
quiete fermatesi tutte l'altre conversioni, restarono e la Terra e la luna e 'l
Sole nella medesima costituzione, e tutti gli altri pianeti insieme; né per
tutto quel tempo declinò 'l giorno verso la notte, ma miracolosamente si
prolungò: ed in questa maniera col fermare il Sole, senza alterar punto o
confondere gli altri aspetti e scambievoli costituzioni delle stelle, si
potette allungare il giorno in terra, conforme esquisitamente al senso literale
del sacro testo.
Ma quello di che, s'io non
m'inganno, si deve far non piccola stima, è che con questa costituzione
Copernicana si ha il senso literale apertissimo e facilissimo d'un altro
particolare che si legge nel medesimo miracolo; il quale è, che il Sole si
fermò nel mezo del cielo. Sopra 'l qual passo gravi teologi muovono difficoltà:
poi che par molto probabile che quando Giosuè domandò l'allungamento del
giorno, il Sole fusse vicino al tramontare, e non al meridiano; perché quando
fusse stato nel meridiano, essendo allora intorno al solstizio estivo, e però i
giorni lunghissimi, non par verisimile che fusse necessario pregar
l'allungamento del giorno per conseguir vittoria in un conflitto, potendo
benissimo bastare per ciò lo spazio di sette ore e più di giorno che rimanevano
ancora. Dal che mossi gravissimi teologi, hanno veramente tenuto che 'l Sole
fusse vicino all'occaso; e così par che suonino anco le parole, dicendosi: Ferma,
Sole, fermati; ché se fosse stato nel meridiano, o non occorreva ricercare
il miracolo, o sarebbe bastato pregar solo qualche ritardamento. Di questa
opinione è il Caietano, alla quale sottoscrive il Magaglianes, confermandola
con dire che Iosuè aveva quell'istesso giorno fatte tant'altre cose avanti il
comandamento del sole, che impossibile era che fussero spedite in mezo giorno:
onde si riducono ad interpretar le parole in medio cæli veramente con
qualche durezza, dicendo che l'importano l'istesso che il dire che il Sole si
fermò essendo nel nostro emisferio, ciò è sopra l'orizonte. Ma tal durezza ed
ogn'altra, s'io non erro, sfuggirem noi, collocando, conforme al sistema
Copernicano, il Sole nel mezo, ciò è nel centro degli orbi celesti e delle
conversione de' pianeti, sì come è necessarissimo di porvelo; perché, ponendo
qualsivoglia ora del giorno, o la meridiana, o altra quanto ne piace vicina
alla sera, il giorno fu allungato e fermate tutte le conversioni celesti col
fermarsi il Sole nel mezo del cielo, ciò è nel centro di esso cielo, dove egli
risiede: senso tanto più accomodato alla lettera, oltre a quel che si è detto,
quanto che, quando anco si volesse affermare la quiete del Sole essersi fatta
nell'ora del mezo giorno, il parlar proprio sarebbe stato il dire che stetit
in meridie, vel in meridiano circulo, e non in medio cæli, poi che
di un corpo sferico, quale è il cielo, il mezo è veramente e solamente il
centro.
Quanto poi ad altri luoghi
della Scrittura, che paiono contrariare a questa posizione, io non ho dubbio
che quando ella fusse conosciuta per vera e dimostrata, quei medesimi teologi
che, mentre la reputan falsa, stimano tali luoghi incapaci di esposizioni
concordanti con quella, ne troverebbono interpretazioni molto ben congruenti, e
massime quando all'intelligenza delle Sacre Lettere aggiugnessero qualche
cognizione delle scienze astronomiche: e come di presente, mentre la stimano
falsa, gli par d'incontrar, nel leggere le Scritture, solamente luoghi ad essa
repugnanti, quando si avessero formato altro concetto, ne incontrerebbero per
avventura altrettanti di concordi; e forse giudicherebbono che Santa Chiesa
molto acconciamente narrasse che Iddio colloca il Sole nel centro del cielo e
che quindi, col rigirarlo in se stesso a guisa d'una ruota, contribuisce agli
ordinati corsi alla Luna ed all'altre stelle erranti, mentre ella canta:
Cæli
Deus sanctissime,
qui lucidum centrum poli
candore pingis igneo,
augens decoro lumine;
quarto die qui flammeam
solis rotam constituens,
lunæ ministras ordinem,
vagosque cursus siderum
Potrebbono dire, il nome di
firmamento convenirsi molto bene ad literam alla sfera stellata ed a
tutto quello che è sopra le conversioni de' pianeti, che, secondo questa disposizione,
è totalmente fermo ed immobile. Così, movendosi la Terra circolarmente,
s'intenderebbono i suoi poli dove si legge: “Nec dum terrat fecerat, et flumina
et cardines orbis Terræ”; i quali cardini paiono indarno attribuiti al globo
terrestre, se egli sopra non se gli deve raggirare.
A ELIA DIODATI IN PARIGI
(Bellosguardo, 16 agosto
1631)
Ho, dopo molte difficoltà,
ottenuto di stampare i miei Dialoghi, ancorché la materia che tratto, e la
maniera con che la porto, meritasse ch'io fussi pregato di pubblicargli da que'
medesimi che hanno fatte le difficoltà, come, in leggendogli a suo tempo, V. S.
stessa comprenderà. È vero che non ho potuto nel titolo del libro ottenere di
nominare il flusso e reflusso del mare, ancorché questo sia l'argomento
principale che tratto nell'opera; ma ben mi vien conceduto ch'io proponga li
due sistemi massimi Tolemaico e Copernicano, con dire che amendue gli esamino,
producendo per l'una e per l'altra parte quel tutto che si può dire,
lasciandone poi il giudizio in pendente. Ne è sin ora stampata la terza parte,
e spero che in tre mesi si finirà il rimanente. Credo che, se si fusse
intitolato il libro De flusso e reflusso, sarebbe stato con più utile
dello stampatore. Ma doppo qualche tempo si spargerà la voce, per relazione di
quei primi che l'averanno letto; e intanto V. S. ne sarà stata da me avvisata.
AD ANDREA ClOLI IN SIENA
(Firenze, 6 ottobre 1632)
Ill.mo Sig.re e Pad.ne
Col.mo
Trovomi in gran confusione
per una intimazione statami fatta tre giorni sono dal Padre Inquisitore, di
ordine della Sacra Congregazione del S.to Offizio di Roma, di dovermi per tutto
il presente mese presentare là a quel Tribunale, dove mi sarà significato
quanto io debba fare. Ora, conoscendo l'importanza del negozio, e 'l debito di
farne consapevole il Ser.mo Padrone e il bisogno di consiglio e indirizzo di
quanto io debba in ciò fare, ho resoluto di venir costà quanto prima per
proporre all'A. S.ma quei partiti e provisioni, de i quali più di uno mi
passano per la fantasia, per i quali io possa nel medesimo tempo mostrarmi,
quale io sono, obedientissimo e zelantissimo di S.ta Chiesa, e anco desideroso
di cautelarmi quanto sia possibile, contro alle persecuzioni di ingiuste
suggestioni che possano immeritamente avermi concitato contro la mente, per
altro santissima, de i superiori. Ne do conto a V. S. Ill.ma, e anco, per non
giugnere costà del tutto inaspettato, per lei al Ser.mo G. Duca; e non sentendo
cosa in contrario, mi partirò domenica prossima, lasciando spazio a V. S.
Ill.ma di avvisarmi, se accidente alcuno ci fusse, che repugnasse a questo mio
proposito. E qui reverentemente gli bacio la mano e nella sua buona grazia e
protezione mi raccomando.
Di Firenze,
li 6 di Ottobre 1632
Di V. S. Ill.ma
Dev.mo e Obblig.mo Ser.re
Galileo Galilei
A FRANCESCO BARBERINI IN
ROMA
(Firenze, 13 ottobre 1632)
Emin.mo e Rev.mo Sig.re e
Pad.e Col.mo
Che il mio Dialogo, Em.mo e
Rev.mo Sig.re, ultimamente pubblicato fusse per aver dei contradittori, fu
previsto da me e da tutti gl'amici miei, perché così ne assicuravano
gl'incontri dell'altre mie opere per avanti mandate alle stampe, e perché così
pare che comunemente portino seco le dottrine le quali dalle comuni e
inveterate opinioni punto punto si allontanano. Ma che l'odio di alcuni contra
di me e le mie scritture, solo perché adombrano in parte lo splendor delle
loro, dovesse esser potente a imprimer nelle menti santissime dei superiori,
questo mio libro esser indegno della luce, mi giunse veramente inaspettato;
perloché il comandamento che due mesi fa si dette qua allo stampatore e a me,
di non lasciare uscir fuori tal mio libro, mi fu avviso assai grave. Tuttavia
di gran sollevamento mi era la purità della mia coscienza, la quale mi
persuadeva, non mi dovere esser difficile il manifestar l'innocenza mia: e ben
desideravo e speravo che mi dovesse esser dato campo di poter sincerarmi; e mi
confidavo nel medesimo tempo, che la mia umiltà, reverenza, summissione, e
assolutissima autorità conceduta sopra tutti i miei concetti, fusse stata
potente a rappresentare a i prudentissimi superiori la mia prontezza
all'obbedire esser tale, che potesse rendergli sicuri che io ad ogni minimo
cenno mi sarei mosso per venire non solo a Roma, ma in capo al mondo. Perloché
non posso negare, l'intimazione fattami ultimamente d'ordine della Sacra
Congregazione del S. Offizio, di dovermi presentare dentro al termine del presente
mese avanti a quello eccelso Tribunale, essermi di grandissima afflizzione;
mentre meco medesimo vo considerando, i frutti di tutti i miei studi e fatiche
di tanti anni, le quali avevano per l'addietro portato per l'orecchie de i
letterati con fama non in tutto oscura il mio nome, essermi ora convertiti in
gravi note della mia reputazione, con dare attacco a i miei emoli d'insurger
contro a gl'amici miei serrando lor la bocca non pure alle mie lodi ma alle
scuse ancora, con l'opporgli l'avere io finalmente meritato d'esser citato al
Tribunale del Santo Offizio: atto, che non si vede eseguire se non sopra i
gravemente delinquenti. Questo in modo mi affligge, che mi fa detestare tutto
'l tempo già da me consumato in quella sorte di studii per i quali io ambiva e
sperava di potermi alquanto separare dal trito e popolar sentiero de gli
studiosi; e con l'indurmi pentimento d'avere esposto al mondo parte de i miei
componimenti, m'invoglia a supprimere e condannare al fuoco quelli che mi
restano in mano, saziando interamente la brama de i miei nimici, a i quali i
miei pensieri son tanto molesti .
Questa, Em.o Sig.re, è
quella afflizzione, la quale, continuando senza alcuna intermissione di
rigirarmisi per la mente, con l'avermi aggiunto una continua vigilia al peso di
70 anni e a più altre mie corporali indisposizioni, mi rende sicuro, entrando
in un viaggio per lunghezza e per straordinarii impedimenti e incomodi
faticoso, che io non mi condurrei con la vita alla metà; onde, spinto dal
comune natural desiderio della propria salute, ho preso resoluzione di
ricorrere all'intercessione di V. Em. inanimito da quella ineffabile benignità
che ciascheduno e io sopra tutti per più esperienze ho conosciuta in lei
supplicandola che mi faccia grazia di rappresentare a cotesti prudentissimi
Padri il mio compassionevole stato presente, non per sfuggire il render conto
delle azzioni mie, perché è da me somamente bramato, sicuro di poterci fare non
piccol guadagno, ma solo perché si compiaccino di agevolarmi il potergli obbedire
e 'l sincerarmi. Non mancherà alla prudenza de i sapientissimi Padri modo di
poter benignamente ottener l'intento loro: e a me per ora si rappresentano due
maniere. L'una è che io sarò prontissimo a distendere in carta e rappresentare
minutissimamente e sincerissimamente tutto 'l progresso delle cose dette,
scritte e operate da me, dal primo giorno in qua che furon suscitati moti sopra
'l libro di Niccolò Copernico e sua rinovata opinione; nella quale scrittura io
son più che sicuro di far talmente chiara e palese la sincerità della mia mente
e il purissimo, zelantissimo e santissimo affetto verso S.ta Chiesa e il suo
Rettore e ministri, che non sarà alcuno che, sendo ignudo di passione e di
affetto alterato, non confessi essermi io portato tanto piamente e
cattolicamente, che pietà maggiore non averebbe potuto dimostrare qualsivoglia
dei Padri che del titoIo di santità vengono insigniti. Io ho appresso di me
tutte le scritture che per tale occasione feci qui e in Roma, dalle quali
(torno a replicarlo) ciascheduno comprenderà, non mi esser io mosso a
implicarmi in questa impresa salvo che per zelo di S.ta Chiesa, e per
sumministrare ai ministri di quella quelle notizie che i miei lunghi studii mi
avevano arrecate, e di alcune delle quali forse poteva taluno esser bisognoso,
come di materie oscure e separate dalle dottrine più frequentate; e ben son
sicuro che agevolissimo mi sarà il far palese e chiaro, come del pormi a tale
impresa mi furon gagliardo invito le determinazioni e santissimi precetti in
tanti luoghi sparsi nei libri de i sacri dottori di S.ta Chiesa, e come
finalmente l'ultima mia conferma in tal proponimento s'impresse in me nel
sentire un brevissimo ma santissimo e ammirabil pronunziato, che, quasi ecco
dello Spirito Santo, improvisamente uscì dalla bocca di persona eminentisima in
dottrina e veneranda per santità di vita; pronunziato tale, che in sè contiene,
sotto manco di dieci parole con arguta leggiadria accoppiate, quanto da lunghi
discorsi disseminati ne i libri de i sacri dottori si raccoglie. Io per ora
tacerò il detto ammirabile e l'autor di esso non mi parendo se non cautamente e
convenientemente fatto il non interessar nissuno nel presente affare, dove solo
la persona mia viene in considerazione
Se mi succederà d'ottener
tal grazia, oh quanto spero io che la mia innocenza debba esser conosciuta e
abbracciata da cotesti prudentissimi e giustissimi Padri, e quanto abbiano a
restar maravigliati di qualche stratagemma che fu usato da qualcuno, accecato e
spinto a muover la prima pietra non per zelo di pietà, ma per odio non contro
di questa o di quella opinione, ma contro alla persona mia. Io non mi potrei
accomodare a creder che domanda che mi si rappresenta tanto ragionevole mi
dovesse esser negata, e tanto più quanto il concederla non toglie il potermi
costrigner nel modo già intrapreso. E chi vorrà negarmi tale udienza per
scrittura, e gravarmi di fatica insuperabile dalla mia debolezza, per le cause
già dette, mentre io l'assicuro che, sentite le ragioni mie, compassionerà 'l
mio stato, e soverchio gastigo al mio demerito (se pur ve n'è ombra) gli parrà
il travaglio portomi sin ora per l'altrui (per quanto temo) poco sincere
affermazioni? E quando tal mia scrittura non sodisfacesse appieno a tutti i
capi sopra i quali mi vien mossa imputazione e querela, potranno essermi
proposte le particolari difficoltà, ché io non mancherò di rispondere quanto
Iddio mi detterà. Ma dubito, Emin.mo e Rev.mo mio Sig.re, che possa essere che
i miei oppositori non siano per venire (come si suol dire) di così buone gambe
a mettere in carta quello che in voce e ad aures forse avranno contro di
me pronunziato, come io mi offerisco a mettere in scrittura le mie difese.
Ma finalmente, quando non si
voglino accettare mie giustificazioni in scritture, ma si voglia la viva voce,
qui sono Inquisitore, Nunzio, Arcivescovo e altri ministri di S.ta Chiesa, ai
quali sono prontissimo ch presentarmi ad ogni richiesta: e pur mi sembra
verisimile che anco cause di maggiore affare si trattano avanti questi
tribunali; né può parer verisimile che sotto a gl'occhi perspicacissimi e
zelantissimi di quelli che veddero il mio libro, con liberissima autorità di
levare, aggiugnere e mutare ad arbitrio loro, possa esser passato errore di
tanto momento, senza esser veduto, che ecceda la facoltà d'esser corretto e
gastigato da i superiori di questa città.
Questi, Em. S. sono i
partiti che per salvezza della mia vita e per sodisfazione di cotesto eccelso e
venerando Tribunale mi sovvengono. Prego la benignità sua che voglia
rappresentargli, con scusare insieme se per mia ignoranza vi avessi commesso
veruno errore. E per ultima conclusione, quando né la grave età, né le molte
corporali indisposizioni, né afflizzion di mente, né la lunghezza di un viaggio
per i presenti sospetti travagliosissimo, siano giudicate da cotesto sacro e
eccelso Tribunale scuse bastanti ad impetrar dispensa o proroga alcuna, io mi
porrò in viaggio, anteponendo l'ubbidire al vivere. E qui, Em.mo e Rev.mo
Sig.re, con ogni umiltà inchinandomi, gli bacio la veste e prego il colmo di
felicità.
Di Firenze, li 13 di Ottobre
1632.
Di V. Em.za
Rev.ma
Um.mo e
Obb.mo Servo
Galileo
Galilei.
A CESARE MARSILI IN BOLOGNA
(Firenze, 16 ottobre 1632)
Ill.mo Sig.re e Pad.ne
Col.mo
Sono poco meno di 2 mesi che
il P. Inquisitore di qui commesse, di ordine del R.mo P. Maestro del Sacro
Palazzo di Roma, al libraio e a me, che non dovessimo dar fuora più copie del
mio Dialogo sino ad altro avviso: e questa fu la prima conferma di una acerbissima
persecuzione, che poco avanti avevo inteso che si andava machinando contro di
me e 'l mio libro; la quale persecuzione è andata pigliando tanto vigore, che
finalmente, 15 giorni sono, mi venne una intimazione dalla S. Congregazione del
S.to Offizio, che per tutto questo mese io debba presentarmi a quello eccelso
Tribunale. Tale avviso mi affligge gravemente, non perché io non sperassi di
potermi appieno giustificare e far palese la mia innocenzia e santissimo zelo
verso S.ta Chiesa; ma la grave età, accompagnata con molte corporali
indisposizioni, con la giunta di questo travaglio di mente, in un viaggio lungo
e travagliosissimo per i presenti sospetti, mi rendono quasi che sicuro che io
non mi vi potrei condur con la vita. Ho fatto ogni opera per ottener di
sincerarmi con scritture, o vero che la causa mia sia veduta qui, dove sono
ministri di S.ta Chiesa; e sto aspettando qualche resoluzione. Intanto ne ho
voluto dar conto a V. S. Ill.ma, come a mio padrone affezionatissimo e che so
che compassionerà questo mio infortunio.
Ricevei una lunga lettera
dal molto R. Padre Buonaventura, piena di scuse, le quali veramente non erano
necessarie, perché io non ho mai auto dubbio deila sua bonissima intenzione, ma
mi dolevo della mia disgrazia, che mi arrecava disgusto contro alla volontà e
opinione di chi me lo cagionava. Io non posso riscrivergli per adesso,
trovandomi occupatissimo; e solo prego V. S. a dirgli che non intendo che S.
Paternità muti nulla nel suo libro già stampato, anzi che io gli rendo grazie
delle onorate menzioni che fa di me. E qui reverentemente inclinandola, gli
bacio le mani e prego felicità.
Fir.ze, li 16 di 8bre 1632.
Di V. S.
Ill.ma
Ser.re
Obblig.mo
Gal.o G.
AD ANDREA CIOLI IN LIVORNO
(Roma, 19 febbraio 1633)
Ill.mo Sig.re e Pad.ne
Col.mo
De gl'accidenti occorsimi ne
i 25 giorni del mio viaggio so che V. S. Ill.ma ne averà inteso dal S. Geri
Bocchineri al quale in più lettere ne ho dato conto; però non ne replico altri.
Giunto qui in Roma, fui ricevuto dall'Ecc.mo S. Ambasciatore con quella
benignità che non si può descrivere, dove con la medesima vo continuando di
trattenermi. Circa lo stato delle cose mie non posso dir nulla; salvo che per
coniettura pare a me, e anco al S. Ambasciatore e suoi ministri di casa, che la
travagliosa procella sia, o almeno si mostri tranquillata assai onde non sia da
sbigottirsi del tutto per qualche inevitabil naufragio, e disperar di esser per
condursi in porto, e massime mentre, conforme al mio dottore, tra l'onde
alterate
Scorrendo me ne vo con umil
vele.
Io mi trattengo
perpetuamente in casa, parendo che non convenga in questo tempo andar vagando e
a mostra per la città. Sin ora non mi è stato imposto o detto nulla ex
offitio; anzi uno di quei SS.ri della Congregazione è stato due volte da me
con molta umanità dandomi destramente occasione di dir qualche cosa in
dichiarazione e confermazione della mia sincerissima e ossequentissima mente,
stata sempre tale verso S.ta Chiesa e suoi ministri e tutto da esso con
attenzione, e, per quanto ho potuto comprendere, con approbazione, ascoltato: e
se la sua visita è stata (come ragionevolmente par che sia credibile) con
consenso e forse con ordine della Sa.a Congregazione, questo pare un principio
di trattamento molto mansueto e benigno, e del tutto dissimile alle comminate
corde, catene e carceri etc. Il sentire anco da molti e in parte avere io
stesso veduto, che non manchino di quelli, e de i potenti l'affetto de i quali
verso di me e i miei affari non si mostri se non ben disposto, mi è di
consolazione: e perché io stimo assai più facile il confermar questi nella
buona intenzione che il rimuovere altri dalla sinistra, però io stimerei (e
cosi è parere anco al S. Ambasciatore) che fusser buone due lettere del Ser.mo
Padrone alli Em.mi SS.i Card.li Scaglia e Bentivoglio; sopra di che io supplico
il favore di V. S. Ill.ma, tutta volta che ella concorra nell'istesso senso.
Di Roma, li 19 di Feb. 1633.
Di V. S.
Ill.ma
Dev.mo e
Obblig.mo Ser.re
Galileo
Galilei.
A GERI BOCCHINERI IN FIRENZE
(Roma, 23 aprile 1633)
Molto Ill.re Sig.re Osser.mo
Scrivo del letto dove mi
trovo da 16 ore in qua, ritenuto da dolori eccessivi in una coscia; li quali
per la pratica che ne ho, doveranno in altrettanto tempo svanire. Mi sono poco
fa venuti a visitare il Commissario e il Fiscale, a che son quelli che mi disaminano;
e mi hanno dato parola e ferma intenzione di spedirmi subito che io levi del
letto, replicandomi più volte che io stia di buono animo e allegramente. Io fo
più capitale di questa promessa che di quante speranze mi sono state date per
il passato, le quali si è visto per esperienza essere state fondate più su le
conietture che sopra la scienza. Che la mia innocenza e sincerità sia per
essere conosciuta, io l'ho sempre sperato, e ora più che mai. Scrivo con
incomodo, però finisco.
All'mo S. Bali un reverentissimo
baciamani: a sé stessa e suoi fratelli il simile. Desidero che le mie monache
vegghino questa, e Vincenzio ancora.
Roma, 23 di Aprile 1633.
Di V. S.
molto I.
Par.te e
Serv.re Obblig.mo
G. G.
AD ANDREA CIOLI IN FIRENZE
(Siena, 23 luglio 1633)
Ill.mo Sig.re e Pad.n Col.mo
Non ho passato ordinario
senza scrivere al S. Geri Bocchineri intorno a i progressi del mio negozio, il
quale non averà passato accidente alcuno di momento senza participarlo a V. S.
Ill.ma, ché tale era il nostro appuntamento; e però rare volte ho scritto a lei
in proprio, in riguardo anco alle molte e continue sue occupazioni da non
doversi accresciere senza necessità. Gli scrivo adesso, spinto dal desiderio di
liberarmi dal lungo tedio di una carcere di più di 6 mesi già passati a giunta
al travaglio e afflizzion di mente di un anno intero, e anco non senza molti
incomodi e pericoli corporali; e tutto addossatomi per quei miei demeriti che
son noti a tutti, fuor che a quelli che mi hanno di questo e di maggior castigo
giudicato colpevole. Ma di questo altra volta.
Il tempo della mia
carcerazione non ha altro limite che la volontà di S. S.tà, la quale, alle
richieste e intercessioni del S. Amb.re Niccolini, si contentò che in luogo
delle carcere del S.to Offizio mi fusse assegnato il palazzo e giardino de'
Medici alla Trinità, dove stetti alcuni giorni; fatta poi, per alcuni miei
rispetti, nuova instanza dal medesimo S. Ambasciatore, fui rimesso qui in Siena
nell'Arcivescovado, dove sono da 15 giorni in qua tra gl'inesplicabili eccessi
di cortesia di questo Ill.mo Arcivescovo. Io però, oltre al desiderio, averei
gran necessità di tornare a casa mia e di esser restituito nella mia libertà,
la quale si va conietturando da molti che sia riserbata per grazia speciale
alla domanda del S. G. D., da non gl'esser negata, mentre si vede quanto si è
impetrato alle sole dimande del S. Ambasciatore. Prego per tanto V. S. Ill.ma,
e per lei il Ser.mo Padrone, a restar servito di favorirmi di una domanda a S.
S.tà o al S. Card. Barberino per la mia liberazione; dove per maggiore
efficacia potrà inserirsi la mancanza del mio servizio di tanto tempo,
figurandola di qualche maggior progiudizio per la Casa di S. Alt.za di quello
che veramente è. Si crede, come ho detto, da tutti quelli con i quali ne ho
parlato e da gl'istessi ministri del S.o Offizio, che la grazia a tanto
intercessore non sarà negata.
Confido tanto nella
benignità del S. G. D. mio Signore e nel favore di V. S. Ill.ma, che reputerei
superfluo l'aggiugnere altre preghiere. Starò per tanto attendendone l'effetto,
mentre con umiltà alla S. A. bacio la veste, e nella buona grazia e protezione
di V. S. Ill.ma mi raccomando.
Di Siena, li 23 di Luglio
1633.
Di V. S.
Ill.ma
Dev.mo e
Obblig.mo Ser.re
Galileo Galilei.
A ELIA DIODATI IN PARIGI
(Arcetri, 7 marzo 1634)
Vengo ora alla sua lettera:
e perché ella replicatamente mi domanda qualche ragguaglio de' miei passati
travagli, non posso se non sommariamente dirgli, che da che fui chiamato a Roma
sino al presente, sono, la Dio grazia, stato di sanità meglio che da molti anni
in qua. Fui ritenuto a Roma in carcere 5 mesi, e la carcere fu la casa del Sig.
Amb. di Toscana; dal quale e dalla Signora sua consorte fui visto e trattato in
modo, che con affetto maggiore non avrebbero potuto trattare i padri loro.
Spedita che fu la mia causa, restai condennato in carcere all'arbitrio di Sua
Santità; e fu la carcere il palazzo e giardino del G. Duca alla Trinità de'
Monti per alcuni giorni, ma pur permutata poi in Siena in casa Monsig.
Arcivescovo, dove parimenti stetti 5 mesi, trattato da padre di Sua Sig.a Ill.a
e in continue visite della nobiltà di quella città; dove composi un trattato di
un argomento nuovo, in materia di meccaniche, pieno di molte specolazioni curiose
ed utili. Di Siena mi fu permesso tornarmene alla mia villa, dove ancora mi
trovo, con divieto di scendere alla città; e questa esclusione mi vien fatta
per tenermi assente dalla Corte e da i Principi. Ma tornato alla villa in tempo
che la Corte era a Pisa, venuto il G. Duca in Firenze, due giorni dopo il suo
arrivo mi mandò uno staffieri ad avvisare come era per strada per venire a
visitarmi; e mez'ora dopo arrivò con un solo gentil'uomo in una piccola
carrozzina, e smontato in casa mia si trattenne a ragionar meco in camera mia
con estrema soavità poco manco di 2 ore. Stante dunque il non aver patito punto
nelle due cose, che sole devono da noi esser sopra tutte l'altre stimate, dico
nella vita e nella reputazione (come in questa il raddoppiato affetto dei
Padroni e di tutti gl'amici mi accertano), i torti e l'ingiustizie, che
l'invidia e la malignità mi hanno machinato contro, non mi hanno travagliato né
mi travagliano. Anzi (restando illesa la vita e l'onore) la grandezza
dell'ingiurie mi è più presto di sollevamento, ed è come una spezie di
vendetta, e l'infamia ricade sopra i traditori e i costituiti nel più sublime
grado dell'ignoranza, madre della malignità, dell'invidia, della rabbia e di
tutti gli altri vizii e peccati scelerati e brutti. Bisogna che gl'amici
assenti si contentino di queste generalità, perché i particolari, che sono
moltissimi, eccedono di troppo il potere esser racchiusi in una lettera. Di
tanto si contenti V. S., e si quieti e consoli nel mio essere ancora in stato
di poter ridurre al netto le altre mie fatiche e pubblicarle.
L'avviso che tiene V. S.
d'Argentina, mi è piaciuto assai, e riconosco l'onore dall'intercessione e
indefessa vigilanza sua. Arei auto gusto che 'l mio Dialogo fusse capitato in
Lovanio in mano del Fromondo, il quale tra i filosofi non assoluti matematici
mi par dei men duri. In Venezia un tal D. Antonio Rocco ha stampato in difesa
dei placiti d'Aristotele, contro a quelle imputazioni che io gl'oppongo nel
Dialogo: è purissimo peripatetico, e remotissimo dall'intender nulla di
matematica né d'astronomia, pieno di mordacità e di contumelie. Un altro
iesuita intendo avere stampato in Roma per provare la proposizione della
mobilità della terra esser assolutarnente eretica; ma questo non l'ho ancora
veduto.
A ELIA DIODATI IN PARIGI
(Arcetri, 25 luglio 1634)
Molto Ill.re Sig.re e P.rone
Col.mo
Spero che l'intender V. S. i
miei passati e presenti travagli insieme col sospetto di altri futuri mi
renderanno scusato appresso di lei e degli altri amici e padroni di costà della
dilazione nel rispondere alle sue lettere, e appresso di quelli del totale
silenzio, mentre da V. S. potranno esser fatti consapevoli della sinistra
direzzione che in questi tempi corre per le cose mie.
Nella mia sentenza in Roma
restai condennato dal S.to Offizio alle carceri ad arbitrio di S. S.tà; alla
quale piacque di assegnarmi per carcere il palazzo e giardino del Granduca alla
Trinità de' Monti; e perchè questo seguì l'anno passato del mese di Giugno e mi
fu data intenzione che, passato quello e il seguente mese domandando io grazia
della total liberazione, l'avrei impetrata, per non aver (costretto dalla
stagione) a dimorarvi tutta la state e anco parte dell'autunno, ottenni una
permuta in Siena, dove mi fu assegnata la casa dell'Arcivescovo: e quivi
dimorai cinque mesi, dopo i quali mi fu permutata la carcere nel ristretto di
questa piccola villetta, lontana un miglio da Firenze, con strettissima
proibizione di non calare alla città, né ammetter conversazioni e concorsi di
molti amici insieme, né convitargli. Qui mi andavo trattenendo assai
quietamente con le visite frequenti di un monasterio prossimo, dove avevo due
figliuole monache, da me molto amate e in particolare la maggiore, donna di
esquisito ingegno, singolar bontà e a me affezzionatissima. Questa, per
radunanza di umori melanconici fatta nella mia assenza, da lei creduta
travagliosa, finalmente incorsa in una precipitosa disenteria, in sei giorni si
morì essendo di età di trentatré anni, lasciando me in una estrema afflizzione.
La quale fu raddoppiata da un altro sinistro incontro; che fu che,
ritornandomene io dal convento a casa mia in compagnia del medico, che veniva
dalla visita di detta mia figliuola inferma poco prima che spirasse, mi veniva
dicendo il caso esser del tutto disperato, e che non avrebbe passato il
seguente giorno, sì come seguii quando, arrivato a casa, trovai il Vicario
dell'Inquisitore che era venuto a intimarmi d'ordine del S.to Offizio di Roma
venuto all'Inquisitore con lettere del S.r Card.le Barberino, ch'io dovessi
desistere dal far dimandar più grazia della licenza di poter tornarmene a
Firenze, altrimenti che mi arebbono fatto tornar là, alle carceri vere del S.to
Offizio. E questa fu la risposta che fu data al memoriale che il S.r
Ambasciator di Toscana, dopo nove mesi del mio essilio, aveva presentato al
detto Tribunale: dalla qual risposta mi par che assai probabilmente si possa
conietturare, la mia presente carcere non esser per terminarsi se non in quella
commune, angustissima e diuturna.
Da questo e da altri
accidenti, che troppo lungo sarebbe a scrivergli si vede che la rabia de' miei
potentissimi persecutori si va continuamente inasprendo. Li quali finalmente
hanno voluto per sé stessi manifestarmisi, atteso che, ritrovandosi uno mio
amico caro circa due mesi fa in Roma a ragionamento col P. Cristoforo
Grembergero, giesuita, Matematico di quel Collegio, venuti sopra i fatti miei,
disse il giesuita all'amico queste parole formali: “Se il Galileo si avesse
saputo mantenere l'affetto dei Padri di questo Collegio, viverebbe glorioso al
mondo e non sarebbe stato nulla delle sue disgrazie, e arebbe potuto scrivere
ad arbitrio suo d'ogni materia, dico anco di moti di terra, etc.”: si che V. S.
vede che non è questa né quella opinione quello che mi ha fatto e fa la guerra,
ma l'essere in disgrazia dei giesuiti.
Della vigilanza dei miei
persecutori ho diversi altri rincontri. Tra i quali uno fu, che una lettera
scrittami non so da chi da paesi oltramontani e inviatami a Roma, dove quello
che scriveva doveva credere che tuttavia dimorassi, fu intercetta e portata al
S.r Card.le Barberino; e, per quanto da Roma mi venne poi scritto, fu mia
ventura che non era lettera responsiva, ma prima, piena di grandi encomii sopra
il mio Dialogo; e fu veduta da più persone, e intendo che ce ne sono copie per
Roma e mi è stato dato intenzione che la potrò vedere. Aggiungonsi altre
perturbazioni di mente e molte corporali imperfezzioni, le quali, sopra quella
dell'età più che settuagenaria, mi tengono oppresso in maniera, che ogni
piccola fatica mi è affannosa e grave. Però conviene che per tutti questi
rispetti gli amici mi compatischino e perdonino quel mancamento che ha aspetto
di negligenza, ma realmente è impotenza; e bisogna che V. S., come mio parziale
sopra tutti gl'altri, mi aiuti a mantenermi la grazia dei miei benevoli di
costà e, in particolare del S.re Gassendo, tanto da me amato e riverito, col
quale potrà V. S. partecipare il contenuto di questa, ricercandomi egli
relazione dello stato mio in una sua lettera, piena della solita sua benignità.
Mi farà anco grazia farli sapere come ho ricevuta e con particolar gusto letta
la Dissertazione del S.re Martino Hortensio; e io, piacendo a Dio ch'io mi
sgravi in parte dai miei travagli non mancherò di rispondere alla sua cortese
lettera. Con questa riceverà anco V. S. i cristalli per un telescopio,
domandatimi dal medesimo S.re Gassendo per suo uso e di altri, desiderosi di
fare alcune osservazioni celesti; li quali potrà V. S. inviargli significandoli
che il cannone, cioè la distanza tra vetro e vetro, deve essere quanto è lo
spago che intorno ad essi è avvolto, poco più o meno secondo la qualità della
vista di chi se ne deve servire.
Berigardo e Chiaramonte,
amendue lettori in Pisa, mi hanno scritto contro; questo per sua difesa, e
quello, per quanto dice, contro a sua voglia, ma per compiacere a persona che
lo può favorire nelle sue occorrenze: ma amendue molto languidamente. Ma,
quello che è degno di considerazione, alcuni, vedendosi un larghissimo campo di
poter senza pericolo prevalersi dell'adulazione per augumento de' proprii
interessi, si son lasciati tirare a scriver cose, che fuori delle presenti
occasioni sarebbero facilmente reputate assai esorbitanti se non temerarie. Il
Fromondo si ridusse a sommerger fin presso alla bocca la mobilità della Terra
nell'eresia. Ma ultimamente un Padre Gesuita ha stampato in Roma che tale
opinione è tanto orribile, perniziosa e scandalosa, che, se bene si permette
che nelle catedre, nei circoli, nelle pubbliche dispute e nelle stampe si
portino argomenti contro ai principalissimi articoli della fede, come contro
all'immortalità dell'anima, alla creazione, all'Incarnazione etc., non però si
deve permetter che si disputi, né si argomenti contro alla stabilità della
Terra; sì che questo solo articolo sopra tutti si ha talmente a tener per
sicuro, che in modo alcuno si abbia, né anco per modo di disputa e per sua
maggior corroborazione, a instargli contro. Il titolo di questo libro è: Melchioris
Inchofer, e Societate Iesu, Tractatus syllepticus. Ècci anco Antonio Rocco,
che pur con termine poco civile mi scrive contro in mantenimento della
peripatetica dottrina e in risposta alle cose da me impugnate contra
Aristotile; il quale da sé stesso si confessa ignudo dell'intelligenza di
matematica e astronomia. Questo è cervello stupido e nulla intelligente di
quello che io scrivo, ma ben arrogante e temerario al possibile. A tutti questi
miei oppositori, che son molti, ho io pensiero di rispondere; ma perché
l'esaminare a parte a parte le vanità di tutti sarebbe impresa lunghissima e di
poca utilità, penso di fare un libro di postille, come da me notate nelle
margini di tali libri intorno alle cose più essenziali e agli errori più
maiuscoli, e come raccolte da un altro mandarle fuori.
Ma prima, piacendo a Dio,
voglio publicare i libri del moto e altre mie fatiche, cose tutte nuove e da me
anteposte alle altre cose mie sin ora mandate in luce.
Riceverà V. S. la presente
dal S.r Ruberto Galilei, mio parente e signore, al quale potrà fare parte del contenuto
di questa, atteso che a S.S. scrivo bene, ma assai brevemente. Tengo anco
lettere del Sig.re de Peiresc, d'Aix, ricevute insieme con quelle del S.re
Gassendo; e perché amendue mi domandano i vetri per un telescopio da fare
osservazioni celesti, mi faccia grazia significare al S.r Gassendo che dia
conto al S.r de Peiresc d'aver avuto i vetri, pregandolo contentarsi che di
essi anco il Sig.r de Peiresc possa servirsi facendo di più appresso il detto
Signore mie scuse se differisco a rispondere alla sua gratissima, trovandomi
pieno di molestie che mi violentano a mancar talvolta a quelli officii che io
più desidero di essequire. Sono stracco e averò soverchiamente tediata V. S.:
mi perdoni e mi comandi. Gli bacio le mani.
Dalla villa d'Arcetri, li 25
di Luglio 1634.
Di V. S.
molto I.
Servitor
Devotissimo e Obligatissimo
Galileo
Galilei.
A FORTUNIO LICETI IN PADOVA
(Arcetri, 15 settembre
1640)
Molto Ill.re e Eccl.mo Sig.r
e P.ron Osse.mo
La gratissima di V. S. molto
Ill.re ed Eccel.ma delli 7 stante, piena di termini cortesi e affettuosissimi,
mi è stata resa questo giorno; e, non avendo io altro tempo di risponderli
fuorchè poche ore che restano sino a notte, per non differire la risposta una
settimana più in là, cerco di satisfare a questo obligo, benché succintamente,
ma però con pure e semplici parole.
A quello che V. S. Eccel.ma
insieme meco grandemente desidera, cioè che in dispute di scienze si osservino
quei più cortesi e modesti termini che in materia sì veneranda, quale è la
sacra filosofia, si convengono, li do parola di non mi separare pure un dito
dal suo ingenuo e onorato stile; per il che fare userò li stessi titoli,
attributi ed encomi di onorevolezza verso la persona sua, che ella verso di me
ha umanamente adoperati; benché molto più a lei che a me, e molto più
eccellenti, si converrebbero; ma la sua singolar cortesia non me ne ha lasciati
di potere usarne maggiori.
Mi giunge grato il sentire
che V. S. Eccel.ma insieme con molti altri, sì come ella dice, mi tenga per
avverso alla peripatetica filosofia, perché questo mi dà occasione di liberarmi
da cotal nota (che tale la stimo io) e di mostrare quale io internamente sono
ammiratore di un tanto uomo, quale è Aristotile. Mi contenterò bene in questa
strettezza di tempo accennare con brevità quello che penso con più tempo di
poter più diffusamente e manifestamente dichiarare e confermare.
Io stimo (e credo che essa
ancora stimi) che l'esser veramente Peripatetico, cioè filosofo Aristotelico,
consista principalissimamente nel filosofare conforme alli Aristotelici
insegnamenti procedendo con quei metodi e con quelle vere supposizioni e
principii sopra i quali si fonda lo scientifico discorso, supponendo quelle
generali notizie, il deviar dalle quali sarebbe grandissimo difetto. Tra queste
supposizioni è tutto quello che Aristotele ci insegna nella sua Dialettica,
attenente al farci cauti nello sfuggire le fallacie del discorso,
indirizzandolo e addestrandolo a bene silogizzare e dedurre dalle premesse
concessioni la necessaria conclusione; e tal dottrina riguarda alla forma del
dirittamente argumentare. In quanto a questa parte, credo di avere appreso
dalli innumerabili progressi matematici puri, non mai fallaci, tal sicurezza
nel dimostrare, che, se non mai, almeno rarissime volte io sia nel mio
argumentare cascato in equivoci. Sin qui dunque io sono Peripatetico .
Tra le sicure maniere per
conseguire la verità è l'anteporre l'esperienze a qualsivoglia discorso,
essendo noi sicuri che in esso, almanco copertamente, sarà contenuta la
fallacia, non sendo possibile che una sensata esperienza sia contraria al vero:
e questo è pure precetto stimatissimo da Aristotile, e di gran lunga anteposto
al valore e alla forza dell'autorità di tutti gli uomini del mondo, la quale V.
S. medesima ammette che non pure non doviamo cedere alle autorità di altri, ma
doviamo negarla a noi medesimi qualunque volta incontriamo il senso mostrarci
il contrario.
Or qui, Eccel.mo Sig.r, sia
detto con buona pace di V. S. mi par d'esser giudicato per contrario al
filosofar peripatetico da quelli che sinistramente si servono del sopradetto
precetto, purissimo e sicurissimo, cioè che vogliono che il ben filosofare sia
il ricevere e sostenere qual si voglia detto e proposizione scritta da
Aristotele, alla cui assoluta autorità si sottopongono, e per mantenimento
della quale si inducono a negare esperienze sensate, o a dare strane
interpetrazioni a' testi di Aristotele, per dichiarazione e limitazione de i
quali bene spesso farebbero dire al medesimo filosofo altre cose non meno
stravaganti, e sicuramente lontane dalla sua imaginazione. Non repugna che un
grande artefice abbia sicurissimi e perfettissimi precetti nell'arte sua, e che
talvolta nell'operare erri in qualche particolare; come, per esempio, che un
musico o un pittore, possedendo i veri precetti dell'arte, faccia nella pratica
qualche dissonanza, o inavvertentemente alcuno errore in prospettiva. Io
dunque, perché so che tali artefici non pure possedevano i veri precetti, ma
essi medesimi ne erano stati li inventori, vedendo qualche mancamento in alcuna
delle loro opere, devo riceverlo per ben fatto e degno di esser sostenuto e
imitato, in virtù dell'autorità di quelli? Qui certo non presterò io il mio
assenso. Voglio aggiugnere per ora questo solo: che io mi rendo sicuro che se
Aristotele tornasse al mondo, egli riceverebbe me tra i suoi seguaci, in virtù
delle mie poche contradizioni, ma ben concludenti molto più che moltissimi
altri che, per sostenere ogni suo detto per vero, vanno espiscando dai suoi
testi concetti che mai non li sariano caduti in mente. E quando Aristotele
vedesse le novità scoperte novamente in cielo, dove egli affermò quello essere
inalterabile e immutabile, perché niuna alterazione vi si era sino allora
veduta, indubitatamente egli, mutando oppinione, direbbe ora il contrario: ché
ben si raccoglie, che, mentre ei dice il cielo esser inalterabile perché non vi
si era veduto alterazione, direbbe ora essere alterabile, perché alterazioni vi
si scorgono. Si fa l'ora tarda, e io entrerei in un pelago larghissimo, se io
volessi produr tutto quello che in tale occasione mi è passato più volte per la
mente; però mi riserverò ad altra occasione.
Quanto all'avermi V. S.
Eccel.ma attribuito oppinioni non mie, ciò può essere accaduto che ella ne
abbia prese alcune attribuitemi da altri, ma non già scritte da me: come, per
esempio che, per detto del filosofo Lagalla, io tenga la luce esser corporea
mentre che nel medesimo autore e nel medesimo luogo si scrive aver io sempre
ingenuamente confessato di non saper che cosa sia la luce: e così il prender
come risolutamente primarii miei pensieri alcuni riportati dal sig.r Mario
Guiducci, potrebbe esser che io non ci avessi avuto parte, benché io mi reputi
a onore che si creda tali concetti esser mia, stimandoli io veri e nobili.
Circa l'esser per avventura
parso prolisso nel rispondere alle sue obiezioni, non lo ascrivo io a minimo
neo, né pur ombra d'indignazione in V. S. Eccel.ma, sì come né anco in me
mancamento, se non in quanto con minor tedio del lettore averei potuto
esprimere i miei sensi; ma la mia natural durezza nel dichiararmi mi fa tal
volta traboccare dove io non vorrei: oltreché, sia, per la nostra concertata
filosofica e amichevole libertà, lecito di piacevolmente dire, quando ella
paragonassi la multiplicità e lunghezza delle opposizioni che ella fa alla
unica mia proposizione del candore lunare distesa in pochissimi versi
paragonasse, dico, con la lunghezza delle mie risposte; forse ella non troverebbe
la proporzione dei suoi detti a' miei minore della proporzione dei versi della
mia lettera ai versi che le sue instanze contengono. Ma queste son coserelle da
non prenderle altro che per ischerzo.
Piacemi grandemente che ella
applauda al mio pensiero, di ridur in altra testura le mie risposte, inviandole
a lei medesima; dove averò campo di non mi lasciar vincere in usar termini di
reverenza al suo nome, benché io sia certo di dover esser di lunga mano
superato in dottrina dal suo elevato ingegno. Potrebbe bene accadere che il mio
infortunio, di avere a servirmi delli occhi e della penna di altri, con troppo
tedio dello scrittore, prolungasse qualche giorno di più quello che in altri
tempi per me stesso averei spedito in pochi giorni, ed ella, per la prontezza e
vivacità del suo ingegno, in poche ore. Viva felice e mi continui la sua buona
grazia, da me per favorevole fortuna stimata e pregiata; e il Signor la
prosperi.
D'Arcetri, li 15 di 7bre
1640.
[SOPRA IL CANDORE DELLA
LUNA]
AL PRlNClPE LEOPOLDO Dl
TOSCANA
(Arcetri, 31 marzo 1640)
Serenissimo Principe e mio
Signor Colendissimo
Tardi, Serenissimo Principe,
pongo io in esecuzione il comandamento fattomi più giorni sono dall'Altezza
Vostra Serenissima intorno al dovere maturamente considerare il trattato
dell'eccellentissimo signor Fortunio Liceti intorno alla pietra lucifera di
Bologna, e sopra di questo significarle il giudizio che ne fo. Ho fatta la da
lei impostami considerazione, e del darne io conto al'Altezza Vostra Serenissima
così tardamente, prego che sia servita di accettare la mia scusa, condonando
tutto l'indugio alla mia miserabil perdita della vista, per il cui mancamento
mi è forza ricorrere all'aiuto degli occhi e della penna di altri; dalla qual
necessità ne séguita un gran dispendio di tempo, e massime aggiuntovi l'altro
mio difetto, di aver, per la grave età, diminuita gran parte della memoria, sì
che nel far deporre in carta i miei concetti, molte e molte volte mi bisogna
far rileggere i periodi scritti avanti, per poter soggiugnere gli altri
seguenti e schivar di non repeter più volte le cose già dette. E creda
l'Altezza Vostra Serenissima a me, che dalla esperienza ne sono bene
addottrinato, che dallo scrivere servendosi degli occhi e della mano proprii, al
dover usar quelli di un altro, vi è quasi quella differenzia che altri nel
gioco delli scacchi troverebbe tra il giocar con gli occhi aperti e il giocar
con gli occhi bendati o chiusi. Imperoché in questa seconda maniera, dalle tre
o quattro gite di alcuni pezzi in poi, è impossibile tenere a memoria delle
mosse di altri più; né può bastare il farsi replicar piu volte il posto dei
pezzi, con pensiero di poter produrre il gioco fino all'ultimo scacco, perché
credo si tratti poco meno che dell'impossibile. Supposto dunque che l'Altezza
Vostra Serenissima per sua benignità sia per ammettere la necessaria scusa
della mia tardanza, verrò a schiettamente e sinceramente esporle quel giudizio
che ho fatto sopra detto libro.
Ma prima che ad altro io
descenda, voglio che l'Altezza Vostra Serenissima sappia come l'eccellentissimo
signor Liceti, subito uscito in luce il suo trattato De lapide Bononiensi,
me ne inviò una copia, pregandomi che io liberamente dovessi significarli
quello che a me pareva di questa sua fatica; e mentre che l'Altezza Vostra
Serenissima mi ricerca dell'istesso, con ogni schiettezza le aprirò il mio
senso.
Dicole dunque, che se io
volessi conforme al merito diffondermi nelle lodi dell'ampla e sottilissima
dottrina che mi è parso scorgervi, oltre al convenirmi assai in lungo
distendere, dubiterei che le mie parole, benché purissime e sincere, potessero
apparire ad alcuno iperboliche o adulatorie: ad alcuno, dico, di quelli, che
troppo laconicamente vorrebbero vedere, nei più angusti spazii che possibil
fusse, ristretti i filosofici insegnamenti, sì che sempre si usasse quella
rigida e concisa maniera, spogliata di qualsivoglia vaghezza ed ornamento, che
è propria dei puri geometri, li quali né pure una parola proferiscono che dalla
assoluta necessità non sia loro suggerita. Ma io, all'incontro, non solamente
non ascrivo a difetto in un trattato, ancorché indirizzato ad un solo scopo,
interserire altre varie notizie, purché non siano totalmente separate e senza
veruna coerenza annesse al principale instituto; che anzi stimo, la nobiltà, la
grandezza e la magnificenza, che fa le azzioni ed imprese nostre meravigliose
ed eccellenti, non consistere nelle cose necessarie (ancorché il mancarvi
queste sia il maggior difetto che commetter si possa), ma nelle non necessarie,
purché non sieno poste fuori di proposito, ma abbino qualche relazione,
ancorché piccola, al principale intento. E così, per esempio, vile e plebeo
meritamente si chiamerebbe quel convito nel quale mancassero i cibi e le
bevande, principal requisito e necessario; ma non però il non mancar di queste
lo fa così magnifico e nobile, che sommamente più non gli arrechino grandezza e
nobiltà la vaghezza dell'egregio e sontuoso apparato, lo splendore dei vasi
d'argento e d'oro, che, adornando la mensa e le credenze, dilettano la vista, i
concenti di varie armonie, le sceniche rappresentazioni, e i piacevoli scherzi,
all'udito così graziosi. La maestà di un poema eroico vien sommamente ampliata
dalla vaghezza e varietà de gli episodii; e Pindaro, principe de' lirici, si
sublima tanto col digredire in maniera dal principale suo intento, che è di
lodar l'eroe da esso cantato, che nel tesser le laudi di quello non consuma la
decima, né anco tal ora la vigesima, parte de i versi, i quali spende in varie descrizzioni
di cose che in ultimo, con fila assai sottili, sono annesse al principal
concetto. lo per tanto interamente applaudo alla maniera che il signor Liceti,
abbondantissimo di mille e mille notizie, tiene nei suoi componimenti, ed in
particolare in questo, nel quale, prima che condurre il famelico lettore a
saziare sua brama con l'ultimo insegnamento del problema principalmente
desiderato, ci porge un util diletto di tante belle cognizioni, che bene ci
obliga a rendergliene mille grazie, mentre che con grato risparmio di tempo e
di fatica ci libera dal rivoltare i libri di cento e cento autori.
Degna dunque di lodi
infinite stimo io questa sua nobile ed util fatica. Ed acciocché l'Altezza
Vostra Serenissima resti sicura che io schiettamente e non simulatamente
discorro, voglio contraporre alle meritate lodi che a tutto il resto del suo
libro si convengono, alcune mie considerazioni intorno alla digressione che fa
il signor Liceti nel capitolo L di questo suo libro, le quali mi pare che
possino rendere la dottrina in quello contenuta non ben sicura né incolpabile;
se però, quello che communemente ed umanamente suole accadere, l'interesse
proprio non m'inganna, essendo il contenuto di tutto il detto capitolo non
altro che una moltitudine di obiezzioni che egli bene acutamente fa contro ad
una mia particolare ed antiquata opinione, nella quale ho creduto ed affermato,
quel tenue lume secondario che nella parte tenebrosa della luna si scorge,
massimamente quando ella è poco remota dalla congiunzione col Sole, essere
effetto cagionato dal reflesso de' raggi solari nella superficie del nostro
globo terrestre: al che egli contradice con molte opposizioni, le quali, contro
al mio desiderio, mi pare che non necessariamente convincano la mia opinione di
falsità. E dico contro al mio desiderio, perché non vorrei che anco
questa nota, benché piccola, macchiasse il suo, in tutto il resto, così puro e
candido trattato; che nelli scritti miei, che poco di peregrino e di
apprezzabile si contiene, poco di pregiudizio è l'aggiugnere a tante altre mie
fallacie questa qui ancora; ché bene in un panno rozo e vile manco noiano la
vista molte grandi ed oscure macchie che in un drappo vago e per la moltitudine
de' fiori riguardevole non farebbe una benché minima.
Proporrò dunque quelle
risposte che al presente paiono sollevarmi con speranza di dover poi, con mio
util particolare, esser dalle sue dottissime repliche tolto di errore e
condotto nel possesso del vero, qualunque volta queste mie risposte gli
venissero agli orecchi. Ma prima che io descenda a esaminar la forza delle sue
obiezzioni, voglio, per mia satisfazione, raccontare all'Altezza Vostra
Serenissima i miei primi moti, dai quali io fui indotto a credere che di questo
tenue lume secondario, che nella parte del disco lunare non tocco dal Sole si
scorge (il quale, per brevità, con una sola parola nel progresso chiamerò candore),
sola ed originaria cagione ne fusse il reflesso dei raggi solari nella
superficie del globo terrestre. Avendo ed una e due volte osservato il detto candore,
mosso dal natural desiderio d'intender le cause delli effetti di natura, il
primo concetto che mi cadde in mente fu, che tal candore potesse essere proprio
dell'istessa sustanzia e materia del globo lunare e per certificarmi se ciò
potesse essere, aspettai curiosamente il tempo della prima eclisse totale di
essa Luna, sicuro che quando ella per sé stessa ritenesse tal lume, molto e
molto più splendido ci si mostrerebbe nelle tenebre della notte profonda, che
nella chiarezza del crepuscolo; in quel modo che incomparabilmente lo splendore
della medesima Luna, conferitole dal Sole, più bello e grande ci si rappresenta
nella notte oscura, che non solo nel mezo giorno, ma nell'ora del crepuscolo
ancora. Venne l'eclisse; e restando ella talmente oscura, che del tutto restò
inconspicua, fui reso certo, il candore non esser nativo suo, e però
necessariamente doverle esser conferito ab extra. E perché ad illuminare
un corpo opaco ed oscuro vi è necessario il beneficio di un altro ben
risplendente, né trovandosi al mondo altri che le stelle erranti e fisse, il
Sole e la Terra, in quanto dal Sole è illustrata, venivo di necessità tratto a
ricorrere e a far capo ad alcuno di questi. E cominciando dal Sole, essendo
manifesto quanto grande sia l'illuminazione che esso le manda e che nello
emisferio lunare ad esso esposto si deve, giudicai, il candore che nell'altro
emisferio, non visto dal Sole, si diffonde, non potere essere opera dei raggi
solari. Né meno potersi attribuire al resto dei lumi celesti, cioè delle stelle:
imperochè la vista loro non vien tolta alla Luna posta nelle tenebre
dell'eclisse; onde quelle pure illustrandola sempre egualmente, molto più
lucida ci si rappresenterebbe nell'oscuro campo della notte, che nel
crepuscolo; di che accade tutto l'opposito. E perché manifestamente si osserva,
il candore farsi di grande mediocre, e di mediocre minore e minimo, tal effetto
in conto veruno dalle stelle non può derivare. Restavami sola la Terra, atta a
poter satisfare a tutte le particolarità, col non fare ella verso la Luna altro
che puntualissimamente quello che la Luna fa verso la Terra, illuminando la sua
parte oscura nelle tenebre della notte col reflesso de' raggi solari, or più,
or meno, or pochissimo, or niente. E meco medesimo più arditamente discorrendo,
dissi: Sono la Luna e la Terra due corpi opachi e tenebrosi egualmente; vi è il
Sole, che di pari illustra continuamente un emisferio di ciascheduno lasciando
l'altro oscuro; e di questi, la Luna è potente a illuminare l'oscuro della
Terra: oh perché si dovrà metter in dubbio che il luminoso della Terra non
incandisca l'oscuro della Luna? Parvemi questo discorso talmente ragionevole,
che io presi ardire di palesarlo, stimando che dovesse esser ricevuto come
concludente; né è restato il mio creder vano, poiché niuno de i comuni ingegni
speculativi l'ha impugnato, sinché il discorso dell'eccellentissimo signor
Liceti, sopra tutti gli altri eminente, ha con grand'acutezza penetrato, tal
mio pensiero ed opinione essere stata manchevole. Tuttavia, o sia per mia
debolezza ed incapacità, o pure che le impugnazioni non siano di quella
strettissima necessità che nella assoluta demostrativa scienza si richiede, non
mi conosco ancora per al tutto convinto; e perché in me non cessa il desiderio
di sapere, bramando di esser tolto del dubbio e posto nel certo, communicherò a
lei tutto quello che mi occorre potersi dire in risposta alle sue
contradizzioni, per mantenimento della mia opinione.
E facendo principio dal
titolo del capitolo 50, che è: De Lunæ subobscura luce, prope coniunctiones
et in deliquiis observata; digressio physico-mathematica, già che egli
medesimo le dà titolo di digressione, è manifesto segno di averla esso stimata
considerazione non necessaria nel suo trattato, ma solo avervela interposta per
magnificarlo; conforme a quel che di sopra ho detto, che la nobiltà e
magnificenzia consiste più negli ornamenti non necessarii, che in quelle cose
che di necessità devono esser portate. E sin qui approvo e laudo il suo
instituto, se non in quanto seco porta indizio del mio non ben saldo discorso.
E perché egli procede come matematico e fisico, andrò esaminando come filosofo,
qualunque io mi sia, e come matematico le sue opposizioni; facendo anco qualche
poco di considerazione intorno alla forma dell'argumentare che egli tal volta
tiene, quanto ella sia conforme a i dialettici precetti posti da Aristotele.
Piglio dunque la sua prima
instanza, contenuta dal principio del capitolo sino a “Dein vero, quum in
plenilunio Terra” etc. Mentre io vo con attenzione esaminando questo primo
discorso, lo trovo veramente con bello artifizio tessuto; e l'artifizio mi si
rappresenta tale. Due parti si contengono in esso conteste: l'una è nella quale
ei vuol dimostrare, il candor della Luna non potersi in modo alcuno riconoscere
dalla Terra; l'altra è il concludere, tal effetto procedere dall'etere ambiente
essa Luna. Quanto alla prima, molto probabilmente cammina il suo discorso,
dicendo, il candor della Luna non poter derivare se non da quel corpo dal quale
provengono le differenze di esso candore, le quali differenze sono il farsi tal
candore or più ed or meno lucido: e questo non può provenire dalla Terra,
avvengaché la sua lontananza dalla Luna non si muta: e però il reflesso della
Terra deve esser sempre uniforme, ed in conseguenza impotente a produr
differenze in esso candore; adunque, né meno il candor medesimo. Il discorso,
pigliandolo a tutto rigore, patisce non leggier mancamento: il quale è, che nel
raccorre la conclusione dalle premesse, s'introduce un quarto termine, non
toccato nelle premesse, il quale è la Terra. Sono le premesse: “Un effetto
mutabile non può provenire da causa immutabile: il candore è effetto mutabile;
ma la distanza tra la Terra e la Luna è immutabile; adunque il candore non può
provenir dalla Terra”. Ora questo termine “Terra” non è posto nelle premesse,
ma vi è in suo luogo “distanza tra la Terra e la Luna”; onde, a voler che
l'argumento cammini in buona forma, bisognava, avendo detto nelle premesse “Un
effetto mutabile non può provenire da causa immutabile; ma la distanza tra la
Terra e la Luna è immutabile”, bisognava, dico, dir nella conclusione “Adunque
il candore non procede dalla distanza tra la Terra e la Luna”: ed il silogismo,
raddrizzato così, quanto alla forma procedeva bene, ma non concludeva niente
contro di me. Ho detto che a tutto rigore ne seguirebbe questo inconveniente;
ma avendo riguardo a quello che, per mio credere, il signor Liceti aveva in
intenzione, figuriamo l'argumento in miglior forma, dicendo: “Un effetto
mutabile non può derivare da causa immutabile: ma la distanza tra la Luna e la
Terra è immutabile, ed immutabile parimente è lo splendor della Terra; adunque
il candore non può provenire né dalla distanza tra la Luna e la Terra, né dallo
splendore della Terra; ed in conseguenza non può provenire dalla Terra”. Non si
può negare che il discorso in questa maniera raddrizzato apparisce tanto
concludente, che facilmente potrebbe essere ammesso per sincero e libero da
ogni fallacia da qualsivoglia filosofo; e tanto più ciò mi persuado, quanto che
l'istesso signor Liceti, da me stimato per filosofo a nissun altro secondo, per
niente manchevole lo ha creduto: e pure tra poco spero di esser per dimostrarlo
manchevole. In tanto per ora, ammessolo per concludente, dico che egli non fa
punto contro di me, il quale non ho mai detto né scritto che alla produzzione
del candore si ricerchi la mutazione della distanza tra la Terra e la Luna o la
mutazione dello splendore della Terra. È stato pensiero del signor Liceti; il
quale, immaginandosi che di tal mutazione non possa esser causa altro che il
variarsi la distanza o il mutarsi lo splendore, si è persuaso che escludendo
queste due cause venga distrutta la mia opinione. Se io avessi detto che la
Terra cagionasse il candore nella Luna con l'appressarsele o discostarsele, o
col farsi ella or più splendida ed or meno, egli mi averebbe convinto di errore
col mostrare che la Terra né si avvicina o discosta dalla Luna, né diviene una
volta più vivamente splendida che un'altra. Resto io pertanto sin qui illeso
dalla sua prima impugnazione, nella quale è bene ora che veggiamo se vi sia
ascosa dentro alcuna fallacia, sì come, ingenuamente parlando, credo che ascosa
vi sia: e per farla palese, prima mostrerò in generale che ella vi è; dipoi
tenterò di additare, dove e quale ella sia in particolare
Che fallacia assolutamente
vi sia, lo provo col tessere un argumento formato su le vestigie del suo, senza
slargarmene pure un capello, deducendone poi una conclusione falsa; la quale
vera doverebbe esser riuscita, quando nella forma dell'argumento non fusse
stata fallacia. Formando dunque l'argumento su le sue pedate, proverò che quel
lume che la notte si scorge in Terra, mentre che la Luna splendida si trova
sopra l'orizonte, e che communemente si chiama lume di Luna, non è altrimenti
effetto che, come da causa, dependa dal reflesso de' raggi solari nella
superficie della Luna, dicendo così. Questo che noi chiamiamo lume di Luna è
effetto mutabile, e però non può derivare se non da causa mutabile. Ma le cause
mutabili, atte a produrre una tal mutabilità, sono dal signor Liceti ridotte a
due capi: l'uno è l'avvicinare o discostare il corpo illuminante da quello che
deve essere illuminato; e l'altro è il crescere o il diminuire lo splendore del
corpo illuminante. Il primo di questi due capi non ha luogo: nella presente
operazione, avvengachè, per concessione pur del medesimo signor Filosofo, la
Luna mantiene sempre la medesima distanza dalla Terra; e l'altro capo molto
meno ci ha luogo il che è manifesto; imperochè l'effetto che seguir si vede
procede tutto al contrario di quel che proceder dovrebbe quando pur lo splendor
della Luna si facesse ora più vivo e potente ed ora meno. Imperciochè, essendo
lo splendor della Luna effetto dei raggi solari che la illustrano, chiara cosa
è che ei sarà più vivo quando ella è men lontana dal Sole, e più debile nella
sua maggior lontananza e però, posta la Luna in congiunzione col Sole, lo
splendore che ella da lui riceve, più efficace sarà che quando ella li è posta
all'opposizione, trovandosi in questo luogo più lontana dal Sole, che in
quello, tanto quanto importa il diametro del dragone, cerchio massimo deil'orbe
nel quale la Luna si rivolge; ed è manifesto, che partendosi ella dalla
congiunzione e venendo verso il sestile e di lì al quadrato, ella si va
continuamente discostando dal Sole, continuando pure il discostamento
nell'aspetto trino, e finalmente conducendosi alla massima lontananza nella
diametrale opposizione. Si va per tanto continuamente indebolendo lo splendore della
Luna: ma l'effetto suo in Terra procede al contrario imperocché nel tempo della
congiunzione l'illuminazione in Terra è minima, anzi pur nulla, e si comincia a
far sensibile nel separarsi la Luna dalla congiunzione, né molto si fa ella
apparente sino allo aspetto sestile; ma continuando lo allontanamento della
Luna dal Sole, passando per il quadrato e trino, sempre il lume di Luna in
Terra si fa maggiore e maggiore, sin che diviene massimo nella opposizione.
Poiché dunque la mutazione nel lume il fa al contrario di quel che far si
dovrebbe quando tal mutazione dependesse dal farsi lo splendore della Luna or
più or meno grande e gagliardo; chiara cosa rimane, che né anco il secondo capo
ha luogo. In questa operazione del farsi il lume in Terra or più or meno
vivace. Adunque non ha la Luna parte alcuna nella mutazione di quel lume in
Terra, del quale noi parliamo; e non avendo ella parte in tal mutazione, per la
verissima ipotesi del medesimo Filosofo né meno lo stesso lume sarà effetto
della Luna: tuttavia egli pure tanto manifestamente depende dalla Luna, che
niuno degli uomini si troverà che vi ponga dubbio. E veramente dubbio non vi si
può porre, mentre che la causa della mutazione, cioè del farsi di piccolissimo,
e di giorno in giorno andar crescendo, sin che grandissimo divenga, a tanto
manifesta, che non è uomo che non la comprenda, e non vegga che la Luna nuova
poco o niente può illuminar la Terra, non ci mostrando del suo emisferio
illuminato dal Sole altro che una sottilissima falce, la quale la sera seguente
fatta più larga, e di sera in sera ingrossando le sue corna, allargatasi per
buono spazio dal Sole, comincia a rendere osservabile l'effetto del suo
splendore, quanto all'illuminar la Terrai ridottasi poi, dopo sette o otto
giorni al quadrato, scuopre alla Terra di sè la metà del suo emisiferio
splendido; e seguitando di allontanarsi ancor più dal Sole, più e più di sera
in sera mostra ampla la sua figura d'intero e perfetto cerchio, grandissima ne
produce in Terra la sua illuminazione.
Io veramente mi meraviglio
che l'eccellentissimo signore, di ingegno tanto provido in contemplare e
penetrare le cause e gli effetti meravigliosi della natura, non so per qual
ragione, non abbia fatto reflesso sopra così patente causa della mutazione del
lume di Luna in Terra; o perché, avendovela fatta, non l'abbia poi riconosciuta
nello splendore della Terra nel produrre simile mutazione nel candor della
Luna, mentre che il negozio cammina nell'istessa maniera puntualissimamente.
Cioè, perché, stante sempre un intero emisferio della Terra illustrato dal
Sole, la Luna non però si trova perpetuamente costituita in sito tale, che
continuamente se gli opponga o scuopra o tutto o la medesima parte del detto
emisferio terrestre luminoso; ma talora lo vede tutto, talora ne perde una
parte, e poi un'altra maggiore, e finalmente ancora ne perde il tutto. L'intero
ne vede la Luna posta alla congiunzione col Sole; nel qual tempo, esponendo
essa Luna il suo emisferio opaco, non tocco da i raggi solari, alla Terra,
sommamente viene incandita dalla piazza immensa luminosa di quella. Partendosi
poi dalla congiunzione, comincia a scoprire una particella dell'emisferio
tenebroso della Terra, rimanendole però veduta grandissima parte ancora del
luminoso; onde il suo candore si debilita alquanto, e va continuamente
debilitandosi mentre che, nello allontanarsi dal Sole, va sempre di giorno in
giorno perdendo di vista parte maggiore del terrestre emisferio luminoso, sin
che, giunta al quadrato, scuopre del terrestre emisferio, esposto alla sua
vista, la metà dell'illuminato, e l'altra metà del tenebroso: cresce dunque la
causa del diminuirsi il candore. E così, continuando di perdersi di sera in
sera maggiore e maggior parte dell'emisferio splendido della Terra, il candore
si fa a poco a poco impercettibile, sendo anco di gran pregiudizio a gli occhi
del riguardante la presenzia della parte molto lucida della Luna, che confina
con quello che di lei resta privo della illuminazione del Sole. Al che possiamo
aggiugner ancora (come punto di gran considerazione) la chiarezza che il
medesimo lume lunare introduce nel suo ambiente, la qual chiarezza è tanta, che
ci offusca e toglie la vista delle stelle fisse, le quali anco per assai grande
spazio son lontane dalla Luna; tal che molto meno ci deve restar cospicuo il
candore, anco per altro, tenuissimo fatto.
Parmi, Serenissimo signore,
d'aver sin qui a bastanza dimostrato come l'opinion mia resta illesa da questa
sua prima obbiezzione, ed insieme aver concluso che nella sua instanza è forza
che sia qualche fallacia. Séguita ora che io dichiari in quel che a me pare che
la fallacia consista: ed è, s'io non m'inganno, che argumentando egli ex
suppositione quello che egli suppone è mutilo; e dove egli è almanco di tre
membra, ne prende solamente due lasciando indietro il terzo. Del potersi fare
il candore, o altra illuminazione, maggiore o minore, ne assegna il signor
Liceti due modi solamente: cioè il mutarsi la distanza tra il corpo illuminante
e il corpo che si illumina, che è l'uno de i modi; e l'altro, col farsi lo
splendore dello illuminante intensivamente più o meno gagliardo. Ma ci è il
terzo, il quale è quando non intensivamente, ma estensivamente, si fa maggiore
quella luce da cui l'illuminazione deriva: e così il lume di una torcia grande
più gagliardamente illuminerà che d'una piccola candela, benché gli splendori
di amendue intensivamente siano eguali. Ora qui averei voluto che il signor
Liceti avesse considerato, quanto questa terza maniera è più potente in
produrre l'effetto della mutazione del lume di Luna in Terra. Imperocché
l'ingrandirsi estensivamente lo splendore della Luna, come fa, mostrandosi da
principio in figura di una sottilissima falce, andandosi poi pian piano e di
sera in sera dilatando, cioè facendosi estensivamente maggiore, gran mutazione
di accrescimento produce nell'illuminar la Terra, ancorché intensivamente vadia
debilitandosi, onde per tal rispetto il lume dovrebbe farsi men vivo.
Debolissima dunque è l'efficacia delle altre due maniere, in comparazione di
questa terza, la quale l'Altezza Vostra Serenissima vede quanto sia gagliarda.
Sarà bene adesso che andiamo
esaminando quello che operar possa circa l'incandire la Luna il reflesso del
suo etere ambiente dal signor Liceti assegnato per vera cagione dell'effetto:
la quale dubito che non possa essere se non assai languida ed inefficace. Ma
prima che io venga a questo, voglio qui interporre un mio, tal qual si sia,
pensiero, per ritrovar l'origine donde sia proceduto il restare per tanti
secoli passati occulta a gli ingegni speculativi questa, per mio credere, assai
vera e concludente ragione, del derivare il candor della Luna veramente dal
reflesso de' raggi solari nella terrestre superficie. Mentre che il Sole è
sopra l'orizonte ed illumina il nostro emisferio terrestre, in qualsivoglia
luogo che sia posta la Luna, il candor di lei non ci si rende visibile; per lo
che nessuno in tal tempo si sarebbe mosso a credere né a dire che il lume della
nostra Terra avesse forza di illuminare la parte della superficie lunare non tocca
dal Sole onde molto meno gli potrebbe cadere in mente che la superficie della
Terra priva di splendore fosse potente a incandire la Luna, cioè fusse potente,
essendo tenebrosa, a portar luce là dove ella non la portò essendo luminosa.
Quando dunque, tramontato che sia il Sole ed imbrunita la nostra Terra, mentre
si vede scoprirsi il candore nella Luna, il giudizio popolare ad ogni altra
cosa lo potrebbe referire, fuorché alla Terra: per lo che gli uomini, persuasi
da questa prima e semplice apprensione, o non vi fecero reflessione, o
cercarono di ritrovarne la ragione in ogni altra cosa fuorché nello splendor
terrestre.
Ora, varii sono i riscontri
e le ragioni le quali mi distolgono dal prestar l'assenso all'opinione del
signor Liceti, che il candore lunare sia effetto di una parte del suo etere
ambiente, la quale, come alquanto più densa dell'etere purissimo che il resto
del cielo ingombra, possa ricevere e ripercuotere i raggi solari nella parte
tenebrosa della Luna; in quella maniera che la parte dell'aria contermina alla
Terra, fatta densa dalla mistione de i vapori, riceve lume da i raggi solari, e
quello reflette sopra la Terra, producendo il crepuscolo e l'aurora. E perchè,
oltre a questo, egli suppone che la Luna pure abbia per se stessa alquanto di
lume, suo proprio e naturale; questo parimente e primieramente non credo io
esser vero, né potere, quando pur vero fusse, averci parte alcuna: né so
penetrare da che cosa mosso egli ve lo abbia voluto introdurre. E prima, che
egli non vi sia, ce ne rende sicuri il perder noi talvolta del tutto di vista
la Luna, quando ella, nella sua totale eclisse, nel mezo del cono dell'ombra
terrestre si riduce; che quando ella avesse qualche proprio lume, benché tenue,
nella profondissima notte si farebbe visibile; tal lume proprio non ha dunque
la Luna. E quando ben ne avesse, non potendo egli esser se non tenuissimo, di
niente potrebbe aiutare il candore, il quale è molto grande in quella maniera
che niente opera il lume della Luna circa l'lluminar la Terra, qualvolta il
Sole, elevato sopra l'orizonte, con i suoi lucidissimi raggi l'illustra; ché
quando la notte, in assenza de: Sole, la Luna piena di splendore non ci avesse
illuminato, giammai di giorno, alla presenza del Sole, non averemmo potuto
assicurarci della illuminazione della Luna e così nel gran campo del candore,
molto bene luminoso, ogni altro picciol lume resterebbe offuscato e come nullo.
Quanto poi all'operazione dell'etere ambiente, circa il candire la Luna, non
veggo che in modo alcuno possa satisfare a quello che al senso ci apparisce
imperoché tutto il campo tenebroso della Luna è egualmente candito, e non
intorno alla circonferenzia solamente, dove solo per breve spazio si dovrebbe
distendere il lume che dallo etere ambiente le perviene; in quel modo che il
reflesso della parte dell'aria vaporosa solamente tal parte dell'emisferio
terrestre illustra, qual parte è il tempo della durazione del crepuscolo del
tempo della lunghezza di tutta la notte che se l'illuminazione del crepuscolo
potesse diffondersi sopra tutto l'emisferio terrestre, non averemmo mai notte
profonda, ma un'aurora o un crepuscolo perpetuo; ed avvengaché secondo che in
maggiore altezza si sublimasse l'orbe vaporoso intorno al globo terrestre,
tanto più diuturno si farebbe il crepuscolo, in immensa Altezza converrebbe che
si elevassero i vapori per illuminare l'intero emisferio. Ora, quando il signor
Liceti volesse mantenere che il candore che può illustrare tutto l'emisferio
tenebroso della Luna, derivasse dal reflesso dell'etere ambiente, sarebbe in
obbligo di insegnarci a quanta altezza, o vogliamo dir distanza, fuor dell'orbe
lunare dovesse tal parte d'etere addensato sublimarsi; nella quale impresa,
oltre che alquanto laboriosa gli riuscirebbe, credo che incontrerebbe assai
gagliarde contraindicanze. Una delle quali è, che giammai in verun modo
potrebbero le parti di mezo essere egualmente luminose come le altre più verso
la circonferenza, ma grandemente più tenebrose, avvenga che le parti intorno
alla circonferenza goderebbero non solo delle parti a sé contigue, ed anco
delle prossime, ma di tutte le remote ed altissime; dove che le parti di mezo,
restando prive della vista delle prossime e tangenti l'estremo limbo,
riceverebbero il lume solamente dalle alte e remote: ora, quanto importi
l'avere l'illuminante prossimo, più che l'averlo lontano, per esser più
vivamente illuminato, è tanto per sé manifesto, che non occorre spendervi più
parole. E doppo questa ci è un'altra contraindicanza, pur gagliardissima; e
questa è, che nel farsi l'eclisse, finito che fusse di entrare nel cono
dell'ombra il disco lunare, restando ancora fuor di tal cono gran parte
dell'etere alto che la Luna circonda, essendo ancora questo visto ed illuminato
dal Sole, pure continuerebbe di incandire ancora la medesima faccia della Luna,
e massimamente la parte conseguente all'ultimo orificio che si sommerse
nell'ombra: al che troppo altamente repugna l'esperienza, la quale ce lo mostra
bene alquanto sparso di luce, e, per mio credere, conferitale dallo etere suo
ambiente, ma tal luce con infinita proporzione minore del vero candore; il
quale, se nella profonda notte potesse conservarsi, io tengo per fermo che ei
sarebbe potente a illuminarci, non ardirò di dire quanto la Luna nel suo
plenilunio, ma che non cederebbe a quello che ci viene dalle corna della Luna
posta presso all'aspetto sestile. E finalmente, del non potere il candore in
verun modo essere effetto dell'etere ambiente, molto chiaramente lo mostra la
gran diminuzione che in esso si scorge dal partirsi dalla congiunzione col Sole
sino all'arrivare al quadrato, alla qual diminuzione converrebbe che
proporzionalmente rispondesse la diminuzione del lume nell'etere ambiente; la
quale non può esser se non piccolissima e per avventura insensibile, non si
potendo, come il medesimo signor Liceti afferma, riconoscere da altro che dallo
allontanamento di esso etere dal Sole. Ed ancorché né l'etere ambiente né il
suo lume scorgiamo, nulladimeno quale possa essere la diminuzione di quello, lo
possiamo argumentare dalla diminuzione di splendore che nel corpo stesso della
Luna si scorge, mentre che alla lontananza, che è tra il Sole e la Luna posta
nel quadrato, si aggiugne quello di più che ella si scosta passando dal
quadrato all'opposizione: e veramente credo che niuna vista possa esser
bastante a comprendere, lo splendore della Luna nel quadrato essere
intensivamente maggiore che nella opposizione; e così il lume dell'etere
ambiente nella congiunzione della Luna col Sole poco scapiterà nel ridursi alla
quadratura, perché finalmente il suo discostamento non è altro che la
trentesima parte della distanza tra il Sole e la Luna postagli in congiunzione;
onde, a tal ragguaglio, il lume in questo luogo potrà diminuirsi per la
trentesima parte appena, nel venire al quadrato. E tale per consequenza
doverebbe essere la diminuzione del candore nella Luna, cioè appena sensibile:
ma ella è non pur sensibile, ma assai grande; e ben grande può ella essere,
mentre che nella congiunzione viene il disco lunare incandito dall'intero
emisferio splendido della Terra, dalla cui metà solamente viene ella illustrata
nella quadratura.
Ora venghiamo al secondo
argumento, leggendo sino a “Deinde Luna prope coniunctiones” etc. Io di questo
argumento concedo tutte le premesse, ma non concedo già che non ne segua quello
che dalla concessione di esse seguir ne dovrebbe; anzi affermo che puntualmente
ne séguita e che così si scorge, cioè che, per esser la Terra più da vicino
illuminata dal Sole che la Luna posta in opposizione, e che per esser
l'emisferio terrestre molto e molto maggiore, cioè circa dodici volte, di
quello della Luna, il candore lunare dovrebbe di gran lunga superare il lume di
Luna in Terra; ed affermo di più che così segue, che è quello che dal signor
Liceti vien negato, affermando egli vedersi il contrario, cioè molto più debole
il candore della Luna che l'illuminazione terrestre derivante dalla Luna piena:
e perché ei dice ciò vedersi, mi sarebbe parso necessario il dichiarare la
maniera come tal vista possa ottenersi con sicurezza e senza che il senso si
ingannasse. Imperoché, mentre io vo ricercando di assicurarmi della verità del
fatto, trovo che non mancano circustanze, per le quali il senso, nella prima
apprensione, può errare ed esser bisognoso di correzzione, da ottenersi mediante
l'aiuto del retto discorso razionale. Io veramente, domandando persone anco di
bonissimo giudizio, quale si rappresenti all'occhio, più vivo e risplendente, o
il lume di Luna in Terra, o il candore nella Luna, mi sento subito rispondere,
che di gran lunga è superiore il lume di Luna; tuttavia credo che, applicando
il discorso e la considerazione a gli accidenti che la prima apparenza possono
perturbare, si troverà potere essere, ed in fatto essere, il contrario di
quello che a prima vista si giudica. E prima, essendo assai manifesto che
l'istesso corpo lucido, potente a illuminare altri corpi tenebrosi, più e più
vivamente gli illustra secondo ch'ei sarà meno e meno lontano da essi; da
questo effetto notissimo e chiaro parmi che con assai conveniente proporzione
si possa anco affermare, che alla vista nostra meno risplendente si mostri il
medesimo oggetto luminoso, posto in grandissima lontananza dall'occhio, che
postoci molto da vicino. E se così è, vorrei che il signor Liceti avvertisse,
che nel voler noi far paragone del lume di Luna in Terra col candor della Luna
vicina alla congiunzione, e di essi giudicare quello che alla prima vista si
rappresenta, avvertisse, dico, che la Terra illuminata dalla Luna non è
dall'occhio nostro più lontana di tre o quattro braccia, lontananza
incomparabilmente minore di quella della Luna candente posta alla congiunzione,
la quale eccede di assai trecento milioni di braccia: qual dunque meraviglia è
che, posto anco che il candor della Luna fusse eguale all'illuminazione della
Luna in Terra, in tanta differenza di lontananza ci apparisse minore?
Eccellentissimo signor Liceti, per giudicare nella presente causa senza
fallacia, bisognerebbe che, notato a parte quello che vi si rappresenta alla
vista mentre che, stando in Terra, guardate il lume di Luna in Terra,
paragonandolo al candor della Luna quando poi è posta nella congiunzione,
notaste ancora a parte quello che vi si rappresenterebbe alla vista quando voi
foste constituito nella Luna incandita dal lume terrestre, e di lì poteste poi
vedere la Terra, da voi lontanissima, illuminata dalla Luna; e se nell'una e
nell'altra esperienza voi trovaste che la Terra si mostrasse più candida della
Luna incandita postavi sotto i piedi, bene e concludentemente avereste
sentenziato; ma dubito che la seconda esperienzia vi farebbe mutar parere, e
giudicare tutto l'opposito di quello che la prima vista intorno a questo vi
persuase. Cessi per tanto la fede che in questo caso l'intelletto deve prestare
al senso. Ed aggiunghiamo di più, che di due oggetti visibili, ma in grandezza
diseguali, il minore meno ingombrerà l'occhio di luce che il maggiore, ancorchè
amendue fussero dell'istesso splendore in specie. Ora notisi che il disco
lunare viene compreso sotto un angolo acutisimo, avvengaché la sua base non
suttenda più che a mezo grado: ma l'angolo che dalla massima divaricazione de i
raggi visivi si constituisce nell'occhio, essendo più grande che retto,
suttende a più di novanta gradi interi e questo viene tutto ingombrato
dall'area e piazza luminosa della Terra, mentre che da vicino la rimiriamo:
essendo adunque l'ampiezza di questo grande angolo circa dugento volte maggiore
dell'altro acuto, che comprende il disco lunare, meraviglia non abbiamo a
prenderci dell'apparente maggioranza di luce nel rimirar la Terra, che la Luna
incandita. Taccio che della differenzia dei nominati due angoli lineari molto e
molto maggiore è quella delli angoli solidi, da essi lineari nascenti: e
veramente angoli solidi sono i compresi dentro a i coni formati da i raggi
visuali, de i quali angoli quello che ha per base la parte, ancorché
piccolissima, della terrestre superficie all'occhio esposta, a ben più di
quaranta mila volte maggiore dell'altro, che si fonda sul disco lunare.
Non è dunque meraviglia che
il senso nella prima apparenza distortamente giudichi nella presente causa:
però sarà bene che veggiamo se ci è modo di correggerlo; e potendo per
avventura i modi e le maniere esser molte, io per ora ne proporrò una o due. E
già che noi non possiamo mettere a petto a petto il candor della Luna ed il
lume di Luna in terra, parmi che assai sicuramente potremmo giudicare tra essi
facendo parallelo di amendue ad un terzo lume di un corpo illuminato: imperoché
se accadesse che lo splendore di questo terzo superasse il lume di Luna, ma
fusse superato dal candor della Luna, senza dubbio credo che potremmo asserire,
il candor della Luna superare il lume di Luna in terra. Mi si rappresenta, atto
mezo termine per ciò fare esser lo splendore del crepuscolo, facendo comparazione
ad esso del lume de gli altri due. Tramontato che sia il Sole, vedesi rimanere
per buono spazio di tempo la superficie della Terra assai chiara, mercé del
crepuscolo, cioè molto più che quando è illustrata dalla Luna piena; il che
manifestamente si scorge dal veder noi qualsivoglino minuzie in terra molto più
distintamente in virtù del crepuscolo, che non si scorgono, passato esso,
nell'illuminazione della Luna. Il quale effetto anco apertamente si conferma:
perché se averemo in Terra qualche corpo oscuro, come, per esempio, una colonna
o la nostra persona medesima, la illuminazione della Luna piena non farà far
ombra in Terra a esso corpo tenebroso sin che il lume del crepuscolo non sarà
di molto scemato, cioè sin tanto che il lume della Luna gli prevaglia; segno
evidente, questo della Luna esser a quello, da principio e per lungo spazio di
tempo, assai inferiore. Ma aggiunghiamo un'altra esperienzia, che pure ci
conferma, l'illuminazione del crepuscolo superare di assai l'illuminazione del
plenilunio. Osservisi qualche grande edifizio posto sopra luogo eminente, in
lontananza da noi di quattro o sei o più miglia: certo per assai lungo spazio
dopo il tramontar del Sole dureremo noi a scorgerlo bene, e tal vista non
perderemo se non dopo notabile diminuzione del lume crepuscolino; ma se,
estinta la illuminazione del crepuscolo, sopraverrà la illuminazione del
plenilunio, potrà molto bene accadere che il medesimo edifizio più da noi non
si scorga. Cede dunque di assai il lume di Luna al lume del crepuscolo: ma
all'incontro, per scorgere il candore nella Luna non ci fa di mestiero
aspettare che tanto si debiliti il lume crepuscolino, ma di non piccol tempo
avanti che la Luna muova l'ombre, lo vedremo noi biancheggiare nel medesimo
lume crepuscolino: cede dunque il lume di Luna al candor della lunare
superficie.
Ma finalmente con nodo, al
mio parere insolubile, veggiamo stretta e confermata la verità della mia
conclusione dico dell'essere il candor della Luna effetto del reflesso de'
raggi solari ripercossi dal globo terrestre. Stima il signor Liceti, il candor
della Luna essere effetto del reflesso de' raggi solari nell'etere alquanto
condensato che da vicino circonda il globo lunare, in quella guisa che l'orbe
vaporoso circonda la Terra; e del tutto esclude il reflesso della Terra, come
nullo: io ammetto al signor Liceti il reflesso dell'etere ambiente, ma vi
aggiungo il reflesso della Terra, che egli nega, e questo assai più potente che
quello dell'etere: ed avvenga che il signor Liceti reputi nullo questo, da me
stimato per principale, adunque di niuno pregiudizio dovrà essere al candore
della Luna il privarla di questo, che io reputo benefizio concernente al produr
tal candore, purché se gli lasci il reflesso dell'etere ambiente. E per ciò
fare compitamente, ponghiamo la Luna in opposizione al Sole, onde verso di lei
nulla si esponga dell'emisferio terrestre luminoso, ma solo riguardi verso lei
l'emisferio tenebroso; ed in tal consultazione ponghiamo che segua l'eclisse
totale della Luna, sì che ella perda ancora la illuminazione de i raggi
primarii del Sole, onde resti spogliata di questi e del tutto priva della vista
della faccia luminosa della Terra. Qui è manifesto, che non così immediatamente
che il corpo lunare si è finito d'immergere nel cono dell'ombra terrestre, si è
finito di immergere ancora l'orbe dell'etere che lo circonda, ma ne resta parte
fuori; la qual parte godendo ancora de i raggi solari, può incandire quella
parte del corpo lunare che fu l'ultima a cadere nell'ombra ed in questo tempo
potremo noi scorgere qual sia il candore prodotto dal solo etere ambiente. Ma
questo poco che si vede, non si diffonde per tutta la faccia della Luna, ma
solamente in parte del suo limbo; né la grandezza del suo lume ha che fare col
candore grande ed argenteo che si vede nella congiunzione, ma a una assai tenue
tintura bronzina ché quando fusse in spezie così vivace quale è il candore,
vivacissimo e molto più limpido dovrebbe dimostrarsi in questo tempo
dell'eclisse, mentre che la Luna si trova constituita in un campo molto oscuro,
cioè nelle tenebre della notte, dove che, all'incontro, il candore del
novilunio viene da noi veduto nel campo ancora assai chiaro del crepuscolo.
Vedesi dunque, che privata la Luna del reflesso della Terra, e favorita solo da
quello del suo etere ambiente perde a molti doppi quel bel candore per lo che
ben necessariamente doviamo concludere, pochissima essere la parte che vi ha il
reflesso dell'etere ambiente; anzi pure vi è ella come nulla, mentre le
sopragiugne il tanto più vivace e potente reflesso della Terra
Qui prima che passar più
avanti, non voglio tacere certa meraviglia che mi nasce nell'animo; ed è, che
avendo il signor Liceti detto di voler discorrere nella presente materia
fisicomatematicamente, nella presente occasione ci si serva solo della fisica,
tralasciando la matematica: perché cosa da fisico e naturale è stata il formar
giudizio tra il candor della Luna e il lume di Luna dalla prima e sensuale
apparenza; nel qual giudizio non credo ch'ei fusse con fallacia incorso, se egli
avesse aggiunto quello che ne insegna la matematica, cioè che la lontananza
della Luna candita dall'occhio è più di cento milioni di volte maggiore della
lontananza della Terra, e che l'angolo visuale nascente dalla Terra è più di
quaranta mila volte maggiore che il nascente dalla superficie lunare, le quali
disuguaglianze, come non piccole, hanno potuto perturbare il retto giudizio.
Quindi apprenda ciascuno quale è talvolta la differenza tra il discorrere de i
matematici e de i puri filosofi naturali e perché, senza digredire dalla
materia che si tratta, mi si porge qui occasione di conferire all'Altezza
Vostra Serenissima certo mio concetto non scritto da me in altro luogo, né
credo toccato da altri, glie le esporrò.
Mostra l'esperienzia come il
sopranominato tenue splendore bronzino, che resta nella faccia della Luna, ma
per breve tempo, dopo la sua totale adombrazione, il va a poco a poco
diminuendo: ed accade tal volta che pure nelle totali e centrali eclissi tal lume
del tutto si ammorza, in guisa che del tutto si perde la vista della Luna; ed
alcun'altra volta, pur nelle stesse totali eclissi, non così adiviene, ma resta
il lunar corpo pure alquanto apparente e visibile. Già è manifesto, tal
debolissima luce non le poter provenire né dal Sole né dalla Terra, la vista
de' quali le è del tutto tolta; né meno essere effetto del suo etere ambiente,
di già esso ancora immerso nell'ombra e privato della vista del Sole; né può
tampoco esser nativo e proprio del corpo lunare, poiché, se fusse tale, in
tutte le eclissi si scorgerebbe, come anco accaderebbe se fusse per avventura
effetto delle stelle sparse per l'immenso cielo; ed in somma il punto grande
della difficoltà consiste nel seguire alcune volte sì ed alcune volte no questo
totale perdimento di vista della medesima Luna, il quale effetto, per la sua
variazione, ricerca varietà nella causa effettrice. Io, doppo molte reflessioni
di mente, considerato che l'effetto del quale si cerca la causa è effetto di
lume, ho meco medesimo concluso, non potere esso provenire se non da qualche
cosa che abbia facultà di illuminare, del benefizio della quale resti ora
favorita ed ora privata la Luna; né avendo noi altro di lucido, atto a ciò
poter fare, che i luminosi corpi celesti, a quelli è forza ricorrere, e tra
essi investigare chi possa operare or sì ed or no nell'effetto del quale
parliamo. Se questo è effetto di qualche stella, è necessario che ella, o vero
alcuna volta risplenda più ed altra manco, o vero che ella ora sia esposta ed
ora no alla vista della Luna; e conviene anco che tale stella sia di non minima
forza d'illuminare. Tra i corpi celesti, trattone il Sole e la Luna, potenti
assai per la lor vicinanza e grandezza, la prima fra le stelle mi si offre
Venere, la quale in alcune constituzioni col Sole, cioè circa alle massime
digressioni riluce tanto vivamente, che si vede la notte i corpi ombrosi tocchi
dal suo fulgore, sparger ombra, e Giove appresso di lei con poca differenza far
quasi il medesimo effetto. Ora, stante questo, che pure è verissimo, qualvolta
accadesse che queste due stelle nel tempo dell'eclisse lunare fussero verso la
Luna talmente costituite che la potessero ferire con i loro raggi, potrebbero
in consequenza conferirle qualche lume, bastante per renderla visibile; e
quando poi in altra eclisse Giove fusse verso l'opposizione del Sole, ed in
consequenza dietro all'emisferio lunare a noi ascosto, e che Venere, per
l'opposito, fusse prossima alla congiunzione col Sole, sì che la Terra, nel
privar la Luna della vista del Sole, le togliesse anco il veder Venere,
restando ella abbandonata da amendue tali fulgori, resterebbe ancora a gli
occhi nostri invisibile. Potrebbesi ancora accomunare a questo benefizio
qualche stella fissa, e massime la più di tutte le altre fulgente, dico la
Canicola; e parmi poter far capitale di queste tre sole, ed in particolare dei
due pianeti, perché debole è l'operazione di tutto il resto delle stelle fisse.
E veramente par nel primo aspetto cosa assai maravigliosa, che lo splendore di
tanti lumi celesti abbia sì poco ad operare circa l'illuminare la Terra o altro
corpo da esse remotissimo: ma dovrà far cessare la meraviglia il considerare
quanto avanzi in grandezza il disco solare, ed anco quello della Luna, la
apparente piccolezza delle stelle fisse, mercé dell'immensa loro lontananza
poiché per fare un'area o piazza luminosa eguale al disco del Sole o della Luna
composta di stelle, ciascheduna anco eguale al Cane, non basterebbero quaranta
mila accoppiate e distese insieme: giudichiamo ora quello che si può ricevere
dalle quindici sole della prima grandezza, insieme con le altre, poche più di
mille, e tanto minori, sparse per il Cielo. E ben che moltissime siano quelle
che per la loro piccolezza restano invisibili, tuttavia veggiamo che di tali
piccolissime congiuntone gran numero insieme, finalmente non formano altro che
una piccola piazzetta sì poco luminosa che gli astronomi passati chiamarono con
nome di stelle nebulose. E tanto basti per risposta alla seconda instanza del
signor Liceti.
E venendo alla terza, senta
l'Altezza Vostra Serenissima quello che l'autore scrive consequentemente, sino
alle parole: “Præterea vel ipse Clarissimus Galileus, dum aliam opinionem” etc.
Qui sì mi è lecito liberamente parlare, non bene resto capace de i motivi per i
quali il signor Liceti inferisce, che posto che il candor della Luna derivasse
dal reflesso del lume terreno, ei dovesse essere più illustre nel mezo della
sua faccia oscura, che nel rimanente verso l'estremo margine; e mentre adduce per
ragione di questo il ricevere le parti di mezo più lume dalla Terra, e lo
sfuggire il medesimo lume dal margine estremo, spargendosi nell'ambiente, io
non veggo occasion nessuna di ricever più luce nel mezo, né veggo che i raggi
dello splendore terrestre debbano sfuggire dall'estremo limbo. Ciò forse
accaderebbe quando il globo lunare fusse terso e liscio come uno specchio; ma
egli è scabroso quanto la Terra se non più: e di questo non riceversi maggior
lume nel mezo che nell'estremo ambito, pur troppo chiaramente ce lo mostra
l'stessa Luna, mentre che essendo ella, nella opposizione, piena di lume del
Sole, senza veruna differenza di mezo o di estremo egualmente luminosa si
mostra, argumento della sua asprezza e del non sfuggire i raggi solari verso l'estrema
circunferenza; che quando ella fusse tersa come uno specchio, giammai da gli
uomini non sarebbe stata veduta, come io diffusamente ho dimostrato altrove.
Oltre che, posto anco che la superficie lunare fusse tersa sì che i raggi
luminosi, che dalla Terra le pervengono, potessero fuggire nel contatto estremo
dell'orbe lunare, e perciò quivi men vivamente potessero incandirlo, non per
questo all'occhio nostro tal diminuzione di lume potrebbe esser compresa: e la
ragione è questa. La superficie luminosa della Terra, come quella che è vicina
alla Luna, ed in ampiezza è ben dodici volte maggior di essa, molto più d'un
suo emisferio abbraccia ed illumina con i suoi raggi; all'incontro poi i raggi
nostri visivi, come quelli che non da una ampiezza così grande quanto è
l'emisferio terrestre sì partono, ma escono da un punto solo, cioè dall'occhio
nostro, notabilmente meno di un emisferio lunare abbracciano; talché oltre
all'ultimo cerchio che i raggi nostri visivi nella superficie lunare
descrivono, una grande striscia di luminoso resta tra essa e l'ultimo cerchio
che termina la parte della superficie lunare illustrata dalla Terra, la quale
striscia è a gli occhi nostri invisibile. Perché dunque nella parte veduta da
noi non vi entra della poco luminosa, mercé dello sfuggimento dei raggi
terrestri, niuna diminuzione di candore possiamo noi veder nella Luna. Di qui
l'Altezza Vostra Serenissima può vedere con quanto più salda ragione io
dichiaro che l'obiezzione del signor Liceti contro il derivare il candore dalla
Terra è invalida, e quanto, all'incontro, valida e concludente sia la mia,
posta di sopra, in provare che il candore non sia effetto dell'etere ambiente,
mentre che io concludo che se ciò fusse, il candore nelle parti di mezo dovria
apparir più oscuro che nell'estreme; la quale mia conseguenza non so se il
signor Liceti potesse così agevolmente rimuovere, come ho potuto io ora
rimuovere la sua, che il candore nelle parti di mezo dovesse mostrarsi più
chiaro che nelle estreme, quando derivasse dalla Terra.
Quanto poi all'attribuirmi
l'Autore, che io abbia poste nella Luna concavità, le quali poi, a guisa di
cavi specchi, possino ripercuotere lume maggiore che altre parti non concave;
sia detto con pace del mio Signore, io non ho mai né scritta né pronunziata tal
cosa. Sono nella superficie della Luna lunghi tratti di asprissime montagne,
gruppi di scogli scoscesi, moltissimi spazii grandi e piccoli, circondati da
argini sublimi e per lo più di figure rotonde; veggonvisi alcune cavità: ma che
elle sieno terse, sì che a guisa di specchi cavi possino ripercuotere i raggi,
ciò è alienissimo dal mio detto e dal mio credere; ma stimo bene, tutte queste
figure essere ruvide, aspere, ed in somma quali in Terra se ne veggono,
naturalmente e rozamente composte. In oltre, quando pure nella faccia della
Luna fussero concavità più che qualsivoglia de i nostri specchi pulite e
lustrate, sì che vivacissimamente potessero reflettere non meno il lume
terrestre che gli stessi raggi solari, che vedremmo noi di tali raggi, reflessi
nell'ambiente della Luna ? Esposto uno de' nostri specchi concavi a' raggi
diretti del Sole, che lume reflettono essi, che punto illumini l'aria nostra
ambiente? Nulla sicurissimamente; e pure è vero, tali raggi reflettersi
gagliardissimamente, ed in figura di cono andare ad unirà; ed esser veramente
potenti ad illuminare i corpi tenebrosi ed illuminargli ancora più potentemente
che l'istesso Sole: ma bisogna nella cuspide del cono, o a lei vicino, porre
qualche materia densa ed opaca, la quale, tocca da tali raggi, si vedrà
splendere ed offender la vista più che l'istesso Sole, e massime se lo specchio
sarà grande; e se la materia sarà combustibile, immediatamente si accenderà; ed
essendo fusibile, qual è il piombo o lo stagno, si fonderà, ed il rame o altro
metallo più duro si infuocherà. Bisogna dunque per vedere il suo reflesso,
farlo incontrare in materia atta ad essere illuminata; e finalmente potremo
vedere manifestissimamente tutto il cono, ponendogli sotto carboni accesi e
buttando sopra essi semola o incenso o altra cosa tale che faccia fumo; e
questo passando per i raggi del cono, si illuminerà, e ci farà vedere quanto
tali raggi reflessi siano più vivi delli incidenti e primarii del Sole.
Adunque, siano pure quali e quanti si voglino specchi concavi nella Luna,
niente faranno più vivo lo splendore diffuso per l'etere ambiente.
Io non credo che
all'eccellentissimo signor Liceti sia ignoto, che i raggi reflessi da uno
specchio concavo non vadano in figura di cono a unirsi se non in piccola
distanza da esso specchio, e che il loro vivacissimo lume non può vedersi se
non in qualche materia densa ed opaca, la quale, tocca da i detti raggi, come
ho detto, acquista un lume più vivo che lo splendore dell'istesso Sole: ma la
parte aversa della detta materia niente si illumina, essendo opaca; tal che a
noi che siamo in Terra, dove non credo che il signor Liceti fusse per dire che
arrivassero i coni de i raggi reflessi da gli specchi concavi sparsi nella
superficie della Luna, a noi, dico, non toccherebbe a vedere se non le dette
parti averse, le quali verrebbero illuminate solo dalla superficie della Terra,
come il restante dell'emisferio lunare, e però ci resterebbero elle indistinte
dal resto del lunar disco. Lascio stare che il metter lamine di materia opaca
separate dal corpo lunare e sospese nel suo etere circunfuso, è cosa troppo
ridicola, e da non ci far sopra fondamento veruno. Ma più poteva il signor
Liceti, come fisico-matematico, raccorre dalle matematiche, che non solo i
piccoli specchietti concavi, sparsi nella superficie lunare, non sono bastanti
a far l'effetto che egli ne deduce ma quando tutto l'emisferio lunare fosse un
solo specchio concavo o porzione di sfera tanto grande che il suo semidiametro
fusse l'intervallo che è tra la Terra e la Luna, che è il medesimo che dire che
ei fosse porzione dell'istessa sfera nella quale è posta la Luna, appena
sarebbe bastante a reflettere e produrre il cono de' raggi reflessi insino in
Terra, dove, uniti e terminati nel vertice di detto cono, potessero ravvivare
il lume; il quale poi un sol punto o una minimissima particella dell'emisferio
terrestre occuperebbe, e quivi solo farebbe la multiplicazione dello splendore,
superiore allo splendore terrestre, ma però tanto languido, mercé della minima
ed insensibile cavità dello specchio, che il cercare di vederlo o vero di
ritrovarlo sarebbe un tempo vanissimamente speso. Anzi pure, non potendo
pervenire all'occhio del riguardante salvo che nelle centrali congiunzioni de i
tre centri terrestre, lunare e solare, giammai da noi che siamo fuor de'
tropici, tale accidente non potrebbe esser incontrato; essendo che impossibile
cosa è il costituire l'occhio nella medesima linea retta che li tre centri
sopradetti congiunge, l'occhio, dico, di un che fuora della torrida zona, cioè
de' tropici, sia costituito. Vede dunque l'Altezza Vostra Serenissima come il
discorso matematico serve a schivare quelli scogli, ne' quali talvolta il puro
fisico porta pericolo d'incontrarsi e rompersi.
Qui non posso non
maravigliarmi alquanto di esser portato io in testimonio contro a me medesimo,
mentre sento dirmi che io medesimo ho scritto, l'estremo limbo della Luna
mostrarsi più lucido che le parti di mezo. È vero che io ho scritto che tali
parti estreme sì mostrano a prima vista più chiare che quelle di mezo; ma
immediatamente ho soggiunto, ciò in rei veritate esser falso ed una
illusione, e soggiunto che tutto il disco è egualmente candido: ed il medesimo
Autore nel capitolo precedente registra puntualmente le mie parole, che sono:
“Dum Luna, tum ante tum etiam post coniunctionem, non procul a Sole reperitur,
non modo ipsius globus, ex parte qua lucentibus cornibus exornatur, visui
nostro spectandum sese offert; verum etiam tenuis quædam sublucens peripheria
tenebrosæ partis, Soli nempe aversæ, orbitam delineare, atque ab ipsius ætheris
obscuriori campo seiungere, videtur. Verum, si exactiori inspectione rem
consideremus, videbimus, non tantum extremum tenebrosæ partis limbum incerta
quadam claritate lucentem, sed integram Lunæ faciem, illam nempe quæ Solis
fulgorem nondum sentit, lumine quodam, nec exiguo, albicare: apparet tamen
primo intuitu subtilis tantummodo circumferentia lucens propter obscuriores
Cæli partes sibi conterminas; reliqua vero superficies obscurior e contra
videtur ob fulgentium cornuum, aciem nostram obtenebrantium, contactum. Verum
si quis talem sibi eligat situm, ut a tecto vel camino aut aliquo alio obice
inter visum et Lunam (sed procul ab oculo posito) cornua ipsa lucentia
occultentur, pars vero reliqua lunaris globi aspectui nostro exposita
relinquatur; tunc luce non exigua hanc quoque Lunæ plagam, licet solari lumine
destitutam, splendere depræhendet, idque potissimum, si iam nocturnus horror ob
Solis absentiam increverit; in campo enim obscuriori eadem lux clarior apparet.”
Or il troncare le mie sentenze, portando, come da me detto asseverantemente,
quello che io nella prima parte propongo per confutarlo poi nelle seguenti
parole da me poste, e far ciò forse per imprimere nell'animo del lettore
concetto tutto contrario a quello che io scrivo, non saprei in altra maniera
scusarlo, fuor che per una scorsa di memoria.
Segue con altra instanza,
dicendo: “Præterea, vel ipse Clarissimus Galileus” etc, sino a “Insuper, si
Terra solare lumen in Luna” etc. Il signor Liceti con grande accortezza
trapassa sotto poche parole questa instanza che egli mi fa contro, toccando
solo una parte del mio detto, onde il lettore, non sentendo la mia sentenza
intera, potria formarsi concetto che quello che da me vien portato in altro
proposito, serva per confermare un'altra opinione, molto lontana da quella che
io tengo. È vero che io ho detto, tenere che possa essere intorno aila Luna una
parte del suo etere ambiente più densa del resto dell'etere purissimo la quale
possa reflettere i raggi del Sole, illustrando l'estremo margine del disco
lunare: al che credere mi muove il vedere nell'eclisse totale della Luna, doppo
che ella sì è immersa nell'ombra terrestre restare quell'estrema parte del suo
limbo che fu l'ultima a cadere nell'ombra, restar, dico, alquanto illustrata,
ma di un lume che tira più al rame che all'argento, il qual colore non si
estende egualmente per il restante del disco lunare, che resta molto più
oscuro; e che finalmente, entrata la Luna nel mezo dell'ombra, ella del tutto perde
quel poco che la faceva visibile, e noi alcune volte totalmente la perdiamo di
vista. Ora, che il signor Liceti inferisca, che da quanto ho scritto si possa
raccorre che io abbia detto o conceduto che il candore, il quale grandissimo si
sparge per tutto il disco lunare nel novilunio, derivi dal reflesso del Sole
nell'etere ambiente la Luna, è consequenza da me non pensata, non che detta;
anzi di presente stimata falsissima. E qui è bene che io tocchi certo
particolare degno di esser avvertito ed inteso.
Circonda perpetuamente
l'etere, diciamo addensato, il globo della Luna, intorno alla quale si eleva
sino a una certa altezza; sta la Luna esposta a i raggi del Sole, i quali
illustrano l'emisferio lunare insieme con l'emisferio addensato e potente ad
illuminare una parte dell'emisferio lunare non tocco dai raggi del Sole; e tal
parte illuminata circonderà, a guisa di un anello, una striscia della
superficie lunare, che confina con l'emisferio illuminato dai raggi solari; e
questo anello apporterebbe il lume crepuscolino nella Luna e da noi si
scorgerebbe, quando un altro lume molto maggiore non ce lo offuscasse; e questo
maggior lume è il reflesso della grandissima faccia della Terra: sì che posto,
per esempio, che il reflesso terrestre abbia venti gradi di luce, ma quello del
reflesso dell'etere ambiente ne abbia, verbigrazia, otto o dieci, chi crederà,
potersi distinguere tale anello lucido nella piazza tanto più risplendente?
Certo nessuno, salvo che chi volesse dire, il reflesso dell'etere superare in candore
quello della Terra, il che è falso: imperoché quello che nell'eclisse lunare
rimane, somministratoli dall'etere ambiente, è di lunghissimo intervallo
inferiore al candore del novilunio; che quando fusse prodotto dall'istessa
causa, dovrebbe molto e molto maggiore mostrarsi nell'oscurità della notte, al
tempo dell'eclisse, che nello splendore del nostro crepuscolo, come altra volta
di sopra abbiamo detto. Aggiunghiamo di più, che l'essere egualmente diffuso il
candore per tutto il disco lunare, ci assicura che egli non depende dall'etere
ambiente, il quale non è potente ad arrivare nella parte di mezo del disco
lunare; in quel modo che il crepuscolo nostro non illumina tutto un emisferio
terrestre, perché se ciò fusse averemmo tutta la notte il lume crepuscolino,
dove che per la maggior parte della Terra molte sono le ore notturne che
restano senza crepuscolo, nelle tenebre profondissime. In oltre, con gran
ragione possiamo credere che l'etere ambiente la Luna non sia così atto a
reflettere vivamente i raggi del Sole sopra la Luna, come è l'ambiente nostro
vaporoso a ripercuoterli sopra la Terra. Imperochè, essendo in universale la
materia dell'etere celeste più pura dell'elementare aerea, così è credibile che
la parte dell'etere condensato intorno alla Luna sia assai men densa, ed in
conseguenza men potente a reflettere, che l'aere condensato, per la mistione
de' vapori, intorno alla Terra.
Che poi l'etere ambiente la
Luna sia grandemente men denso della parte dell'aria vaporosa che circonda la
Terra, posso io con chiara esperienzia far manifesto. I vapori intorno alla
Terra sono di maniera densi, che il Sole posto vicinissimo all'orizonte
illumina una muraglia, o altro corpo opaco oppostogli, molto debolmente in
comparazione del lume che gli porgeva mentre per molti gradi era sopra
l'orizonte elevato; e questa molto notabile differenza non può procedere, per
mio credere, da altro, se non che i raggi del Sole nel tramontare hanno a
traversare per lunghissimo spazio i vapori che la Terra circondano, dove che i
raggi del Sole molto elevato per spazio più breve hanno a traversare i vapori
tra il Sole e l'oggetto opaco interposti: che quando non ci fussero i vapori,
ma l'aria fusse purissima, l'illuminazione del Sole sarebbe sempre del medesimo
vigore, tanto da i luoghi sublimi quanto da i bassi, tuttavolta che nelle
superficie da essere illuminate fussero con angoli eguali ricevuti. Onde,
tuttavolta che noi potessimo far paragone di due luoghi posti nella Luna,
all'uno de i quali i raggi solari pervenissero passando molto obliquamente per
l'etere addensato intorno alla Luna, ed all'altro assai direttamente si
conducessero, cioè per breve spazio camminassero per l'etere ambiente, e che
noi scorgessimo le illuminazioni di amendue essere eguali o pochissimo differenti;
senz'alcun dubbio potremmo affermare, l'etere ambiente la Luna o nulla o
pochissimo più essere addensato che tutto il resto del purissimo etere. Ma tali
due luoghi frequentemente li possiamo vedere: imperoché, posta la Luna intorno
alla quadratura del Sole, considerando il termine che dissepara la parte
illuminata da i raggi solari dall'altra tenebrosa, si veggono in questa
tenebrosa alcune cuspidi di monti assai distaccate e lontane dal detto termine,
le quali essendo illuminate dal Sole prima che le parti più basse, benché i
raggi solari a quelle obliquamente pervenghino, nulladimeno lo splendore e il
lume di quelle si mostra egualmente vivo e chiaro come qualsivoglia altra parte
notata nel mezo della parte illuminata. E pure alla Cuspide distaccata pervengono
i raggi solari, obliquamente segando l'etere ambiente, che ad altri luoghi
notati nella parte illuminata direttamente o meno obliquamente pervengono;
segno manifesto, assai piccolo essere l'impedimento che l'etere ambiente può
dare alla penetrazione de' raggi solari, ed, in conseguenza, assai tenue essere
il lume che da esso etere può la parte oscura della Luna ricevere.
Passo alla seguente
instanza: “Insuper, si Terra solare lumen in Luna” etc. Poco fa il signor
Liceti acutamente stimò che io, contro all'intenzion mia, corroborassi e
confermassi una sua opinione, mentre io m'ingegnava di confermarne un'altra
mia, dalla sua molto differente. Penso di essermi sincerato della inavvertenza
placidamente impostami: non so se con altretanta evidenzia egli potrà
sciogliersi da simile imputazione che mi pare che se gli possa fare, del
destruggere egli una sua proposizione, mentre tenta di destruggere una mia,
attenente all'istesso proposito di che si tratta. È la sua intenzione di voler
provare, che il candore nel disco lunare non dependa dal reflesso de' raggi
solari nella Terra, e dice “Se tal candore derivasse dal reflesso della Terra,
non si farebbe l'eclisse solare; ma l'eclisse si fa adunque tal candore non
procede dalla Terra”. Nell'assegnar poi la ragione, perché l'eclisse non
dovesse farsi stante tal candore nella Luna, dice che ciò avverrebbe perché lo
splendore o illuminazione di quello rischiarerebbe le tenebre, che senza quello
si troverebbero nel cono dell'ombra lunare, e per esso in una parte della
superficie terrestre. Ora, per tor via l'operazione di tal candore, bisogna tor
via l'istesso candore, e per conseguenza, quando segue l'eclisse solare (la
quale egli medesimo pure ammette seguire, e tanto oscura quanto la profonda
notte), dire che tal candore non vi è: ma questo poi si tira dietro
necessariamente il dovere affermare, che l'etere ambiente la Luna non la
incandisce, conseguenza del tutto contraria a quella che il signor Liceti ha
creduto e scritto. Ed aggiungo di più, che se giammai può esser potente il
reflesso dell'etere a ripercuotere i raggi solari sopra l'emisferio della Luna,
ciò farebbe egli massimamente, per essere allora la Luna nella massima
propinquità, anzi nell'istessa puntuale congiunzione, col Sole; sì che da tutte
le parti dell'etere circunfuso si farebbe tal reflessione, e perciò
validissima. Il discorso dunque del Filosofo Eccellentissimo non meno toglie la
posizione mia che la sua, posto però che egli direttamente proceda; ma la
verità è che ei non perturba né la sua né la mia posizione, come appresso dirò.
Dico dunque, che può benissimo essere che si faccia l'eclisse del Sole per
l'interposizione della Luna, e che la oscurazione sia tale che permetta il
vedersi le stelle, e che il candore nella Luna vi sia, e quanto più valido
esser possa, senza però esser potente a proibire tale eclisse, e che finalmente
nessuno di questi particolari favorisca o pregiudichi all'opinione tanto di chi
lo attribuisce e giudica effetto del reflesso del lume terrestre, quanto di chi
lo attribuisce al reflesso dell'etere ambiente la Luna. Imperoché già
convenghiamo che il candore vi sia nel tempo dell'eclisse solare; tal che se ei
fusse potente a vietare l'eclisse, tanto la vieterebbe derivando egli dalla
Terra, quanto dall'etere ambiente la Luna: ma il volerlo far poi così efficace,
che ci possa supplire al lume primario del Sole, sì che il cono dell'ombra
lunare non possa macchiare ed oscurare quella parte della superficie terrestre
che il medesimo cono ingombra, è veramente troppo gran domanda. Signore
eccellentissimo, quel lume che in tale occasione può scorgersi in Terra, è un
quarto, procedente dal primo dell'istesso Sole: il quale primo illumina
l'ambiente della Luna, e questo secondo illumina il disco lunare, il quale come
terzo, ha da illuminare la Terra onde il volere che questi, terzo compensi il
primo, è veramente, come ho detto, domanda troppo ardita. Il dir poi che questo
terzo lume, benché debile, accoppiato col massimo primario non lo indebolisca,
lo concederei io liberamente, quando tal copula si facesse: ma la adombrazione
che si fa in Terra è terminata e compresa dal cono dell'ombra lunare, per il
quale cono non passano i raggi solari, ma sì bene quelli solamente del candore
della Luna: sì che alla parte della Terra ottenebrata e macchiata dall'ombra
lunare niente vi arriva di splendido, fuorché il reflesso del candore, cioè un
reflesso di un altro reflesso di un altro reflesso, derivante da i raggi
primarii del Sole, dei quali nessuno entra nel cono dell'ombra lunare a
mescolarsi con quel lume tenuissimo che dal candore della Luna per entro il suo
cono si va diffondendo. Che poi il corpo lunare densissimo, né sparso di
maggior lume che quello del suo candore, possa indurre tal eclisse nel Sole,
che le diurne tenebre permettano la vista delle stelle, non doverebbe molto
favorire il discorso del signor Liceti mentre che egli afferma, essersi anco
nell'aperto cielo, e nella maggior limpidezza del Sole, vedute stelle: e
communemente non son elleno le costituzioni del crepuscolo e dell'aurora, di
lume benché tanto diminuito, che permettono vedersi gran copia di stelle? E
finalmente, chi dà tanta sicurtà all'eccellentissimo signore che ei possa
resolutamente pronunziare che nel tempo della totale eclisse del Sole non si
scorga il candor della Luna? Bisognerebbe che ei producesse testimonii degni di
fede, li quali deponessero avere attentamente osservato e ricercato se tal
candore si vegga, ed asserito poi non si vedere; ma non so che egli potesse
trovare una tal testimonianza: ma ben più tosto, all'incontro, può essere che
da alcuno vi sia stato tal candore veduto, il quale, ignorando la vera cagione
del reflesso della Terra, abbia creduto, il corpo della Luna esser in parte
trasparente ed atto ad esser penetrato, ed in qualche modo illuminato, da i
raggi solari. Ma che tale trasparenza non sia nel globo lunare, ho io in altro
luogo assai concludentemente dimostrato, ed in particolare dal vedersi
manifestissimamente, scogli sopra la Luna, piccolissimi in comparazione di
tutto il suo globo, spargere ombre oscurissime; argumento necessariamente
concludente, la materia lunare, né anco di minima profondità, esser diafana. Se
dunque è stato veduto nella totale eclisse la Luna alquanto lucida, e perciò
stimata trasparente, questo non poteva derivare se non dal reflesso
dell'emisferio terrestre, dal Sole illuminato, del quale solo restando piccola
parte ottenebrata dal cono dell'ombra lunare, il rimanente, cioè la parte
grandissima, ben continuava di conservare il candore nella Luna. Quanto poi a quello
che il signor Liceti scrive, che un corpo lucido minore, congiunto con un
lucido maggiore, non impedisce la sua illuminazione; per dichiarazione di che
egli induce una fiaccola o una maggior famma ardente, copulata coi raggi del
Sole, o vero due specchi, nel minor dei quali, collocato nei raggi solari da un
altro maggiore siano reflessi i medesimi raggi, niente leva la illuminazione
alla vista; qui liberamente confesso la mia incapacità, e duolmi assai di non
poter cavare costrutto dal discorso che qui vien portato, il quale stimo che
sia pieno di ben salda dottrina, e duolmi di non poterne esser partecipe:
concederò bene il tutto, se però l'intenzione dell'Autore è stata quella che io
conietturalmente posso imaginarmi.
Dico adunque che interamente
presterò il mio assenso, che sopraggiungendo ad un gran lume un lume minore,
detrimento nessuno può ad esso maggiore sopravenire dalla aggiunta del minore,
tuttavolta che questo minore sia schietto e puro, e non congiunto con qualche
corpo opaco, il quale con la sua opacità sia potente a impedire la strada per
la quale viene il maggior lume. Mi dichiaro, stando nei medesimi termini dei
quali si tratta. Intendasi la Luna, corpo densissimo, tenebroso per sé stesso e
niente trasparente, esser interposta tra il Sole e la Terra: qui non è dubbio
alcuno che ella all'opposito del Sole distenderà verso la Terra il cono della
sua ombra, macchiando di tenebre tutta quella parte della terrestre superficie
che resterà compresa dentro il cono dell'ombra lunare; e se altronde non gli
sopraggiugne qualche altra illuminazione, tal macchia sarà oscurissima.
Intendasi ora sopraggiugnere nella faccia della Luna, esposta alla vista della
Terra, un tal qual si sia lume: se questo sarà potente quanto il lume
dell'istesso Sole, senza dubbio caccierà le tenebre, e ridurrà tutto
l'emisferio terrestre egualmente in ciascuna sua parte illuminato; ma se il
sopravenente lume nella Luna sarà debole e quale è il suo candore in
comparazione dell'istesso Sole qual lume potrà egli arrecare alla macchia scura
cagionatavi dal corpo opacissimo di essa Luna? certo che molto piccolo. E
quello che il signor Liceti dice del lume reflesso da uno specchio maggiore in
un minore e da questo minore in un altro oggetto illuminato da' primarii raggi
del Sole, e che questo lume reflesso non impedisca l'illuminazione del Sole,
ciò sarebbe vero, quando questo minore specchio fusse non di materia densa ed
opaca, sì che potesse, col proibire il transito a i raggi solari, produrre
ombra, ma di un cristallo limpidissimo e trasparentissimo; ma quando fusse
tale, né si illuminerebbe, né farebbe reflessione de' raggi che altronde gli
sopraggiugnessero e lo ferissero. Per esser dunque il corpo lunare
impenetrabilissimo da i raggi del Sole, produce ombra oscurissima in Terra, la
quale viene, ma molto debilmente, diminuita dall'opposto nostro lunar candore.
Segue l'argumento tolto
dall'apparizione di Venere di giorno, nelle seguenti parole: “Deinceps, quum
Solis vicinia nihil impediat” etc.; e continuando pur nell'instituto di voler
dimostrare che il candor della Luna non depende dal reflesso della Terra,
premette le seguenti proposizioni. Prima, che il lume di Venere è tanto vivo,
che la vicinanza del Sole, anco di mezo giorno, non l'offusca sì che vedere non
la possiamo; anzi pure si scorge ella splendida, benché minore di quello che
ella si mostra nelle tenebre della notte. Pone l'altra proposizione, la quale è
che io affermo, la Terra non venire illustrata dal Sole manco che qualsivoglia
pianeta, ed in conseguenza non meno che Venere. Aggiugne la terza proposizione,
pur da me creduta e concessa, la quale è che il reflesso del lume terrestre
sopra la Luna sia più illustre di quello che la Terra riceve dalla Luna. Le
quali premesse io liberamente concedo tutte, ma non so poi dedurne la
conclusione che il mio oppositore ne cava; cioè che da tali premesse ne segua
in conseguenza, che la Luna prossima alla congiunzione del Sole dovesse, non
meno che Venere, mostrarsi splendida nel mezo giorno. Io, per me, dalle due
prime premesse, cioè dall'esser la Terra non meno illustrata dal Sole che
Venere, e dal vedersi Venere di giorno, non saprei dedurne altri, se non che la
Terra, non meno che Venere, dovrebbe esser visibile di giorno; conseguenza
tanto vera, che non credo che alcuno vi ponga dubbio, ed io più d'ogni altro
l'affermo. Dall'esser poi il reflesso del lume terrestre più gagliardo sopra la
Luna che quel della Luna sopra la Terra, non capisco come ne debba seguire che
il candor della Luna debba essere non inferiore allo splendore di Venere,
procedente dall'illuminazione dei raggi primarii e diretti del Sole; e se tal
consequenza dovesse aver luogo contro di me, converrebbe che il mio oppositore
facesse constare che io avessi creduto e scritto che lo splendore della Terra
fusse eguale allo splendore dell'istesso Sole, cosa che io giammai non ho
detta, né pur pensata. Restano dunque verissime le premesse da me concedute,
come vera anco la consequenza che da quelle direttamente si può dedurre, cioè
che lo splendore di Venere è tanto superiore al candor della Luna, quanto i
vivi e primarii raggi solari sono più illustri che i reflessi dalla superficie
terrestre. E qui se alcuno logico volesse ridurre questo argumento in forma
sillogistica, dubito che non pure ei incontrerebbe il quarto termine, ma anco
il quinto. Imperoché né della Terra, come causa illuminante, né del candor
della Luna, come effetto della illuminazione della Terra, niente si è parlato
nele premesse; onde il dedurre che la Luna incandita dalla Terra dovesse
vedersi di giorno, è conclusione sospesa in aria e che nulla ha da fare con la
illuminazione del Sole sopra Venere e la Terra e con l'esser rese per ciò
visibili di mezo giorno. In troppo oscura maniera veramente si deduce che la
Luna, incandita dalla Terra, debba vedersi di mezo giorno ex quod
Venere, illustrata dal Sole, di mezo giorno si scorge.
Passiamo all'altra seguente
obiezione: “Amplius, in eclipsi lunari nullam, prorsus” etc. Quanto egli qui
dice, gli concedo, cioè che nell'eclisse totale della Luna ella non riceva
illuminazione alcuna dalla Terra, nella cui ombra ella resta immersa, né
tampoco goda de i raggi diretti del Sole, i quali nel cono dell'ombra terrestre
non penetrano; e finalmente gli concedo che il reflesso dell'etere ambiente la
Luna gli porge quel poco di rossigno che la rende visibile, spezialmente in
quella parte del suo limbo che è l'ultima a restar coperta dal cono dell'ombra
terrestre: ma tutto questo, niente veggo che debiliti il mio detto, che il
candore della Luna venga dalla Terra. Parmi bene di scorgere che il mio
oppositore accortanmnte cerchi di imprimere nella mente del lettore, che lo
abbia largamente conceduto, il medesimo candore essere effetto dell'etere
ambiente la Luna, il che manifestamente apparisca mentre che nell'eclisse lunare,
mancando il reflesso della Terra, e l'illuminazione de i raggi dlretti del Sole
io ammetto quel tenue splendore bronzino che in parte della Luna si scorge; e
perché questo è sommamente inferiore al candore argenteo nel novilunio,
vorrebbe farlo diminuito ed in gran parte ammorzato dal dover passare egli per
il cono dell'ombra terrestre: il quale effetto io asseverantemente dico esser
vano e falso atteso che la illuminazione di un corpo splendido che va ad
illustrare un corpo opaco, niente perde nel dover passare per un mezo diafano
quanto si voglia sparso di tenebre; anzi le medesime tenebre faranno apparire
più vivamente il ricevuto lume, cosa tanto chiara e nota che assai mi
maraviglio di sentirla passare come ignota o non avvertita: ché ben sa il medesimo
signor Liceti che tutti i lumi celesti che a noi si fanno visibili e spargono
di qualche luce l'emisferio terrestre nella profonda notte, passano per il
medesimo cono dell'ombra terrestre, e da quello acquistano vigore di
maggiormente illuminarci e farcisi visibili. Concedesi dunque, la tintura di
rame derivare dall'etere ambiente la Luna: dove anco non mi par necessario di
porre nel corpo lunare quel tenue lume nativo, da mescolarsi come stima il
signor Liceti con questo reflesso dell'ambiente. Imperoché, se quello vi fosse,
nel mezo della massima eclisse, quando il centro della Luna cade nell'asse del
cono dell'ombra, pure resterebbe essa Luna in qualche modo visibile mercé del
suo proprio nativo lume: tuttavia io e molti altri insieme abbiamo del tutto perduto
di vista il disco lunare in più di una delle totali eclissi.
Vengo finalmente all'ultima
instanza: “Denique, nec illud omittam data positiones” etc. Continuando il
signor Filosofo in volere in ogni maniera scuoprire l'impossibilità della mia
opinione, s'ingegna di dimostrare come il reflesso della faccia terrestre in
nessuna maniera può arrivare alla Luna; e per ciò dimostrare, introduce molte
proposizioni da non esser da me così di leggiero concedute. E cominciando da
questo capo, certo mirabil cosa è che i caldissimi e lucidissimi raggi solari,
reflessi dalla Terra, e più incontrandosi ed unendosi con i primarii incidenti,
come l'istesso signor Liceti afferma, non siano potenti a valicare la grossezza
della media regione dell'aria ad essa vicinissima, ammortiti dalla frigidità di
quella, la qual grossezza non arriva alla lunghezza di un miglio; e che poi i
reflessi dalla Luna, distante dalla medesima media regione fredda assai più di
cento mila miglia, ed anco soli e non accompagnati dai diretti raggi solari
siano potenti a mantenersi così lucidi e caldi, che trapassando per quella
abbiano forza di riscaldare l'aria contigua alla Terra ed al mare, per il qual
calore le conchiglie testate, fomentate dal caldo dell'ambiente, possano più
pienamente nutrirsi ed ingrassarsi. Ma che dallo ingrassamento di questi
animali si possa argumentare augumento di calore nell'ambiente che li circonda,
parmi, se io non erro, che con altrettanta o più ragione se ne potrebbe
inferire accrescimento di freddezza, mentre che generalmente si scorge in tutti
gli altri animail far miglior digestione, e più copiosamente cibarsi ed
ingrassarsi nell'arie freddissime che nelle tiepide o calde: per lo che si può
inferire, la grand'illuminazione della Luna nel plenilunio accrescere appresso
di noi più tosto la frigidità che il calore, e tanto più, che è tritissima e
popolare osservazione, ne i tempi che l'acque si congelano farsi i ghiacci
notabilmente maggiori nelle notti del plenilunio, che quando il lume della Luna
è diminuito. Ma ben so io che quello augumento di calore interno dell'animale,
che il signor Liceti riconosce dall'accoppiamento del calore esterno
dell'ambiente, qualche altro filosofo non meno confidentemente lo attribuirebbe
al maggior freddo dell'ambiente, il quale per antiperistasi facesse concentrare
il nativo calore interno.
Né devo qui tacere un'altra
meraviglia non minore, che pure in questa maniera di filosofare si esercita; ed
è che talvolta si assegnano per produrre il medesimo effetto cause tra loro
diametralmente contrarie, né meno in altre occasioni si pone la medesima causa
produrre effetti contrarii. Quanto al primo caso, ecco dell'istessa più forte
digestione addursi per causa da alcuni il caldo dell'ambiente, e da altri il
freddo. Quanto all'altro caso, il signor Liceti afferma qui, il medesimo lume
di Luna esser caldo il quale in altro luogo asserì esser freddo, come si legge
nelle seguenti parole poste nel libro De novis astris et cometis, alla
faccia 127, versi 7: “Quin et lumen lunare nullo calore pollere, sed
frigiditatem invehere, quilibet experitur.” Né forse è minor la contrarietà che
il medesimo signore pone nel mezo ombroso, o vogliamo dire nel cono dell'ombra
terrestre; il quale egli non nega che talvolta molto più splendidi ci mostri
gli oggetti luminosi, mentre il lume loro deve trapassare per esso; ed altra
volta pronunzia, il medesimo cono, mescolandosi con quel tenue lume della Luna
prodotto dal suo etere ambiente e congiunto col suo nativo, l'offusca e rende
men chiaro. E qui si scorge la sicurezza del puro fisico argumentare, poiché
egualmente si adatta a render ragione di uno effetto tanto per una causa
naturale, quanto per la contraria. Oltre a ciò, non veggo con qual confidenza
possino gli accuratissimi signori filosofi fare il cielo e i corpi celesti
soggetti a qualità ed accidenti di caldo e di freddo, mentre gli predicano per
impassibili, inalterabili ed esenti da queste qualità elementari, sì che,
partendosi i raggi dal corpo lunare, che pure è celeste, possano esser caldi e
tali mantenersi nel trapassare quella parte del cielo della Luna che termina
sopra la sfera elementare, e quindi ancora scorrere per il fuoco e per tutta la
più alta regione dell'aria, e passare ancora di più la media freddissima,
conservandosi sempre caldi: e che poi, all'incontro, il reflesso della Terra,
la quale pur troppo sensatamente sentiamo riscaldarsi e quasi direi infiammarsi
nel più ardente sole dell'estate, non esser bastante a trapassare la a sé
vicinissima media regione, la cui sublimità, come ho detto, non arriva a un
miglio di spazio, sì come il breve intervallo di tempo che tra il lampo del
baleno ed il romor del tuono intercede, sicuramente ci insegna: oltre che, se
si deve prestar fede a gli istorici, né le piogge, né le nevi, né le grandini,
né i lampi, né i tuoni, né i fulmini, si fanno in maggior lontananza, mentre si
dice, constare per la esperienzia, esser monti tanto eminenti, che la loro più
eccelsa parte non è giammai offesa dai nominati insulti; e bene molto alto
conviene che sia quel monte la cui perpendicolare altezza sia più di un miglio.
Lascio stare che frequentemente si vede che dalla eminenza delle nostre più
alte montagne si scorgono le pianure suggette, ed anco le minori colline,
ricoperte da nuvole, sì che tal vista sembra quasi un mare nel quale in qua ed
in là si scorgano surgere, quasi scogli, vertici di altri mediocri monticelli;
ed in questa constituzione di nuvole cade talvolta la pioggia nelle pianure più
basse.
Parmi, oltre di questo, di
raccorre dal discorso del mio oppositore, che egli voglia mandar di pari lo
scaldare e l'illuminare, sì che dove non arrivi il calore del corpo caldo e
lucido, non vi deva anco arrivare l'illluminazione, e che però, non sendo
possente il caldo che noi proviamo grandissimo nella Terra illuminata e
riscaldata dal Sole, a varcare la fredda regione vaporosa dell'aria, né meno
ciò possa fare il lume dalla medesima Terra reflesso. Tuttavia, se noi vorremo
prestar fede al senso ed alla esperienza, troveremo che il lume di una
grandissina fiamma di quantità grande di paglia o di sterpi che sopra una
montagna abbruci, si distenderà ed arriverà a noi constituti in molto maggior
lontananza di quella nella quale il caldo di essa fiamma ci si facesse sentire.
Ma che accade che, per assicurarci del poter esser la strada del caldo
differente da quella del lume, ricorriamo a fiamme poste sopra montagne, o ad
altre esperienze più incommode a farsi? Accosti chi si voglia il dito così per
fianco alla fammella di una candela accesa; certo non sentirà offendersi dal caldo,
sinché per un brevissimo spazio non se gli accosta e che poco meno che non la
tocchi: ma, per l'opposito, esponga la mano sopra la medesima fiammella;
sentirà l'offesa del caldo in distanza ben cento volte maggiore di quell'altra
per fianco: tuttavia l'illuminazione che dalla medesima fiammella deriva, per
tutti i versi si diffonde, cioè in su, in giù, lateralmente, ed in somma per
tutto, ed in lontananza più di cento mila volte maggiore, sfericamente si
distende.
Parmi per tanto di poter
sicuramente dire che lo scaldare e l'illuminare non vadiano del tutto con pari
passo: ma ben credo di poter con sicurezza affermare, che l'illuminare ed il
muover la vista vadano talmente congiunti, che dovunque arrivi il lume, di
quivi si renda il corpo luminoso visibile; di maniera che il muovere il senso
della vista, altro non sia che illuminare la pupilla dell'occhio, alla quale
quando non pervenisse il lume, l'oggetto lontano, benché luminoso, veder non si
potrebbe. Quando dunque conforme a quello che scrive il signor Liceti, il
reflesso del lume terrestre, come quello che, per suo detto, va di pari col
calore, non si estendesse oltre alla media regione dell'aria, resterebbe in
conseguenza la Terra invisibile dall'occhio posto oltre alla detta media
regione, come che quivi non arrivasse il lume, che solo è potente a fare il
corpo luminoso visibile; ed in oltre parte alcuna della Terra non verrebbe da
noi veduta la quale più di un miglio o due ci fusse remota, ché oltre a tale
altezza non si estende la grossezza della media regione dell'aria. Ma io
difficilmente potrei accomodar l'intelletto al prestar assenso a una tal
proposizione e massime mentre che il senso mi rende visibili pur piccole parti
della Terra illuminata in lontananza di più di cento miglia, avvenga che da un
luogo molto alto si scorgeranno altre montagne ed isole non meno che cento
miglia lontane; e la Corsica e talora la Sardigna ben si veggono dai colli
intorno a Pisa, e più distintamente ancora dalli scogli eminentissimi di
Pietrapana; e da i monti della Romagna ben si scorgono, oltre al sino
Adriatico, quelli della Dalmazia. E sì come noi qui di Terra vegghiamo la Luna
luminosa così tengo per modo sicuro che dalla Luna e grandissima e
luminosissima si scorgerebbe la Terra, in quella parte dai raggi solari
illustrata, ed in conseguenza che la medesima Luna da essa Terra verrebbe
illuminata.
Ma passo ad una proposizione
forse molto a proposito per il mantenimento della mia opinione, e per la quale
nel medesimo tempo si scorga, non piccola esser la differenza tra
l'illuminazione ed il riscaldamento dei raggi solari. E prima, l'illuminazione
si fa in un istante; ma il riscaldare non così, ma ci vuol tempo e non breve: e
parimente, all'incontro, si toglie via l'illuminazione in un istante: ma non si
estingue il conceputo caldo se non con tempo. Non molta si ricerca che sia la
densità della materia per potere essere egualmente illuminata come qual si
voglia densissima; onde veggiamo bene spesso tenui nugole non meno vivamente
illuninate da i raggi solari, che se fussero vastissime montagne di solidi
marmi; e bene possiamo noi chiamar piccola la densità di tali nugole in
rispetto a quella di una montagna di marmi, ancorché la medesima densità sia
molto grande in comparazione di quella dell'aria vaporosa, mentre che la
medesima nugola, se fusse interposta tra il Sole e noi, ci torrebbe la vista di
esso, cosa che non la fa l'aria vaporosa. Ma, all'incontro, quanto al concepire
il caldo, massima si trova la differenza tra le materie di diversa densità; ché
molto più si scaldano i densi metalli e le pietre, che il men denso legno o
altre materie più rare. L'illuminazione, oltre al farsi in instanti, si estende
per intervallo dirò quasi che infinito, ché ben tale si può chiamare quello
delle innumerabili piccolissime stelle fisse, le quali, essendo dalla vista
nostra libera impercettibili, pur visibili si rendono con l'aiuto del
telescopio; argumento necessario che l'illuminazione di quelle sino a Terra si
conduce, ché se ciò non fusse vero, tutti i cristalli del mondo visibile non le
renderebbono: non so poi se il caldo loro in altrettanta lontananza così
sensibile possa rendersi. Non piccola dunque è la differenza tra l'illuminare e
lo scaldare: tuttavia amendue tali impressioni non si vede che possano essere
ricevute se non in materie, come si è detto, che ritengano qualche densità: ché
le tenuissime, rarissime e diafanissime, quali si tiene che siano l'aria pura e
l'etere purissimo, veramente non si illuminano né si riscaldano, effetto che
anco dalla esperienza ci può esser dimostrato, ancorché far nulla possiamo né
nel purissimo etere né nell'aria schietta e sincera, avvengaché nella mista e
turbata da i vapori continuamente ci ritroviamo. Tuttavia in questa ancora gli
effetti dello illuminarsi e scaldarsi non si veggono esser se non debolissimi,
come chiaramente ci mostrano i raggi solari dal sopradetto grande specchio
concavo ripercossi, i quali né illuminano né scaldano l'aria compresa dal cono,
come di sopra si è dichiarato. Che poi né l'aria pura né il purissimo etere si
iiluminino, ce lo mostrano le profonde notti: imperoché, non restando di tutto
l'elemento dell'aria altro non tocco dal Sole che la piccola parte compresa
dentro al cono dell'ombra della Terra, e talvolta qualche altra minor
particella ingombrata dalle ultime parti del cono dell'ombra lunare,
sicuramente quando tutto il restante fusse illuminato, averemmo un perpetuo
crepuscolo, e non mai profonde tenebre.
Concludo per tanto, che non
si imprimendo il caldo, mercé de' raggi solari, se non in materie solide, dense
ed opache, o che almeno partecipino tanto di densità che non diano il transito
totalmente libero ai medesimi raggi solari, il caldo che noi proviamo è quello
che la Terra e gli altri corpi solidi riscaldati ci somministrano; il qual calore
può esser che non si elevi tanto sopra la Terra che possa tor via la freddezza
di quella regione vaporosa nella quale si generano le pioggie, le nevi e le
altre meteorologiche impressioni. Può dunque il calore del reflesso de' raggi
solari nella Terra non transcendere la media regione vaporosa e fredda, ma ben
l'illuminazione trapassar questa ed arrivare sino alla Luna, e per distanza
anco molte e molte volte maggiore.
Oltre che, se io devo
liberamente confessare la mia poca scienza fisica, dirò di non sapere né
intender punto come tali impressioni si faccino; e quando io mi ristringo in me
medesimo per vedere se io potessi penetrarne alcuna, mi ritrovo in una immensa
oscurità e confusione. Io non ho mai inteso, né credo di esser per intendere,
in qual maniera, doppo essere stati mesi e mesi senza pur vedersi una nuvola,
possa improvvisamente in brevissimo tempo spargersene sopra un gran tratto di
terra, e quindi precipitosamente cadervi milioni di barili di acqua; ed altra
volta comparire altre simili nugole, e poco dopo dissolversi senza diffondere
una minima stilla. Che io intenda per fisica scienza come tra le tenui e molli
nuvole si produchino suoni e strepiti così immensi quanto sono i tuoni, mentre
che il filosofo vuol che io creda, alla produzion del suono esser necessaria la
collisione de' corpi solidi e duri, absit che io ne possa restar capace.
Ma per non entrare in un pelago infinito di problemi a me insolubili, voglio
far qui fine, senza però tacere la veramente ingegnosa comparazione che lo
eruditissimo signor Liceti, dirò, con leggiadro scherzo poetico, pone tra la
Luna e la pietra lucifera di Bologna; cioè che essa Luna, immergendosi
nell'ombra della Terra, conservi per qualche tempo la tenue luce imbevuta o dal
Sole o dall'etere suo ambiente, la qual luce svanisca dopo qualche dimora
nell'ombra. Io veramente ammetterei questo pensiero, se non ni conturbasse la
diversa maniera che tengono nel recuperare la luce smarrita e la Luna e la
pietra: imperocché la Luna nello allontanarsi dal mezo del cono dell'ombra
comincia a recuperare quello smarrito lume molto prima che ella scappi fuori
dell'ombra e torni a godere di quel maggior lume dal quale ella fu ingravidata;
effetto che non così accade nella pietra, alla quale per concepire il lume non
basta l'avvicinarsi a quel maggior lume che ha da illustrarla, ma le bisogna
per assai spazio di tempo soggiacergli, e così concepire la luce, da
conservarsi poi per altro breve tempo nelle tenebre.
Circa quello che in ultimo
soggiugne, del farsi l'ombre maggiori dal Sole basso che dall'alto, non ho che
dirci altro se non che mi pare che egli altra volta negasse cotale efetto, ma
che pure, benché falso, stimava di poterne render ragione non meno che se fusse
vero, come egli con assai lunga ed accurata scrittura fece. E qui parimente si
scorge la gran fecondia delle fisiche dimostrazioni, delle quali non ne mancano
per dimostrare tanto le conclusioni vere quanto le false. Ma nel presente caso,
se le ragioni addotte son concludenti, è necessario che la conclusione sia
vera: e se è vera, perché negarla o metterla in dubbio? e se le ragioni
prodotte non son concludenti, perché produrle?
So, Serenissimo Principe,
che troppo averò tediata l'Altezza Vostra con questo mio lungo discorso; ma il
suo benigno invito, e la necessità che avevo di sincerarmi appresso il mondo e
purgarmi dalle imputazioni attribuitemi da questo famoso filosofo, mi hanno
porto libertà di fare quello che ho fatto. E se bene il signor Liceti
publicando con le stampe, ha contro di me parlato con tutto il mondo, voglio
che a me basti il portar le mie difese nel cospetto solo dell'Altezza Vostra
Serenissima, il cui assenso agguaglio a quello di tutto il mondo; benché io non
possa negare che riceverei anche per mia gran ventura se le fussero sentite o
lette da i filosofi e letterati di cotesta fioritissima Accademia, da i quali
spererei aver assenso ed applauso alle mie giustificazioni, poiché esse non
procedono contro alla peripatetica filosofia, ma contro ad alcuno di quelli i
quali la filosofia e la aristotelica autorità oltre a i limitati termini
vogliono estenderla, e con essa farsi scudo contro alle opposizioni di
qualsivoglia altro che pur razionabilmente discorra. Del guadagnarmi poi
l'assenso di tutti i filosofi di cotesta Accademia, gran caparra me ne porge
l'eccellentissimo signor Alessandro Marsilii, della cui graziosissima
conversazione ho, non molti anni sono, goduto per cinque mesi continui che mi
trovai in Siena in casa l'illustrissimo e reverendissimo Monsignore Arcivescovo
Piccolomini, dove giornalmente avemmo discorsi filosofici. Questo signore in
particolare nomino io all'Altezza Vostra Serenissima per la lunga pratica che
ho avuta con Sua Signoria eccellentissima; e come da questo mi prometto
l'assenso, così me lo prometto da ogni altro che con occhio sincero vorrà
riguardare le imputazioni fattemi e le mie difese. E qui umilmente
inchinandomeli, le bacio la veste, e le prego da Dio il colmo di ogni felicità.
Di Arcetri l'ultimo di Marzo
1640.
Dell'Altezza
Vostra Serenissima
Umilissimo e
Devotissimo Servitore
Galileo
Galilei
APPENDICE
“Roma, 22 giugno 1633.
Noi Gasparo del tit. di S.Croce in Gerusalemme Borgia;
Fra Felice Centino del tit. di S.Anastasia, detto d'Ascoli;
Guido del tit. di S.Maria del Popolo Bentivoglio;
Fra Desiderio Scaglia del tit. di S. Carlo, detto di Cremona;
Fra Ant.o Barberino. Detto di S.Onofrio;
Laudivio Zacchia del tit. di S.Pietro in Vincoli, detto di S.Sisto;
Berlingero del tit. di S. Agostino Gesso;
Fabricio del tit. di S.Lorenzo in Pane e Perna Verospio: chiamati Preti;
Francesco del tit. di S.Lorenzo in Damaso Barberino; e
Marzio di S.ta Maria Nova Ginetto: Diaconi;
per la misericordia di Dio, della S.ta Romana Chiesa Cardinali, in tutta la
Republica Cristiana contro l'eretica pravità Inquisitori generali della S.Sede
Apostolica specialmente deputati;
Essendo che tu, Galileo
fig.lo del q.m. Vinc.o Galilei, Fiorentino, dell'età tua d'anni 70, fosti
denunziato del 1615 in questo S.o Off.o, che tenevi come vera la falsa
dottrina, da alcuni insegnata, ch'il Sole sia centro del mondo e imobile, e che
la Terra si muova anco di moto diurno; ch'avevi discepoli, a' quali insegnavi
la medesima dottrina; che circa l'istessa tenevi corrispondenza con alcuni
mattematici di Germania; che tu avevi dato alle stampe alcune lettere
intitolate Delle macchie solari, nelle quali spiegavi l'istessa dottrina
come vera; che all'obbiezioni che alle volte ti venivano fatte, tolte dalla
Sacra Scrittura, rispondevi glosando detta Scrittura conforme al tuo senso; e
successivamente fu presentata copia d'una scrittura, sotto forma di lettera,
quale si diceva esser stata scritta da te ad un tale già tuo discepolo, e in
essa, seguendo la posizione del Copernico, si contengono varie proposizioni
contro il vero senso e autorità della sacra Scrittura;
Volendo per ciò questo S.cro
Tribunale provedere al disordine e al danno che di qui proveniva e andava
crescendosi con pregiudizio della S.ta Fede, d'ordine di N. S.re e
del'Eminen.mi e Rev.mi SS.ri Card.i di questa Suprema e Universale Inq.ne,
furono dalli Qualificatori Teologi qualificate le due proposizioni della
stabilità del Sole e del moto della Terra, cioè:
Che il Sole sia centro del
mondo e imobile di moto locale, è proposizione assurda e falsa in filosofia, e
formalmente eretica, per essere espressamente contraria alla Sacra Scrittura;
Che la Terra non sia centro
del mondo né imobile, ma che si muova eziandio di moto diurno, è parimente
proposizione assurda e falsa nella filosofia, e considerata in teologia ad
minus erronea in Fide.
Ma volendosi per allora
procedere teco con benignità, fu decretato dalla Sacra Congre.ne tenuta avanti
N.S. a' 25 di Febr.o 1616, che l'Emin.mo S. Card. Bellarmino ti ordinasse che
tu dovessi omninamente lasciar detta opinione falsa, e ricusando tu di ciò
fare, che dal Comissario di S. Off.io ti dovesse esser fatto precetto di
lasciar la detta dotrina, e che non potessi insegnarla ad altri, né difenderla
né trattarne, al qual precetto non acquietandoti, dovessi esser carcerato; e in
essecuzione dell'istesso decreto, il giorno seguente, nel palazzo e alla
presenza del sodetto Eminen.mo S.r Card.le Bellarmino, dopo esser stato
dall'istesso S.r Card.le benignamente avvisato e amonito, ti fu dal P.
Comissario del S. Off.o di quel tempo fatto precetto, con notaro e testimoni,
che omninamente dovessi lasciar la detta falsa opinione, e che nell'avvenire tu
non la potessi tenere né difendere né insegnar in qualsivoglia modo, né in voce
né in scritto: e avendo tu promesso d'obedire, fosti licenziato.
E acciò che si togliesse
così perniciosa dottrina, e non andasse più oltre serpendo in grave pregiudizio
della Cattolica verità, uscì decreto della Sacra Congr.ne dell'Indice, col
quale furono proibiti li libri che trattano di tal dottrina, e essa dichiarata
falsa e omninamente contraria alla Sacra e divina Scrittura.
E essendo ultimamente
comparso qua un libro, stampato in Fiorenza l'anno prossimo passato, la cui
inscrizione mostrava che tu ne fosse l'autore, dicendo il titolo Dialogo di
Galileo Galilei delli due Massimi Sistemi del mondo, Tolemaico e Copernicano;
ed informata appresso la Sacra Congre.ne che con l'impressione di detto libro
ogni giorno più prendeva piede e si disseminava la falsa opinione del moto
della terra e stabilità del Sole; fu il detto libro diligentemente considerato,
e in esso trovata espressamente la transgressione del predetto precetto che ti
fu fatto, avendo tu nel medesimo libro difesa la detta opinione già dannata e
in faccia tua per tale dichiarata, avvenga che tu in detto libro con varii
ragiri ti studii di persuadere che tu lasci come indecisa e espressamente
probabile, il che pur è errore gravissimo, non potendo in niun modo esser
probabile un'opinione dichiarata e difinita per contraria alla Scrittura
divina.
Che perciò d'ordine nostro
fosti chiamato a questo S. Off.o, nel quale col tuo giuramento, essaminato,
riconoscesti il libro come da te composto e dato alle stampe. Confessasti che,
diece o dodici anni sono incirca, dopo esserti fatto il precetto come sopra,
cominciasti a scriver detto libro; che chiedesti la facoltà di stamparlo, senza
però significare a quelli che ti diedero simile facoltà, che tu avevi precetto
di non tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo tal dottrina.
Confessasti parimente che la
scrittura di detto libro è in più luoghi distesa in tal forma, ch'il lettore
potrebbe formar concetto che gl'argomenti portati per la parte falsa fossero in
tal guisa pronunziati, che più tosto per la loro efficacia fossero potenti a
stringer che facili ad esser sciolti; scusandoti d'esser incorso in error tanto
alieno, come dicesti, dalla tua intenzione, per aver scritto in dialogo, e per
la natural compiacenza che ciascuno ha delle proprie sottigliezze e del
mostrarsi più arguto del comune de gl'uomini in trovar, anco per le
proposizioni false, ingegnosi e apparenti discorsi di probabilità.
E essendoti stato assegnato
termine conveniente a far le tue difese, producesti una fede scritta di mano
dell'emin.mo S.r Card.le Bellarmino, da te procurata, come dicesti, per difenderti
dalle calunnie de' tuoi nemici, da' quali ti veniva opposto che avessi abiurato
e fossi stato penitenziato, ma che ti era solo stata denunziata la
dichiarazione fatta da N. S.e e publicata dalla Sacra Congre.ne dell'Indice,
nella quale si contiene la dottrina del moto della terra e della stabilità del
sole sia contraria alle Sacre Scritture, e però non si possa né difendere né
tenere; e che perciò, non si facendo menzione in detta fede delle due particole
del precetto, cioè docere e quovis modo, si deve credere che nel
corso di 14 o 16 anni n'avevi perso ogni memoria, e che per questa stessa
cagione avevi taciuto il precetto quando chiedesti licenza di poter dare il
libro alle stampe, e che tutto questo dicevi non per scusar l'errore, ma perché
sia attribuito non a malizia ma a vana ambizione. Ma da detta fede, prodotta da
te in tua difesa, restasti maggiormente aggravato, mentre, dicendosi in essa
che detta opinione è contraria alla Sacra Scrittura, hai non meno ardito di
trattarne, di difenderla e persuaderla probabile; né ti suffraga la licenza da
te artifiziosamente e calidamente estorta, non avendo notificato il precetto
ch'avevi.
E parendo a noi che tu non
avessi detto intieramente la verità circa la tua intenzione, giudicassimo esser
necessario venir contro di te al rigoroso essame; nel quale senza però
pregiudizio alcuno delle cose da te confessate e contro di te dedotte come di
sopra circa la detta tua intenzione, rispondesti cattolicamente.
Pertanto, visti e
maturamente considerati i meriti di questa tua causa, con le sodette tue
confessioni e scuse e quanto di ragione si doveva vedere e considerare, siamo
venuti contro di te alla infrascritta diffinitiva sentenza.
Invocato dunque il S.mo nome
di N. S.re Gesù Cristo e della sua gloriosissima Madre sempre Vergine Maria;
per questa nostra diffinitiva sentenza, qual sedendo pro tribunali, di
consiglio e parere de' RR Maestri di Sacra Teologia e Dottori dell'una e
dell'altra legge, nostri consultori, proferimo in questi scritti nella causa e
nelle cause vertenti avanti di noi tra il M.co Carlo Sinceri, dell'una e
dell'altra legge Dottore, Procuratore fiscale di questo S.o Off.o, per una
parte, a te Galileo Galilei antedetto, reo qua presente, inquisito, processato
e confesso come sopra, dall'altra;
Diciamo, pronunziamo
sentenziamo e dichiaramo che tu, Galileo sudetto, per le cose dedotte in
processo e da te confessate come sopra, ti sei reso a questo S.o Off.o
veementemente sospetto d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto dottrina falsa e
contraria alle Sacre e divine Scritture, ch'il sole sia centro della terra e
che non si muova da oriente ad occidente, e che la terra si muova e non sia
centro del mondo, e che si possa tener e difendere per probabile un'opinione
dopo esser stata dichiarata e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura; e
conseguentemente sei incorso in tutte le censure e pene dai sacri canoni e
altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e
promulgate. Dalle quali siamo contenti sii assoluto, pur che prima, con cuor
sincero e fede non finta, avanti di noi abiuri, maledichi e detesti li sudetti
errori e eresie, e qualunque altro errore e eresia contraria alla Cattolica e
Apostolica Chiesa, nel modo e forma da noi ti sarà data.
E acciocché questo tuo grave
e pernicioso errore e transgressione non resti del tutto impunito, e sii più
cauto nell'avvenire e essempio all'altri che si astenghino da simili delitti.
Ordiniamo che per publico editto sia proibito il libro de' Dialoghi di Galileo
Galilei.
Ti condaniamo al carcere
formale in questo S.o Off.o ad arbitrio nostro; e per penitenze salutari
t'imponiamo che per tre anni a venire dichi una volta la settimana li sette
Salmi penitenziali: riservando a noi facoltà di moderare, mutare o levar in
tutto o parte, le sodette pene e penitenze.
E così diciamo, pronunziamo,
sentenziamo, dichiariamo, ordiniamo e reservamo in questo e in ogni altro
meglior modo e forma che di ragione potemo e dovemo.
Ita pronun.mus nos
Cardinales infrascripti:
F. Cardinalis de Asculo.
G. Cardinalis Bentivolus.
Fr. D. Cardinalis de
Cremona.
Fr. Ant.s Cardinalis S.
Honuphrii
B. Cardinalis Gipsius.
F. Cardinalis Verospius.
M. Cardinalis Ginettus.
Io Galileo, fig.lo del q.
Vinc.o Galileo di Fiorenza, dell'età mia d'anni 70, constituto personalmente in
giudizio, e inginocchiato avanti di voi Emin.mi e Rev.mi Cardinali, in tutta la
Republica Cristiana contro l'eretica pravità generali Inquisitori; avendo
davanti gl'occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro
che sempre ho creduto, credo adesso, e con l'aiuto di Dio crederò per
l'avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la S.a Cattolica e
Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Off.io, per aver io, dopo d'essermi
stato con precetto dall'istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi
lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e
che la terra non sia il centro del mondo e che si muova, e che non potessi
tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto,
la detta falsa dottrina, e dopo d'essermi notificato che detta dottrina è
contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale
tratto l'istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a
favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato
veementemente sospetto d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto che il sole sia
centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova;
Pertanto volendo io levar
dalla mente delle Eminenze V.re e d'ogni fedel Cristiano questa veemente
sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta
abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e
qualunque altro errore, e eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro
che per l'avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose
tali per le quali si possa aver di me simile sospizione; ma se conoscerò alcun
eretico o che sia sospetto d'eresia lo denonzierò a questo S. Offizio, o vero
all'Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.
Giuro anco e prometto
d'adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi
saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie
promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e
castighi che sono da' sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari
contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio m'aiuti e questi suoi
santi Vangeli, che tocco con le proprie mani,
Io Galileo Galilei sodetto
ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del
vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione
e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo
dì 22 giugno 1633.
Io, Galileo Galilei ho
abiurato come di sopra, mano propria.