LETTERE

 

di Galileo Galilei

 

                               INDICE

 

I              A Belisario Vinta, 7 maggio 1610

II             A Matteo Carosi, 24 maggio 1610

III            A Giuliano de’ Medici, 13 novembre 1610

IV            A Benedetto Castelli, 30 dicembre 1610

V             A Cristoforo Clavio, 30 dicembre 1610

VI            A Giuliano de’ Medici, I° gennaio 1611

VII          A Paolo Sarpi, 12 febbraio 1611

VIII         A Marco Velseri, tre lettere sulle macchie solari,

                                a) 4 maggio 1612

                                b) 14 agosto 1612

                                c) I° dicembre 1612

IX           A Maffeo Barberini, 2 giugno 1612

X             A Paolo Gualdo, 16 giugno 1612

XI           A Benedetto Castelli, 21 dicembre 1613

XII          A Piero Dini, 16 febbraio 1615

XIII         A Piero Dini, 23 marzo 1615

XIV         A madama Cristina di Lorena, (1615)

XV          A Elia Diodati, 16 agosto 1631

XVI         Ad Andrea Cioli, 6 ottobre 1632

XVII       A Francesco Barberini, 13 ottobre 1632

XVIII      A Cesare Marsili, 16 ottobre 1632

XIX        Ad Andrea Cioli, 19 febbraio 1633

XX          A Geri Bocchineri, 23 aprile 1633

XXI        Ad Andrea Cioli, 23 luglio 1633

XXII       A Elia Diodati, 7 marzo 1634

XXIII      A Elia Diodati, 25 luglio 1634

XXIV      A Fortunio Liceti, 15 settembre 1640

XXV       Sopra il candore della luna

 

APPENDICE

 

Sentenza

Abiura

 



 

I

 

A BELISARIO VINTA IN FIRENZE

 

(Padova, 7 maggio 1610)

 

Ill.mo Sig.re et Padre Col.mo

 

Come per la mia passata accennai a V. S. Ill.ma, ho fatte 3 lezioni publiche in materia de i 4 Pianeti Medicei e delle altre mie osservazioni; e avendo auta l’udienza di tutto lo Studio, ho fatto restare in modo ciascheduno capace e satisfatto, che finalmente quei primarii medesimi che erano stati acerbissimi impugnatori e contrarii assertori alle cose da me scritte, vedendosela finalmente disperata e persa a fatto, costretti o da virtù o da necessità, hanno coram populo detto, sé non solamente esser persuasi, ma apparecchiati a difendere e sostener la mia dottrina contro a qualunque filosofo che ardisse impugnarla: sì che le scritture minacciate saranno assolutamente svanite, come è svanito tutto il concetto che questi tali avevano sin qui procurato di suscitarmi contro, con speranza forse di esser per sostenerlo, credendo che io, atterrito dalla loro autorità o sbigottito dal profluvio de i lor creduli seguaci, fussi per ritirarmi in un cantone e ammutirmi. Ma il negozio è passato tutto al rovescio; e ben conveniva che la verità restasse di sopra.

Saprà a presso V. S. Ill.ma, e per lei loro Ser.me Al.ze, come dal Matematico dell’Imperatore ho ricevuta una lettera, anzi un intero trattato di 8 fogli, scritto in approbazione di tutte le particole contenute nel mio libro, senza pur contradire o dubitare in una sola minima cosa. E creda pur V. S. Ill.ma che l’istesso averiano anco parimente detto da principio i literati d’Italia, s’io fussi stato in Alemagna o più lontano; in quella guisa a punto che possiamo credere, che gl’altri principi circumvicini d’Italia con occhio un poco più torbido rimirino la eminenza e potere del nostro Ser.mo Signore, che gl’immensi tesori e forze del Mosco o del Chinese, per tanto intervallo remoti. Ora il negozio è qua in stato tale, che l’invidia ora mai non ha più attacco di abbassarlo, col convincerlo di falsità, né pur anco col metterlo in dubbio. Resta a noi, ma principalmente a i nostri Ser.mi Padroni, di sostenerlo con reputazione e grandezza, col mostrare di farne quella stima che a così segnalata novità si conviene, essendo ella in effetto stimata per tale da tutti quelli che ne parlano con sincero animo.

L’Ill.mo S. Ambasciator Medici mi scrive di Praga, non essere in quella Corte occhiali se non di assai mediocre efficacia, e per ciò me ne domanda uno, accennandomi essere desiderato anco da S. M.à; e mi scrive che io lo deva far consegnare in Venezia al Secretario del S. Residente, acciò lo mandi sicuro. Io però intendo che detto Secretario non riceverà o manderà cosa alcuna senza l’ordine di V. S. Ill.ma; però, contentandosi S.A. che io ne mandi per tal via sarà V. S. Ill.ma servita di dar ordine in Venezia che siano ricevuti e mandati. Intanto, non me ne ritrovando di esquisiti, vedrò di condurne a fine un paro o dui, se bene a me è grandissima fatica, né io vorrei essere necessitato a mostrare ad altri il modo vero del lavorargli, se non a qualche servitore del G.D., come per altra gli ho scritto. Però, e per altri rispetti ancora e principalissimamente per quietarmi di animo, desidero grandemente la resoluzione dell’altro negozio, statomi più volte accennato, ma particolarmente da V. S. Ill.ma ultimamente in Pisa: perché sono in tutti i modi resoluto, vedendo che ogni giorno passa un giorno, di mettere il chiodo allo stato futuro della vita che mi avanza, e attendere con ogni mio potere a condurre a fine i frutti delle fatiche di tutti i miei studii passati, da i quali posso sperarne qualche gloria. E dovendo trapassare quelli anni che mi restano o qui o in Firenze, secondo che piacerà al nostro Ser.mo Signore, io dirò a V. S. Ill.ma quello che ho qui, e quello che desidererei costà, rimettendomi però sempre al comandamento di S.A.S.

Qui ho di stipendio fermo fiorini 1000 l’anno in vita mia, e questi sicurissimi, venendomi da un principe immortale e immutabile. Più di altrettanto posso guadagnarmi da lezioni private, tuttavolta che io voglia leggere a signori oltramontani; e quando io fussi inclinato a gl’avanzi, tutto questo e più ancora potrei mettere da canto ogn’anno col tenere gentil’uomini scolari in casa, col soldo de i quali potrei largamente mantenerla. In oltre, l’obligo mio non mi tien legato più di 60 mez’ore dell’anno, e questo tempo non così strettamente, che per qualunque mio impedimento io non possa, senza alcun pregiudizio, interpor anco molti giorni vacui: il resto del tempo sono liberissimo, e assolutamente mei iuris. Ma perché e le lezioni private e gli scolari domestici mi sariano d’impedimento e ritardanza a i miei studi, voglio da questi totalmente, e in gran parte da quelle, vivere esente; però, quando io dovessi ripatriarmi, desidereri che la prima intenzione di S.A.S. fusse di darmi ozio e comodità di potere tirare a fine le mie opere, senza occuparmi in leggere.

Né vorrei che per ciò credesse S.A. che le mie fatiche fussero per esser men profittevoli agli studiosi della professione, anzi assolutamente sariano più; perché nelle publiche lezioni non si può leggere altro che i primi elementi, per il che molti sono idonei; e tal lettura è solo di impedimento e di niuno aiuto al condurre a fine le opere mie, le quali tra le cose della professione credo che non terranno l’ultimo luogo. Per simile rispetto, sì come io reputerei sempre a mia somma gloria il poter leggere a i Principi, così all’incontro non vorrei aver necessità di leggere ad altri. E in somma vorrei che i libri miei, indrizzati sempre al Ser.mo nome del mio Signore, fussero quelli che guadagnassero il pane; non restando intanto di conferire a S.A. tante e tali invenzioni, che forse niun altro principe ne ha di maggiori, delle quali io non solo ne ho molte in effetto, ma posso assicurarmi di esser per trovarne molte ancora alla giornata, secondo le occasioni che si presentassero: oltre che di quelle invenzioni che dependono da la mia professione, potria esser S.A. sicura di non esser per impiegare in alcuna di esse i suoi danari inutilmente, come per avventura altra volta è stato fatto e in grossissime somme, né anco per lasciarsi uscir delle mani qualunque trovato propostogli da altri, che veramente fusse utile e bello.

Io de i secreti particolari, tanto di utile quanto di curiosità e admirazione, ne ho tanta copia, che la sola troppa abbondanza mi nuoce e mi ha sempre nociuto; perché se io ne avessi auto un solo, l’averei stimato molto, e con quello facendomi innanzi, potrei a presso qualche principe grande avere incontrata quella ventura, che sin ora non ho né incontrata né ricercata. “Magna longeque admirabilia apud me habeo”: ma non possono servire, o, per dir meglio, essere messe in opera, se non da principi, perché loro fanno e sostengono guerre, fabricano e difendono fortezze, e per loro regii diporti fanno superbissime spese, e non io o gentil’uomini privati. Le opere che ho da condurre a fine sono principalmente 2 libri “De sistemate seu constitutione universi”, concetto immenso e pieno di Filosofia, astronomia e geometria: tre libri “De motu locali”, scienza interamente nuova, non avendo alcun altro, né antico né moderno, scoperto alcuno de i moltissimi sintomi ammirandi che io dimostro essere ne i movimenti naturali e ne i violenti, onde io la posso ragionevolissimamente chiamare scienza nuova e ritrovata da me sin da i suoi primi principi: tre libri delle mecaniche, due attenenti alle demostrazioni de i principii e fondamenti, e uno de i problemi; e benché altri abbino scritto questa medesima materia, tutta via quello che ne è stato scritto sin qui, né in quantità né in altro è il quarto di quello che ne scrivo io. Ho anco diversi opuscoli di soggetti naturali, come “De sono et voce, De visu et coloribus, De maris estu, De compositione continui, De animalium motibus”, e altri ancora. Ho anco in pensiero di scrivere alcuni libri attenenti al soldato, formandolo non solamente in idea, ma insegnando con regole molto esquisite tutto quello che si appartiene di sapere e che depende dalle matematiche, come la cognizione delle castrametazioni, ordinanze, fortificazioni, espugnazioni, levar piante, misurar con la vista, cognizioni attenenti alle artiglierie, usi di varii strumenti, etc. Mi abbisogna di più ristampare l’Uso del mio Compasso Geometrico, dedicato a S. A., non se ne trovando più copie; il quale strumento è stato talmente abbracciato dal mondo, che veramente adesso non si fanno altri strumenti di questo genere, e io so che sin ora ne sono stati fabbricati alcune migliaia. Io non dirò a V. S. Ill.ma quale occupazione mi sia per apportare il seguir di osservare e investigare i periodi esquisiti de i quattro nuovi pianeti; materia, quanto più vi penso, tanto più laboriosa, per il si disseparar mai, se non per brevi intervalli l’uno dall’altro, e per esser loro e di colore e di grandezza molto simili.

Sì che, Ill.mo S., bisogna che i’ pensi al disoccuparmi da quelle occupazioni che possono ritardare i miei studi, e massime da quelle che altri può fare in cambio mio; però la prego a proporre a loro Alt.e, e a sé medesima, queste considerazioni, e avvisarmi poi la loro resoluzione.

Intanto non voglio restar di dirgli, come circa lo stipendio mi contenterò di quello che lei mi accennò in Pisa, essendo onorato per un servitore di tanto principe; e sì come io non soggiungo niente sopra la quantità, così son sicuro che, dovendo io levarmi di qua, la benignità di S. A. non mi mancherebbe di alcuna di quelle comodità che si sono usate con altri, bisognosi anco meno di me, e però non ne parlo adesso. Finalmente, quanto al titolo e pretesto del mio servizio, io desidererei, oltre al nome di Matematico, che S. A. ci aggiungesse quello di Filosofo, professando io di avere studiato più anni in filosofia, che mesi in matematica pura: nella quale qual profitto io abbia fatto, e se io possa e deva meritar questo titolo potrò far vedere a loro Alt.e, qual volta sia di loro piacimento il concedermi campo di poterne trattare alla presenza loro con i più stimati in tal facoltà.

Ho scritto lungamente per non aver più a ritornare sopra tal materia con suo nuovo tedio: mi scusi V. S. Ill.ma, perché, se bene questo a lei, che è consueta a maneggiar negozii gravissimi parerà frivolissimo e leggiero, a me però è egli il più grave che io possa incontrare, concernendo o la mutazione o la confirmazion di tutto lo stato e l’esser mio. Aspetterò sua risposta; e in tanto supplicandola ad inchinarsi umilmente in mio nome a loro Ser.e, bacio a V. S. Ill.ma con ogni reverenza le mani, e dal Signore Dio gli prego somma felicità

 

Di Pad.a, li 7 di maggio 1610.

 

Di V. S. Ill.rna                                                                                      Ser.re Oblig.mo

                                                                                                Galileo Galilei


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II

 

A MATTEO CAROSI IN PARIGI

 

(Padova, 24 maggio 1610)

 

Ill.re Sig.re

 

Mando a V. S. l’Avviso astronomico domandatomi da lei, acciò possa con suo comodo vederlo. Quello che mi scrive in proposito di quello che dicono i mattematici di costì, mi viene scritto da altre bande ancora, e fu similmente pensiero d’altri qui circunvicini, ai quali, col fargli io vedere lo strumento e i Pianeti Medicei, ne è rimossa ogni dubitazione. Il simile potrei fare ancora con i remoti, se potessi abboccarmi con loro. Ben è vero che le loro ragioni di dubitare sono molto frivole e puerili, potendosi persuadere che io sia tanto insensato, che con lo sperimentare centomila volte in centomila stelle e altri oggetti il mio strumento, non abbia potuto o saputo conoscere quegl’inganni che essi, senza averlo mai veduto, stimano avervi conosciuto; o pure che io sia così stolido, che senza necessità alcuna abbia voluto mettere la mia reputazione in compromesso e burlare il mio Principe. L’occhiale è arciveridico, e i pianeti Medicei sono pianeti, e saranno sempre, come gli altri: hanno i loro moti velocissimi intorno a Giove, sì che il più tardo fa il suo cerchio in 15 giorni incirca. Ho seguitato di osservargli, e séguito ancora, se bene oramai per la vicinanza dei raggi del sole cominceranno a non si poter veder più per qualche mese.

Questi che parlano, doveriano (per farci il giuoco del pari) mettersi come ho fatto io, cioè scrivere, e non commettere le parole al vento. Qua ancora si aspettavano 25 che mi volevano scrivere contro; ma finalmente sin ora non si è veduto altro che una scrittura del Keplero, Mattematico Cesareo, in confirmazione di tutto quello che ho scritto io, senza pur repugnare a un iota: la quale scrittura si ristampa ora in Venezia, e in breve V. S. la vedrà sicome ancora vedrà le mie osservazioni molto più ampliate e con le soluzioni di mille instanze, benché frivolissime; ma tuttavia bisogna rimuoverle, giacché il mondo e tanto abbondante di poveretti. Non sarò più lungo con V. S.; mi conservi la sua grazia e mi comandi.

 

Di Pad.a, li 24 di Maggio 1610

Di V. S.                                                                  Ser.re Aff.mo

                                                                                                              Galileo Galilei

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III

 

A GIULIANO DE' MEDICI IN PRAGA

 

(Firenze, 13 novembre 1610)

 

Ma passando ad altro, già che il S. Keplero ha in questa ultima Narrazione stampate le lettere che io mandai a V. S. Ill.ma trasposte, venendomi anco significato come S. M.à ne desidera il senso, ecco che io lo mando a V. S. Ill.ma, per participarlo con S. M.à, col S. Keplero, e con chi piacerà a V Ill.ma, bramando io che lo sappi ogn'uno. Le lettere dunque, combinate nel loro vero senso, dicono così:

 

“Altissimum planetam tergeminum observavi”.

 

Questo è, che Saturno, con mia grandissima ammirazione; ho osservato essere non una stella sola, ma tre insieme, le quali quasi si toccano; sono tra di loro totalmente immobili, e costituite in questa guisa oOo; quella di mezzo è assai più grande delle laterali; sono situate una da oriente e l'altra da occidente, nella medesima linea retta a capello; non sono giustamente secondo la dirittura del zodiaco, ma la occidentale si eleva alquanto verso borea; forse sono parallele all'equinoziale. Se si riguarderanno con un occhiale che non sia di grandissima multiplicazione, non appariranno 3 stelle ben distinte, ma parrà che Saturno sia una stella lunghetta in forma di una uliva, così (_); ma servendosi di un occhiale che multiplichi più di mille volte in superficie, si vedranno li 3 globi distintissimi, e che quasi si toccano, non apparendo tra essi maggior divisione di un sottil filo oscuro. Or ecco trovata la corte a Giove, e due servi a questo vecchio, che l'aiutano a camminare né mai se gli staccano dál fianco. Intorno a gl'altri pianeti non ci è novità alcuna. Etc.

 

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IV

 

A BENEDETTO CASTELLI IN BRESCIA

 

(Firenze, 30 dicembre 1610)

 

Al molto R.do P. e mio Sig.re Col.mo

Il P. D. Benedetto Castelli, Monaco Casinense.

                                                                               Brescia, S. Faustino.

 

Molto R.do P.re,

 

Alla gratissima di V. S. molto R. delli 5 di Xmbre darò breve risposta, ritrovandomi ancora aggravato da una mia indisposizione, la quale per molti giorni m’ha tenuto al letto.

Ho con grandissimo gusto sentito il suo pensiero di venir a stanziare in Firenze, il quale mi rinova la speranza di poterla ancora godere e servire qualche tempo: mantengasi in questo proposito, e sia certa che mi averà sempre prontissimo ad ogni suo comodo, benché la felicità del suo ingegno non la fa bisognosa dell’opera mia né di altri. Quanto alle sue dimande, posso in parte satisfarla; il che fo volentierissimo.

Sappia dunque che io, circa tre mesi fa, cominciai a osservar Venere con lo strumento, e la vidi di figura rotonda, e assai piccola; andò di giorno in giorno crescendo in mole, e mantenendo pur la medesima rotondità, sin che finalmente, venendo in assai gran lontananza dal sole, cominciò a sciemar dalla rotondità dalla parte orientale, e in pochi giorni si ridusse al mezo cerchio. In tale figura si è mantenuta molti giorni, ma però crescendo tuttavia in mole: ora comincia a farsi falcata, e sin che si vederà vespertina, anderà assotigliando le sue cornicelle, sin che svanirà: ma ritornando poi matutina, sio vedrà con le corna sottilissime e pure averse al sole, e anderà crescendo verso il mezo cerchio sino alla sua massima digressione. Manterassi poi semicircolare per alquanti giorni, diminuendo però in mole; e poi dal mezo cerchio passerà al tutto tondo in pochi giorni, e quindi per molti mesi si vedrà, e Lucifero e Vesperugo, tutta tonda, ma piccoletta di mole. Le evidentissime conseguenze che di qui si traggono, sono a V.R.a notissime.

Quanto a Marte, non ardirei di affermare niente di certo; ma osservandolo da quattro mesi in qua, parmi che in questi ultimi giorni, sendo in mole a pena il terzo di quello che era il Settembre passato, si mostri da oriente alquanto scemo, se già l’affetto non m’inganna, il che non credo. Pure meglio si vedrà al principio di Febraio venturo, intorno al suo quadrato; se bene, per l’apparire egli così piccolo, difficilmente si distingue la sua figura, se sia perfetta rotonda o se manchi alcuna cosa. Ma Venere la veggo così spedita e terminata quanto l’istessa luna, mostrandomela l’occhiale di diametro uguale al semidiametro di essa luna veduta con l’occhio naturale.

O quante e quali conseguenze ho io dedutte, D. Benedetto mio, da queste e da altre mie osservazioni! “Sed quid inde?” Mi ha quasi V. R.a fatto ridere, col dire che con queste apparenti osservazioni si potranno convincere gl’ostinati. Adunque non sapete, che a convincere i capaci di ragione, e desiderosi di saper il vero, erano a bastanza le altre demostrazioni, per l’addietro addotte, ma che a convincere gl’ostinati, e non curanti altro che un vano applauso dello stupidissimo e stolidissimo volgo, non basterebbe il testimonio delle medesime stelle, che sciese in terra parlassero di sé stesse? Procuriamo pure di sapere qualche cosa per noi, quietandosi in questa sola sodisazione; ma dell’avanzarsi dell’opinione popolare, o del guadagnarsi l’assenso dei filosofi “in libris”, lasciamone il desiderio e la speranza.

Che dirà V. R.a. di Saturno, che non è una stella sola, ma tre congionte insieme e immobili tra di loro, poste in linea parallela all’equinoziale, così o O o? La media è maggiore delle laterali tre o quattro volte; tale io l’ho osservato da Luglio in qua, ma ora in mole sono diminuite assai.

Orsù, venga a Firenze, che ci goderemo e averemo mille cose nove e ammirande da discorrere. E io in tanto, restandogli servitore, gli bacio le mani e gli prego da Dio felicità. Renda i saluti duplicati al P.D. Serafino e alli Sig.ri Lana e Albano.

 

Di Firenze, li 30 di Xmbre 1610.

                Di V. S. molto R.                                                  Ser.re Aff.mo

                                                                                                              Galileo Galilei

 


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V

 

A CRISTOFORO CLAVIO IN ROMA

(Firenze, 30 dicembre 1610)

 

Molto Rev.do P.re e mio Sig.r Col.mo

 

La lettera di V.R. mi è stata tanto più grata, quanto più desiderata e meno aspettata; e avendomi ella trovato assai indisposto e quasi fermo a letto, mi ha in gran parte sollevato dal male, portandomi il guadagno di un tanto testimonio alla verità delle mie nuove osservazioni: il quale, prodotto, ha guadagnato alcuno degl’increduli; ma però i più ostinati persistono, e reputano la lettera di V.R. o finta o scrittami a compiacenza, e in somma aspettano che io trovi modo di far venire almeno uno dei quattro Pianeti Medicei di cielo in terra a dar conto dell’esser loro e a chiarir questi dubbii; altramente, non bisogna che io speri il loro assenso. Io credevo, a quest’ora dovere essere a Roma, avendo non piccolo bisogno di venirvi; ma il male mi ha trattenuto: tuttavia spero in breve di venirvi, dove con strumento eccellente vedremo il tutto. In tanto non voglio celare a V.R. quello che ho osservato di Venere da 3 mesi in qua.

Sappia dunque, come nel principio della sua apparizione vespertina la cominciai ad osservare e la veddi di figura rotonda, ma piccolissima; continuando poi le osservazioni, venne crescendo in mole notabilmente, e pur mantenendosi circolare, sin che, avvicinandosi alla maxima digressione, cominciò a diminuir dalla rotondità nella parte aversa al sole, e in pochi giorni si ridusse alla figura semicircolare; nella qual figura si è mantenuta un pezzo, ciò è sino che ha cominciato a ritirarsi verso il sole, allontanandosi pian piano dalla tangente: ora comincia a farsi notabilmente cornicolata, e così anderà assottigliandosi sin che si vedrà vespertina, e a suo tempo la vedremo mattutina, con le sue cornicelle sottilissime e averse al sole, le quali intorno alla massima digressione faranno mezzo cerchio, il quale manterranno inalterato per molti giorni. Passerà poi Venere dal mezzo cerchio al tutto tondo prestissimo, e poi per molti mesi la vedremo così interamente circolare, ma piccolina, sì che il suo diametro non sarà la 6a parte di quello che apparisce adesso. Io ho modo di vederla così netta, così schietta e così terminata, come veggiamo l’istessa luna con l’occhio naturale; e la veggo adesso adesso di diametro eguale al semidiametro della luna veduta con la vista semplice. Ora, eccoci, Signor mio, chiariti come Venere (e indubitamente farà l'istesso Mercurio) va intorno al sole, centro senza alcun dubbio delle massime rivoluzioni di tutti i pianeti; in oltre siamo certi che essi pianeti sono per sé tenebrosi e solo risplendono illustrati dal sole, il che non credo che occorra delle stelle fisse, per alcune mie osservazioni, e come questo sistema de i pianeti sta sicuramente in altra maniera di quello che si è comunemente tenuto, così nel determinare la grandezza delle stelle (trattone il sole e la luna) si sono presi errori nella maggior parte de i pianeti e in tutte le fisse, di 3, 4 e 5 mila per cento, e più ancora.

Quanto a Saturno, non mi meraviglio che non l’abbino potuto distintamente osservare; prima perché ci bisogna strumento che multiplichi le superficie almanco 1000 volte; di più, Satutno adesso è tanto lontano dalla terra, che non si vede se non piccolissimo; tuttavia l'ho fatto vedere qui a molti dei loro fratelli così distintamente, che non vi hanno alcuna dubitanza; e si vede giusto così oOo. Cinque mesi sono, si vedeva assai maggiore: da quel tempo è diminuito molto, né però si è mutata pure un capello la costituzione delle sue 3 stelle, le quali per quanto io stimo, sono esattamente parallele non al zodiaco ma all'equinoziale. [...]

Ora, per rispondere interamente alla sua lettera, restami di dirgli come ho fatto alcuni vetri assai grandi, benché non ne ricuopra gran parte, e questo per due ragioni: l'una, per potergli lavorar più giusti, essendo che una superficie spaziosa si mantiene meglio nella debita figura, che una piccola; l'altra è, che volendo veder più grande in un'occhiata, si può scoprire il vetro: ma bisogna presso all'occhio mettere un vetro meno acuto e scorciare il cannone, altramente si vedrebbono gli oggetti assai annebbiati. Che poi tale strumento sia incomodo ad usarsi, un poco di pratica leva ogni incomodità; e io gli mostrerò come lo uso facilissimamente e con minor fatica assai che altri non fa nell'astrolabio, quadrante, armille, o altro astronomico strumento.

Averò soverchiamente tediata S.R.: scusi il diletto che ho nel trattar seco, e continui di conservarmi la sua grazia, di che la supplico con ogni istanza, come anco che ella mi procacci quella dell'altro Padre Cristoforo, suo discepolo, da me stimatissimo per le relazioni che ho del suo gran valore nelle matematiche. E per fine dell'uno et all'altro con ogni reverenza bacio le mani, e dal Signore Dio prego felicità.

 

Di Firenze, li 30 Dicembre 1610.

                Di V. S. M. R.da                                   Servitore Devotissimo

                                                                                                              Galileo Galilei


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VI

 

A GIULIANO DE' MEDICI IN PRAGA

 

(Firenze, I° gennaio 1611)

 

Ill.mo et Rever.mo Sig.re mio Col.mo

 

È tempo che io deciferi a V. S. Ill.ma e R.ma, e per lei al S. Keplero, le lettere trasposte, le quali alcune settimane sono gli inviai: è tempo, dico, già che sono interissimamente chiaro della verità del fatto, sì che non ci resta un minimo scrupolo o dubbio.

Sapranno dunque come, circa 3 mesi fa, vedendosi Venere vespertina, la cominciai ad osservare diligentemente con l'occhiale, per veder col senso stesso quello di che non dubitava l'intelletto. La veddi dunque, sul principio, di figura rotonda, pulita e terminata, ma molto piccola: di tal figura si mantenne sino che cominciò ad avvicinarsi alla sua massima digressione, tutta via andò crescendo in mole. Cominciò poi a mancare dalla rotondità nella sua parte orientale e aversa al sole, e in pochi giorni si ridusse ad essere un mezo cerchio perfettissimo; e tale si mantenne, senza punto alterarsi, sin che cominciò a ritirarsi verso il sole, allontanandosi dalla tangente. Ora va calando dal mezo cerchio e si mostra cornicolata, e anderà assottigliandosi sino all'occultazione, riducendosi allora con corna sottilissime; quindi passando ad apparizione mattutina, la vedremo pur falcata e sottilissima, e con le corna averse al sole; anderà poi crescendo sino alla massima digressione, dove sarà semicircolare, e tale, senza alterarsi, si manterrà molti giorni; e poi dal mezo cerchio passerà presto al tutto tondo, e così rotonda si conserverà poi per molti mesi. Ma è il suo diametro adesso circa cinque volte maggiore di quello che si mostrava nella sua prima apparizione vespertina: dalla quale mirabile esperienza aviamo sensata e certa dimostrazione di due gran questioni, state sin qui dubbie tra' maggiori ingegni del mondo. L'una è, che i pianeti tutti sono di lor natura tenebrosi (accadendo anco a Mercurio l'istesso che a Venere): l'altra, che Venere necessariissimamente si volge intorno al sole, come anco Mercurio e tutti li altri pianeti, cosa ben creduta da i Pittagorici, Copernico, Keplero e me, ma non sensatamente provata, come ora in Venere e in Mercurio. Averanno sunque il Signor Keplero e gli altri Copernicani da gloriarsi di avere creduto e filosofato bene, se bene ci è toccato, e ci è per toccare ancora, ad esser reputati dall'universalità de i filosofi “in libris” per poco intendenti e poco meno che stolti. Le parole dunque che mandai trasposte, e che dicevano “Haec immatura a me iam frustra leguntur o y”, ordinate “Cynthiae figuras aemulatur mater amorum” ciò è che Venere imita le figure della luna.

Osservai 3 notti sono l'eclisse, nella quale non vi è cosa notabile: solo si vede il taglio dell'ombra indistinto, confuso e come annebiato, e questo per derivare essa ombra da la terra, lontanissimamente da essa Luna.

Voleva scrivere altri particolari; ma sendo stato trattenuto molto da alcuni gentiluomini, e essendo l'ora tardissima, son forzato a finire. Favoriscami salutare in mio nome i signori Keplero, Asdalee Segheti; e a V. S. Ill.ma con ogni reverenza bacio le mani, e dal S. Dio gli prego felicità.

 

Di Firenze, il primo di Gennaio, anno 1611

                Di V. S. Ill.ma et. Rev.ma                                  Servitore Devotissimo

                                                                                                              Galileo Galilei

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VII

 

A PAOLO SARPI (IN VENEZIA)

(Firenze, 12 febbraio I611)

 

Molto Rev. Padre e io Signore Colendissimo,

 

È tempo che io rompa uno assai lungo silenzio; sebbene ove ha taciuto la lingua e quietato la mano, ha però continuamente parlato il pensiero, ricordevole in tutti i momenti della virtù e dei meriti di Vostra Sign. Molto Rev., siccome degli obblighi infiniti che gli tengo. Io non inarrerò perdono di questa mia apparente negligenza verso i debiti che ho seco, come quello che son sicuro che ella non dubiti che in qualunque occorrenza concernente al suo o mio bisogno avrei avuta la penna non meno pronta dell'animo e dell'effetto ad ogni debito dell'antica amicizia e della osservanza che ho alla sua persona. Ora, stimando io che ella, per l'affezione verso di me, sia per volentieri intendere dello stato mio, sì quanto al corpo come quanto alla fortuna e quanto alla mente, vengo non meno volentieri a darle di ciascheduno di questi particolari contezza.

E prima, quanto al primo, non posso veramente dirle cosa né di suo né di mio gusto, provando, per il disuso di tanti anni questa sottilissima aria iemale crudissima inimica alla mia testa ed a tutto il resto del corpo; sì che le doglie per le mie freddure, il profluvio del sangue, con una grandissima languidezza di stomaco, mi tengono da tre mesi in qua debole, disgustatissimo e melanconico, quasi continuamente in casa, anzi in letto, ma però senza sonno e quiete. Solamente li giorni passati, che mi trattenni, mentre la Corte era a Pisa, per lo spazio di tre settimane coll'Illustrissimo Signor Filippo Salviati, gentiluomo di grandissimo spirito, in una sua villa in questi poggi, stetti assai bene, e conobbi immediate la bontà di quell'aria, e in conseguenza la malignità di questa della città; sì che mi converrà far pensiero di farmi abitator dei monti, se no de' sepolcri: ed in questa occasione, ritornato il Serenissimo Gran Duca ed inteso il mio stato, mi ha per sua benignità fatto offerta dell'abitazione di qual mi piacesse delle sue ville qui circumvicine, di aria perfetta. Ma non solo in questo, anzi in ogni altro particolare concernente al mio comodo, provo la benignità di questo signor inclinatissima a favorirmi: onde non devo della fortuna querelarmi, come dell'abito del corpo.

Quanto alle occupazioni della mente, non mi è mancato che fare, a difendermi con la lingua e con la penna da infiniti contradittori e oppositori contro alle mie osservazioni; sebbene non me la sono né anco presa con quell'ardore che pareva a molti che contro all'ardire degli opponenti fusse bisognato, essendoché ero certo che il tempo averebbe chiarite tutte le partite, siccome in gran parte è sin qui succeduto. Poiché i matematici di maggior grido di diversi paesi, e di Roma in particolare, dopo essersi risi, ed in scrittura ed in voce, per lungo tempo e in tutte le occasioni e in tutti i luoghi, delle cose da me scritte, ed in particolare intorno alla luna ed ai Pianeti Medicei, finalmente, forzati dalla verità, mi hanno spontaneamente scritto, confessando ed ammettendo il tutto: talché al presente non provo altri contrari che i Peripatetici, più parziali di Aristotele che egli medesimo non sarebbe, e sopra gli altri quelli di Padova, sopra i quali io veramente non spero vittoria. Queste occupazioni non mi hanno però interamente rimosso dalle inquisizioni celesti, sì che io non abbia potuto investigare qualche altra cosa di nuovo: di che devo far parte a V. S. molto R., e per lei a quei miei Signori e Padroni che ella sa che sono per sentirla volentieri.

Parmi ricordare che sino l'Agosto passato io conferissi seco l'osservazione di Saturno: il quale non è altramente una sola stella, come gli altri pianeti, ma sono tre, congiunte insieme in linea retta parallela all'equinoziale; e stanno così oOo, cioè la media circa quattro volte maggiore delle laterali, le quali sono tra di loro eguali. Non hanno, in sette mesi che le ho osservate, fatta mutazione alcuna; onde assolutamente sono tra di loro immobili, perché (giacché sono così vicine che pare che si tocchino) ogni moto che avessero, benché minimo, si saria fatto sensibile. Perché, per mio avviso, il diametro delle due minori non arriva a quattro secondi: sicché, o si sariano totalmente congiunte con la media, o evidentemente separate, quando il lor moto fusse anco dieci volte più tardo di quello delle stelle fisse; tuttavia, come ho detto, in sette mesi non hanno fatto mutazione alcuna, se non di mostrarsi più piccole tutte tre per la maggiore lontananza dalla terra, ora che sono alla congiunzione, che quando erano all'opposizion del sole: la qual differenza è sensibilissima.

Stimando pure esser verissimo che tutti i pianeti si volghino intorno al sole come centro dei loro orbi, e più credendo che siano tutti per sé tenebrosi ed opachi come la terra e la luna, mi posi quattro mesi sono, a osservar Venere, la quale, essendo vespertina, mi si mostrò perfettamente rotonda, ma assai piccola; e di tal figura si mantenne molti giorni, crescendo però notabilmente in mole. Avvicinandosi poi alla medesima digressione, cominciò a sciemare dalla rotondità nella parte verso oriente, ed in pochi giorni si ridusse ad esser semicircolare; e di tal figura si mantenne circa un mese, senza vedersi altra mutazione che di mole, la quale notabilmente si accresceva. Finalmente nel ritirarsi verso il sole cominciò ad incavarsi dove era retta, ed a farsi pian piano corniculata: ed ora è ridotta in una sottilissima falce, simile alla luna quattriduana. La mole però della sua sfera è fatta tanto grande, che dalla sua prima apparizione, quando la veddi rotonda, a che si mostrò mezza ed a quello che si vede adesso, ci è la differenza che mostrano le tre presenti figure o D )). Sciemerà ancora sino alla occultazione, ed a mezzo quest'altro mese la vederemo orientale, sottilissima; e seguitando di lontanarsi dal sole, crescendo di lume e sciemando di mole, nello spazio di tre mesi incirca si ridurrà a mezzo cerchio, e tale, senza conoscervi sensibile mutamento, si manterrà circa un mese; poi, seguitando sempre di sciemare in mole, si farà in pochi giorni interamente rotonda, della qual figura si mostrerà per più di dieci mesi continui, trattone quei tre mesi incirca che starà invisibile sotto i raggi del sole.

Or eccoci fatti certi che Venere si volge intorno al sole, e non sotto (come credette Tolommeo), dove mai non si mostrerebbe se non minore di mezzo cerchio; né meno sopra (come piacque ad Aristotele), perché se fusse superiore al sole, non si vedrebbe mai falcata, ma sempre più di mezza assaissimo, e quasi sempre perfettamente rotonda. E l'istesse mutazioni son sicuro che vedremo fare a Mercurio. Perché poi tali diversità di forme e di grandezze in Venere siano impercettibili con la vista naturale, so io benissimo per le sue cagioni non occulte all'ingegno di Vost. Riverenza: tra le quali la piccolezza e la gran lontananza di essa Venere, in comparazion della luna, ne è la principale, siccome anco l'esperienza ci mostra; perché rivoltando il cannone sì che rappresenti li oggetti piccoli e lontanissimi, la medesima luna, quando è corniculata di tre giorni e non più, ci apparisce rotonda e radiante, similissima a Venere veduta con la vista naturale. Siamo in oltre da queste medesime apparizioni di Venere fatti certi come i pianeti tutti ricevono il lume dal sole, essendo per lor natura tenebrosi. Ma io di più sono, per dimostrazione necessaria, sicurissimo che le stelle fisse sono per sé medesime lucidissime, né hanno bisogno dell'irradazione del sole; la quale Dio sa se arriva in tanta lontananza.

Ho finalmente investigato il modo di poter sapere le vere grandezze dei pianeti tutti: nell'assegnar delle quali, trattone il sole e la luna, si sono ingannati quelli che ne hanno trattato, in tutti gli altri pianeti grandissimamente, ed in taluno di loro di più di seimila per cento.

Quanto ai Pianeti Medicei, vo continuando di osservargli; ed avendo migliorato lo strumento, gli scorgo più apparenti assai che le stelle della seconda grandezza: di che ne è certo argomento il vedergli adesso poco dopo il tramontar del sole, ed un pezzo avanti che si scorghino i Gemelli o il Cingolo di Orione. E spero di aver trovato il modo da poter determinare i periodi di tutti quattro; cosa stimata per impossibile dal Keplero e da altri matematici.

Io speravo di esser per venir costà questa quadragesima, per ristampar queste mie osservazioni: ma mi sono tanto multipliplicate per le mani, che mi sarà forza indugiare a fatto Pasqua. Intanto non voglio mancar di dire a V. S. molto R. e all'Illustris. Sign. Sebastiano Veniero, che caso che gl'Illustriss. Signori Riformatori non abbino fin qui fatto provisione di Matematico per Padova, voglino proccurar di trattenergli; perché spero di esser per metter loro per le mani persona di grande stima ed atta a poter difendere la dignità ed eccellenza di così nobil professione contro a quelli che cercano di esterminarla, li quali in Padova non mancano, come benissimo sanno. E so che tali proccureranno che sia condotto qualche soggetto da poterlo dominare e spaventare, acciocché se mai si scuopre qualche cosa vera e di garbo, ella resti dalla loro tirannide soffogata Ma mi giova sperare nella prudenza di tanti che intendono in cotesto Senato, che non seguirà elezione se non ottima.

Ora io l'ho impedita assai: perdoni al diletto che ho di parlar con lei; e volendo favorirmi di sue lettere, potrà mandarmele come questa, sotto quelle dell'Illustriss. Signor Veniero. Restami a pregarla di farmi grazia di ricordarmi servitore devotissimo a tanti Illustriss. miei Signori, dei quali vivo, come sempre fui devotissimo servitore; e con ogni affetto gli bacio le mani.

 

 

Di Firenze, li 12 di Febbraio 1611

Di V. S. molto R.                                                 Servitore Devotissimo

 

Galileo Galilei.


 

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VIIIa

 

PRIMA LETTERA DEL SIG. GALILEO GALILEI

AL SIG. MARCO VELSERI I CIRCA LE MACCHIE SOLARI

 

 

 

 

(Villa delle Selve, 4 maggio 1612)

Illustrissimo Sig. e Padron Colendissimo,

 

 

Alla cortese lettera di V. S. Illustrissima, scrittami tre mesi fa, rendo tarda risposta, essendo stato quasi necessitato a usare tanto silenzio da varii accidenti, ed in particolare da una lunga indisposizione, o, per meglio dire, da lunghe e molte indisposizioni, le quali, vietandomi tutti gli altri esercizii ed occupazioni, mi toglievano principalmente di potere scrivere, sì come anco in gran parte me lo levano al presente, pure non tanto rigidamente, che io non possa almeno rispondere ad alcuna delle lettere de gli amici e padroni, delle quali mi ritrovo non picciol numero, che tutte aspettano risposta. Ho anco taciuto su la speranza di potere dar qualche satisfazione alla domanda di V. S. intorno alle macchie solari, sopra il quale argomento ella mi ha mandato quei brevi discorsi del finto Apelle; ma la difficoltà della materia e 'l non avere io potuto far molte osservazioni continuate mi hanno tenuto e tengono ancora sospeso ed irresoluto: ed a me conviene andare tanto più cauto e circospetto, nel pronunziare novità alcuna, che a molti altri, quanto che le cose osservate di nuovo e lontane da i comuni e popolari pareri, le quali, come ben sa V. S., sono state tumultuosamente negate ed impugnate, mi mettono in necessità di dovere ascondere e tacere qual si voglia nuovo concetto, sin che io non ne abbia dimostrazione più che certa e palpabile; perché da gl'inimici delle novità, il numero de i quali è infinito, ogni errore, ancor che veniale, mi sarebbe ascritto a fallo capitalissimo, già che è invalso l'uso che meglio sia errar con l'universale, che esser singolare nel rettamente discorrere. Aggiugnesi che io mi contento più presto di esser l'ultimo a produrre qualche concetto vero, che prevenir gli altri per dover poi disdirmi nelle cose con maggior fretta e con minor considerazione profferite. Questi rispetti mi hanno reso lento in risponder alle domande di V. S. Illustrissima, e tuttavia mi fanno timido in produrre altro che qualche proposizion negativa, parendomi di saper più tosto quello che le macchie solari non sono, che quello che elleno veramente siano, ed essendomi molto più difficile il trovar il vero, che 'l convincere il falso. Ma per satisfare almeno in parte al desiderio di V. S., anderò considerando quelle cose che mi paiono degne di esser avvertite nelle tre lettere del finto Apelle, già che ella così comanda, e che in quelle si contiene ciò che sin qui è stato immaginato per definire circa l'essenza il luogo ed il movimento di esse macchie.

E prima, che esse siano cose reali, e non semplici apparenze o illusioni dell'occhio o de i cristalli, non ha dubbio alcuno, come ben dimostra l'amico di V. S. nella prima lettera; ed io le ho osservate da 18 mesi in qua, avendole fatte vedere a diversi miei intrinseci, e pur l'anno passato, appunto in questi tempi, le feci osservare in Roma a molti prelati ed altri signori. È vero ancora, che non restano fisse nel corpo solare, ma appariscono muoversi in relazion di esso, ed anco di movimenti regolati, come il medesimo autore ha notato nella medesima lettera. È ben vero che a me pare che il moto sia verso le parti contrarie a quelle che l'Apelle asserisce, cioè da occidente verso oriente, declinando dal mezzogiorno in settentrione, e non da oriente verso occidente e da borea verso mezzogiorno; il che anco nell'osservazioni descritte da lui medesimo, le quali in questo confrontano con le mie e con quante io ne ho vedute di altri, assai chiaramente si scorge: dove si veggon le macchie osservate nel tramontar del Sole mutarsi di sera in sera, descendendo dalle parti superiori del Sole verso le inferiori; e quelle della mattina ascendendo dalle inferiori verso le superiori, scoprendosi nel primo apparire nelle parti più australi del corpo solare, ed occultandosi o separandosi da quello nelle parti più boreali, descrivendo in somma nella faccia del Sole linee per quel verso appunto che fariano Venere o Mercurio, quando nel passar sotto 'l Sole s'interponessero tra quello e l'occhio nostro. Il movimento, dunque, delle macchie rispetto al Sole appar simile a quello di Venere e di Mercurio e de gli altri pianeti ancora intorno al medesimo Sole, il qual moto è da ponente a levante, e per l'obliquità dell'orizonte ci sembra declinare da mezzogiorno in settentrione. Se Apelle non supponesse che le macchie girassero intorno al Sole, ma che solamente gli passassero sotto, è vero che il moto loro doveria chiamarsi da levante a ponente; ma supponendo che quelle gli descrivino intorno cerchii, e che ora gli siano superiori ora inferiori, tali revoluzioni devono chiamarsi fatte da occidente verso oriente, perché per tal verso si muovono quando sono nella parte superiore de i loro cerchi.

Stabilito che ha l'autore, che le macchie vedute non sono illusioni dell'occhiale o difetti dell'occhio, cerca di determinare in universale qualche cosa circa il luogo loro, mostrando che non sono né in aria né nel corpo solare. Quanto al primo, la mancanza di parallasse notabile mostra di concluder necessariamente, le macchie non esser nell'aria, cioè vicine alla Terra, dentro a quello spazio che comunemente si assegna all'elemento dell'aria. Ma che le non possin esser nel corpo solare, non mi par con intera necessità dimostrato; perché il dire, come egli mette nella prima ragione, non esser credibile che nel corpo solare siano macchie oscure, essendo egli lucidissimo, non conclude: perché in tanto doviamo noi dargli titolo di purissimo e lucidissimo, in quanto non sono in lui state vedute tenebre o impurità alcuna; ma quando ci si mostrasse in parte impuro e macchiato, perché non doveremmo noi chiamarlo e macolato e non puro? I nomi e gli attributi si devono accomodare all'essenza delle cose, e non l'essenza a i nomi; perché prima furon le cose, e poi i nomi. La seconda ragione concluderebbe necessariamente, quando tali macchie fussero permanenti ed immutabili; ma di questa parlerò più di sotto.

Quello che in questo luogo vien detto da Apelle, cioè che le macchie apparenti nel Sole siano molto più negre di quelle che mai si siano vedute nella Luna, credo che assolutamente sia falso; anzi stimo che le macchie vedute nel Sole siano non solamente meno oscure delle macchie tenebrose che nella Luna si scorgono, ma che le siano non meno lucide delle più luminose parti della Luna, quand'anche il Sole più direttamente l'illustra: e la ragione che a ciò creder m'induce, è tale. Venere nel suo esorto vespertino, ancor che ella sia di così gran splendor ripiena, non si scorge se non poi che è per molti gradi lontana dal Sole, e massime se amndue saranno elevati dall'orizonte; e ciò avviene per esser le parti dell'etere, circonfuse intorno al Sole, non meno risplendenti dell'istessa Venere: dal che si può arguire, che se noi potessimo por la Luna accanto al Sole, splendida dell'istessa luce che ella ha nel plenilunio, ella veramente resterebbe invisibile, come quella che verria collocata in un campo non meno splendente e chiaro della sua propria faccia. Ora pongasi mente, quando col telescopio, cioè con l'occhiale, rimiriamo il lucidissimo disco solare, quanto e quanto egli ci appar più splendido del campo che lo circonda; ed, in oltre, paragoniamo la negrezza delle macchie solari sì con la luce dell'istesso Sole come con l'oscurità dell'ambiente contiguo: e troveremo, per l'uno e per l'altro paragone, non esser le macchie del Sole più oscure del campo circonfuso. Se dunque l'oscurità delle macchie solari non è maggior di quella del campo che circonda il medesimo Sole, e se, di più, lo splendor ella Luna resterebbe impercettibile nella chiarezza del medesimo ambiente, adunque per necessaria consequenza si conclude, le macchie solari non esser punto men chiare delle parti più splendide della Luna, ben che, situate nel fulgidissimo campo del disco solare, ci si mostrino tenebrose e nere: e se esse non cedono di chiarezza alle più luminose parti della Luna, quali saranno elleno in comparazione delle più oscure macchie di essa Luna? e massime se noi volessimo intender delle macchie tenebrose cagionate dalle proiezzioni dell'ombre delle montuosità lunari, le quali in comparazione delle parti illuminate non sono manco nere che l'inchiostro rispetto a questa carta. E questo voglio che sia detto non tanto per contradire ad Apelle, quanto per mostrare come non è necessario por la materia di esse macchie molto opaca e densa, quale si deve ragionevolmente stimare che sia quella della Luna e de gli altri pianeti; ma una densità ed opacità simile a quella di una nugola è bastante, nell'interporsi tra 'l Sole e noi, a far una tale oscurità e negrezza.

Quanto poi a quello che l'Apelle in questo luogo accenna e che più diffusamente tratta nella seconda epistola, cioè di poter con quella strada venir in certezza se Venere e Mercurio faccino le loro revoluzioni sotto o pur intorno al Sole, io mi sono alquanto maravigliato che non gli sia pervenuto all'orecchie, o, se pur gli è pervenuto, che ei non abbia fatto capitale del mezzo esquisitissimo, sensato e che frequentemente potrà usarsi, scoperto da me quasi due anni sono, e communicato a tanti che ormai è fatto notorio: e questo è, che Venere va mutando le figure nell'istesso modo che la Luna, ed in questi tempi potrà Apelle osservarla col telescopio, e la vedrà di figura perfetta circolare e molto piccola, se bene assai minore si vedeva nel suo esorto vespertino; potrà poi seguitare di osservarla, e la vedrà, intorno alla sua massima digressione, in figura di mezzo cerchio; dalla qual figura ella passerà alla forma falcata, assottigliandosi pian piano secondo che ella si anderà avvicinando al Sole; intorno alla cui congiunzione si vedrà così sottile come la Luna di due o tre giorni; la grandezza del suo visibil cerchio sarà in guisa accresciuta, che ben si conoscerà l'apparente suo diametro nell'esorto vespertino esser meno che la sesta parte di quello che si mostrerà nell'occultazione vespertina o esorto mattutino, ed in consequenza il suo disco apparir quasi 40 volte maggiore in questa positura che in quella: le quali cose non lascieranno luogo ad alcuno di dubitare qual sia la revoluzione di Venere, ma con assoluta necessità conchiuderanno, conforme alle posizioni de i Pitagorici e del Copernico, il suo rivolgimento esser intorno al Sole, intorno al quale come centro delle lor revoluzioni, si raggirano tutti gli altri pianeti. Non occorre, dunque, aspettar congiunzioni corporali per accertarsi di così manifesta conclusione, né produr razioni soggette a qualche risposta, ben che debole, per guadagnarsi l'assenso di quelli la cui filosofia viene stranamente perturbata da questa nuova costituzion dell'universo; perché loro, quand'altro non gli stringesse, diranno che Venere o risplenda per sé stessa, o sia di sustanza penetrabile da i raggi solari, sì che ella venga illustrata non solamente secondo la superficie, ma secondo tutta la profondità ancora; e tanto più animosamente potranno farsi scudo di questa risposta, quanto non sono mancati filosofi e matematici che hanno creduto così (e questo sia detto con pace d'Apelle che scrive altramente), ed al Copernico medesimo convien amettere come possibile, anzi pur come necessaria, una delle dette posizioni, non avendo egli potuto render ragione in qual guisa Venere, quando è sotto 'l Sole, non si mostri cornicolata: e veramente altro non poteva dirsi avanti che il telescopio venisse a farci vedere come ella è veramente per sé stessa tenebrosa come la Luna, e che come quella va mutando figure. Ma io, oltre a ciò, posso muover gran dubbio nell'inquisizione d'Apelle, mentre egli, nella congiunzione presa da lui, cerca di veder Venere nel disco del Sole, supponendo che veder vi si dovrebbe in guisa d'una macchia assai maggiore d'alcuna delle vedute, essendo il suo visibil diametro minuti tre, ed in consequenza la sua superficie più di una delle centotrenta parti di quella del Sole: ma ciò, con sua pace, non è vero, ed il visibil diametro di Venere non era allora né anco la sesta parte di un minuto, e la sua superficie era minore di una delle quarantamila parti della superficie del Sole, sì come io so per sensata esperienza ed a suo tempo farò manifesto ad ogn'uno. Vegga dunque V. S. gran campo che si lascerebbe a coloro che volessero pur con Tolomeo ritener Venere sotto il Sole, i quali potrebbon dire che in vano si cercasse di veder un sì picciol neo nell'immensa e lucidissima faccia di quello. E finalmente aggiungo, che tale esperienza non convincerà necessariamente quelli che negassero la revoluzione di Venere intorno al Sole, perché potrebbon sempre ritirarsi a dire che ella fosse superior al Sole, fortificandosi appresso con l'autorità di Aristotele che tale la stimò. Non basta, dunque, che Apelle mostri che Venere nelle corporali congiunzioni mattutine non passa sotto 'l Sole, se egli non mostrasse ancora come nelle congiunzioni vespertine ella gli passasse sotto: ma tali congiunzioni vespertine, che siano però corporali, si fanno rarissime volte, ed a noi non succederà il poterne vedere: adunque l'argomento d'Apelle è manchevole per concluder il suo intento.

Vengo ora alla terza lettera, nella quale Apelle più risolutamente determina del luogo, del movimento e della sustanza di queste macchie, concludendo che siano stelle, le quali, poco lontane dal corpo solare, intorno se gli vadino volgendo alla guisa di Mercurio e di Venere.

Per determinar del luogo comincia a dimostrar, quelle non esser nell'istesso corpo del Sole, il quale col rivolgersi in sé stesso ce le rappresenti mobili; perché, passando il veduto emisfero in giorni quindici, doveriano ogni mese ritornar l'istesse, il che non succede.

L'argomento sarebbe concludente, tuttavolta che prima constasse che tali macchie fussero permanenti, cioè che non si producessero di nuovo, ed anco si cancellassero e svanissero; ma chi dirà che altre si fanno ed altre si disfanno, potrà anco sostenere che il Sole, rivolgendosi in sé stesso, le porti seco senza necessità di rimostrarci mai le medesime, o nel medesimo ordine disposte, o delle medesime forme figurate. Ora, il provar che elle sian permanenti, l'ho per cosa difficile, anzi impossibile ed a cui il senso repugni; ed il medesimo Apelle ne averà vedute alcune mostrarsi, nel primo apparir, lontane dalla circonferenza del Sole, ed altre svanire e perdersi prima che finischino di traversare il Sole, perché io ancora di tali ne ho osservate molte. Non però affermo o nego che le siano nel Sole, ma solamente dico non esser a sufficienza stato dimostrato che le non vi siino.

Nel resto poi, che l'autore soggiugne per dimostrare che le non sono in aria o in alcun de gli orbi inferiori al Sole, mi par di scorgervi qualche confusione, ed in un certo modo incostanza, ripigliand'ei, pur come vero, l'antico e comune sistema di Tolomeo, della cui falsità ei medesimo poco avanti ha mostrato di essersi accorto, mentre che ha concluso che Venere non ha altramente la sua sfera inferiore al Sole, ma che intorno a quello si raggira, essendo ora di sopra ed ora di sotto, ed affermato l'istesso di Mercurio, le cui digressioni, essendo assai minori di quelle di Venere, necessitano a porlo più propinquo al Sole; tuttavia in questo luogo, quasi rifiutando quella che egli ha poco fa creduta, e che in effetto è, verissima costituzione, introduce la falsa, facendo alla Luna succeder Mercurio, ed a lui Venere. Volsi scusar questo poco di contradizione con dir che egli non avesse fatto stima di nominar, dopo la Luna, prima Mercurio che Venere, o questa che quello, come che poco importasse il registrargli preposteramente in parole, pur che in fatto si ritenessero nella vera disposizione: ma il vedergli poi provar per via della parallasse che le macchie solari non sono nella sfera di Mercurio, e soggiugner che tal mezzo non sarebbe per avventura efficace in Venere per la piccolezza della parallasse simile a quella del Sole, rende nulla la mia scusa, perché Venere averà delle parallassi maggiori assai che quelle di Mercurio e del Sole.

Parmi per tanto di scorgere che Apelle, come d'ingegno libero e non servile, e capacissimo delle vere dottrine, cominci, mosso dalla forza di tante novità, a dar orecchio ed assenso alla vera e buona filosofia, e massime in questa parte che concerne alla costituzione dell'universo, ma che non possa ancora staccarsi totalmente dalle già impresse fantasie, alle quali torna pur talora l'intelletto abituato dal lungo uso a prestar l'assenso: il che si scorge altresì, pur in questo medesimo luogo, mentre egli cerca di dimostrare che le macchie non sono in alcun de gli orbi della Luna di Venere o di Mercurio, dove ei va ritenendo come veri e reali e realmente tra loro distinti e mobili quelli eccentrici totalmente o in parte, quei deferenti, equanti, epicicli etc., posti da i puri astronomi per facilitar i lor calcoli, ma non già da ritenersi per tali da gli astronomi filosofi, li quali, oltre alla cura del salvar in qualunque modo l'apparenze, cercano d'investigare, come problema massimo ed ammirando, la vera costituzione dell'universo, poi che tal costituzione è, ed è in un modo solo, vero, reale ed impossibile ad esser altramente, e per la sua grandezza e nobiltà degno d'esser anteposto ad ogn'altra scibil questione da gl'ingegni specolativi. Io non nego già i movimenti circolari intorno alla Terra e sopra altro centro che quello di lei, né tanpoco gli altri moti circolari separati totalmente dalla Terra, cioé che non la circondano e riserrano dentro i cerchi loro; perché Marte, Giove e Saturno, con i loro appressamenti e discostamenti, mi accertano di quelli, e Venere e Mercurio e più i quattro pianeti Medicei; mi fanno toccar con mano questi, e per consequenza son sicurissimo che ci sono moti circolari che descrivono cerchi eccentrici ed epicicli: ma che per descriverli tali la natura si serva realmente di quella faragine di sfere ed orbi figurati da gli astronomi, ciò reputo io così poco necessario a credersi, quanto accomodato all'agevolezza de' computi astronomici; e sono d'un parer medio tra quegli astronomi li quali ammettono non solo i movimenti eccentrici delle stelle, ma gli orbi e le sfere ancora eccentriche, le quali le conduchino, e quei filosofi che parimente negano e gli orbi e i movimenti ancora intorno ad altro centro che quello della Terra. Però, mentre si tratta d'investigar il luogo delle macchie solari, avrei desiderato che Apelle non l'avesse scacciate da un luogo reale che si trova tra gli immensi spazii ne i quali si raggirano i piccioli corpicelli della Luna di Venere e di Mercurio, scacciate, dico, in virtù d'una immaginaria supposizione, che tali spazii sieno interamente occupati da orbi eccentrici epicicli e deferenti, disposti, anzi necessitati, a portar con loro ogn'altro corpo che in essi venisse situato, sì ch'ei non potesse per se stesso vagare verso niun'altra banda, se non dove con troppo dura catena il ciel ambiente gli rapisse: e tanto meno vorrei questo, quanto io veggo il medesimo Apelle a canto a canto conceder questo stesso che prima avea negato. Avea detto che le macchie non possono essere in alcuno de gli orbi della Luna di Venere o di Mercurio, perché se in quelli fossero, seguiterebbono il movimento loro: suppone, dunque, che elleno movimento alcuno proprio aver non vi potessero: concludendo poi che le siano nell'orbe del Sole, ammette che le vi si muovino con revoluzioni proprie; sì che le siano potenti a vagar per la solare sfera: ma se mi sarà conceduto che le possino muoversi per il cielo del Sole, non doverà essermi negato che le possino similmente discorrer per quel di Venere; e se mi vien conceduto il muoversi un poco ed il non ubbidire interamente al rapimento della sfera continente, io non averò per inconveniente il muoversi molto e 'l non ubbidir punto.

Io non voglio passar un altro poco di scrupolo che mi nasce sopra questo medesimo luogo, nel chiuder che fa Apelle la sua ultima illazione: dove par ch'ei determini che le macchie siano finalmente nel ciel del Sole (ed è ben necessario il porvele, poi che, per suo parere, le si raggirano intorno ad esso, ed in cerchi molto angusti); soggiugne poi, quelle non poter essere nell'eccentrico del Sole, né negli eccentrici “secundum quid”, né in altro orbe, e altro ve ne fosse. Or qui non posso intendere, in qual modo e possino essere nel cielo del Sole ed intorno al corpo solare aggirarsi, senza esser in alcun de gli orbi de' quali la sfera del Sole vien composta.

Li tre argomenti che Apelle pone appresso per necessariamente convincenti, le macchie muoversi circolarmente intorno al Sole, par che abbino ben assai del probabile; non però mancano di qualche ragione di dubitare. Quanto al primo, lo scemar la larghezza delle macchie vicino al lembo del Sole darebbe segno che le fussero stelle, che girandosi in cerchi poco più ampli del corpo solare, cominciassero a mostrar la parte illustrata alla guisa della Luna o di Venere, onde la parte tenebrosa venisse a diminuirsi. Se non che ad alcuni che diligentemente hanno osservato, pare che la diminuzione delle tenebre si faccia al contrario di quello che bisognerebbe, cioè non nella parte che risguarda verso il centro del Sole, ma nell'aversa; ed a me non appare altro, se non che le si assottigliano. Quanto al secondo, il dividersi quella, che vicino alla circonferenza pareva una macchia sola, in molte, ha questa difficoltà, che anco nella parti di mezzo si scorgono grandissime mutazioni d'accrescimento, di diminuzione, di accoppiamento e di separazione tra esse macchie; ed io porrò appresso alcune mutazioni osservate da me. La differenza poi che si scorge tra la velocità del moto loro circa le parti medie e la tardità nell'estreme, presa per il terzo argomento, essendo, come pare, molto notabile, parrebbe che arguisse più presto, quelle dover esser nell'istesso corpo solare e muoversi al movimento di quello in sé stesso, che il raggirarsegli intorno in altri cerchi, perché simil differenza di velocità resterebbe quasi impercettibile al semplice senso, ogni volta che tali cerchi per qualche notabile spazio, ben che non molto grande, si allargassero dalla superficie del Sole, come nella medesima figura posta da Apelle si comprende. E qui par che nasca in lui un poco di contradizzione a sé stesso: perché in questo luogo è necessario porre i cerchi delle conversioni delle macchie vicinissimi al globo solare; altramente l'accrescimento della velocità del moto, e la separazione ed allontanamento delle macchie verso il mezzo del disco, le quali presso alla circonferenza mostravano di toccarsi, resterebbono nulli: all'incontro, dall'argomento col quale ei poco di sopra provò le macchie non esser contigue al Sole, bisogna che necessariamente ei concludesse, i detti cerchi esser dal medesimo assai lontani; poi che solamente la quinta parte al più della lor circonferenza poteva restar interposta tra 'l disco solare e l'occhio nostro, già che, traversando le macchie l'emisfero veduto in 15 giorni, non erano ancora ritornate a comparire in due mesi. Bisogna, dunque, diligentemente osservare con qual proporzione vada crescendo, e poi diminuendo, la detta velocità dal primo apparir di qualche macchia all'ultimo ascondersi; perché da tal proporzione si potrà poi arguire, se il movimento suo è fatto nella superficie stessa del corpo solare, o pure in qualche cerchio da quella separato, posto però che tal mutazione di macchie dependa da semplice movimento circolare.

Restaci da considerar quello che Apelle determina circa l'essenza e sustanza di esse macchie: ch'è in somma, che le non siano né nugole né comete, ma stelle che vadino raggirandosi intorno al Sole. Circa a cotal determinazione, io confesso a V. S. non aver sin ora tanto di resoluto appresso di me, ch'io m'assicuri di stabilire ed affermare conclusione alcuna come certa; essendo molto ben sicuro, la sustanza delle macchie poter essere mille cose incognite ed inopinabili a noi, e gli accidenti che in esse scorgiamo, cioè la figura l'opacità ed il movimento, per esser comunissimi, o niuna o poca e molto general cognizione ci possono somministrare: onde io non crederei che di biasimo alcuno fosse degno quel filosofo, il qual confessasse di non sapere, e di non poter sapere, qual sia la materia delle macchie solari. Ma se noi vorremo, con una certa analogia alle materie nostre familiari e conosciute, proferir qualche cosa di quello che le sembrino di poter essere, io sarei veramente di parere in tutto contrario all'Apelle; perché ad esse non mi par che si adatti condizione alcuna dell'essenziali che competono alle stelle, ed all'incontro non trovo in quelle condizione alcuna, che di simili non si vegghino nelle nostre nugole. Il che troveremo discorrendo in tal guisa.

Le macchie solari si producono e si dissolvono in termini più e men brevi; si condensano alcune di loro e si distraggono grandemente da un giorno all'altro; si mutano di figure, delle quali le più sono irregolarissime, e dove più e dove meno oscure, ed essendo o nel corpo solare o molto a quello vicine, è necessario che siano moli vastissime; sono potenti, per la loro difforme opacità, a impedir più e meno l'illuminazion del Sole; e se ne producono talora molte, tal volta poche, ed anco nessuna. Ora, moli vastissime ed immense, che in tempi brevi si produchino e si dissolvino, e che talora durino più lungo tempo e tal ora meno che si distragghino e si condensino, che facilmente vadino mutandosi di figura, che siano in queste parti più dense ed opache ed in quelle meno, altre non si trovano appresso di noi fuori che le nugole; anzi, che tutte l'altre materie sono lontanissime dalla somma di tali condizioni. E non è dubbio alcuno, che se la Terra fosse per sé stessa lucida, e che di fuori non li sopragiugnesse l'illuminazione del Sole, a chi potesse da grandissima lontananza risguardarla, ella veramente farebbe simili apparenze: perché, secondo che or questa ed or quella provincia fosse dalle nuvole ingombrata, si mostrerebbe sparsa di macchie oscure, dalle quali, secondo la maggior o minor densità delle lor parti, verrebbe più o meno impedito lo splendor terrestre; onde esse dove più e dove meno oscure apparirebbono; vedrebbonsene or molte; or poche, ora allargarsi, ora ristringersi; e se la Terra in sé stessa si rivolgesse, quelle ancora il suo moto seguirebbono; e per esser di non molta profondità rispetto all'ampiezza secondo la quale comunemente elle si distendono, quelle che nel mezzo dell'emisfero veduto apparirebbono molto larghe, venendo verso l'estremítà parrebbono ristringersi; ed in somma accidente alcuno non credo che si scorgesse, che simile non si vegga nelle macchie solari. Ma perché la Terra è oscura, e l'illuminazione viene dal lume esterno del Sole, se ora potesse da lontanissimo luogo esser veduta, non si vedrebbe assolutamente in lei negrezza o macchia alcuna cagionata dallo spargimento delle nugole, perché queste ancora riceverebbono e refletterebbono il lume del Sole. [...]

Da queste osservazioni e da altre fatte, e da quelle che potranno di giorno in giorno farsi, manifestamente si raccoglie, niuna materia esser tra le nostre, che imiti più gli accidenti di tali macchie, che le nugole: e le ragioni che Apelle adduce per mostrar che le non possin esser tali, mi paiono di pochissima efficacia. Perché al dir egli: “Chi porrebbe mai nubi intorno al Sole?”, risponderei: “Quello che vedesse tali macchie, e che volesse dir qualche verisimile della loro essenza; perché non troverà cosa alcuna da noi conosciuta che più le rassimigli.” All'interrogazione ch'ei fa, quant'esse fussero grandi, direi: “Quali noi le veggiamo essere in comparazione del Sole; grandi quanto quelle che talvolta occupano una gran provincia della Terra”; e se tanto non bastasse, direi due, tre, quattro e dieci volte tanto. E finalmente, al terzo impossibile ch'ei produce, come esse potessero far tant'ombra, risponderei, la lor negrezza esser minore di quella che ci rappresenterebbono le nostre nugole più dense, quando tra l'occhio nostro ed il Sole fossero interposte: il che si potrà osservare benissimo, quando tal volta una delle più oscure nugole ricuopre una parte del Sole, e che nella parte scoperta vi sia alcuna delle macchie, perché si scorgerà tra la negrezza di questa e di quella non piccola differenza, ancor che l'estremità della nugola, che traversa il Sole, non possa esser di gran profondità; perloché possiamo arguire che una crassissima nugola potrebbe far una negrezza molto maggiore di quella delle più scure macchie. Ma quando pur ciò non fosse, chi ci vieterebbe il credere e dire, alcuna delle nubi solari esser più densa e profonda delle terrene?

Io non per questo affermo, tali macchie esser nugole della medesima sustanza delle nostre, costituite da vapori aquei sollevati dalla Terra ed attratti dal Sole; ma solo dico che noi non aviamo cognizione di cosa alcuna che più le rassimigli: siano poi o vapori, o esalazioni, o nugole, o fumi prodotti dal corpo solare, o da quello attratti da altre bande, questo a me è incerto, potendo esser mille altre cose impercettibili da noi.

Dalle cose dette si può raccòrre, come a queste macchie mal convenga il nome di stelle: poi che le stelle, o siano fisse o siano erranti, mostrano di mantener sempre la loro figura, e questa essere sferica; non si vede che altre si dissolvino ed altre di nuovo si produchino, ma sempre si conservano le medesime; ed hanno i movimenti loro periodici, li quali dopo alcun determinato tempo ritornano: ma queste macchie non si vede che ritornino le medesime, anzi all'incontro alcune si veggono dissolvere in faccia del Sole; e credo che in vano si aspetti il ritorno di quelle che par ad Apelle che possino rivolgersi intorno al Sole in cerchi molto angusti. Mancano, dunque, delle principali condizioni che competono a quei corpi naturali a i quali noi abbiamo attribuito il nome di stelle. Che poi le si debbino chiamare stelle perché son corpi opachi, e più densi della sostanza del cielo, e però che resistino al Sole, e da quello grandemente venghino illustrate in quella parte ch'è percossa da i raggi, e dall'opposta produchino ombra molto profonda etc., queste son condizioni che competono ad ogni sasso, al legno, alle nugole più dense, ed in somma a tutti i corpi opachi: ed una palla di marmo resiste per la sua opacità al lume del Sole, da quello viene illustrata, come la Luna o Venere, e dalla parte opposta produce ombra, tal che per questi rispetti potrebbe nominarsi una stella; ma perché gli mancano l'altre condizioni più essenziali, delle quali sono altresì spogliate le macchie solari, però par che il nome di stella non deva esserli attribuito.

Io non vorrei già, che Apelle annumerasse in questa schiera come egli fa, i compagni di Giove (credo che voglia intender de' quattro pianeti Medicei); perché loro si mostrano costantissimi come ogn'altra stella, sempre lucidi, eccetto che quando incorrono nell'ombra di Giove, perché allora s'eclissano, come la Luna in quella della Terra; hanno i lor periodi ordinatissimi e tra di loro differenti, e già da me precisamente ritrovati; né si muovono in un cerchio solo, come Apelle mostra o d'aver creduto o almeno pensato che altri abbino creduto, ma hanno i lor cerchi distinti e di grandezze diverse, intorno a Giove come lor centro, le quali grandezze ho parimente ritrovate; come anco mi son note le cause del quando e perché or l'uno or l'altro di loro declina o verso borea o verso austro in relazione a Giove, e forse potrei aver le risposte all'obiezzioni che Apelle accenna cadere in questa materia, quando ei l'avesse specificate. Ma che tali pianeti siano più de i quattro sin qui osservati, come Apelle dice di tener per certo, forse potrebbe esser vero; e l'affermativa così resoluta di persona, per quel ch'io stimo, molto intendente, mi fa creder ch'ei ne possa aver qualche gran coniettura, della quale io veramente manco: e però non ardirei d'affermare cosa alcuna, perché dubiterei di non m'aver poi col tempo a disdire. E per questo medesimo rispetto non mi risolverei a porre intorno a Saturno altro che quello che già osservai e scopersi, cioè due piccole stelle, che lo toccano una verso levante e l'altra verso ponente, nelle quali non s'è mai per ancora veduta mutazione alcuna, né resolutamente è per vedersi per l'avvenire, se non forse qualche stravagantissimo accidente, lontano non pur da gli altri movimenti cogniti a noi, ma da ogni nostra immaginazione. Ma quella che pone Apelle, del mostrarsi Saturno ora oblongo ed or accompagnato con due stelle a i fianchi, creda pur V. S. ch'è stata imperfezzione dello strumento o dell'occhio del riguardante; perché, sendo la figura di Saturno così oOo, come mostrano alle perfette viste i perfetti strumenti, dove manchi tal perfezzione apparisce così O non si distinguendo perfettamente la separazione e figura delle tre stelle. Ma io, che mille volte in diversi tempi con eccellente strumento l'ho riguardato, posso assicurarla che in esso non si è scorta mutazione alcuna: e la ragione stessa, fondata sopra l'esperienze che aviamo di tutti gli altri movimenti delle stelle, ci può render certi che parimente non vi sia per essere; perché, quando in tali stelle fosse movimento alcuno simile a i movimenti delle Medicee o di altre stelle, già doveriano essersi separate o totalmente congiunte con la principale stella di Saturno, quando anche il movimento loro fosse mille volte più tardo di qualsivoglia altro di altra stella che vadia vagando per lo cielo.

A quello che da Apelle vien posto per ultima conclusione cioè che tali macchie siano più presto stelle erranti che fisse, e che tra il Sole e Mercurio e Venere ce ne siano assaissime, delle quali quelle sole ci si manifestino che s'interpongono tra il Sole e noi; dico, quanto alla prima parte, che non credo che le siano né erranti né fisse né stelle, né meno che si muovino intorno al Sole in cerchi separati e lontani da quello: e se ad un amico padrone dovessi dir in confidenza l'opinion mia, direi che le macchie solari si producessero e dissolvessero intorno alla superficie del Sole, e che a quella fossero contigue, e che il medesimo Sole, rivolgendosi in sé stesso in un mese lunare in circa, le portasse seco, e forse riconducendone tal volta alcuna di loro di più lunga durazione che non è il tempo d'una sua conversione, ma tanto mutate di figura e di accompagnature, che non possiamo agevolmente riconoscerle: e per quanto sin ora s'estende la mia coniettura, ho grande speranza che V. S. abbia a vedere questo negozio terminato in questo che gli ho accennato. Che poi possa essere qualche altro pianeta tra il Sole e Mercurio, il quale si vadia movendo intorno al Sole, ed a noi resti invisibile per le sue piccole digressioni e solo potesse farcisi sensibile quando passasse linearmente sotto il disco solare, ciò non ha appresso di me improbabilità alcuna, e parmi egualmente credibile che non vene siano e che vene siano: ma non crederei già gran moltitudine, perché se fossero in gran numero, ragionevolmente spesso se ne doverebbe vedere alcuno sotto il Sole, il che a me sin ora non è accaduto, né vi ho veduto altro che di queste macchie; e non ha del probabile che tra quelle possa esser passata alcuna sì fatta stella, ben che questa ancora fosse per mostrarsi, quant'all'aspetto, in forma d'una macchia nera. Non ha, dico, del probabile, perché il movimento suo doverebbe apparire uniforme, e velocissimo rispetto a quel delle macchie: velocissimo, perché, movendosi in cerchio minore di quello di Mercurio, è verisimile secondo l'analogia de i movimenti di tutti gli altri pianeti, che 'l suo periodo fosse più breve, ed il suo moto più veloce del moto del periodo di Mercurio; il qual Mercurio nel passar sotto il Sole traversa il suo disco in 6 ore in circa, tal che altro pianeta più veloce di moto non gli doverebbe restar congiunto per più lungo spazio; se già non si volesse far muovere in un cerchio così piccolo, che quasi toccasse il corpo solare, il che par che avesse poi troppo del chimerico; ma in cerchi pur che fussero di diametro due o tre volte maggior del diametro del Sole, seguirebbe quanto ho detto: ora le macchie restano molti giorni congiunte col Sole: adunque tra loro, o sotto loro spezie, non è credibile che passi pianeta alcuno. Il quale, oltre alla velocità, doverebbe ancora muoversi quasi uniformemente, sendo però per qualche spazio notabile distante dal Sole: perché poca parte del suo cerchio resterebbe sottoposta al Sole, e quella poca, diretta e non obliquamente opposta a i raggi dell'occhio nostro; per lo che parti eguali di lei sarebbon vedute sotto angoli insensibilmente diseguali, cioè quasi eguali, onde il moto in essa apparirebbe uniforme: il che non accade nel moto delle macchie, le quali velocemente trapassano le parti di mezzo, e quanto più sono vicine alla circonferenza, tanto più pigramente caminano. Poche, dunque, in numero possono essere verisimilmente le stelle che tra il Sole e Mercurio vadano vagando, e meno tra Mercurio e Venere: perché, avendo queste necessariamente le lor massime digressioni maggiori di quelle di Mercurio, doverebbono, nella guisa di Venere e dell'istesso Mercurio, esser visibili, come splendide, e massime sendo poco distanti dal Sole e dalla Terra; sì che per la poca lontananza da noi e per l'efficace illuminazione del Sole vicino si farebbono vedere, mediante la vivezza del lume, quando ben fossero piccolissime di mole.

Io conosco d'aver con gran lunghezza di parole e con poca resoluzione soverchiamente tediato V. S. Illustrissima. Riconosca nella lunghezza il gusto che ho di parlar seco, ed il desiderio di obedirla e servirla, pur che le forze me 'l permettessero; e per questi rispetti perdoni la troppa loquacità, e gradisca la prontezza dell'affetto: la irresoluzione resti scusata per la novità e difficoltà della materia, nella quale i vari pensieri e le diverse opinioni che per la fantasia sin ora mi son passate, or trovandovi assenso or repugnanza e contradizzione, m'hanno reso in guisa timido e perplesso, che non ardisco quasi d'aprir bocca per affermar cosa nessuna. Non per questo voglio disperarmi ed abbandonar l'impresa, anzi voglio sperar che queste novità mi abbino mirabilmente a servire per accordar qualche canna di questo grand'organo discordato della nostra filosofia; nel qual mi par veder molti organisti affaticarsi in vano per ridurlo al perfetto temperamento, e questo perché vanno lasciando e mantenendo discordate tre o quattro delle canne principali, alle quali è impossibile cosa che l'altre rispondino con perfetta armonia.

Io desidero, come servitore di S. V., esser a parte dell'amicizia che tien con Apelle, stimandolo io persona di sublime ingegno ed amator del vero: però la supplico a salutarlo caramente in mio nome, facendogl'intendere che fra pochi giorni gli manderò alcune osservazioni e disegni delle macchie solari d'assoluta giustezza, sì nelle figure d'esse macchie come ne' siti di giorno in giorno variati, senza error d'un minimo capello, fatte con un modo esquisitissimo ritrovato da un mio discepolo, le quali potranno essergli per avventura di giovamento nel filosofare circa la loro essenza. È tempo di finir di noiarla: però, baciandogli con ogni riverenza le mani, nella sua buona grazia mi raccomando, e dal Signore Dio gli prego somma felicità.

 

Dalla Villa delle Selve, li 4 di Maggio 1612.

Di V. S. Illustrissima

Devotissimo Servitore

Galileo Galilei L.

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VIIIb

 

SECONDA LETTERA DEL SIG. GALILEO GALILEI

AL SIG. MARCO VELSERI DELLE MACCHIE SOLARI

 

 

(Firenze, 14 agosto 1612)

 

Illustrissimo Sig. e Padron Colendissimo,

 

Inviai più giorni sono una mia lettera assai lunga a V. S. Illustrissima, scritta in proposito delle cose contenute nelle tre lettere del finto Apelle, dove promossi quelle difficoltà che mi ritraevano dal prestar assenso alle opinioni di quello autore, e più le accennai in parte dove inclinava allora il mio pensiero; dalla quale inclinazione io non pure da quel tempo in qua non mi sono rimosso, ma totalmente mi vi sono confermato, mostrandomi le continuate osservazioni di giorno in giorno, con ogni rincontro possibile ad aversi e col mancamento di qualsivoglia contradizzione, essersi la mia opinione incontrata col vero: di che mi è parso darne conto a V. S., con l'occasione del mandargli alcune figure di esse macchie con giustezza disegnate, ed anco il modo del disegnarle, insieme con una copia di un mio trattatello intorno alle cose che stanno sopra l'acqua o che in essa descendono, che pur ora si è finito di stampare.

Replico dunque a V. S. Illustrissima e più resolutamente confermo, che le macchie oscure, le quali col mezo del telescopio si scorgono nel disco solare, non sono altramente lontane dalla superficie di esso, ma gli sono contigue, o separate di così poco intervallo, che resta del tutto impercettibile: di più, non sono stelle o altri corpi consistenti e di diuturna durazione, ma continuamente altre se ne producono ed altre se ne dissolvono, sendovene di quelle di breve durazione, come di uno, due o tre giorni, ed altre di più lunga, come di 10, 15 e, per mio credere, anco di 30 e 40 e più, come appresso dirò: sono per lo più di figure irregolarissime, le quali figure si vanno mutando continuamente, alcune con preste e differentissime mutazioni, ed altre con più tardezza e minor variazione: si vanno ancora alterando nell'incremento e decremento dell'oscurità, mostrando come tal ora si condensano e tal ora si distraggono e rarefanno; oltre al mutarsi in diversissime figure, frequentemente si vede alcuna di loro dividersi in tre o quattro, e spesso molte unirsi in una, e ciò non tanto vicino alla circonferenza del disco solare, quanto ancora circa le parti di mezo: oltre a questi disordinati e particolari movimenti, di aggregarsi insieme e disgregarsi, condensarsi e rarefarsi e cangiarsi di figure, hanno un massimo comune ed universal moto, col quale uniformemente ed in linee tra di loro parallele vanno discorrendo il corpo del Sole: da i particolari sintomi del qual movimento si viene in cognizione, prima, che il corpo del Sole è assolutamente sferico; secondarianente, ch'egli in sé stesso e circa il proprio centro si raggira, portando seco in cerchi paralleli le dette macchie, e finendo una intera conversione in un mese lunare in circa, con rivolgimento simile a quello de gli orbi de i pianeti, cioè da occidente verso oriente. Di più, è cosa degna di esser notata, come la moltitudine delle macchie par che caschi sempre in una striscia o vogliamo dir zona del corpo solare, che vien compresa tra due cerchi che rispondono a quelli che terminan le declinazioni de i pianeti, e fuori di questi limiti non mi par di aver sin ora osservata macchia alcuna, ma tutte dentro a tali confini; sì che né verso borea né verso austro mostrano di declinar dal cerchio massimo della conversion del Sole più di 28 0 29 gradi in circa.

Le loro differenti densità e negrezze, le mutazioni di figure e gli accozzamenti e le separazioni sono per sé stesse manifeste a senso, senz'altro bisogno di discorso; onde basteranno alcuni semplici rincontri di tali accidenti sopra i disegni che gli mando, li quali faremo più a basso: ma che le siano contigue al Sole e che a rivolgimento di quello venghino portate in giro, ha bisogno che la ragione discorrendo lo deduca e concluda da certi particolari accidenti che le sensate osservazioni ci somministrano.

E prima, il vederle sempre muoversi con un moto universale e comune a tutte, ancor che in numero ben spesso siano più di 20 ed ancor 30, era fermo argomento, una sola esser la causa d tale apparente mutazione, e non che ciascheduna da per sé andasse vagando nella guisa de i pianeti intorno al corpo solare, e molto meno in diversi cerchi e diverse distanze dal medesimo Sole; onde si doveva necessariamente concludere, o che elle fossero in un orbe solo, il quale a guisa di stelle fisse le portasse intorno al Sole, o vero che le fossero nell'istesso corpo solare, il quale, rivolgendosi in sé stesso, seco le conducesse. Delle quali due posizioni, questa seconda, per mio parere, è vera, e l'altra falsa; sì come falsa ed impossibile si troverà esser qualsivoglia altra posizione che assumere si volesse, come tenterò di dimostrare col mezo di manifeste repugnanze e contradizzioni.

All'ipotesi che le siano contigue alla superficie del Sole e che dal rivolgimento di quello venghino portate in volta, rispondono concordemente tutte l'apparenze, senza che s'incontri inconveniente o difficoltà veruna. Per il che dichiarar, è ben che determiniamo nel globo del Sole i poli, i cerchi, le lunghezze e le larghezze, conformi a quelle che noi intendiamo nella celeste sfera. Però, dunque, quando il Sole si rivolga in sé stesso e sia di superficie sferica, i due punti stabili si diranno i suoi poli, e tutti gli altri punti notati nella sua superficie descriveranno circonferenze di cerchi paralleli fra di loro, maggiori o minori secondo la maggiore o minore distanza da i poli; e massimo sarà il cerchio di mezzo, egualmente distante da ambedue i poli. La longitudine o lunghezza della superficie solare sarà la dimensione che si considera secondo l'estensione delle circonferenze de' cerchi detti; ma la latitudine o larghezza sarà la dilatazione per l'altro verso, cioè dal cerchio massimo verso i poli: onde la lunghezza delle macchie si chiamerà la dimensione presa con una linea parallela a i sopradetti cerchii, cioè presa per quel verso secondo 'l quale si fa la conversione del Sole; e la larghezza s'intenderà esser quella che s'estende verso i poli, e che vien determinata da una linea perpendicolare alla linea della lunghezza.

Dichiarati questi termini, cominceremo a considerar tutti i particolari accidenti che si osservano nelle macchie solari, da i quali si possa venire in cognizione del sito e movimento loro. E prima, il mostrarsi generalmente le macchie, nel lor primo apparir e nell'ultimo occultarsi vicino alla circonferenza del Sole, di pochissima lunghezza ma di larghezza eguale a quella che hanno quando sono nelle parti più interne del disco solare; a quelli che intenderanno, in virtù di perspettiva, ciò che importi lo sfuggimento della superficie sferica vicino all'estremità dell'emisfero veduto, sarà manifesto argomento sì della globosità del Sole, come della prossimità delle macchie alla solar superficie, e del venir esse poi portate sopra la medesima superficie verso le parti di mezo, scoprendosi sempre accrescimento nella lunghezza e mantenendosi la medesima larghezza. E se bene non tutte si mostrano, quando sono vicinissime alla circonferenza, egualmente attenuate e ridotte a una sottigliezza d'un filo, ma alcune formano il loro ovato più gracile ed altre meno, ciò proviene perché le non sono semplici macchie superficiali, ma hanno grossezza ancora, o vogliamo dir altezza, ed altre maggiore, altre minore; sì come nelle nostre nugole accade, le quali, distendendosi per lo più, quanto alla lunghezza e larghezza, decine e tal or centinaia di miglia, quanto poi alla grossezza son ben or più ed or meno profonde, ma non si vede che tal profondità passi molte centinaia o al più migliaia di braccia. Così, potendo esser la grossezza delle macchie solari, ancor che picciola in comparazione dell'altre due dimensioni, maggiore in una macchia e minore in un'altra, accaderà che le macchie più sottili, vicine alla circonferenza del Sole, dove vengono vedute per taglio, si mostrino gracilissime (e massime perché la metà interiore di esso taglio viene illustrata dal lume prossimo del Sole), ed altre di maggior profondità apparischino più grosse. Ma che molte di loro si riducessero alla sottigliezza di un filo, come l'esperienza ci insegna, ciò non potrebbe in conto alcuno accadere se il movimento col quale mostrano di traversare il disco del Sole fosse fatto in cerchii lontani, ben che per breve intervallo, dal globo solare; perché la diminuzion grande delle lunghezze si fa sullo sfuggimento massimo, cioè su la svolta del cerchio, la quale verrebbe a cascar fuori del corpo del Sole, quando le macchìe fossero portate in circonferenze per qualche spazio notabile lontane dalla superficie di lui.

Notasi, nel secondo luogo, la quantità de gli spazii apparenti secondo i quali le macchie medesime mostrano di andarsi movendo di giorno in giorno; ed osservasi che gli spazii passati in tempi eguali dalla medesima macchia appariscono sempre minori, quanto più si trovano vicini alla circonferenza del Sole; e vedesi, diligentemente osservando, che tali diminuzioni ed incrementi, notati l'un dopo l'altro con l'interposizione di tempi eguali, molto proporzionatamente rispondono a i sini versi e loro eccessi congruenti ad archi eguali: il qual fenomeno non ha luogo in verun altro movimento che nel circolar contiguo all'istesso Sole; perché in cerchii, ancor che non molto, lontani dal globo solare, gli spazii passati in tempi eguali incontro alla superficie del Sole apparirebbono pochissimo tra di loro differenti.

Il terzo accidente, che mirabilmente conferma questa conclusione, si cava da gl'interstizii che sono tra macchia e macchia, de i quali altri si mantengono sempre gli stessi, altri grandissimamente si agumentano verso le parti di mezo del disco solare, li quali furon avanti, e son poi dopo, brevissimi, ed anco quasi insensibili vicino alla circonferenza, ed altri pur si mutano, ma con mutazioni differentissime; tuttavia son tali, che simili non potrebbono incontrarsi in altro moto che nel circolare, fatto da diversi punti diversamente posti sopra un globo che in sé stesso si converta. Le macchie che hanno la medesima declinazione, cioè che sono poste nell'istesso parallelo, nel primo apparire par quasi che si tocchino, quando la lor vera distanza sia breve; che se sarà alquanto maggiore, appariranno ben separate, ma più vicine assai che quando si trovano verso il mezo del disco solare; e secondo che si discostano dalla circonferenza, vengono separandosi ed allontanandosi l'una dall'altra sempre più, sin che si trovano con pari distanze remote dal centro del disco, nel qual luogo è la lor massima separazione; d'onde partendosi, tornano di nuovo a ravvicinarsi tra di loro più e più, secondo che s'appressano alla circonferenza: e se con accuratezza si noteranno le proporzioni di tali appressamenti e discostamenti, si vedrà che parimente non possono aver luogo, se non in movimenti fatti sopra l'istessa superficie del globo solare.

Dico di più, che tali macchie non solamente sono vicinissime e forse contigue, alla superficie del Sole, ma, oltre a ciò, si elevano poco da quella, in quanto alla lor grossezza o vogliamo dire altezza; cioè dico che sono assai sottili, in comparazion della lunghezza e larghezza loro. Il che raccolgo dall'apparire che fanno i loro interstizii divisi e distinti ben spesso sino all'ultimo lembo del disco solare, ancor che si osservino macchie poco tra lor distanti e poste nell'istesso parallelo. [...] Avvertisco di più, che non tutte le macchie tra di sé vicinissime si mostrano separate sino all'ultima circonferenza, anzi alcune par che si unischino: il che può accadere talvolta per essere, la più remota dalla circonferenza, più grossa ed alta della più vicina; oltre che ci sono i movimenti lor proprii irregolati e vagabondi, che possono cagionare varie apparenze in questo particolare: ma noto bene universalmente, che la negrezza di tutte si diminuisce assai assai quando son vicine all'estremo termine del disco; il che accade, per mio parere, dallo scoprirsi il taglio illuminato e dallo ascondersi molto i dorsi oscuri delle macchie, le cui tenebre restano assai confuse a gli occhi nostri dalla copia della luce. Io potrei addurre a V. S. molti altri esempli, ma sarei troppo prolisso, e mi riserberò a scriverne più diffusamente in altro luogo; e voglio per ora contentarmi di avergli accennato il mio parere, nato dalla continuazione di molte osservazioni: che è in somma, che la lontananza delle macchie dalla superficie del Sole sia o nulla, o così poca che non possa cagionare accidente alcuno comprensibile da noi e che la profondità o grossezza loro sia parimente poca in comparazion dell'altre due dimensioni, imitando anco in questo particolare le nostre maggiori nugolate.

E questi sono gl'incontri che aviamo dalle macchie che si trovano nell'istesso parallelo. Le macchie poi che sono poste in diversi paralleli, ma sono, per così dire, sotto 'l medesimo meridiano, cioè che la linea che le congiugne, taglia i paralleli a squadra, e non obliquamente, non mutano distanza fra di loro, ma quella che ebbero nel loro primo comparire, vanno mantenendo sempre sino all'ultima occultazione: le altre poi che sono in diversi paralleli ed in diversi meridiani, vanno pur crescendo e poi diminuendo i lor intervalli, ma con maggiori differenze quelle che si rimirano più obliquamente, cioè che sono in paralleli più vicini ed in meridiani più remoti, e con minor varietà di all'incontro quelle che meno obliquamente sono tra loro situate: e chi bene andrà commensurando tutte le simili diversità, troverà il tutto rispondere e con giusta simmetria concordar solamente con la nostra ipotesi, e discordar da qualunque altra. Devesi però tuttavia avvertire, che non sendo tali macchie totalmente fisse ed immutabili nella faccia del Sole, anzi andandosi continuamente per lo più mutando di figura ed aggregandosi alcune insieme ed altre disgregandosi, può per simili picciole mutazioni cagionarsi qualche poco di varietà ne i rincontri precisi delle narrate osservazioni; le quali diversità, per la lor picciolezza in proporzion della massima ed universal conversione del Sole, non dovran partorire scrupolo alcuno a chi giudiziosamente andrà, per così dire, tarando l'eguale e general movimento con queste accidentarie alterazioncelle.

Ora, quanto, per tutti questi rincontri, l'apparenze che si osservano nelle macchie, puntualmente rispondono all'esser loro contigue alla superficie del Sole, all'esser quella sferica, e non d'altra figura, ed all'esser dal medesimo Sole portate in giro dal suo rivolgimento in sé stesso, tanto con incontri di manifeste repugnanze contrariano ad ogni altra posizione che si tentasse di dargli.

Imperò che se alcuno volesse costituirle nell'aria, dove pare che altre impressioni simili a quelle continuamente si vadano producendo e dissolvendo, con accidenti conformi di aggregarsi e dividersi, condensarsi e rarefarsi, e con mutazioni di figure inordinatissime; prima, ingombrando esse molto piccoli spazii nel disco solare mentre fra l'occhio nostro e quello s'interpongono, ed essendo così vicine alla Terra, bisognerebbe che le fossero a moli non maggiori di picciolissime nugolette, poi che ben minima domanderemo una nugola che non basti ad occultarci il Sole: e se così è, come in sì piccole moli sarà tal densità di materia che possa con tanta contumacia resistere alla forza de i raggi solari, sì che né le penetrino col lume, né le dissolvino per molti e molti giorni con la lor virtù? Come, generandosi nelle regioni circonvicine alla Terra, e, s'io bene stimo, per detto altrui forse delle evaporazioni di quella, come, dico, cascano tutte tra 'l Sole e noi, e non in altra parte dell'aria? poi che niuna se ne scorge sotto la faccia della Luna illuminata, né si vede separata dal Sole, in aspetto oscuro o vero illustrata da i suoi raggi, come delle nugole accade, delle quali continuamente ne veggiamo dell'oscure e dell'illuminate, intorno al Sole ed in ogni altra parte dell'aria? Più, scorgendo noi la materia di tali macchie esser per sua natura mutabile, poi che senza regola alcuna s'aggregano fra di loro e si separano, qual virtù sarà poi quella che gli possa communicare e con tanta regola contemperar il movimento diurno, sì che mai preterischino di accompagnare il Sole, se non quanto un movimento comune a tutte e regolato le fa trascorrere in 15 giorni in circa il disco solare, dove che l'altre aeree impressioni trascorrono in minimi momenti di tempo non pur la faccia del Sole ma spazii molto maggiori?

A simili ragioni, come molto probabili, risponder non si può senza introdur grand'improbabilità. Ma ci restano le dimostrazioni necessarie e che non ammettono risposta veruna: delle quali una è il vedersi quelle, nel tempo medesimo, da diversi luoghi della Terra e molto tra di loro distanti, disposte con l'istesso ordine e nelle parti medesime del Sole, sì come per varii rincontri di disegni ricevuti da diverse bande ho potuto osservare, argomento necessario della lor grandissima lontananza dalla Terra al che con ammirabil assenso si accorda il cader tutte dentro a quella fascia del globo solare che risponde allo spazio della sfera celeste che vien compreso dentro a i tropici o, per meglio dire dentro a i due paralleli che determinano le massime declinazioni de i pianeti; il che non devo io credere che sia particolar privilegio della città di Firenze, dove io abito, ma ben devo stimare che dentro a i medesimi confini siano vedute da ogni altro luogo quanto si voglia più australe o boreale. Di più, il non fare altra mutazione di luogo sotto il disco solare che quella universale e comune a tutte le macchie, con la quale in 15 giorni in circa lo traversano, e quelle piccole ed accidentarie secondo le quali tal ora alcune si aggregano ed altre si separano, necessariamente convince a porle molto superiori alla Luna; perché altramente, come ben nota ancora Apelle, bisognerebbe che nel tempo tra 'l nascere e 'l tramontar del Sole tutte uscissero fuori del disco solare mediante la parallasse. E se pure alcuno volesse attribuir loro qualche movimento proprio, per il quale la diversità d'aspetto fosse compensata, non potrebbono le medesime macchie, vedute oggi da noi, tornar a mostrarsi dimane; il che è contro l'esperienza poi che non pure ritornano a farsi vedere il secondo giorno, ma il terzo e quarto, e sino al quartodecimo.

Son dunque le macchie, per necessarie dimostrazioni, superiori di assai alla Luna; ed essendo nella region celeste, niun'altra posizione che nella superficie del Sole, e niun altro movimento fuori che la conversion di quello in sé stesso, se gli può senz'altre repugnanze assegnare. Imperò che tra tutte l'imaginabili ipotesi, la più accomodata a satisfare alle apparenze narrate sarebbe porre una sferetta tra il corpo solare e noi, sì che l'occhio nostro ed i centri di quella e del Sole fossero in linea retta, e, più, che il suo diametro apparente fosse eguale a quel del corpo solare, nella superficie della quale sfera si producessero e dissolvessero tali macchie, e dal rivolgimento della medesima in sé stessa venissero portate in volta: tal posizion, dico, che satisferebbe alle sopradette apparenze, quando però se gli assegnasse luogo tanto superiore alla Luna, che fosse libero dall'oppugnazione delle parallassi, così di quella che depende dal moto diurno come dell'altra che nasce dalle diverse posizioni in Terra, e questo acciò che a tutte l'ore ed a tutti i riguardanti i centri di detta sfera e del Sole si mantenessero nella medesima linea retta; ma con tutto questo una inevitabil difficoltà ci convince, ed è che noi doveremmo vedere le macchie muoversi sotto il disco solare con movimenti contrarii: imperò che quelle che fossero nell'emisfero inferiore della imaginata sfera, si moverebbono verso il termine opposto a quello verso il quale caminassero l'altre, poste nell'emisfero superiore; il che non si vede accadere. Oltre che, sì come a gl'ingegni specolativi e liberi, che ben intendono non esser mai stato con efficacia veruna dimostrato, né anco potersi dimostrare, che la parte del mondo fuori del concavo dell'orbe lunare non sia soggetta alle mutazioni ed alterazioni, niuna difficoltà o repugnanza al credibile ha apportato il veder prodursi e dissolversi tali macchie in faccia al Sole stesso; così gli altri, che vorrebbono la sustanza celeste inalterabile, quando si vegghino astretti da ferme e sensate esperienze a porre esse macchie nella parte celeste, credo che poco fastidio di più gli darà il porle contigue al Sole che in altro luogo.

Convinta ch'è di falsità l'introduzione di tale sfera tra 'l Sole e noi, che sola, ma con poco guadagno di chi volesse rimuovere le macchie dal Sole, poteva sodisfare a buona parte de i fenomeni, non occorre che perdiamo tempo in riporvar ogni altra imaginabile posizione; perché ciascheduno per sé stesso immediatamente incontrerà impossibili e contradizioni manifeste, tuttavolta che sia ben restato capace di tutti i fenomeni che di sopra ho raccontati, e che veramente si osservano di continuo in esse macchie.

Quanto poi alle massime durazioni delle maggiori e più dense, ben che non si possa affermare di certo se alcune ritornino l'istesse in più d'una conversione, rispetto a i continui mutamenti di figure che ci tolgono il poterle raffigurare, tuttavia io sarei d'opinione che alcuna ritornasse a mostrarcisi più d'una volta: ed a così credere m'indece il vederne alcuna comparire grande assai ed accrescersi sempre, sin che l'emisfero veduto dà volta; e sì come è credibile ch'ella si fosse generata molto avanti la venuta sua, così è ragionevole il credere ch'ella sia per durare assai dopo la partita, sì che la durazion sua venga ad esser molto più lunga del tempo di una meza conversion del Sole: e come questo è, alcune macchie possono senza dubbio, anzi necessariamente, esser da noi vedute due volte; e queste sarebbono tal una di quelle che si producessero nell'emisfero veduto vicino all'occultarsi, e poi, passando nell'altro, seguitassero di prender argumento, né si dissolvessero sin che tornassero ancora a scoprircisi; e per ciò fare basta la durazione di tre o quattro giorni più del tempo di una meza conversione. Ma io, di più, credo che ve ne siano di quelle che più d'una volta traversino tutto l'emisfero veduto; quali son quelle che dal primo comparrire, si vanno sempre augumentando sin che le veggiamo, e fannosi di straordinaria grandezza, le quali possono continuar di crescere ancora mentere ci si occultano, e non è credibile che poi in più breve tempo si diminuischino e dissolvino, perché niuna delle grandissime si è osservato che repentinamente si disfaccia: ed io ho più volte osservato, dopo la partita di alcuna delle massime sendo scorso il tempo di una meza conversione, tornare a comparire una, ch'era, per mio credere, l'istessa, e passar per l'istesso parallelo.

Dalle cose dette sin qui, parmi, s'io non m'inganno, che necessariamente si conchiuda, le macchie solari esser contigue o vicinissime al corpo del Sole. esser materie non permanenti e fisse, ma variabili di figura e di densità, e mobili ancora, chi più e chi meno, di alcuni piccoli movimenti indeterminati ed irregolari, ed universalmente tutte prodursi e dissolversi, altre in più brevi, altre in più lunghi tempi; è anco manifesta ed indubitabile la lor conversione intorno al Sole: ma il determinare se ciò avvenga perché il corpo stesso del Sole si converta e rigiri in sé stesso portandole seco, o pure che, restando il corpo solare immoto, il rivolgimento sia dell'ambiente, il quale le contenga e seco le conduca, resta in certo modo dubbio, potendo essere e questo e quello. Tuttavia a me pare assai più probabile che il movimento sia del globo solare, che dell'ambiente. Ed a ciò credere m'induce, prima, la certezza che io prendo dell'esser tale ambiente molto tenue fluido e cedente, dal veder così facilmente mutarsi di figura aggregarsi e dividersi le macchie in esso contenute, il che in una materia solida e consistente non potrebbe accadere (proposizione che parrà assai nuova nella comune filosofia): ora un movimento costante e regolato, quale è l'universale di tutte le macchie, non par che possa aver sua radice e fondamento primario in una sostanza flussibile e di parti non coerenti insieme, e però soggette alle commozioni e conturbamenti di molti altri movimenti accidentarii, ma bene in un corpo solido e consistente, ove per necessità un solo è il moto del tutto e delle parti; e tale è credibile che sia il corpo solare, in comparazion del suo ambiente. Tal moto poi, participato all'ambiente per il contatto, ed alle macchie per l'ambiente, o pur conferito per il medesimo contatto immediatamente alle macchie, le può portar intorno. Di più, quando bene altri volesse che la circolazione delle macchie intorno al Sole procedesse da moto che risedesse nell'ambiente, e non nel Sole, io crederei ad ogni modo esser quasi necessario che il medesimo ambiente comunicasse per il contatto l'istesso movimento al globo solare ancora.

Imperò che mi par di osservare che i corpi naturali abbino naturale inclinazione a qualche moto, come i gravi al basso, il qual movimento vien da loro, per intrinseco principio e senza bisogno di particolar motore esterno, esercitato, qual volta non restino da qualche ostacolo impediti; a qualche altro movimento hanno repugnanza, come i medesimi gravi al moto in su, e però già mai non si moveranno in cotal guisa se non cacciati violentemente da un motore esterno; finalmente, ad alcuni movimenti si trovano indifferenti, come pur gl'istessi gravi al movimento orizontale, al quale non hanno inclinazione, poi che ei non è verso il centro della Terra, né repugnanza, non si allontanando dal medesimo centro: e però, rimossi tutti gl'impedimenti esterni, un grave nella superficie sferica e concentrica alla Terra sarà indifferente alla quiete ed a i movimenti verso qualunque parte dell'orizonte, ed in quello stato si conserverà nel qual una volta sarà stato posto; cioè se sarà messo in stato di quiete, quello conserverà, e se sarà posto in movimento, verbigrazia verso occidente, nell'istesso si manterrà: e così una nave, per essempio, avendo una sol volta ricevuto qualche impeto per il mar tranquillo, si moverebbe continuamente intorno al nostro globo senza cessar mai, e postavi con quiete, perpetuamente quieterebbe, se nel primo caso si potessero rimuovere tutti gl'impedimenti estrinseci, e nel secondo qualche causa motrice esterna non gli sopraggiugnesse. E se questo è vero, sì come è verissimo, che farebbe un tal mobile di natura ambigua, quando si trovasse continuamente circondato da un ambiente mobile d'un moto al quale esso mobile naturale fosse per natura indifferente? Io non credo che dubitar si possa, ch'egli al movimento dell'ambiente si movesse. Ora il Sole, corpo di figura sferica, sospeso e librato circa il proprio centro, non può non secondare il moto del suo ambiente, non avendo egli, a tal conversione, intrinseca repugnanza né impedimento esteriore. Interna repugnanza aver non può, atteso che per simil conversione né il tutto si rimuove dal luogo suo, né le parti si permutano tra di loro o in modo alcuno cangiano la lor naturale costituzione, tal che, per quanto appartiene alla costituzione del tutto con le sue parti, tal movimento è come se non fosse. Quanto a gl'impedimenti esterni, non par che ostacolo alcuno possa senza contatto impedire (se non forse la virtù della calamita): ma nel nostro caso tutto quel che tocca il Sole, che è il suo ambiente, non solo non impedisce il movimento che noi cerchiamo di attribuirgli, ma egli stesso se ne muove, e movendosi lo comunica ove egli non trovi resistenza, la qual esser non può nel Sole: adunque qui cessano tutti gli esterni impedimenti. Il che si può maggiormente ancora confermare: perché, oltre a quello che si è detto, non par che alcun mobile possa aver repugnanza ad un movimento senz'aver propension naturale all'opposto (perché nella indifferenza non è repugnanza); e perciò chi volesse por nel Sole renitenza al moto circolare del suo ambiente, pur vi porrebbe natural propensione al moto circolare opposto a quel dell'ambiente; il che mal consuona ad intelletto ben temperato.

Dovendosi, dunque, in ogni modo por nel Sole l'apparente conversione delle macchie, meglio è porvela naturale, e non per participazione, per la prima ragione da me addotta.

Molte altre considerazioni potrei arrecar per confirmazion maggiore della mia opinione, ma di troppo trapasserei i termini di una lettera; però, per finir di più tenerla occupata, vengo a satisfare alla promessa ad Apelle, cioè al modo del disegnar le macchie con somma giustezza, ritrovato, come nell'altra gli accennai, da un mio discepolo, monaco Cassinense, nominato D. Benedetto de i Castelli, famiglia nobile di Brescia, uomo d'ingegno eccellente e, come conviene, libero nel filosofare. Ed il modo è questo. Devesi drizzare il telescopio verso il Sole, come se altri lo volesse rimirare; ed aggiustatolo e fermatolo, espongasi una carta bianca e piana incontro al vetro concavo, lontana da esso vetro quattro o cinque palmi; perché sopraessa caderà la specie circolare del disco del Sole, con tutte le macchie che in esso si ritrovano, ordinate e disposte con la medesima simmetria a capello che nel Sole son situate; e quanto più la carta si allontanerà dal cannone, tanto tal immagine verrà maggiore e le macchie meglio si figureranno, e senz'alcuna offesa si vedranno tutte sino a molte picole, le quali, guardando per il cannone, con fatica grande e con danno della vista appena si potrebbono scorgere. E per disegnarle giuste, io descrivo prima sopra la carta un cerchio, della grandezza che più mi piace, e poi, accostando o rimovendo la carta dal cannone, trovo il giusto sito dove l'immagine del Sole si allarga alla misura del descritto cerchio: il quale mi serve anco per norma e regola di tener il piano del foglio retto, e non inclinato al cono luminoso de i raggi solari ch'escono del telescopio; perché quando e' fosse obliquo, la sezzione viene ovata, e non circolare, e però non si aggiusta con la circonferenza segnata sopra 'l foglio; ma inclinando più o meno la carta, si trova facilmente la positura giusta, che è quando l'immagine del Sole s'aggiusta col cerchio segnato. Ritrovata che si è tal positura, con un pennello si va notando, sopra le macchie stesse, le figure grandezze e siti loro: ma convien andare destramente secondando il movimento del Sole, e, spesso movendo il telescopio, bisogna procurare di mantenerlo ben dritto verso il Sole; il che si conosce guardando nel vetro concavo, dove si vede un piccolo cerchietto luminoso, il quale sta concentrico ad esso vetro quando il telescopio è ben diritto verso il Sole. E per veder le macchie distintissime e terminate, è ben inscurir la stanza serrando ogni finestra, sì che altro lume non vi entri che quello che vien per il cannone; o almeno inscuricasi più che si può, ed al cannone si accomodi un cartone assai largo, che faccia ombra sopra la carta dove si ha da disegnare e impedisca che altro lume del Sole non vi caschi sopra, fuor che quello che vien per i vetri del cannone. Devesi appresso notare, che le macchie escono del cannone inverse, e poste al contrario di quello che sono nel Sole, cioè le destre vengono sinistre, e le superiori inferiori, essendo che i raggi s'intersegano dentro al cannone, avanti ch'eschino fuori del vetro concavo; ma perché noi le disegniamo sopra una superficie opposta al Sole, quando noi, volgendoci verso il Sole, tenghiamo la carta disegnata opposta alla nostra vista, già la superficie dove prima disegnammo non è più contrapposta ma aversa al Sole, e però le parti destre si sono già ridrizzate, rispondendo alle destre del Sole, e le sinistre alle sinistre, onde resta che solamente s'invertano le superiori ed inferiori; però, rivoltando il foglio a rovescio facendo venire il di sopra di sotto, e guardando per la trasparenza della carta contro al chiaro, si veggono le macchie giuste. come se guardassimo direttamente nel Sole; ed in tale aspetto si devono sopra un altro foglio lucidare e descrivere, per averle ben situate.

Io ho poi riconosciuto la cortesia della natura, la quale, mille e mille anni sono, porse facoltà di poter venire in notizia di tali macchie, e per esse di alcune gran consequenze; perché, senz'altri strumenti, da ogni piccolo foro per il quale passino i raggi solari viene in distanze grandi portata e stampata sopra qual si voglia superficie opposta l'immagine del Sole con le macchie. Ben è vero che non sono a gran pezzo così terminate come quelle del telescopio; tuttavia le maggiori si scorgono assai distinte: e V. S. vedendo in chiesa da qualche vetro rotto e lontano cader il lume del Sole nel pavimento, vi accorra con un foglio bianco e disteso, ché vi scorgerà sopra le macchie. Ma più dirò, esser la medesima natura stata così benigna, che per nostro insegnamento ha tal ora macchiato il Sole di macchia così grande ed oscura, ch'è stata veduta da infiniti con la sola vista naturale; ma un falso ed inveterato concetto, che i corpi celesti fossero esenti da ogni alterazione e mutazione, fece credere che tal macchia fosse Mercurio interposto tra il Sole e noi, e ciò non senza vergogna de gli astronomi di quell'età: e tale fu senza alcun dubbio quella di cui si fa menzione ne gli Annali ed Istorie de i Franzesi ex Bibliotheca P. Pithoei I. C., stampat'in Parigi l'anno 1588, dove, nella vita di Carlo Magno, a fogli 62, si legge essersi per otto giorni continui veduta dal popol di Francia una macchia nera nel disco solare, della quale l'ingresso e l'uscita per l'impedimento delle nugole non potette esser osservata, e fu creduta esser Mercurio allora congiunto col Sole. Ma questo è troppo grand'errore, essendo che Mercurio non può restar congiunto col Sole né anco per lo spazio di ore sette; tale è il suo movimento, quando si viene a interporre tra 'l Sole e noi. Fu, dunque, tal fenomeno assolutamente una delle macchie grandissima ed oscurissima; e delle simili se ne potranno incontrare ancora per l'avvenire, e forse, applicandoci diligente osservazione, ne potremo veder alcuna in breve tempo. Se questo scoprimento fosse seguito alcuni anni avanti, averebbe levat'al Keplero la fatica d'interpretar e salvar questo luogo con le alterazioni del testo ed altre emendazioni di tempi: sopra di che io non starò al presente ad affaticarmi, sicuro che detto autore, come vero filosofo e non renitente alle cose manifeste, non prima sentirà queste mie osservazioni e discorsi, che gli presterà tutto l'assenso.

Ora, per raccòr qualche frutto dalle inopinate meraviglie che sino a questa nostra età sono state celate, sarà bene che per l'avvenire si torni a porgere orecchio a quei saggi filosofi che della celeste sustanza diversamente da Aristotele giudicarono, e da i quali Aristotele medesimo non si sarebbe allontanato se delle presenti sensate osservazioni avesse auta contezza: poi che egli non solo ammesse le manifeste esperienze tra i mezi potenti a concludere circa i problemi naturali, ma diede loro il primo luogo. Onde se egli argomentò l'immutabilità de' cieli dal non si esser veduta in loro ne' decorsi tempi alterazione alcuna, è ben credibile che quando 'l senso gli avesse mostrato ciò che a noi fa manifesto, arebbe seguita la contraria opinione, alla quale con sì mirabili scoprimenti venghiamo chiamati noi. Anzi dirò di più, ch'io stimo di contrariar molto meno alla dottrina d'Aristotele col porre (stanti vere le presenti osservazioni) la materia celeste alterabile, che quelli che pur la volessero sostenere inalterabile; perché son sicuro che egli non ebbe mai per tanto certa la conclusione dell'inalterabilità, come questa, che all'evidente esperienza si deva posporre ogni umano discorso: e però meglio si filosoferà prestando l'assenso alle conclusioni dependenti da manifeste osservazioni, che persistendo in opinioni al senso stesso repugnanti, e solo confermate con probabili o apparenti ragioni. Quali poi e quanti sieno i sensati accidenti che a più certe conclusioni c'invitano, non è difficile l'intenderlo. Ecco, da virtù superiore, per rimuoverci ogni ambiguità, vengono inspirati ad alcuno metodi necessarii, onde s'intenda, la generazion delle comete esser nella regione celeste; a questo, come testimonio che presto trascorre e manca, resta ritroso il numero maggiore di quelli che insegnano a gli altri: eccoci mandate nuove fiamme di più lunga durazione, in figura di stelle lucidissime, prodotte pure e poi dissolutesi nelle remotissime parti del Cielo: né basta questo per piegar quelli alla mente de i quali non arrivano le necessità delle dimostrazioni geometriche: ecco finalmente scoperto in quella parte del Cielo che meritamente la più pura e sincera stimar si deve, dico in faccia del Sole stesso, prodursi continuamente ed in brevi tempi dissolversi innumerabile moltitudine di materie oscure dense e caliginose; eccoci una vicissitudine di produzioni e disfacimenti che non finirà in tempi brevi, ma, durando in tutti i futuri secoli darà tempo a gl'ingegni umani di osservare quanto lor piacerà e di apprendere quelle dottrine che del sito loro gli possa rendere sicuri. Ben che anco in questa parte doviamo riconoscere la benignità divina; poi che di assai facile e presta apprensione son quei mezi che per simile intelligenza ci bastano; e chi non è capace di più, procuri di aver disegni fatti in regioni remotissime, e gli conferisca con i fatti da sé ne gli stessi giorni, ché assolutamente gli ritroverà aggiustarsi con i suoi: ed io pur ora ne ho ricevuti alcuni fatti in Brusselles dal Sig. Daniello Antonini ne i giorni 11, 12, 13, 14, 20 e 21 di Luglio, li quali si adattano a capello con i miei e con altri mandatimi di Roma dal Sig. Lodovico Cigoli, famosissimo pittore ed architetto; argomento che dovrebbe bastar per sé solo a persuader ogn'uno, tali macchie esser di lungo tratto superiori alla Luna.

E con questo voglio finir di occupar più V. S. Illustrissima. Favoriscami di mandar con suo comodo i disegni ad Apelle, accompagnati con un mio singolare affetto verso la persona sua; ed a V. S. reverentemente bacio le mani, e dal Signore Dio gli prego felicità.

 

Di Firenze, li 14 di Agosto 1612.

 

Di V. S. Illustrissima

 

 

Servitore Devotissimo

Galileo Galilei L.

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VIIIc

 

TERZA LETTERA DEL SIG. GALILEO GALILEI

AL SIG. MARCO VELSERI DELLE MACCHIE SOLARI

nella quale anco si tratta di Venere, della Luna e Pianeti Medicei,

e si scoprono nuove apparenze di Saturno.

 

 

(Villa delle Selve, I° dicembre 1612)

 

Illustrissimo Sig. e Padron Colendissimo

 

Trovomi a dover rispondere a due gratissime lettere di V. S. Illustrissima, scritte l'una sotto li 28 di Settembre, e l'altra li 5 di Ottobre. Con la prima ricevei i secondi discorsi del finto Apelle, e nell'altra mi avvisa la ricevuta della mia seconda lettera in proposito delle macchie solari, la quale io gl'inviai sino li 23 di Agosto: risponderò prima brevemente alla seconda, poi verrò alla prima, ponderando un poco più diffusamente alcuni particolari contenuti in questa replica di Apelle; già che l'aver considerate le sue prime lettere, e l'aver egli vedute le mie considerazioni, mi mette in certo modo in obbligo di soggiugnere alcune cose concernenti alla mia prima lettera ed alle sue seconde scritture.

Quanto all'ultima di V. S., ho ben sentito con diletto che ella in una repentina scorsa abbia trapassate come verisimili ed assai probabili le ragioni da me addotte per confermar le conclusioni che io prendo a dimostrare; ma il punto sta in quello a che la persuaderà la seconda e le altre letture, non essendo impossibile: che alcuni, ben che di perspicacissimo giudizio, possino talora in una prima occhiata ricever per opera di mediocre perfezione quello che poi, ricercato più accuratamente, gli riesca di assai minor merito, e massime dove una particolare affezione verso l'autore ed una concepita opinion buona preoccupino l'affetto indifferente ed ignudo: onde io con animo ancor sospeso starò attendendo altro suo giudizio, il quale mi servirà per quietarmi, sin che, come prudentissimamente dice V. S., ci sortisca, per grazia del vero Sole, puro ed immacolato, apprendere in Lui con tutte le altre verità quello che ora, abbagliati e quasi alla cieca, andiamo ricercando nell'altro Sole materiale e non puro.

Ma non però doviamo, per quel che io stimo, distorci totalmente dalle contemplazioni delle cose, ancor che lontanissime da noi, se già non avessimo prima determinato, esser ottima resoluzione il posporre ogni atto specolativo a tutte le altre nostre occupazioni. Perché, o noi vogliamo specolando tentar di penetrar l'essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d'alcune loro affezioni. Il tentar l'essenza, l'ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti: e a me pare essere egualmente ignaro della sustanza della Terra che della Luna, delle nubi elementari che delle macchie del Sole; né veggo che nell'intender queste sostanze vicine aviamo altro vantaggio che la copia de' particolari, ma tutti egualmente ignoti, per i quali andiamo vagando, trapassando con pochissimo o niuno acquisto dall'uno all'altro. E se, domandando io qual sia la sustanza delle nugole, mi sarà detto che è un vapore umido, io di nuovo desidererò sapere che cosa sia il vapore; mi sarà per avventura insegnato, esser acqua, per virtù del caldo attenuata, ed in quello resoluta; ma io, egualmente dubbioso di ciò che sia l'acqua, ricercandolo, intenderò finalmente, esser quel corpo fluido che scorre per i fiumi e che noi continuamente maneggiamo e trattiamo: ma tal notizia dell'acqua è solamente più vicina e dependente da più sensi, ma non più intrinseca di quella che io avevo per avanti delle nugole. E nell'istesso modo non più intendo della vera essenza della terra o del fuoco, che della Luna o del Sole; e questa è quella cognizione che ci vien riservata da intendersi nello stato di beatitudine, e non prima. Ma se vorremo fermarci nell'appressione di alcune affezioni, non mi par che sia da desperar di poter conseguirle anco ne i corpi lontanissimi da noi, non meno che ne i prossimi, anzi tal una per aventura più esattamente in quelli che in questi. E chi non intende meglio i periodi de i movimenti de i pianeti, che quelli dell'acque di diversi mari? chi non sa che molto prima e più speditamente fu compresa la figura sferica nel corpo lunare che nel terrestre? e non è egli ancora controverso se l'istessa Terra resti immobile o pur vadia vagando, mentre che noi siamo certissimi de i movimenti di non poche stelle? Voglio per tanto inferire, che se bene indarno si tenterebbe l'investigazione della sustanza delle macchie solari, non resta però che alcune loro affezioni, come il luogo, il moto, la figura, la grandezza, l'opacità, la mutabilità, la produzione ed il dissolvimento, non possino da noi esser apprese, ed esserci poi mezi a poter meglio filosofare intorno ad altre più controverse condizioni delle sustanze naturali; le quali poi finalmente sollevandoci all'ultimo scopo delle nostre fatiche, cioè all'amore del divino Artefice, ci conservino la speranza di poter apprender in Lui, fonte di luce e di verità, ogn'altro vero.

Il debito del ringraziare resta in me con molti altri obblighi che tengo a V. S. Illustrissima; perché, se averò investigato qualche proposizion vera, sarà stato frutto de i comandamenti suoi, e i medesimi diranno mia scusa quando non mi succeda il conseguir l'intero d'impresa nuova e tanto difficile.

Circa a quello che ella m'accenna del pensiero dell'Eccellentissimo Sig. Federico Cesi Principe, è ben vero che io mandai a S. E. copia delle due lettere solari, ma non con intenzione che fossero pubblicate con le stampe, ché in tal caso vi arei applicato studio e diligenza maggiore; perché, se ben l'assenso e l'applauso di V. S. sola è da me desiderato e stimato egualmente come di tutto 'l mondo insieme, tuttavia tal indulto mi prometto dalla benignità sua e dalla cortese propensione del suo genio verso me e le cose mie, quale prometter non mi devo dalle scrupolose inquísizioni e severe censure di molti altri. Ed alcune cose mi restano ancora non ben digeste, né determinate a modo mio; delle quali una principale è l'incidenza delle macchie sopra luoghi particolari della solar superficie, e non altrove: perché, rappresentandocisi i progressi di tutte le macchie sotto specie di linee rette (argomento necessario, l'asse di tali conversioni esser eretto al piano che passa per i centri del Sole e della Terra, il quale è il solo cerchio dell'eclittica), resta, per mio parere, degno di gran considerazione, onde avvenga che le caschino solamente dentro ad una zona che per larghezza non si allontana più di 29 o 30 gradi di qua e di là dal cerchio massimo di tal conversione, sì che appena delle mille una trasgredisca, e ben di poco, tali confini; imitando in ciò le leggi de i pianeti, alli quali vengono da simili intervalli limitate le digressioni dal cerchio massimo della conversion diurna. Questo e qualche altro rispetto mi fanno ritardar il pubblicar in più diffuso trattato questa materia. Con tutto ciò il Sig. Principe può disporre ed è padrone assoluto delle cose mie; l'esser poi io sicuro del purgatissimo suo giudizio e del zelo che egli ha della reputazion mia, mi assicura, col lasciarle egli vedere, di averle stimate degne della luce.

Quanto ad Apelle, a me ancora dispiace che e non abbia veduta la mia seconda lettera avanti la pubblicazione della sua Più Accurata Disquisizione, e che la mia ambiguità e pigrizia nello scrivere non abbia potuto tener dietro alla sua resoluzione e prontezza: ben è vero che buona causa della dilazione n'è stato l'esser trattenute le mie lettere più d'un mese in Venezia, dalla troppa stima che di esse fece l'Illustrissimo Sig. Gio. Francesco Sagredo, volendo che ne restasse copia in quella città, dove a me pareva d'essere a bastanza onorato da una semplice sua lettura; il che per la moltitudine delle figure ricercò assai tempo. Dispiacemi ancora della difficoltà che apporta ad Apelle l'aver io scritto nella nostra favella fiorentina; il che ho fatto per diversi rispetti, uno de i quali è il non volere in certo modo abusare la ricchezza e perfezion di tal lingua, bastevole a trattare e spiegar e' concetti di tutte le facoltadi; e però dalle nostre Accademie e da tutta la città vien gradito lo scrivere più in questo che in altro idioma. Ma in oltre ci ho auto un altro mio particolar interesse, ed è il non privarmi delle risposte di V. S. in tal lingua, vedute da me e da gli amici miei con molto maggior diletto e meraviglia che se fossero scritte del più purgato stile latino; e parci, nel leggere lettere di locuzione tanto propria, che Firenze estenda i suoi confini, anzi il recinto delle sue mura, sino in Augusta.

Quello che V. S. mi scrive essergli intervenuto nel leggere il mio trattato Delle cose che stanno su l'acqua, cioè che quelli che da principio gli parvero paradossi, in ultimo gli riuscirono conclusioni vere e manifestamente dimostrate, sappia che è accaduto qua a molti, reputati per altri lor giudizii persone di gusto perfetto e saldo discorso. Restano solamente in contradizzione alcuni severi difensori di ogni minuzia peripatetica, li quali, per quel che io posso comprendere, educati e nutriti sin dalla prima infanzia de i lor studii in questa opinione, che il filosofare non sia né possa esser altro che un far gran pratica sopra i testi di Aristotele, sì che prontamente ed in gran numero si possino da diversi luoghi raccòrre ed accozzare per le prove di qualunque proposto problema, non vogliono mai sollevar gli occhi da quelle carte, quasi che questo gran libro del mondo non fosse scritto dalla natura per esser letto da altri che da Aristotele, e che gli occhi suoi avessero a vedere per tutta la sua posterità. Questi, che si sottopongono a così strette leggi, mi fanno sovvenire di certi obblighi a i quali tal volta per ischerzo si astringono capricciosi pittori, di voler rappresentare un volto umano o altra figura con l'accozzamento ora de' soli strumenti dell'agricoltura, ora de' frutti solamente o de i fiori di questa o di quella stagione: le quali bizzarrie, sin che vengono proposte per ischerzo, son belle e piacevoli, e mostrano maggior perspicacità in questo artefice che in quello, secondo che egli averà saputo più acconciamente elegger ed applicar questa cosa o quella alla parte imitata; ma se alcuno, per aver forse consumati tutti i suoi studii in simil foggia di dipignere, volesse poi universalmente concludere, ogni altra maniera d'imitare esser imperfetta e biasimevole, certo che 'l Cigoli e gli altri pittori illustri si riderebbono di lui. Di questi che mi son contrarii di opinione, alcuni hanno scritto ed altri stanno scrivendo; in pubblico non si è veduto sin ora altro che due scritture, una di Accademico Incognito, e l'altra di un lettor di lingua greca nello Studio di Pisa, ed amendue le invio con la presente a V. S. Gli amici miei son di parere, ed io da loro non discordo, che non comparendo opposizioni più salde, non sia bisogno di risponder altro; e stimano che per quietar questi che restano ancora inquieti, ogn'altra fatica sarebbe vana, non men che superflua per i già persuasi; ed io devo stimar le mie conclusioni vere e le ragioni valide, poi che, senza perder l'assenso di alcuno di quei che sin da principio sentivano meco, ho guadagnato quel di molti che erano di contrario parere. Però staremo attendendo il resto, e poi si risolverà quello che parrà più a proposito.

Vengo ora all'altra lettera di V. S. Illustrissima, condolendomi sopra modo che la pertinacia della sua infermità conturbi, con l'afflizione di V. S., la quiete di tanti suoi amici e servidori, e di me sopra tutti gli altri, travagliato altresì da più mie indisposizioni familiari, le quali, con l'impedirmi quasi continuamente tutti gli esercizii, mi tengono ricordato quanto, rispetto alla velocità de gli anni, sarebbe necessario lo stare in esercizio continuo a chi volesse lasciar qualche vestigio di esser passato per questo mondo. Or, qualunque si sia il corso della nostra vita, doviamo riceverlo per sommo dono dalla mano di Dio, nella quale era riposto il non ci far nulla; anzi non pur doviamo riceverlo in grado ma infinitamente ringraziar la sua bontà, la quale con tali mezzi ci stacca dal soverchio amore delle cose terrene e ci solleva a quello delle celesti e divine.

Le scuse dell'esser breve nello scrivere sono superflue appresso di me, che sempre sono per appagarmi nell'intender solamente che ella mi continui la sua buona grazia: dovrei ben io scusar la mia prolissità, o, per meglio dire, pregar lei a scusarla, e lo farei quando io dubitassi delle scuse che io mi prometto dalla sua cortesia.

Ricevei con la lettera di V. S. la seconda scrittura del finto Apelle, e mi messi a leggerla con gran curiosità, mosso sì dal nome dell'autore, come dalla qualità del titolo, il quale promette una più accurata disquisizione non solo intorno alle macchie solari, ma ancora intorno a i pianeti Medicei. E perché il termine relativo di “disquisizione più accurata” non può non riferirsi all'altre disquisizioni fatte intorno alla medesima materia, non si può dubitare che ei non abbia riguardo ancora al mio Avviso Sidereo, che pure è in rerum natura e non viene eccettuato da Apelle: onde io entrai in speranza d'esser per trovar resoluto tutto quest'argomento, del quale non potei toccarne, in detto mio Avviso, altro che i primi abbozzamenti. Oltre alle cose promesse nel titolo, vi ho trovato l'osservazion di Venere più diffusamente esplicata che nelle prime lettere, e di più alcuni particolari intorno alla Luna: nelle quali tutte materie scorgo molte opinioni di Apelle contrarie alle mie, e varie ragioni e risposte implicite alle cose prodotte da me nella prima lettera che scrissi a V. S.; le quali, per la stima che io fo dell'autore, non conviene che io trapassi o dissimuli, perché, non avendo dinanzi tavola che m'asconda e possa impedirmi la vista di chi passa innanzi e indietro, convien che per termine io gli saluti almeno. E perché tutto il progresso di queste differenze si è sin qui trattato innanzi e indietro, convien che per termine io gli saluti almeno. E perché tutto il progresso di queste differenze si è sin qui trattato innanzi a V. S. Illustrissima, di nuovo costituendomivi produrrò, più brevemente che potrò, quanto mi occorre in questo proposito. E seguendo l'ordine tenuto da Apelle, considero l'ultimo scopo della sua prima parte, che è di dimostrare come la circolazion di Venere è intorno al Sole, e non in altra guisa; e fonda tutta la sua dimostrazione, come anco fece nella prima scrittura, sopra la congiunzione mattutina di essa stella col Sole, occorsa circa li 11 di Dicembre 1611, aggiugnendoci adesso una investigazione della quantità del suo moto sotto 'l disco solare, raccolta con calcoli e dimostrazioni geometriche. E qui mi nascono due scrupoli: l'uno intorno alla maniera di maneggiare tali demostrazioni, non interamente da sodisfare a perfetto matematico; e l'altro circa l'utilità che apporta tal apparato e progresso all'intenzion primaria dell'autore.

Quanto alla maniera del dimostrare, trappasso che qualche astronomo più scrupoloso di me potrebbe risentirsi nel veder trattar archi di cerchi come se fossero linee rette, sottoponendogli a gli stessi sintomi: ma io non ne voglio tener conto, perché nel caso nostro particolare non cascano in uso archi così grandi, che l'error nel computo riesca poi di soverchio notabile.

Ma ammessa anco per esquisita tutta la dimostrazione di Apelle, io non però posso ancor penetrar interamente quello che egli abbia, in virtù di essa, preteso di ottenere da chi volesse persistere in negare la conversione di Venere intorno al Sole: perché, o gli avversarii ammetteranno per giusti i calcoli del Magini, o gli averanno per dubbii e fallaci; se gli hanno per dubbii, la fatica d'Apelle resta come inefficace, con dimostrando ella che Venere veramente venisse alla corporal congiunzione; ma se gli concedono per veri, non era necessario altro computo, bastando la sola differenza de i movimenti del Sole e della stella, insieme con la sua latitudine, presa dall'istesse Efemeridi, a intender come tal congiunzione doveva necessariamente durar tante ore, che molte e molte volte si poteva replicar l'osservazione. Né meno era necessariio il far triplicato esame sopra 'l principio mezo e fine del congresso, essendo notissimo che i calcoli sono aggiustati al mezo della congiunzione; li quali quando ammettessero errore, non però verrebbono necessariamente emendati dal riferirgli al principio o al fine del congresso, non constando ragion alcuna per la qual s'intenda non esser possibile in un calcolo d'una congiunzione errar di maggior tempo di quello della durazione del congresso. Ma io non credo che i contradittori ricorressero al negar la giustezza de i computi astronomici, e massime avendo refugii più sicuri, quali sono quelli che io proposi nella prima lettera. E sì come a i molto periti nella scienza astronomica bastava l'aver inteso quanto scrive il Copernico nelle sue Revoluzionii per accertarsi del rivolgimento di Venere intorno al Sole e della verità del resto del suo sistema, così per quelli che intendono solamente sotto la mediocrità faceva di bisogno rimuovere le da me sopradette ritirate; delle quali io non veggo che Apelle; abbia toccate se non due, e quelle anco mi par che non restino totalmente atterrate.

Io dissi nella prima lettera, che gli avversarii potrebbono ritirarsi a dire, che Venere o non si vegga sotto 'l Sole per la sua piccolezza, o vero perché sia lucida per sé stessa, o vero perche ella sia sempre superiore al Sole.

Quello che Apelle produce per levar la prima fuga a i contradittori, non basta: perché loro primieramente negheranno che l'ombra di Venere sotto 'l Sole deva apparir così grande come la luce della medesima fuori del Sole ma vicina a quello, perché l'irradiazione ascitizia rappresenta la stella assai maggiore del vero; il che è manifesto nella istessa Venere, la quale quando è sottilmente falcata, ed in conseguenza per pochi gradi separata dal Sole, si mostra in ogni modo, alla vista naturale, rotonda come l'altre stelle, ascondendo la sua figura tra l'irradiazione del suo splendore, per lo che non si può dubitare che ella ci si mostri assai maggiore che se fosse priva di lume; ed all'incontro, costituita sotto 'l lucidissimo disco del Sole, non è dubbio che il suo corpicello tenebroso verrebbe diminuito non poco (dico quanto all'apparenza) dall'ingombramento del fulgor del Sole: e però resta molto fallace il concluder che ella fussi per apparir eguale alle macchie di mediocre grandezza. E chi sa che tali macchie, per doverci apparire nel campo splendido del Sole, non sieno molto maggiori di quello che mostrano? Anzi che pur di ciò può esser ottimo testimonio a sé stesso il medesimo Apelle, riducendosi in mente quello che scrisse nella terza delle prime lettere, al secondo corollario, cioè: “maculas satis magnas esse; alias Sol magnitudine sua illas irradiando penitus absorberet”: e l'istesso conviene affermar del corpo di Venere. Doppiamente, adunque, si può errare nell'agguagliar la grandezza di Venere luminosa a quella delle macchie oscure, poi che quanto questa vien apparentemente diminuita dal vero, mediante lo splendor del Sole, tanto quella vien ingrandita.

Né con maggior efficacia conclude quel che Apelle soggiugne in questo medesimo luogo, per mantenere pur Venere incomparabilmente maggiore di quello che è e che io accennai nella prima lettera: e contro a quello che ci mostra il senso e l'esperienza, in vano si produce l'autorità d'uomini per altro grandissimi, li quali veramente s'ingannarono nell'assegnar il diametro visuale di Venere subdecuplo a quel del Sole; ma sono in parte degni di scusa, ed in parte no. Gli scusa in parte il mancamento del telescopio, venuto ad apportar agumento non piccolo alle scienze astronomiche; ma due particolari lasciano da desiderar qualche cosa nella diligenza loro. Uno è, che bisognava osservar la grandezza di Venere veduta di giorno, e non di notte, quando la capellatura de' suoi raggi la rappresenta dieci o più volte maggiore che 'l giorno, mentre ella ne è priva; ed arebbono facilmente compreso, che 'l diametro del suo piccolissimo globo non agguaglia tal volta la centesima parte del diametro solare. Era, secondariamente, necessario distinguere una costituzione da un'altra, e non indifferentemente pronunziare, il diametro visuale di Venere esser la decima parte di quel del Sole, essendo che tal diametro quando la stella è vicinissima alla Terra è più di sei volte maggiore che quando è lontanissima; la qual differenza se bene non è precisamente osservabile se non col telescopio, è nondimeno assai percettibile anco con la vista semplice. Cessa, dunque, in questo particolare l'autorità degli astronomi citati da Apelle, sopra la quale egli si appoggia. E quando bene si ammettesse, taluna macchia esser visibile nel disco solare che non agguaglia in lunghezza la centesima parte del diametro né in superficie una delle diecimila parti del cerchio visibile del Sole, non creda per ciò di aver concluso maggiormente l'apparizion di Venere; perché io gli replico, che il suo diametro nella congiunzione mattutina non pareggia la dugentesima, né la sua superficie la quarantamilesima parte, del diametro e del visibil disco del Sole.

Quanto alla seconda fuga de gli avversarii, cioè che non sia necessario che Venere oscuri parte del Sole, potendo ella esser corpo per sé stesso lucido, non resta, per mio parere, convinta per quello che produce Apelle; perché, quanto alla semplice autorità de gli antichi e moderni filosofi e matematici, dico che non ha vigore alcuno in stabilire scienza di veruna conclusione naturale, ed il più che possa operare e l'indurre opinione e inclinazion al creder più questa che quella cosa. Oltre che, io non so quanto sia vero che Platone s'inducesse a por Venere sopra 'l Sole rispetto al non vederla nelle congiunzioni sotto 'l suo disco in vista tenebrosa: so ben che Tolommeo parla in questo proposito molto diversamente da quello che vien allegato da Apelle; e troppo grave errore sarebbe stato nel principe de gli astronomi il negar le congiunzioni dirette di Venere e del Sole. Quello che dice Tolommeo nel principio del libro nono della sua Gran Costruzione, mentre e' ricerca qual si deva più probabilmente costituir l'ordine de i pianeti, impugnando la ragion di quelli che mettevano Venere e Mercurio superiori al Sole perché non l'avevano mai veduto oscurar da loro, mostra l'infirmità di questo argomento, dicendo non esser necessario che ogni stella inferiore al Sole gli faccia eclisse, potendo esser sotto 'l Sole, ma non in alcun de' cerchi che passano per il centro di quello e per l'occhio nostro: ma non per questo afferma, ciò accadere a Venere; anzi, soggiugnendo egli l'essempio della Luna, la quale nella maggior parte delle congiunzioni non adombra 'l Sole, mostra chiaramente che e' non ha voluto intender altro di Venere, se non che ella può esser sotto 'l Sole, né però oscurarlo in tutte le congiunzioni, onde possa benissimo esser accaduto, le congiunzioni osservate da quei tali non essere state dell'eclittiche. Molto sicuramente parla il Molto Reverendo P. Clavio, affermando tale ombra restar invisibile a noi per la sua piccolezza; e se bene da i detti di questi autori par che gl'inclinassero a stimar Venere non splendida per sé stessa, ma tenebrosa, tuttavia tale opinione pura non basta a convincer gli avversarii, a' quali non mancherà il poter produrre opinioni di altri in contrario.

L'altro argomento che Apelle produce, tolto dall'ottenebrazione della Luna nel passar sotto 'l Sole, non può aver vigore s'e' non dimostra prima che 'l mancamento nel Sole si faccia cospicuo sin quando la Luna occupa del suo disco meno di una delle quarantamila parti; altramente la proporzion dalla Luna a Venere non procede. Or quanto ciò sia diffilcile ad esequirsi, e manifesto ad ogn'uno.

Che Mercurio sia stato da diversi veduto sotto 'l Sole, è non solamente dubbio, ma inclina assai all'incredibile, come nell'altra accennai a V. S.: e quanto al Keplero citato in questo luogo, io non dubito punto che, come d'ingegno perspicacissimo e libero, e amico assai più del vero che delle proprie opinioni, ei sia per restar persuasissimo, tali negrezze vedute nel Sole essere state alcune delle macchie, e le congiunzioni di Mercurio aver solamente porto occasione d'applicarvi in quelle ore più fissa ed accurata considerazione; con la qual diligenza anco in altri tempi si sarieno vedute, sì come frequentemente si sono per vedere per l'innanzi, e già le ho fatte vedere a molti.

Resti per tanto indubitabilmente dimostrata l'oscurità di Venere dalla sola esperienza che io scrissi nella prima lettera, e che ora pone qui Apelle nel terzo luogo, cioè dal vedersi variar in lei le figure al modo della Luna; e siaci, oltre a ciò, per solo fermo e così forte argomento da stabilir la revoluzione di Venere circa 'l Sole, che non lasci luogo alcuno di dubitare: e però si deve reputare degno d'esser da Apelle delineato, come figura principalissima, nella più cospicua e nobil parte della sua tavola, e non in un angolo in guisa di pilastro, per appoggio e sostegno di qualche figura che senz'esso sembrasse a' riguardanti di minacciar rovina.

Ma passo ad alcune considerazioni intorno a quello che Apelle in parte replica ed in parte aggiugne al già scritto in proposito delle macchie solari. Dove in generale mi par che nelle loro determinazioni e' vadia più presto manco resoluto che avanti non aveva fatto, se ben insieme insieme si mostra desideroso di presentarle più tosto modificate che diversificate, anzi che nel fine afferma, tutte le cose dette nelle prime lettere restar costanti; con tutto ciò vengo in qualche speranza d'averlo a vedere nella terza scrittura d'opinioni intrinsecamente assai conformi alle mie, non dico già in virtù di queste lettere, le quali per la difficoltà della lingua non possono da lui esser vedute, ma perché col pensare verranno ancora a lui in mente quelle osservazioni, quelle ragioni e quelle soluzioni medesime, che hanno persuaso me a scrivere ciò che ho scritto nella prima e nella seconda lettera e che aggiungo nella presente. E già si vede quanti particolari e' mette in questa seconda scrittura, non osservati ancora nella prima. Stimò avanti, le macchie solari essere tutte di figura sferica, dicendo che se si potessero veder separate dal Sole, ci apparirebbono tante piccole lune, altre falcate, altre in forma di mezzo cerchio, altre di più che mezzo, e forse altre interamente piene: ora con maggior verità scrive, rarissime essere sferiche, e spessissime di figure irregolari. Ha parimente osservato, come rarissime o nessuna mentengono la medesima figura per tutto 'l tempo che restano cospicue, ma stravagantemente si vanno mutando, ed ora crescendo ora scemando; e, quello che è più, ha veduto come improvisamente altre nascono, altre si dissolvono, anco nel mezo del Sole, e come alcune si dividono in due o più ed, all'incontro, molte si uniscono in una: i quali particolari furon da me toccati nella prima lettera. Stimò già, che le fossero stelle erranti, e situate in diverse lontananze dal Sole, sì che alcune fussero meno ed altre più remote, in guisa che moltissime andassero vagando tra 'l Sole e Mercurio e ancora tra Mercurio e Venere, in debite distanze, facendosi visibili solamente quando s'incontrano col Sole; ma ora non sento raffermar una tanta lontananza, e parmi che e' si contenti di mostrar che le non sono dentro al corpo solare né contigue alla sua superficie, ma fuori, in lontananza solamente di qualche considerazione, come si può ritrarre dalle ragioni che egli usa in dimostrar la sua opinione.

Io facilmente converrei con Apelle in creder che le non sieno nel Sole, cioè immerse dentro alla sua sustanza; ma non affermerei già questo in vigor delle ragioni addotte da esso, nella prima delle quali e' piglia un supposto che senz'altro gli sarà negato da chi volesse difender il contrario: perché non è alcuno così semplice, che volendo sostener le macchie esser immerse dentro alla solar sostanza, e appresso ammetter la loro continua mutabilità di figura di mole di separazione ed accozzamento, conceda insieme il Sole esser duro ed immutabile; ma resolutamente negherà tale assunto e la prova che di esso apporta Apelle, fondata su l'opinione, per suo detto, comune di tutti i filosofi e matematici: né piccola ragione averà di negarla, sì perché l'autorità dell'opinione di mille nelle scienze non val per una scintilla di ragione di un solo, sì perché le presenti osservazioni spogliano d'autorità i decreti de' passati scrittori, i quali se vedute l'avessero, avrebbono diversamente determinato. In oltre, quei medesimi autori che hanno stimato il Sole non esser cedente né mutabile, hanno molto men creduto ch'e' fosse sparso di macchie tenebrose; e però dove fosse forza che l'opinione del non esser macchiato cedesse all'esperienza, indarno si ricorrerebbe per difesa all'opinione della durezza e dell'immutabilità, perché dove cede quella che pareva più salda, molto meno resisteranno le men gagliarde: anzi gli avversarii, acquistando forza, negheranno il Sole esser duro o immutabile, poi che non la semplice opinione, ma l'esperienza glie lo mostra macchiato. E quanto a i matematici, non si sa che alcuno abbia mai trattato della durezza ed immutabilità del corpo solare, né che l'istessa scienza matematica sia bastante a formar dimostrazioni di simili accidenti.

La seconda ragione, fondata sul vedersi alcune macchie più oscure verso la circonferenza del Sole che poi quando sono verso le parti medie, dove par che si vadino rischiarando, non par che stringa l'avversario a doverle por fuori del Sole; sì perché l'esperienza del fatto per lo più, se non sempre, accade in contrario, sì perché la rarefazione e condensazione, accidenti non negati alle macchie, son bastanti per render ragione di tal effetto, e forse non men di quello che Apelle n'apporta dicendo che l'irradiazione più diretta e più forte, fatta quando la macchia è intorno al mezo del disco che quando è vicina alla circonferenza, produce tal diminuzion di negrezza. [...] E però, per mio parere, meglio per avventura sarebbe il dire (qual volta non si volesse ricorrere al più o men denso e raro) che l'istessa macchia appar meno oscura intorno al centro che verso l'estremità, perché qui vien veduta per coltello e quivi per piatto, accadendo in questo l'istesso che in una piastra di vetro, la quale veduta per taglio appare oscura e opaca molto, ma per piano chiara e trasparente; e questo servirebbe per argomento a dimostrar che la larghezza di tali macchie è molto maggior che la loro profondità.

Quello che si soggiugne per provare che le macchie non son lagune o cavernose voragini nel corpo solare, si può liberamente concedere tutto, perché io non credo che alcuno sia per introdur mai una tale opinione per vera. Ma perché né io né, che io sappia, altri ha conteso che le macchie siano immerse nella sustanza del Sole, ma ben ho replicatamente scritto a V. S., e, s'io non m'inganno, necessariamente concluso, che le siano o contigue al Sole o per distanza a noi insensibile separate da quello, è bene che io esamini le ragioni che Apelle produce per argomenti irrefragabili onde la di loro lontananza non piccola dalla solar superficie ci si faccia manifesta.

Prende Apelle la sua ragione dal vedersi le macchie dimorar a tempi ineguali sotto la faccia del Sole, e quelle che la traversano per la linea massima, passando per lo centro, dimorar più che quelle che passano per linee remote dal centro; e ne adduce l'osservazion di due, l'una delle quali dimorò giorni 16 nel diametro, e l'altra, passando alquanto lontana dal centro, scorse la sua linea in giorni 14. Or qui vorrei trovar parole di poter senza offesa di Apelle, il quale io intendo di onorar sempre, negare tale esperienza; perché, avendo io circa questo particolare fatte molte e molte diligentissime osservazioni, non ho trovato incontro alcuno onde si possa concluder altro, se non che le macchie tutte indifferentemente dimorano sotto 'l solar disco tempi eguali, che al mio giudizio sono qualche cosa più di giorni 14: e questo affermo tanto più resolutamente, quanto che sarà per avanti in potestà di ciascheduno il farne senza incomodo mille e mille osservazioni. E quanto alla particolare esperienza che Apelle ci propone, v'ho qualche scrupolo, per aver egli eletto nella prima osservazione non il transito di una macchia sola, ma di un drappello assai numeroso, e di macchie che molto si andarono variando di posizione tra di loro; dalle quali cose ne conséguita che tale osservazione, come soggetta a molte accidentarie alterazioni, non sia a bastanza sicura per determinare essa sola una tanta conclusione. Anzi gl'irregolari movimenti particolari di esse macchie rendono le osservazioni soggette a tali alterazioni, che non è da prender resoluzione se non dalla conferenza di molti e molti particolari: il che ho fatto sopra la moltitudine di più di 100 disegni grandi ed esatti, ed ho incontrate bene alcune piccole differenze di tempi ne i passaggi, ma ho anco trovato alternatamente esser non meno talor più tarde le macchie de' cerchi più vicini al centro del disco, che altra volta quelle de' più remoti.

Ma quando anco non ci fosse in pronto di poter far incontri sopra i disegni già fatti e sopra quelli che si faranno, parmi ad ogni modo di poter dalle cose stesse proposte ed ammesse da Apelle ritrar certa contradizione, per la quale molto ragionevolmente si possa dubitare circa la verità dell'addotta osservazione ed, in consequenza, della conclusione che indi si deduce. Imperò che io prima considero, che dovendo egli valersi della disegualità de' tempi de' passaggi delle macchie come di argomento necessariamente concludente la notabil lontananza loro dalla superficie del Sole, è forza che e' supponga, quelle essere in una sola sfera che di un moto comune a tutte si vada volgendo; perché se e' volesse che ciascuna avesse suo moto particolare, niente da ciò si potrebbe raccòrre che concernesse alla prova della remozion loro dal Sole, perché si potria sempre dire che la maggior o la minor dimora di queste o di quelle nascesse non dalla distanza della lor sfera dal Sole, ma dalla vera e reale desegualità de' lor proprii moti. [...]

E perché, come ho detto ancora, questo è punto principalissimo in questa materia, e la differenza tra Apelle e me è grande (poi che le conversioni delle macchie a me paiono tutte eguali e traversare il disco solare in giorni l4 e mezzo in circa, e ad esso tanto ineguali, che alcuna consumi in tal passaggio giorni 16 o più, ed altra 9 solamente), parmi che sia molto necessario il tornar con replicato esame a ricercar l'esatto di questo particolare; ricordandoci che la natura, sorda ed inesorabile a' nostri preghi, non è per alterare o ner mutare il corso de' suoi effetti, e che quelle cose che noi procuriamo adesso d'investigare e poi persuadere a gli altri, non sono state solamente una volta e poi mancate, ma seguitano e seguiteranno gran tempo il loro stile, sì che da molti e molti saranno vedute ed osservate: il che ci deve esser gran freno per renderci tanto più circospetti nel pronunziare le nostre proposizioni, e nel guardarci che qualche affetto, o verso noi stessi o verso altri, non ci faccia punto piegare dalla mira della pura verità. [...]

Io spero che da quanto sin qui ho detto Apelle doverà restar satisfatto, e massime aggiugnendovi quello che ho scritto nella seconda lettera; e crederò ch'e' non sia per metter difficoltà non solo nella massima vicinanza delle macchie al globo solare ma né anco nella di lui revoluzione in sé medesimo. In confirmazion di che, posso aggiugnere alle ragioni che scrissi nella seconda lettera a V. S., che nella medesima faccia del Sole, si veggono tal volta alcune piazzette più chiare del resto, nelle quali, con diligenza osservate, si vede il medesimo movimento che nelle macchie; e che queste sieno nell'istessa superficie del Sole, non credo che possa restar dubbio ad alcuno, non essendo in verun modo credibile che si trovi fuor del Sole sustanza alcuna più di lui risplendente: e se questo è, non mi par che rimanga luogo di poter dubitare del rivolgimento del globo solare in sé medesimo. E tale è la connession de' veri, che di qua poi corrispondentemente ne séguita la contiguità delle macchie alla superficie del Sole, e l'esser dalla sua conversione menate in volta; non apparendo veruna probabil ragione, come esse (quando fossero per molto spazio separate dal Sole) dovessero seguitare il di lui rivolgimento.

Restami ora il considerare alcune consequenze che Apelle va deducendo dalle cose disputate: la somma delle quali par che tenda al sostentamento di quel ch'egli si trova avere stabilito nelle sue prime lettere, cioè che tali macchie in fine altro non sieno che stelle vaganti intorno al Sole; perché non solamente e' torna a nominarle stelle solari, ma va accomodando alcune convenienze e requisiti tra esse e l'altre stelle, acciò resti tolta ogni discrepanza e ragione di segregarle dalle vere stelle. Per tal rispetto ed anco per applauder alle mie montuosità lunari (del quale affetto io gli rendo grazie), dice che tal mia opinione non è improbabile scorgendosi anco l'istesso nella maggior parte di queste macchie; ragione, in vero, che congiunta con le altre dimostrazioni ch'io produco, doverà quietare ogn'uno.

Che il parer di quelli che pongono abitatori in Giove, in Venere in Saturno e nella Luna sia falso e dannando, intendendo però per abitatori gli animali nostrali e sopra tutto gli uomini, io non solo concorro con Apelle in reputarlo tale, ma credo di poterlo con ragioni necessarie dimostrare. Se poi si possa probabilmente stimare, nella Luna o in altro pianeta esser viventi e vegetabili diversi non solo da i terrestri, ma lontanissimi da ogni nostra immaginazione, io per me né lo affermerò né lo negherò, ma lascerò che più di me sapienti determinino sopra ciò, e seguiterò le loro determinazioni; sicuro che sieno per esser meglio fondate della ragione addotta da Apelle in questo luogo, cioè che sarebbe assurdo il mettergli in tanti corpi, quasi che il porre animali, per essempio, nella Luna non si potesse far senza porgli anco nelle macchie solari. Né anco ben capisco l'illazione che fa Apelle del doversi conceder qualche lume reflesso alla Terra, persuadendone ciò le macchie solari: anzi, perché la loro reflessione non è molto cospicua, e quello che in esse scorgiamo non può esser altro che lume refratto, se nulla convenisse dedur da tale accidente sarebbe più presto che la Terra fosse di sostanza trasparente e permeabile dal lume del Sole; il che poi non appar vero. Non però dico che la Terra non lo refletta; anzi per molte ragioni ed esperienze son sicurissimo ch'ella non meno s'illustra di qualunque altra stella, e che con la sua reflessione luce assai maggiore rende alla Luna di quella che da lei riceve.

Ma poi che Apelle si rende così difficile a conceder questa così potente reflessione di lume fatta dal globo terreste, e così facile ad ammettere il corpo lunare traspicuo e penetrabile da i raggi solari, come in questo luogo ed ancor più apertamente replica verso il fine di questi discorsi, voglio produrre una o due delle molte ragioni che mi persuadono quella conclusione per vera e questa per falsa; le quali, per avventura risolute con qualche occasione da Apelle, potrebbono farmi cangiar opinione. Non tacerò intanto che io fortemente dubito, che questo comun concetto, che la Terra, come opachissima oscura ed aspra che l'è, sia inabile a reflettere il lume del Sole, sì come all'incontro molto lo reflette la Luna e gli altri pianeti, sia invalso tra 'l popolo perché non ci avvien mai il poterla vedere da qualche luogo tenebroso e lontano nel tempo che il Sole la illumina, come, per l'opposito, frequentemente vediamo la Luna, quando ed ella si trova nel campo oscuro del cielo, e noi siamo ingombrati dalle tenebre notturne; ed accadendoci, dopo aver non senza qualche meraviglia fissati gli occhi nello splendor della Luna e delle stelle, abbassargli in Terra, restiamo dalla sua oscurità in certo modo attristati, e di lei formiamo una tale apprensione, come di cosa repugnante per sua natura ad ogni lucidezza; non considerando più oltre, come nulla rileva al ricevere e reflettere il lume del Sole, la densità oscurità ed asprezza della materia e che l'illuminare è dote e virtù del Sole, non bisognosa d'eccellenza veruna ne i corpi che devono essere illuminati, anzi più presto sendo necessario il levargli certe condizioni più nobili, come la trasparenza della sustanza e la lisciezza della superficie, facendo quella opaca e questa ruvida e scabrosa: ed io son molto ben sicuro, contro alla comune opinione, chè quando la Luna fosse polita e tersa come uno specchio, ella non solamente non ci refletterebbe, come fa, il lume del Sole, ma ci resterebbe assolutamente invisibile, come se la non fosse al mondo; il che a suo luogo con chiare dimostrazioni farò manifesto.

Ma per non traviare dal particolare che ora tratto, dico che facilmente m'induco a credere, che se già mai non ci fosse occorso il veder la Luna di notte, ma solamente di giorno, avremmo di lei fatto il medesimo concetto e giudizio che della Terra: perché, se porremo cura alla Luna il giorno, quando talvolta, sendo più che 'l quarto illuminata, ella s'imbatte a trovarsi tra le rotture di qualche nugola bianca o vero incontro a qualche sommità di torre o altro muro di color mezzanamente chiaro, quando rettamente sono illustrati dal Sole, sì che della chiarezza di quelli si possa far parallelo col lume della Luna, certo si troverà la lor lucidezza non esser inferiore a quella della Luna; onde se loro ancora potessero mantenersi così illustrati sin alle tenebre della notte, lucidi ci si mostrerieno non meno della Luna, né men di quella illuminerebbono i luoghi a loro circonvicini, sin a tanta distanza da quanta la lor grandezza non apparisse minor della faccia lunare; ma le medesime nugole e l'istesse muraglie, spogliate de' raggi del Sole, rimangono poi la notte, non men della Terra, tenebrose e nere. Di più, gran sicurezza doveremo noi pur prender dall'efficace reflession della Terra dal veder quanto lume si sparga in una stanza priva d'ogn'altra luce, e solo illuminata dalla reflession di qualche muro oppostogli e tocco dal Sole, ancor che tal reflessione passi per un foro così angusto, che dal luogo dove ella vien ricevuta non apparisca il suo diametro sottendere ad angolo maggiore che 'l visual diametro della Luna; nulla di meno tal luce secondaria è così potente, che, ripercossa e rimandata dalla prima in una seconda stanza, sarà ancor tanta che non punto cederà alla prima reflessione della Luna: di che si ha chiara e facile esperienza dal veder che più agevolmente leggeremo un libro con la seconda reflession del muro, che con la prima della Luna. Aggiungo finalmente, che pochi saranno quelli a' quali, scorgendo di notte da lontano qualche fiamma sopra d'un monte, non sia accaduto star in dubbio, se fosse un fuoco o una stella radente l'orizonte, non ci apparendo il lume della stella superiore a quel d'una fiamma; dal che ben si può credere che se la Terra fosse tutta ardente e piena di fiamme, veduta dalla parte tenebrosa della Luna, si mostrerebbe non men lucida d'una stella: ma ogni sasso ed ogni zolla percossa dal Sole e assai più lucida che se ardesse; il che si conoscerà facilmente, accostando una candela accesa appresso una pietra o un legno direttamente ferito dal raggio solare, al cui paragone la fiamma resta invisibile: adunque la Terra, percossa dal Sole, veduta dalla parte tenebrosa della Luna, si mostrerà lucida come ogn'altra stella; e tanto maggior lume refletterà nella Luna, quanto ella vi si dimostra di smisurata grandezza, cioè di superficie circa 12 volte maggiore di quello che la Luna apparisce a noi; oltre che, trovandosi la Terra nel novilunio più vicina al Sole che la Luna nel plenilunio, e però sendo più gagliardamente, cioè più d'appresso, illuminata quella che questa, più gagliardamente, in consequenza refletterà il lume la Terra verso la Luna, che la Luna verso la Terra.

Per queste e per molte altre ragioni ed esperienze, che per brevità tralascio, dovrebbe, per mio credere, stimarsi la reflession della Terra bastante alla secondaria illuminazion della luna, senza bisogno d'introdurvi alcuna perspicuità, e massime perspicuità in in quel grado che da Apelle ci viene assegnata, nella quale mi par di scorgere alcune inesplicabili contradizioni. Egli scrive, la trasparenza del corpo lunare esser tanta, che ne gli eclissi del Sole, mentre di lui una parte era ricoperta dalla Luna, si scorgeva sensibilmente per la di lei profondità tralucer il disco del Sole, notabilmente dintornato e distinto. Ora io noto, che una semplice nugola, e non delle più dense, interponendosi tra il Sole e noi, talmente ce l'asconde, che indarno cercheremo di appostare a molti gradi il luogo dove ei si ritrova nel Cielo, non che potessimo vedere il suo perimetro distinto e terminato; e molto frequentemente si vedrà il Sole mezo coperto da una nugola, senza che appaia né anco accennato un minimo vestigio della circonferenza della parte celata; e pure siamo sicuri che la grossezza di tal nugola non sarà molte decine o al più centinaia di braccia: ed oltre a ciò, se tal volta, essendo sul giogo di qualche montagna, c'imbattiamo a passar per una tal nugola, non la troviamo esser tanto densa e opaca, che almeno per alcune poche braccia non dia il transito alla nostra vista; il che non farebbe per avventura altrettanta grossezza di vetro o di cristallo: onde per necessaria consequenza si raccoglie, se e vero quanto Apelle scrive, che la trasparenza della Luna sia infinitamente maggiore che quella d'una nugola, poi che molto meno impediscono il passaggio de' raggi solari duemila miglia di profondità della sustanza lunare, che poche braccia di grossezza d'una nugola; sarà, dunque, la sustanza lunare assai più trasparente del vetro o del cristallo: la qual cosa poi per altri rispetti si convince d'impossibilità. Perché, primieramente da un diafano nel quale tanto si profondassero i raggi solari, niuna o pochissima reflessione si farebbe; dove che, all'incontro, grandissima si fa dalla Luna. Secondariamente, il termine che distinguesse la parte illuminata della Luna dalla parte non tocca da i raggi diretti del Sole sarebbe nullo o indistintissimo, come si può vedere in una gran palla di vetro piena d'acqua, ben che torbida, o d'altro liquore non interamente trasparente (ché se fosse acqua limpida, tal termine non si vedrebbe punto). Terzo, essendo tanto trasparente la sustanza lunare, che in grossezza di duemila miglia desse il transito al lume del Sole, non si può dubitare che una grossezza della medesima materia che non fosse più di una delle dugento o trecento parti sarebbe in tutto trasparentissima; al che totalmente repugnano le montuosità lunari, le quali tutte, ben che molte di loro si vegghino assai sottili e strette, oscurano d'ombre nerissime le parti circonvicine e basse, come in luoghi innumerabili si scorge, e massime nel confine tra l'illuminato e l'oscuro, dove taglientissimamente e crudamente, quanto più imaginar si possa, i lumi conterminano con le ombre, il quale accidente in verun modo non può aver luogo se non in materie simili in asprezza ed opacità alle nostre più alpestri montagne. Finalmente, quando lo splendor del Sole penetrasse tutta la corpulenza della Luna, la chiarezza dell'emisfero non tocco da i raggi dovria mostrarsi sempre l'istessa né mai diminuirsi, poi che sempre è nell'istesso modo illuminata la metà della Luna: o se pur diversità alcuna veder vi si dovesse dovrebbesi nel novilunio veder la parte di mezzo più oscura del resto, essendo quivi maggior la profondità della materia da esser penetrata; e nelle quadrature maggior chiarezza dovria esser vicino al confin della luce, e minor nella parte più remota. Le quali cose, e molte altre che per brevità trapasso, rendono iscordissima tal ipotesi dall'apparenze; dove che l'assunto dell'opacità e dell'asprezza della Luna, e la reflessione del lume del Sole nella Terra, ipotesi tutte e vere e sensate, con mirabil facilità e pienezza satisfanno ad ogni particolar problema. Ma di ciò più diffusamente tratto in altra occasione.

E tornando a i particolari d'Apelle, sento nascermi qualche poco d'inclinazione a dubitar ch'egli, trasportato dal desiderio di mantenere il suo primo detto, né potendo puntualmente accomodar le macchie a gli accidenti per l'addietro creduti convenirsi all'altre stelle, accomodi le stelle a gli accidenti che veggiamo convenirsi alle macchie: il che assai manifesto par che si scorga in due altri gran particolari ch'egli introduce. L'uno de' quali è, che probabilmente si possa dire, anco le altre stelle esser di varie figure ed apparir rotonde mediante il lume e la distanza, come accade nella fiamma della candela (e ci si potria aggiugnere, in Venere cornicolata): e in vero tale asserzione non si potrebbe convincer di manifesta falsità, se il telescopio, col mostrarci la figura di tutte le stelle, così fisse come erranti, di assoluta rotondità, non decidesse tal dubbio. L'altro particolare è, che non si potendo negare che le macchie si produchino e si dissolvino, per non le sequestrar per tale accidente dall'altre stelle, non dubita d'affermare che anco le altre stelle si vadino disfacendo e redintegrando; ed in particolare reputa per tali quelle ch'io ho osservato muoversi intorno a Giove, delle quali torna a replicare il medesimo che scrisse nelle prime lettere, raffermandolo come fondatamente detto, cioè che, al modo stesso dell'ombre solari, altre repentinamente appariscono ed altre svaniscono, sì che, pur come quelle, altre sempre ad altre succedono, senza mai ritornar le medesime: né picciolo argomento cava in confirmazion di ciò dalla difficoltà e forse impossibilità, come egli stima, del cavare i loro periodi ordinati dalle osservazioni, delle quali egli afferma averne molte ed esatte, e sue; proprie e di altri. Or qui desidererei bene che Apelle non continuasse di reputarmi per uomo così vano e leggiero, che non solo i' avessi palesate ed offerte al mondo macchie ed ombre per istelle, ma, quello che più importa, avessi dedicato alla gloria di sì gran Principe qual è il Serenissimo Gran Duca mio Signore, ed all'eternità di casa tanto regia, cose momentanee instabili e transitorie. Replicogli per tanto, che i quattro pianeti Medicei sono stelle vere e reali, permanenti e perpetue come l'altre, né si perdono o ascondono se non quanto si congiungono tra loro o con Giove, o si oscurano tal volta per poche ore nell'ombra di quello, come la Luna in quella della Terra: hanno i lor moti regolatissimi ed i lor periodi certi, li quali se egli non ha potuto investigare, forse non vi si è affaticato quanto me, che dopo molte vigilie pur li guadagnai, e già gli ho palesati con le stampe nel proemio del mio trattato Delle cose che stanno su l'acqua o che in quella si muovono, come V. S. arà potuto vedere; ed acciò che Apelle possa tanto maggiormente deporre ogni dubbio, io mando a V. S. le costituzioni future per due mesi, cominciando dal dì primo di Marzo 1613, con le annotazioni de i progressi e mutazioni che d'ora in ora son per fare, le quali egli potrà andar incontrando, e troveralle rispondere esattamente, se già non mi sarà per inavvertenza occorso qualche errore nel calcolarle. Desidero appresso, che con nuova diligenza torni ad osservarne il numero che troverà non esser più di 4: e quella quinta che e' nomina, fu senz'altro una fissa, e le conietture dalle quali e' si lasciò sollevare a stimarla errante, ebbero per lor fondamento varie fallacie; conciosia cosa che le sue osservazioni, primieramente sono errate bene spesso, come io veggo da' suoi disegni, perché lasciano qualche stella che in quelle ore fu cospicua: secondariamente, gl'interstizi tra di loro e rispetto a Giove sono errati quasi tutti, per mancamento, com'io credo, di modo e di strumento da potergli misurare; terzo, vi sono grandi errori nella permutazione delle stelle, scambiandole il più delle volte l'una dall'altra e confondendo le superiori con l'inferiori, senza riconoscerle di sera in sera; le quali cose gli sono state causa dell'inganno.

[...] Ma più: qual incostanza è questa d'Apelle a voler, per provare una sua fantasia, suppor in questo luogo che le stelle notate nelle sue osservazioni e conrassegnate con i medesimi caratteri si conservino le medesime; dicendo poi poco più a basso, creder fermamente che le si vadino continuamente producendo e successivamente dissolvendo, senza ritornar mai l'istesse? E se questo è, qual cosa vuol egli, e può, raccòrr da questi suoi discorsi?

All'altra ragione che Apelle adduce pur in confirmazione della vera esistenza del suo quinto pianeta Gioviale, non mi permettendo la fede e l'autorità, ch'ei tiene appresso di me, ch'io metta dubbio nell'an sit, non posso dir altro se non che io non son capace, come possa accadere che una stella, veduta col telescopio di mole e splendore pari ad una della prima grandezza, possa in manco 10 giorni, e, quel che più mi confonde, senza muoversi d'un quarto o di un ottavo di grado, anzi, per più ver dire, senza punto mutar luogo, possa, dico, diminuirsi in maniera, che anco del tutto si perda. Non so che simil portento sia mai stato veduto in cielo, fuori che le due, nominate, Stelle Nuove, del 72 in Cassiopea, e del 604 nel Serpentario: e se questa fu una tal cosa, o tanto inferior di condizione quanto men lucida e più fugace, provido fu il consiglio di Apelle nel procurargli durazion e lume dall'Illustrissima casa Velsera.

Non son dunque le Gioviali, né l'altre stelle, macchie ed ombre, né l'ombre e macchie solari sono stelle. Ben è vero ch'io metto così poca difficoltà sopra i nomi, anzi pur so ch'è in arbitrio di ciascuno l'imporgli, a modo suo, che, tuttavolta che col nome altri non credesse di conferirgli le condizioni intrinseche ed essenziali, poco caso farei del nominarle stelle: in quella guisa che stelle si dissero le sopranominate del 72 e del 604; stelle nominano i meteorologici le crinite, le cadenti e le discorrenti per aria, ed essendo in fin permesso a gli amanti ed a' poeti chiamare stelle gli occhi delle lor donne,

 

Quando si vidde il successor d'Astolfo

sopra apparir quelle ridenti stelle.

 

Con simile ragione potransi chiamare stelle anco le macchie solari; ma essenzialmente averanno condizioni differenti non poco dalle prime stelle: avvenga che le vere stelle ci si mostrano sempre di una sola figura, ed è la regolarissima fra tutte; e le macchie, d'infinite, ed irregolarissime tutte: quelle, consistenti né mai mutatesi di grandezza o di forma; e queste, instabili sempre e mutabili: quelle, l'istesse sempre, e di permanenza che supera le memorie di tutti i secoli decorsi; queste, generabili e dissolubili dall'uno all'altro giorno: quelle, non mai visibili, se non piene di luce; queste, oscure sempre, e splendide non mai: quelle, o in tutto immobili, o mobili ogn'una per sé, di moti proprii, regolari e tra di loro differentissimi; queste, mobili di un moto solo, comune a tutte, regolare solamente in universale, ma da infinite particolari disagguaglianze alterato: quelle, costituite tutte in particolare in diverse lontananze dal Sole; e queste, tutte contigue, o insensibilmente remote dalla sua superficie: quelle, non mai visibili se non quando sono assai separate dal Sole; queste, non mai vedute se non congiuntegli: quelle, di materia probabilissimamente densa ed opacissima; queste, rare a guisa di nebbia o fumo. Ora io non so per qual ragione le macchie si devino ascrivere tra quelle cose con le quali non hanno pure una particolar convenienza che non ve l'abbino ancora cento altre che stelle non sono, più presto che tra quelle con le quali mostrano di convenire in ogni particolare. Io le agguagliai alle nostre nugole o a fumi; e certo chi volesse con alcuna delle nostre materie imitarle, non credo che facilmente si trovasse più aggiustata imitazione, che 'l porre sopra una rovente piastra di ferro alcune piccole stille di qualche bitume di difficil combustione, il quale sul ferro imprimerebbe una macchia nera, dalla quale, come da sua radice, si eleverebbe un fumo oscuro, che in figure stravaganti e mutabili si anderebbe spargendo. E se alcuno pur volesse opinabilmente stimare, che alla restaurazione dell'immensa luce che da sì gran lampada continuamente si diffonde per l'espansion del mondo, facesse di mestiere che continuamente fusse somministrato pabulo e nutrimento, ben averebbe non una sola, ma 100 e tutte l'esperienze concordemente favorevoli, nelle quali vediamo tutte le materie, fatte prossime all'incendersi e convertirsi in luce, ridursi prima ad un color nero ed oscuro; così vediamo ne' legni nella paglia, nella carta, nelle candele, ed in somma in tutte le cose ardenti, esser la fiamma impiantata e sorgente dalle contigue parti di tali materie, prima convertite in color nero. E più direi, che forse più accuratamente osservando le sopranominate piazzette, lucide più del resto del disco solare, si potrebbe ritrovare, quelle esser i luoghi medesimi dove poco avanti si fossero dissolute alcune delle macchie più grandi. Io però non intendo di asserire alcuna di queste cose per certa, né di obbligarmi a sostenerla, non mi piacendo di mescolar le cose dubbie tra le certe e resolute.

Di qua dall'Alpi va attorno, come intendo tra non piccol numero de i filosofi peripatetici a i quali non grava il filosofare per desiderio del vero e delle sue cause (perché altri che indifferentemente negano tutte queste novità e sene burlano, stimandole illusioni, è ormai ternpo che ci burliamo di loro, e che essi restino invisibili ed inaudibili insieme), va attorno, dico, per difender l'inalterabilità del cielo (la quale forse Aristotele medesimo in questo secolo abbandonerebbe), una opinione conforme a questa d'Apelle, e solamente diversa, che dove egli pone per ciascuna macchia una stella sola, questi fanno le macchie congerie di molte minutissime, le quali con loro differenti movimenti aggregandosi, or in maggior copia, ora in minore, e quindi separandosi, formino e maggiori e minori macchie, e di sregolate e diversissime figure. Io, già che ho passato il segno della brevità con V. S., sì che ella è per leggere in più volte la presente lettera, mi prenderò libertà di toccare qualche particolare sopra questo punto.

Nel quale il primo concetto che mi viene in mente è, che i seguaci di questa opinione non abbino auto occasione di far molte e molto diligenti e continuate osservazioni; perché mi persuado che alcune difficoltà gli averebbono resi non poco dubbii e perplessi nell'accomodare una tal posizione alle apparenze. Perché, se bene è vero in genere che molti oggetti, ben che per la lor piccolezza o lontananza invisibili ciascuno per sé solo, uniti insieme possono formare un aggregato che divenga percettibile alla nostra vista, tuttavia non è da fermarsi su questa generalità, ma bisogna che descendiamo a i particolari proprii delle stelle ed a quelli che si osservano nelle macchie, e che diligentemente andiamo esaminando, con qual concordia questi e quelli possino mischiarsi e convenire insieme; e per non far come quel castellano che, sendo con piccol numero di soldati alla difesa d'una fortezza, per soccorrer quella parte che vede assalita vi accorre con tutte le forze lasciando intanto altri luoghi indifesi ed aperti, conviene che, mentre ci sforziamo di difender l'immutabilità del cielo, non ci scordiamo de i pericoli a i quali per avventura potriano restar esposte altre proposizioni, pur necessarie alla conservazione della filosofia peripatetica. E però, se questa deve restare nella sua integrità e saldezza, conviene che, per mantenimento d'altre sue proposizioni, diciamo primieramente, delle stelle altre esser fisse, altre erranti: chiamando fisse quelle che, sendo tutte in un medesimo cielo, al moto di quello si muovono tutte, restando intanto immobili tra di loro; ma erranti, quelle.che hanno ogn'una per sé movimento proprio: affermando di più, che le conversioni non meno di queste che di quelle sono ciascheduna equabile in sé medesima, non convenendo dare alle lor motrici intelligenze briga di affaticarsi or più or meno, che saria condizione troppo repugnante alla nobiltà ed alla inalterabilità loro e delle sfere. Stanti queste proposizioni, non si può, primieramente, dire che tali stelle solari sien fisse; perché, quando non si mutassero tra di loro, impossibil sarebbe vedere le mutazioni continue che pur si scorgono nelle macchie, ma sempre vedremo ritornar le medesime configurazioni. Resta, dunque, che le siano mobili, ciascheduna per sé, di movimenti diseguali fra di loro, ma ben ciascuno equabile in sé medesimo: ed in tal guisa potrà seguire l'accozzamento e la separazione di alcune di loro, ma non però potranno mai formar le macchie; il che intenderemo considerando alcuni particolari che nelle macchie si scorgono. Uno de' quali è, che vedendosene alcune molto grandi prodursi e dissolversi, è forza che le siano composte non di due o di quattro stelle solamente, ma di 50 e 100, perché altre macchiette pur si veggono, minori della cinquantesima parte d'una delle grandi; se, dunque, una di queste si dissolve, sì che totalmente svanisce da gli occhi nostri, è necessario che la si divida in più di 50 stellette, ciascheduna delle quali ha il suo proprio e particolar moto, equabile e differente da quello d'ogn'altra, perché due che avessero il moto comune non si congiugnerebbono o non si separerebbono già mai in faccia del Sole: ma se queste cose son vere, chi non vede essere assolutamente impossibile la formazione delle macchie? e massime durando esse non solamente molte ore, ma molti giorni; sì come è impossibile che cinquanta barche, movendosi tutte con velocità differenti, si unischino già mai, e per lungo spazio vadino di conserva. Quando le stellette fussero disunite, e però invisibili, non potriano essere se non per lunghi ordini disposte, l'una dopo l'altra, secondo la lunghezza de' lor paralleli, ne i quali (sì come nelle visibili macchie si scorge) tutte verso la medesima parte si vanno movendo; onde tantum abest che 40 o 50 o100 di loro potessero tanto frequentemente aggregarsi e così unite per lungo spazio conservarsi, che per l'opposito rarissime volte accader potrebbe che, tra momenti diseguali, cadesse sì numeroso concorso di stelle in un sol luogo: ma assolutamente poi sarebbe impossibile che e' non si dissolvesse in brevissimo tempo; e pur, all'incontro, si veggono molte macchie conservarsi talora per molti giorni, con poca alterazion di figura. Chi, dunque, vorrà sostener, le macchie esser congerie di minute stelle, bisogna che introduca nel cielo ed in esse stelle e movimenti innumerabili, tumultuarii, difformi e lontani da ogni regolarità; il che non ben consuona con alcuna probabil filosofia.

Sarà, di più, necessario porle più numerose di tutte l'altre visibili stelle: perché, se noi riguarderemo la moltitudine e grandezza di tutte le macchie che tal volta si son vedute sotto l'emisferio del Sole, e quelle andremo risolvendo in particelle così piccole che divenghino incospicue, troveremo bisognar che necessariamente le siano molte centinaia; ed essendo, di più, credibile che altre ne siano non solamente sopra l'altro emisferio, ma dalle bande ancora del Sole, non si potrà ragionevolmente sfuggire di dover porle oltre al migliaio. Or qual simmetria si andrà conservando tra le lontananze delle stelle erranti ed i tempi delle lor conversioni, se discendendo dall'immenso cerchio di Saturno sin all'angustissirno di Mercurio non s'incontrano più di 10 o 12 stelle né più di 6 conversioni di periodi differenti intorno al Sole, dovendone poi collocar centinaia e migliaia dentro a così piccolo orbe? ché pur saria necessario racchiuderle dentro alle digressioni di Mercurio, poi che già mai non si rendono visibili in aspetto lucido e separate dal Sole. Ma che dico io di racchiuderle dentro all'orbe di Mercurio? diciamo pure, che essendosi necessariamente dimostrato, le macchie esser tutte contigue o insensibilmente remote dalla superficie del Sole, bisogna, a chi le vuol far creder congerie di minute stelle, trovar prima modo di persuadere che sopra la solar superficie molte e molte centinaia di globi oscuri e densi vadino serpendo con differenti velocitadi, e spesso urtandosi e tra di loro facendosi ostacolo, onde le scorse de' più veloci restino per alcuni giorni impedite da i più pigri; sì che dal concorso di gran moltitudine si formino in molti luoghi varii drappelli, di ampiezza a noi visibile, sin tanto che la calca della sopravvegnente moltitudine, sforzando finalmente i precedenti, si faccia strada e si disperda il gregge.

A grandi angustie bisogna ridursi: e poi, per sostener che? e con quale efficacia dimostrato? Per mantenere la materia celeste aliena dalle condizioni elementari, insino da ogni picciola alterazioncella. Se quella che vien chiamata corruzzione fosse annichilazione, averebbono i Peripatetici qualche ragione a essergli così nemici; ma se non è altro che una mutazione, non merita cotanto odio; né parmi che ragionevolmente alcuno si querelasse della corruzion dell'uovo, mentre di quello si genera il pulcino. In oltre, essendo questa che vien detta generazione e corruzione, solo una piccola mutazioncella in poca parte de gli elementi e quale né anco dalla Luna, orbe prossimo, si scorgerebbe, perché negarla nel cielo. Pensano forse, argomentando dalla parte al tutto, che la Terra sia per dissolversi e corrompersi tutta, in guisa che sia per venir tempo nel quale il mondo, avendo Sole Luna e l'altre stelle sia per trovarsi senza Terra? Non credo già che abbino tal sospetto. E se le sue piccole mutazioni non minacciano alla Terra la sua total destruzione, né gli sono d'imperfezione, anzi di sommo ornamento, perché privarne gli altri corpi mondani, e temer tanto la dissoluzione del cielo per alterazioni non più di queste nemiche della natural conservazione? Io dubito che 'l voler noi misurar il tutto con la scarsa misura nostra ci faccia incorrere in strane fantasie, e che l'odio nostro particolare contro alla morte ci renda odiosa la fragilità: tuttavia non so dall'altra banda quanto, per divenir manco mutabili, ci fosse caro l'incontro d'una testa di Medusa, che ci convertisse in un marmo o in un diamante, spogliandoci de' sensi e di altri moti, li quali senza le corporali alterazioni in noi sussister non potrebbono. Io non voglio passar più innanzi né entrar a esaminare la forza delle peripatetiche ragioni, al che mi riserbo in altro tempo: questo solo soggiugnerò, parermi azione non interamente da vero filosofo il voler persistere, siami lecito dir quasi ostinatamente in sostener conclusioni peripatetiche scoperte manifestamente false, persuadendosi forse che Aristotele, quando nell'età nostra Si ritrovasse, fosse per far il medesimo; quasi che maggior segno di perfetto giudizio e più nobil effetto di profonda dottrina sia il difendere il falso, che 'l restar persuaso dal vero. E parmi che simili ingegni dieno occasione altrui di dubitare, che loro per avventura apprezzin manco l'esattamente penetrar la forza delle peripatetiche e delle contrarie ragioni, che 'l conservar l'imperio all'autorità d'Aristotele, come ch'ella sia bastante con tanto lor minor travaglio e fatica a schivargli tutte l'opposizioni pericolose, quanto è men difficile il trovar testi e 'l confrontar luoghi che l'investigar conclusioni vere e 'l formar di loro nuove e concludenti dimostrazioni. E parmi, oltre a ciò, che troppo vogliamo abbassar la condizion nostra, e non senza qualche offesa della natura e direi quasi della divina Benignità (la quale per aiuto all'intender la sua gran costruzione ci ha conceduti 2000 anni più d'osservazioni e vista 20 volte più acuta, che ad Aristotele), col voler più presto imparar da lui quello ch'egli né seppe né potette sapere, che da gli occhi nostri e dal nostro proprio discorso. Ma per non m'allontanar più dal mio principal intento, dico bastarmi per ora l'aver dimostrato che le macchie non sono stelle né materie consistenti né locate lontane dal Sole, ma che si producono e dissolvono intorno ad esso, con maniera non dissimile a quella delle nugole o altre fumosità intorno alla Terra.

Questo è quanto per ora m'è parso di dire a V. S. Illustrissima in proposito di questa materia, la quale io credeva che dovesse essere il sigillo di tutti i nuovi scoprimenti che ho fatti nel cielo, e che per l'avvenire mi fosse per restar ozio libero di poter tornare senza interrompimenti ad altri miei studii, già che mi era anco felicemente succeduto l'investigare, dopo molte vigilie e fatiche, i tempi periodici di tutti quattro i pianeti Medicei, e fabbricarne le tavole e ciò che appartiene a' calcoli ed altri loro particolari accidenti; le quali cose in breve manderò in luce, con tutto il resto delle considerazioni fatte intorno all'altre celesti novità: ma è restato fallace il mio pensiero per l'inaspettata meraviglia con la quale Saturno è venuto ultimamente a perturbarmi; di che voglio dar conto a V. S.

Già le scrissi come circa a 3 anni fa scopersi, con mia grande ammirazione, Saturno esser tricorporeo, cioè un aggregato di tre stelle disposte in linea retta parallela all'equinoziale, delle quali la media era assai maggiore delle laterali. Queste furono credute da me esser immobili tra di loro: né fu la mia credenza irragionevole; poi che, avendole nella prima osservazione vedute tanto propinque che quasi mostravano di toccarsi, e tali essendosi conservate per più di due anni, senza apparire in loro mutazione alcuna, ben dovevo io credere che le fossero tra di sé totalmente immobili, perché un solo minuto secondo (movimento incomparabilmente più lento di tutti gli altri, anco delle massime sfere) Si sarebbe in tanto tempo fatto sensibile, o col separare o coll'unire totalmente le tre stelle. Triforme ho veduto ancora Saturno quest'anno circa il solstizio estivo; ed avendo poi intermesso di osservarlo per più di due mesi, come quello che non mettevo dubbio sopra la sua costanza, finalmente, tornato a rimirarlo i giorni passati, l'ho ritrovato solitario senza l'assistenza delle consuete stelle, ed in somma perfettamente rotondo e terminato come Giove, e tale si va tuttavia mantenendo. Ora che si ha da dir in così strana metamorfosi? forse si sono consumate le due minor stelle, al modo delle macchie solari? forse sono sparite e repentinamente fuggite? forse Saturno si ha divorato i proprii figli? o pure è stata illusione e fraude l'apparenza con la quale i cristalli hanno per tanto tempo ingannato me con tanti altri che meco molte volte gli osservarono? è forse ora venuto il tempo di rinverdir la speranza, già prossima al seccarsi, in quelli che, retti da più profonde contemplazioni, hanno penetrato tutte le nuove osservazioni esser fallacie, né poter in veruna maniera sussistere? Io non ho che dire cosa resoluta in caso così strano inopinato e nuovo la brevità del tempo, l'accidente senza esempio, la debolezza dell'ingegno e 'l timore dell'errare, mi rendono grandemente confuso. Ma siami per una volta permesso di usare un poco di temerità, la quale mi dovrà tanto più benignamente esser da V. S. perdonata, quanto io la confesso per tale, e mi protesto che non intendo di registrar quello che son per predire tra le proposizioni dependenti da principii certi e conclusioni sicure, ma solo da alcune mie verisimili conietture, le quali allora farò palesi, quando mi bisogneranno o per mostrare la scusabile probabilità dell'opinione alla quale per ora inclino, o per stabilire la certezza dell'assunta conclusione, qual volta il mio pensiero incontri la verità. Le proposizioni son queste: Le due minori stelle Saturnie, le quali di presente stanno celate, forse si scopriranno un poco per due mesi intorno al solstizio estivo dell'anno prossimo futuro 1613, e poi s'asconderanno, restando celate sin verso il brumal solstizio dell'anno 1614; circa il qual tempo potrebbe accadere che di nuovo per qualche mese facessero di sé alcuna mostra, tornando poi di nuovo ad ascondersi sin presso all'altra seguente bruma; al qual tempo credo bene con maggior risolutezza che torneranno a comparire, né più si asconderanno, se non che nel seguente solstizio estivo che sarà dell'anno 1615, accenneranno alquanto di volersi occultare ma non però credo che si asconderanno interamente, ma ben, tornando poco dopo a palesarsi, le vedremo distintissime e più che mai lucide e grandi; e quasi risolutamente ardirei di dire che le vedremo per molti anni senza interrompimento veruno. Sì come, dunque, del ritorno io non ne dubito, così vo con riserbo ne gli altri particolari accidenti, fondati per ora solamente su probabil coniettura: ma, o succedino così per appunto o in altro modo, dico bene a V. S. che questa stella ancora, e forse non men che l'apparenza di Venere cornicolata, con ammirabil maniera concorre all'accordamento del gran sistema Copernicano, al cui palesamento universale veggonsi propizii venti indirizzarci con tanto lucide scorte, che ormai poco ci resta da temere tenebre o traversie.

Finisco di occupar più V. S. Illustrissima, ma non senza pregarla ad offerir di nuovo l'amicizia e la servitù mia ad Apelle: e se lei determinasse di fargli vedere questa lettera, la prego a non la mandar senza l'accompagnatura di mie scuse, se forse gli paresse ch'io troppo dissentissi dalle sue opinioni; perché, non desiderando altro che 'l venire in cognizion del vero, ho liberamente spiegata l'opinion mia, la quale son anco disposto a mutare qualunque volta mi sieno scoperti gli errori miei, e terrò obbligo particolare a chiunque mi farà grazia di palesargli e castigargli.

Bacio a V. S. Illustrissima le mani, e caramente la saluto d'ordine dell'Illustrissimo Sig. Filippo Salviati, nella cui amenissima villa mi ritrovo a continuar in sua compagnia l'osservazioni celesti. Nostro Signore Dio gli conceda il compimento d'ogni suo desiderio.

 

Dalla Villa delle Selve, il I° di Dicembre 1612.

                                Di V. S. Illustrissima

                                                                                              Devotissimo Servitore

Galileo Galilei Linceo.


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IX

 

A MAFFEO BARBERINI IN BOLOGNA

 

 

(Firenze, 2 giugno 1612)

Ill.mo e Rev.mo Sig.re e P.ron Colen.mo

 

Tra i molti favori riceuti da V. S. Ill.ma e R.ma, mi resta fisso nella memoria quello che ella mi fece alla tavola del Ser.mo Gran Duca mio Sig.re nel passar ella ultimamente di qua, quando, disputandosi di certa quistion filosofica, lei sostenne la parte mia contro all'Ill.mo e R.mo Sig.re Cardinal Gonzaga e altri di opinione contraria alla mia; e perché mi è convenuto, per comandamento di S.A., mettere più distintamente in carta le mie ragioni, e appresso publicarle con la stampa, che pur ora si è compita, mi è parso di doverne mandare una copia a V. S. R.ma, e appresso supplicarla che con sua comodità resti servita di vedere o sentire quanto io propongo in questo trattato, dove credo che ella non meno scorgerà che prese il patrocinio tanto di un suo servitore quanto della verità stessa.

Credo che averà inteso il romore, che va a torno in proposito delle macchie oscure che continuamente si scorgono e osservano con l'occhiale nel corpo del sole; e perché di costì mi viene scritto che uomini di molta stima di cotesta città se ne burlano come di paradosso e assurdo gravissimo, mi è parso di toccare brevemente a V. S. Ill.ma quanto passa circa a questo negozio

Sono circa a diciotto mesi, che riguardando con l'occhiale nel corpo del sole, quando era vicino al suo tramontare, scorsi in esso alcune macchie assai oscure; e ritornando più volte alla medesima osservazione, mi accorsi come quelle andavano mutando sito, e che non sempre si vedevano le medesime, o nel medesimo ordine disposte, e che tal volta ve n'eron molte, altra volta poche, e tal ora nessune. Feci ad alcuni mia amici vedere tale stravaganza, e pur l'anno passato in Roma le mostrai a molti prelati e altri uomini di lettere; di lì fu sparso il grido per diverse parti d'Europa, e da quattro mesi ha qua mi sono state mandate da varii luoghi varie osservazioni disegnate, e in particolare tre lettere circa a questo argomento scritte al Sig.r Marco Velsero d'Augusta, e date alle stampe con un nome finto di Apelles latens post tabulam; le quali lettere mi furon mandate da l'istesso Velsero, il quale mi ricercò del mio parere intorno alle dette lettere, e più circa a quello che io stimavo di poter sapere dell'essenza di esse macchie. Io gli scrissi una lettera di sei fogli in tal proposito, confutando l'opinione del finto Apelle e di quelli che sin qui ne avevano parlato; e finalmente, dopo molti e varii pensieri che mi sono passati per la fantasia, mi risolvo a concludere e indubitatamente tenere, che le dette macchie siano contigue alla superficie del corpo solare, e che quivi se ne generino e se ne dissolvino continuamente, essendo altre di più lunga e altre di più breve durata: sonvene delle più dense e oscure, e delle meno; per lo più si vanno di giorno in giorno mutando di figura, la quale è il più delle volte irregolarissima; frequentemente alcuna di loro si divide in due, tre o più, e altre, prima divise, si uniscono in una; e finalmente, in virtù di un loro universale e comune movimento, son venuto in certezza indubitabile che il sole si rivolge in sé stesso da occidente verso oriente, cioè secondo tutte le altre revoluzioni de' pianeti terminando un'intera conversione in un mese lunare in circa. E per quanto ho osservato, la moltitudine massima di tali macchie si genera tra due cerchi del globo solare che rispondono ai tropici, e fuori di tali cerchi non ho quasi mai osservata alcuna di tali macchie; le quali, quanto alla generazione e dissoluzione, rarefazione, condensazione, distrazione e mutamenti di figura e ogn'altro accidente, se io dovesse agguagliare ad alcuna delle materie nostre familiari non se ne troverebbe altra che più l'imitasse che le nostre nugole.

Tutto questo che dico a V. S. Ill.ma e R.ma è talmente vero, e per tanti e tanto necessari riscontri da me confermato, che non mi perito punto a darlo omai fuori per sicuro; e il burlarsene molti, come intendo, non mi spaventa punto, perché siamo in materie che sempre potranno da infiniti e in tutte le parti del mondo esser osservate, e di mano in mano da quelli di miglior senso riconosciute per vere: onde io animosamente ardisco di esser il primo a dar fuora conclusioni che hanno sembianza di sì strani paradossi. Solo mi dispiace che quelli che se ne burlano, giuocano, come si suol dire, al sicuro, certi di non perdere e con rischio di guadagnar assai; perché, se quanto io affermo e loro negano si trovasse esser falso, loro senza fatica nessuna avrebbono il vanto di aver meglio inteso, che altri doppo molte e laboriose osservazioni; e quando si venga in certezza che quanto io dico sia vero, essi restano scusati dal non avere prestato l'assenso a cose tanto inopinate. Se V. S. Ill.ma averà vedute le tre lettere del finto Apelle, io gli potrò mandare copia della lettera che scrivo al Sig. Velsero in tal materia intanto gli mando alcuni disegni delle macchie solari, fatti con somma giustezza tanto circa al numero quanto circa alla grandezza, figura e situazione di esse di giorno in giorno nel disco solare. Se occorrerà a V. S. Ill.ma trattare di questa mia resoluzione con i litterati di cotesta città, averò per grazia il sentire alcuna cosa de i loro pareri e in particolare de i filosofi Peripatetici, poi che questa novità pare il giudizio finale della loro filosofia, poi che iam fuerunt signa in luna, stellis et sole, insieme con la mutabilità, corruzione e generazione anco della più eccellente sustanza del cielo, tal dottrina accenna corruzione e mutazione, ma non senza speranza di rigenerarsi in melius.

Ho tediato a bastanza V. S. Ill.ma e R.ma: scusimi per la sua infinita benignità, e per la medesima mi conservi il luogo che si è degnata donarmi nella grazia sua. E umilmente me l'inchino.

 

Di Firenze, li 2 di Giugno 1612.

 

Di V. S. Ill.ma e R.ma

Devot.mo e Oblig.mo Ser.re

                                                                                                                             Galileo Galilei.


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X

 

A PAOLO GUALDO IN PADOVA

 

(Firenze, 16 giugno 1612)

 

Molto Ill.re e molto R.do Sig.re Osser.mo

 

Ho inteso per la gratissima sua quanto passa sin ora in proposito della lettera mia circa le macchie solari; di che mi prendo gusto, e in particolare di quelli che, per non avere a credere, non vogliono vedere; e il gusto procede perché io sto sempre sul guadagnare e mai sul perdere, perché continuamente si vien convertendo qualche incredulo, e de i già persuasi mai non se ne ribella veruno; perché tutto 'l giorno si vanno scoprendo nuovi rincontri in confirmazion della verità; la quale chi l'ha dalla banda sua, sta bene, e può ridere nel veder gl'avversarii sbattersi e affaticarsi in vano. Ho anco un'altra consolazione: che queste macchie solari e gl'altri miei scoprimenti non son cose che col tempo passino via e non tornino così per fretta, come le stelle nuove del 72 e 604 o come le comete, che pur finalmente si perdono e danno agio, con la lor mancanza, di riposarsi a coloro che, mentre esse furon presenti, stettero in qualche angustia; ma queste gli terranno sempre al tormento, perché sempre si vedranno: ed è ben ragione che la natura mandi una volta a vendicarsi contro l'ingratitudine di coloro che tanto tempo l'hanno bistrattata, e che per certa loro sciocca ostinazione voglion tener serrati gl'occhi contro a quel lume ch'ella, per loro insegnamento gli tien sempre davanti. Ecco che ella finalmente con caratteri indelebili ci mostra chi ell'è e quanto ella sia nemica dell'ozio, ma che sempre e in ogni luogo gli piace di operare, generare, produrre e dissolvere, e queste sono le sue somme eccellenze. Ma non voglio ora entrare in materie da non esser capite in una lettera.

Ho ricevuto dal S. Velsero aviso come la mia gl'è pervenuta, e che gl'è stata grata; ma che Apelle per ora non potrà vederla, per non intender la lingua. Io l'ho scritta vulgare, perché ho bisogno che ogni persona la possi leggere, e per questo medesimo rispetto ho scritto nel medesimo idioma questo ultimo mio trattatello: e la ragione che mi muove, è il vedere, che mandandosi per gli Studii indifferentemente i gioveni per farsi medici, filosofi etc., sì come molti si applicano a tali professioni essendovi inettissimi, così altri, che sariano atti, restano occupati o nelle cure familiari o in altre occupazioni aliene dalla letteratura. [...] Con tutto ciò vorrei che anco l'Apelle e gl'altri oltramontani potessero vederla; e qui, per esser io occupatissimo, averei bisogno del favore di V. S. e del S. Sandeli, il quale mi facesse grazia di trasferirla quanto prima in latino e mandarmela poi subito, perché in Roma è chi si è preso cura di farla stampare insieme con alcune altre mie. Io intanto anderò finendo la seconda per farne l'istesso, e parimente l'invierò a V. S.; e caso che il S. Sandeli voglia favorirmi, perché so che alcuni termini proprii e alcune frasi dell'arte potriano dargli qualche fastidio, non occorre che guardi a ciò, perchè io in questa parte la ridurrò a i proprii nostri termini. Se io potrò aver tal grazia, V. S. me n'avvisi subito, e ne procuri quanto prima l'espedizione; e intanto si comincerà a far stampar la italiana in Roma, e il tutto resti inter nos. Che sarà per fine di questa, con baciar a V. S. e a tutti gl'amici con ogni affetto le mani, pregandogli da Dio ogni contento .

 

Di Firenze, li 16 di Giugno 1612.

 

Di V. S. molto I. e molto R.da

Se.re Oblig.mo

 

Galileo Galilei.

 

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XI

 

A DON BENEDETTO CASTELLI IN PISA

 

(Firenze, 21 dicembre 1613)

 

Molto reverendo Padre e Signor mio Osservandissimo,

 

Ieri mi fu a trovare il signor Niccolò Arrighetti, il quale mi dette ragguaglio della Paternità Vostra: ond'io presi diletto infinito nel sentir quello di che io non dubitavo punto, ciò è della satisfazion grande che ella dava a tutto cotesto Studio, tanto a i sopraintendenti di esso quanto a gli stessi lettori e a gli scolari di tutte le nazioni: il qual applauso non aveva contro di lei accresciuto il numero de gli emoli, come suole avvenir tra quelli che sono simili d'esercizio, ma più presto l'aveva ristretto a pochissimi; e questi pochi dovranno essi ancora quietarsi, se non vorranno che tale emulazione, che suole anco tal volta meritar titolo di virtù, degeneri e cangi nome in affetto biasimevole e dannoso finalmente più a quelli che se ne vestono che a nissun altro. Ma il sigillo di tutto il mio gusto fu il sentirgli raccontar i ragionamenti ch'ella ebbe occasione, mercé della somma benignità di coteste Altezze Serenissime, di promuovere alla tavola loro e di continuar poi in camera di Madama Serenissima, presenti pure il Gran Duca e la Serenissima Arciduchessa, e gl'Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori D. Antonio e D. Paolo Giordano ed alcuni di cotesti molto eccellenti flosofi. E che maggior favore può ella desiderare, che il veder Loro Altezze medesime prender satisizione di discorrer seco, di promuovergli dubbii, di ascoltarne le soluzioni, e finalmente di restar appagate delle risposte della Paternità Vostra?

I particolari che ella disse, referitimi dal signor Arrighetti, mi hanno dato occasione di tornar a considerare alcune cose in generale circa 'l portar la Scrittura Sacra in dispute di conclusioni naturali ed alcun'altre in particolare sopra 'l luogo di Giosuè, propostoli, in contradizione della mobilità della Terra e stabilità del Sole, dalla Gran Duchessa Madre, con qualche replica della Serenissima Arciduchessa.

Quanto alla prima domanda generica di Madama Serenissima, parmi che prudentissimamente fusse proposto da quella e conceduto e stabilito dalla Paternità Vostra, non poter mai la Scrittura Sacra mentire o errare, ma essere i suoi decreti d'assoluta ed inviolabile verità. Solo avrei aggiunto, che, se bene la Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de' suoi interpreti ed espositori, in varii modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole, perché così vi apparirebbono non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d'ira, di pentimento, d'odio, e anco talvolta l'obblivione delle cose passate e l'ignoranza delle future. Onde, sì come nella Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa per accomodarsi alI'incapacità del vulgo, così per quei pochi che meritano d'esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori produchino i veri sensi, e n'additino le ragioni particolari per che siano sotto cotali parole stati profferiti.

Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d'esposizioni diverse dall'apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella doverebbe esser riserbata nell'ultimo luogo: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all'intendimento dell'universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all'incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d'operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli; pare che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch'avesser nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com'ogni effetto di natura. Anzi, se per questo solo rispetto, d'accomodarsi alla capacità de' popoli rozzi e indisciplinati, non s'è astenuta la Scrittura d'adombrare de' suoi principalissimi dogmi, attribuendo sino all'istesso Dio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, chi vorrà asseverantemente sostenere che ella, posto da banda cotal rispetto, nel parlare anco incidentemente di Terra o di Sole o d'altra creatura, abbia eletto di contenersi con tutto rigore dentro a i limitati e ristretti significati delle parole? E massime pronunziando di esse creature cose lontanissime dal primario instituto di esse Sacre Lettere, anzi cose tali, che, dette e portate con verità nuda e scoperta, avrebbon più presto danneggiata l'intenzion primaria, rendendo il vulgo più contumace alle persuasioni de gli articoli concernenti alla salute

Stante questo, ed essendo di più manifesto che due verità non posson mai contrariarsi, è ofizio de' saggi espositori affaticarsi per trovare i veri sensi de' luoghi sacri, concordanti con quelle conclusioni naturali delle quali prima il senso manifesto o le dimostrazioni necessarie ci avesser resi certi e sicuri. Anzi, essendo, come ho detto, che le Scritture, ben che dettate dallo Spirito Santo, per l'addotte cagioni ammetton in molti luoghi esposizioni lontane dal suono litterale, e, di più, non potendo noi con certezza asserire che tutti gl'interpreti parlino inspirati divinamente, crederei che fusse prudentemente fatto se non si permettesse ad alcuno l'impegnar i luoghi della Scrittura e obbligargli in certo modo a dover sostenere per vere alcune conclusioni naturali, delle quali una volta il senso e le ragioni dimostrative e necessarie ci potessero manifestare il contrario. E chi vuol por termine a gli umani ingegni? chi vorrà asserire, già essersi saputo tutto quello che è al mondo di scibile ? E per questo, oltre a gli articoli concernenti alla salute ed allo stabilimento della Fede, contro la fermezza de' quali non è pericolo alcuno che possa insurger mai dottrina valida ed efficace, sarebbe forse ottimo consiglio il non ne aggiunger altri senza necessità: e se così è, quanto maggior disordine sarebbe l'aggiugnerli a richiesta di persone, le quali, oltre che noi ignoriamo se parlino inspirate da celeste virtù, chiaramente vediamo ch'elleno son del tutto ignude di quella intelligenza che sarebbe necessaria non dirò a redarguire, ma a capire, le dimostrazioni con le quali le acutissime scienze procedono nel confermare alcune lor conclusioni ?

Io crederei che l'autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell'istesso Spirito Santo. Ma che quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d'intelletto, abbia voluto, posponendo l'uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, non penso che sia necessario il crederlo, e massime in quelle scienze delle quali una minima particella e in conclusioni divise se ne legge nella Scrittura; qual appunto è l'astronomia, di cui ve n'è così piccola parte, che non vi si trovano né pur nominati i pianeti, Però se i primi scrittori sacri avessero auto pensiero di persuader al popolo le disposizioni e movimenti de' corpi celesti, non ne avrebbon trattato così poco, che è come niente in comparazione dell'infinite conclusioni altissime e ammirande che in tale scienza si contengono.

Veda dunque la Paternità Vostra quanto, s'io non erro, disordinatamente procedino quelli che nelle dispute naturali, e che direttamente non sono de Fide, nella prima fronte costituiscono luoghi della Scrittura, e bene spesso malamente da loro intesi. Ma se questi tali veramente credono d'avere il vero senso di quel luogo particolar della Scrittura, ed in consequenza si tengon sicuri d'avere in mano l'assoluta verità della quistione che intendono di disputare, dichinmi appresso ingenuamente, se loro stimano, gran vantaggio aver colui che in una disputa naturale s'incontra a sostener il vero, vantaggio, dico, sopra l'altro a chi tocca sostener il falso? So che mi risponderanno di sì, e che quello che sostiene la parte vera, potrà aver mille esperienze e mille dimostrazioni necessari; per la parte sua, e che l'altro non può aver se non sofismi paralogismi e fallacie. Ma se loro, contenendosi dentro a' termini naturali né producendo altr'arme che le filosofiche, sanno d'essere tanto superiori all'avversario, perché, nel venir poi al congresso, por subito mano a un'arme inevitabile e tremenda, che con la sola vista atterrisce ogni più destro ed esperto campione? Ma, s'io devo dir il vero, credo che essi sieno i primi atterriti, e che, sentendosi inabili a potere star forti contro gli assalti dell'avversario, tentino di trovar modo di non se lo lasciar accostare. Ma perché, come ho detto pur ora, quello che ha la parte vera dalla sua, ha gran vantaggio, anzi grandissimo, sopra l'avversario, e perché è impossibile che due verità si contrariino, però non doviamo temer d'assalti che ci venghino fatti da chi si voglia, pur che a noi ancora sia dato campo di parlare e d'essere ascoltati da persone intendenti e non soverchiamente alterate da proprie passioni e interessi.

In confermazione di che, vengo ora a considerare il luogo particolare di Giosuè, per il qual ella apportò a loro Altezze Serenissime tre dichiarazioni; e piglio la terza, che ella produsse come mia, sì come veramente è, ma v'aggiungo alcuna considerazione di più, qual non credo d'avergli detto altra volta.

Posto dunque e conceduto per ora all'avversario, che le parole del testo sacro s'abbino a prender nel senso appunto ch'elle suonano, ciò è che Iddio a' preghi di Giosuè facesse fermare il Sole e prolungasse il giorno, ond'esso ne conseguì la vittoria; ma richiedendo io ancora, che la medesima determinazione vaglia per me, sì che l'avversario non presumesse di legar me e lasciar sé libero quanto al poter alterare o mutare i significati delle parole; io dico che questo luogo ci mostra manifestamente la falsità e impossibilità del mondano sistema Aristotelico e Tolemaico, e all'incontro benissimo s'accomoda co 'l Copernicano.

E prima, io dimando all'avversario, s'egli sa di quali movimenti si muova il Sole? Se egli lo sa, è forza che e' risponda, quello muoversi di due movimenti, cioè del movimento annuo da ponente verso levante, e del diurno all'opposito da levante a ponente.

Ond'io, secondariamente, gli domando se questi due movimenti, così diversi e quasi contrarii tra di loro, competono al Sole e sono suoi proprii egualmente ? È forza risponder di no, ma che un solo è suo proprio e particolare, ciò è l'annuo, e l'altro non è altramente suo, ma del cielo altissimo, dico del primo mobile, il quale rapisce seco il Sole e gli altri pianeti e la sfera stellata ancora, constringendoli a dar una conversione 'ntorno alla Terra in 24 ore, con moto, come ho detto, quasi contrario al loro naturale e proprio.

Vengo alla terza interrogazione, e gli domando con quale di questi due movimenti il Sole produca il giorno e la notte, cioè se col suo proprio o pure con quel del primo mobile ? È forza rispondere, il giorno e la notte esser effetti del moto del primo mobili e dal moto proprio del Sole depender non il giorno e la notte, ma le stagioni diverse e l'anno stesso.

Ora, se il giorno depende non dal moto del Sole ma da quel del primo mobile, chi non vede che per allungare il giorno bisogna fermare il primo mobile, e non il Sole? Anzi, pur chi sarà ch'intenda questi primi elementi d'astronomia e non conosca che, se Dio avesse fermato 'l moto del Sole, in cambio d'allungar il giorno l'avrebbe scorciato e fatto più breve? perché, essendo 'l moto del Sole al contrario della conversione diurna, quanto più 'l Sole si movesse verso oriente, tanto più si verrebbe a ritardar il suo corso all'occidente; e diminuendosi o annullandosi il moto del Sole, in tanto più breve tempo giugnerebbe all'occaso: il qual accidente sensatamente si vede nella Luna, la quale fa le sue conversioni diurne tanto più tarde di quelle del Sole, quanto il suo movimento proprio è più veloce di quel del Sole. Essendo, dunque, assolutamente impossibile nella costituzion di Tolomeo e d'Aristotile fermare il moto del Sole e allungare il giorno, sì come afferma la Scrittura esser accaduto, adunque o bisogna che i movimenti non sieno ordinati come vuol Tolomeo, o bisogna alterar il senso delle parole, e dire che quando la Scrittura dice che Iddio fermò il Sole, voleva dire che fermò 'l primo mobile, ma che, per accomodarsi alla capacità di quei che sono a fatica idonei a intender il nascere e 'l tramontar del Sole, ella dicesse al contrario di quel che avrebbe detto parlando a uomini sensati

Aggiugnesi a questo, che non è credibile ch'Iddio fermasse il Sole solamente, lasciando scorrer l'altre sfere; perché senza necessità nessuna avrebbe alterato e permutato tutto l'ordine, gli aspetti e le disposizioni dell'altre stelle rispett'al Sole, e grandemente perturbato tutto 'l corso della natura: ma è credibile ch'Egli fermasse tutto 'l sistema delle celesti sfere, le quali, dopo quel tempo della quiete interposta, ritornassero concordemente alle lor opre senza confusione o alterazion alcuna

Ma perché già siamo convenuti, non doversi alterar il senso delle parole del testo, è necessario ricorrere ad altra costituzione delle parti del mondo, e veder se conforme a quella il sentimento nudo delle parole cammina rettamente e senza intoppo, sì come veramente si scorge avvenire.

Avendo io dunque scoperto e necessariamente dimostrato, il globo del Sole rivolgersi in sé stesso, facendo un'intera conversione in un mese lunare in circa, per quel verso appunto che si fanno tutte l'altre conversioni celesti; ed essendo, di più, molto probabile e ragionevole che il Sole, come strumento e ministro massimo della natura, quasi cuor del mondo, dia non solamente, com'egli chiaramente dà, luce, ma il moto ancora a tutti i pianeti che intorno se gli raggirano; se, conforme alla posizion del Copernico, noi attribuirem alla Terra principalmente la conversion diurna; chi non vede che per fermar tutto il sistema, onde, senza punto alterar il restante delle scambievoli relazioni de' pianeti, solo si prolungasse lo spazio e 'l tempo della diurna illuminazione, bastò che fosse fermato il Sole, com'appunto suonan le parole del sacro testo? Ecco, dunque, il modo secondo il quale, senza introdur confusione alcuna tra le parti del mondo e senza alterazion delle parole della Scrittura, si può, col fermar il Sole, allungar il giorno in Terra

Ho scritto più assai che non comportano le mie indisposizioni: però finisco, con offerirmegli servitore, e gli bacio le mani, pregandogli da Nostro Signore le buone feste e ogni felicità.

 

Di Firenze, li 21 Dicembre 1613

 

 

Di Vostra Paternità molto Reverenda

 

Servitore Affezionatissimo

Galileo Galilei.


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XII

 

A MONSIGNOR PIERO DINI IN ROMA

 

(Firenze, 16 febbraio 1615)

 

Molto Illustre e Reverendissimo Signor mio Colendissimo,

 

 

Perché so che Vostra Signoria molto Illustre e Reverendissima fu subito avvisata delle replicate invettive che furono, alcune settimane fa, dal pulpito fatte contro la dottrina del Copernico e suoi seguaci, e più contro i matematici e la matematica stessa, però non gli replicherò nulla sopra questi particolari che da altri intese: ma desidero bene che lei sappia, come, non avendo né io né altri fatte un minimo moto o risentimento sopra gl'insulti di che fummo non con molta carità aggravati, non però si son quietate l'acces'ire di quelli; anzi, essendo ritornato da Pisa il medesimo Padre che si era fatto sentire quell'anno in privati colloqui, ha aggravato di nuovo la mano sopra di me: ed essendogli pervenuta, non so donde, copia di una lettera ch'io scrissi l'anno passato al Padre Matematico di Pisa in proposito dell'apportare le autorità sacre in dispute naturali ed in esplicazione del luogo di Giosuè, vi vanno esclamando sopra, e ritrovandovi, per quanto dicono, molte eresie, ed insomma si sono aperti un nuovo campo di lacerarmi Ma perché da ogni altro che ha veduta detta lettera non mi è stato fatto pur minimo segno di scrupolo, vo dubitando che forse chi l'ha trascritta possa inavvertentemente aver mutata qualche parola; la qual mutazione, congiunta con un poco di disposizione alle censure, possa far apparire le cose molto diverse dalla mia intenzione. E perché alcuni di questi Padri, ed in particolare quest'istesso che ha parlato, se ne son venuti costà per far, come intendo, qualche altro tentativo con la sua copia di detta mia lettera, mi è parso non fuor di proposito mandarne una copia a Vostra Signoria Reverendissima nel modo giusto che l'ho scritta io, pregandola che mi favorisca di leggerla insieme col Padre Grembergiero Gesuita, matematico insigne e mio grandissimo amico e padrone, ed anche lasciargliela, se forse parrà opportuno a Sua Reverenza di farla con qualche occasione pervenire in mano dell'illustrissimo Cardinal Bellarmino, al quale questi Padri Domenicani si son lasciati intendere di voler far capo, con isperanza di far, per lo meno, dannar il libro del Copernico e la sua oppinione e dottrina

La lettera fu da me scritta currenti calamo; ma queste ultime concitazioni ed i motivi che questi Padri adducono per mostrare i demeriti di questa dottrina, ond'ella meriti di essere abolita mi hanno fatto veder qualche cosa di più scritta in simili materie: e veramente non solo ritrovo, tutto quello che ho scritto essere stato detto da loro, ma molto più ancora, mostrando con quanta circonspezione bisogni andar intorno a quelle conclusioni naturali che non son de Fide, alle quali possono arrivare l'esperienze e le dimostrazioni necessarie, e quanto perniciosa cosa sarebbe l'asserir come dottrina risoluta nelle Sacre Scritture alcuna proposizione della quale una volta si potesse aver dimostrazione in contrario. Sopra questi capi ho distesa una scrittura molto copiosa ma non l'ho ancora al netto in maniera che ne possa mandar copia a Vostra Signoria, ma lo farò quanto prima: nella quale, quel che si sia dell'efficacia delle mie ragioni e discorsi, di questo ben son sicuro, che ci si troverà molto più zelo verso Santa Chiesa e la dignità delle Sacre Lettere, che in questi miei persecutori; poi che loro proccurano di proibir un libro ammesso tanti anni da Santa Chiesa, senza averlo pur mai lor veduto, non che letto o inteso; ed io non fo altro che esclamare che si esamini la sua dottina e si ponderino le sue ragioni da persone cattolichissime ed intendentissime, che si rincontrino le sue posizioni con l'esperienze sensate, e che in somma non si danni se prima non si trova falso, se è vero che una proposizione non possa insieme esser vera ed erronea. Non mancano nella cristianità uomini intendentissimi della professione, il parer de' quali circa la verità o falsità della dottrina non doverà esser posposto all'arbitrio di chi non è punto informato e che pur troppo chiaro si conosce essere da qualche parziale affetto alterato, sì come benissimo conoscono molt; che si trovono qua in fatto, e che veggono tutti gli andamenti e son informati, almeno in parte, delle macchine e trattato

Niccolò Copernico fu uomo non pur cattolico, ma religioso e canonico; fu chiamato a Roma sotto Leone X, quando nel Concilio Lateranense si trattava l'emendazione del calendario ecclesiastico, facendosi capo a lui come a grandissimo astronomo. Restò nondimeno indecisa tal riforma per questa sola cagione, perché la quantità de gli anni e de' mesi de' moti del Sole e della Luna non erano abbastanza stabiliti: onde egli, d'ordine del vescoro Semproniense, che allora era sopraccapo di questo negozio, si messe con nuove osservazioni ed accuratissimi studii all'investigazione di tali periodi; e ne conseguì in somma tal cognizione, che non solo regolò tutti i moti de' corpi celesti, ma si acquistò il titolo di sommo astronomo, la cui dottrina fu poi seguita da tutti, e conforme ad essa regolato ultimamente il calendario. Ridusse le sue fatiche intorno a' corsi e costituzioni de' corpi celesti in sei libri, li quali, a richiesta di Niccolò Scombergio, cardinale Capuano, mandò in luce, e gli dedicò a Papa Paolo III, e da quel tempo in qua si son veduti publicamente senza scrupolo nessuno. Ora questi buoni frati, solo per un sinistro affetto contro di me, sapendo che; stimo questo autore, si vantano di dargli il premio delle sue fatiche con farlo dichiarare eretico.

Ma quello che è più degno di considerazione, la prima lor mossa contro questa oppinione fu il lasciarsi metter su da alcuni miei maligni che gliela dipinsero per opera mia propria, senza dirli che ella fosse già 70 anni fa stampata; e questo medesimo stile vanno tenendo con altre persone, nelle quali cercano d'imprimer sinistro concetto di me: e questo gli va succedendo in modo tale, che, sendo pochi giorni sono arrivato qua Monsignor Gherardini, vescovo di Fiesole, nelle prime visite a pien popolo, dove si abbatterono alcuni amici miei, proroppe con grandissima veemenza contro di me, mostrandesi gravemente alterato, e dicendo che n'era per far gran passata con Loro Altezze Serenissime, poi che tal mia stravagante oppinione ed erronea dava che dire assai in Roma; e forse avrà a quest'ora fatto il debito, se già non l'ha ritenuto l'essere destramente fatto avvertito, che l'autore di questa dottrina non è altramente un Fiorentino vivente, ma un Tedesco morto, che la stampò già 70 anni sono, dedicando il libro al Sommo Pontefice

Io vo scrivendo, né mi accorgo che parlo a persona informatissima di questi trattamenti, e forse tanto più di me, quanto che ella si trova nel luogo dove si fanno gli strepiti maggiori. Scusimi della prolissità; e se scorge equità nessuna nella causa mia prestimi il suo favore, chè gliene viverò perpetunente obbligato. Con che le bacio riverentemente le mani, e me gli ricordo servitore devotissimo, e dal Signore Dio gli prego il colmo di felicità.

 

Di Firenze, li 16 Febbraio 1615

 

Di V. S. molto Illustre e Reverendissima

 

Servitore Obbligatissimo

Galileo Galilei

 

Poscritta. Ancorché io difficilmente possa credere che si fosse per precipitare in prendere una tal risoluzione di annullar questo autore, tuttavia, sapendo per altre prove quanta sia la potenza della mia disgrazia, quando è congiunta con la malignità ed ignoranza de' miei avversari, mi par di aver cagione di non mi assicurar del tutto sopra la somma prudenza e santità di quelli da chi ha da dipender l'ultima risoluzione, sì che quella ancora non possa esser in parte affascinata da questa fraude che va in volta sotto il manto di zelo e di carità. Però, per non mancare, per quanto posso, a me stesso ed a quello che dalla mia scrittura vedrà in breve Vostra Signoria Reverendissima che è vero e purissimo zelo, desiderando che almanco ella possa prima esser veduta, e poi prendasi quella risoluzione che piaceri a Dio (ché io quanto a me son tanto bene edificato e disposto, che prima che contravvenire a' miei superiori, quando non potessi far altro, e che quello che ora mi pare di credere e toccar con mano mi avesse ad essere di pregiudizio all'anima, eruerem oculum meum ne me scandalizaret); io credo che il più presentaneo rimedio sia il battere alli Padri Gesuiti come quelli che sanno assai sopra le comuni lettere de' frati: però gli potrà dar la copia della lettera, ed anco leggergli se le piacerà, questa che scrivo a lei; e poi, per la sua solita cortesia, si degnerà di farmi avvisato di quanto avrà potuto ritrarre. Non so se fosse opportuno essere col signor Luca Valerio, e dargli copia di detta lettera, come uomo che è di casa del Cardinale Aldobrandino e potrebbe fare con Sua Santità qualche offizio. Di questo e di ogni altra cosa mi rimetto alla sua bontà e prudenza, e gli raccomando la riputazion mia, e di nuovo gli bacio le mani.


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XIII

 

A MONSIGNOR PlERO DINI IN ROMA

 

 

(Firenze, 23 marzo 1615)

 

Molto Illustre e Reverendissimo Sig. mio Colendissimo,

 

 

Risponderò succintamente alla cortesissima lettera di Vostra Signoria molto Illustre e Reverendissima, non mi permettendo il poter far altramente il mio cattivo stato di sanità.

Quanto al primo particolare che ella mi tocca, che al più che potesse esser deliberato circa il libro del Copernico, sarebbe il mettervi qualche postilla, che la sua dottrina fusse introdotta per salvar l'apparenze, nel modo ch'altri introdussero gli eccentrici e gli epicicli senza poi credere che veramente e' sieno in natura, gli dico (rimettendomi sempre a chi più di me intende, e solo per zelo che ciò che si è per fare sia fatto con ogni maggior cautela) che quanto a salvar l'apparenze il medesimo Copernico aveva già per avanti fatta la fatica, e satisfatto alla parte de gli astrologi secondo la consueta e ricevuta maniera di Tolomeo; ma che poi, vestendosi l'abito di filosofo, e considerando se tal costituzione delle parti dell'universo poteva realmente sussistere in rerum natura, e veduto che no, e parendogli pure che il problema della vera costituzione fusse degno d'esser ricercato, si messe all'investigazione di tal costituzione, conoscendo che se una disposizione di parti finta e non vera poteva satisfar all'apparenze, molto più ciò si arebbe ottenuto dalla vera e reale, e nell'istesso tempo si sarebbe in filosofia guadagnato una cognizione tanto eccellente, qual è il sapere la vera disposizione delle parti del mondo; e trovandosi egli per l'osservazioni e studii di molti anni, copiosissimo di tutti i particolari accidenti osservati nelle stelle, senza i quali tutti diligentissimamente appresi e prontissimamente affissi nella mente è impossibile il venir in notizia di tal mondana constituzione, con replicati studii e lunghissime fatiche conseguì quello che l'ha reso poi ammirando a tutti quelli che con diligenza lo studiano, sì che restino capaci de' suoi progressi tal che il voler persuadere che il Copernico non stimasse vera la mobilità della Terra, per mio credere non potrebbe trovar assenso se non forse appresso chi non l'avesse letto, essendo tutti 6 i suoi libri pieni di dottrina dependente dalla mobilità della Terra, e quella esplicante e confermante. E se egli nella sua dedicatoria molto ben intende e confessa che la posizione della mobilità della Terra era per farlo reputare stolto appresso l'universale, il giudizio del quale egli dice di non curare, molto più stolto sarebb'egli stato a voler farsi reputar tale per un'opinione da sé introdotta, ma non interamente e veramente creduta.

Quanto poi al dire che gli attori principali che hanno introdotto gli eccentrici e gli epicicli non gli abbino poi reputati veri, questo non crederò io mai; e tanto meno, quanto con necessità assoluta bisogna ammettergli nell'età nostra, mostrandocegli il senso stesso. Perché, non essendo l'epiciclo altro che un cerchio descritto dal moto d'una stella la quale non abbracci con tal suo rivolgimento il globo terrestre, non veggiamo noi di tali cerchi esserne da quattro stelle descritti quattro intorno a Giove? e non gli è più chiaro che 'l Sole, che Venere descrive il suo cerchio intorno ad esso Sole senza comprender la Terra, e per conseguenza forma un epiciclo? e l'istesso accade anco a Mercurio. In oltre, essendo l'eccentrico un cerchio che ben circonda la Terra, ma non la contiene nel suo centro, ma da una banda, non si ha da dubitare se il corso di Marte sia eccentrico alla Terra, vedendosi egli ora più vicino ed ora più remoto, in tanto che ora lo veggiamo piccolissimo ed altra volta di superficie 60 volte maggiore; adunque, qualunque si sia il suo rivolgimento, egli circonda la Terra, e gli è una volta otto volte più presso che un'altra. E di tutte queste cose e d'altre simili in gran numero ce n'hanno data sensata esperienza gli ultimi scoprimenti: tal che il voler ammettere la mobilità della Terra solo con quella concessione e probabilità che si ricevono gli eccentrici; e gli epicicli, è un ammetterla per sicurissima, verissima e irrefragabile.

Ben è vero che di quelli che hanno negato gli eccentrici e gli epicicli io ne trovo 2 classi. Una è di quelli che, sendo del tutto ignudi dell'osservazioni de' movimenti delle stelle e di quello che bisogni salvare, negano senza fondamento nessuno tutto quello che e' non intendono: ma questi son degni che di loro non si faccia alcuna considerazione. Altri, molto più ragionevoli, non negheranno i movimenti circolari descritti da i corpi delle stelle intorno ad altri centri che quello della Terra, cosa tanto manifesta, che, all'incontro, è chiaro, nessuno de' pianeti far il suo rivolgimento concentrico ad essa Terra; ma solo negheranno, ritrovarsi nel corpo celeste una struttura di orbi solidi e tra sé divisi e separati che arrotandosi e fregandosi insieme, portino i corpi de' pianeti, etc.: e questi crederò io che benissimo discorrino; ma questo non è un levar i movimenti fatti dalle stelle in cerchi eccentrici alla Terra o in epicicli che sono i veri e semplici assunti di Tolomeo e de gli astronomi grandi, ma è un repudiar gli orbi solidi materiali e distinti, introdotti da i fabbricatori di teoriche per agevolar l'intelligenza de i principianti ed i computi de' calculatori; e questa sola parte è fittizia e non reale, non mancando a Iddio modo di far camminare le stelle per gl'immensi spazii del cielo, ben dentro a limitati e certi sentieri, ma non incatenate o forzate

Però, quanto al Copernico, egli, per mio avviso, non è capace di moderazione, essendo il principalissimo punto di tutta la sua dottrina e l'universal andamento la mobilità della Terra e stabilità del Sole: però, o bisogna dannarlo del tutto o lasciarlo nel suo essere, parlando sempre per quanto comporta la mia capacità. Ma se sopra una tal resoluzione e' sia bene attentissimamente considerare, ponderare, esaminare, ciò che egli scrive, io mi sono ingegnato di mostrarlo in una mia scrittura, per quanto da Dio benedetto mi è stato conceduto, non avendo mai altra mira che alla dignità di Santa Chiesa e non dirizzando ad altro fine le mie deboli fatiche; il qual purissimo e zelantissimo affetto son ben sicuro che in essa scrittura si scorgerà chiaro, quando per altro ella fusse piena d'errori o di cose di poco momento: e già l'averei inviata a Vostra Signoria Reverendissima, se alle mie tante e sì gravi indisposizioni non si fusse ultimamente aggiunto un assalto di dolori colici che m'ha travagliato assai; ma la manderò quanto prima. Anzi, per il medesimo zelo, vo' mettendo insieme tutte le ragioni del Copernico, riducendole a chiarezza intelligibile da molti, dove ora sono assai difficili, e più aggiungendovi molte e molte altre considerazioni fondate sempre sopra osservazioni celesti, sopra esperienze sensate e sopra incontri di effetti naturali, per offerirle poi a i piedi del Sommo Pastore ed all'infallibile determinazione di santa Chiesa, che ne faccia quel capitale che parrà alla sua somma prudenza.

Quanto al parere del molto reverendo Padre Grembergero, io veramente lo laudo, e volentieri lascio la fatica delle interpretazioni a quelli che intendono infinitamente più di me. Ma quella breve scrittura che mandai a Vostra Signoria Reverendissima è, come vede, una lettera privata, scritta più d'un anno fa all'amico mio, per esser letta da lui solo; ma avendon'egli, pur senza mia saputa, lasciato prender copia, e sentendo io che l'era venuta nelle mani di quel medesimo che tanto acerbamente m'aveva sin dal pulpito lacerato, e sapendo ch'ei l'aveva portata costà, giudicai ben fatto che ve ne fusse un'altra copia, per poterla in ogni occasione incontrare, e massime avendo quello ed altri suoi aderenti teologi sparso qua voce, come detta mia lettera era piena d'eresie. Non è, dunque, il mio pensiero di metter mano a impresa tanto superiore alle mie forze; e se ben non si deve anco diffidare che la Benignità divina tal volta si degni di inspirare qualche raggio dalla sua immensa sapienza in intelletti umili, e massime quando son almeno adornati di sincero e santo zelo; oltre che, quando si abbino a concordar luoghi sacri con dottrine naturali nuove e non comuni, è necessario aver intera notizia di tali dottrine, non potendo accordar due corde insieme col sentirne una sola. E se io conoscessi di potermi prometter alcuna cosa dalla debolezza del mio ingegno, mi piglierei ardire di dire di ritrovar tra alcuni luoghi delle Sacre Lettere e di questa mondana constituzione alcune convenienze che nella vulgata filosofia non così ben mi pare che consuonino; e l'avermi Vostra Signoria Reverendissima accennato, come il luogo del Salmo 18 è de i reputati più repugnanti a questa opinione, m'ha fatto farci sopra nuova reflessione, la quale mando a Vostra Signoria con tanto minor renitenza, quanto ella mi dice che l'illustrissimo e Reverendissimo Cardinal Bellarmino volentieri vedrà se ho alcun altro di tali luoghi. Però, avendo io satisfatto al semplice cenno di Sua Signoria Illustrissima e Reverendissima, veduta che abbia Sua Signoria Illustrissima questa mia, qualunque ella si sia, contemplazione, ne faccia quel tanto che la sua somma prudenza ordinerà; ché io intendo solamente di riverire e ammirare le cognizioni tanto sublimi, e obbedire a i cenni de' miei superiori, ed all'arbitrio loro sottoporre ogni mia fatica.

Però, non mi arrogando che, qualunque si sia la verità della supposizione ex parte naturæ, altri non possino apportare molto più congruenti sensi alle parole del Profeta, anzi stimandomi io inferiore a tutti, e però a tutti i sapienti sottoponendomi, direi, parermi che nella natura si ritrovi una substanza spiritosissima, tenuissima e velocissima, la quale, diffondendosi per l'universo, penetra per tutto senza contrasto, riscalda, vivifica e rende feconde tutte le viventi creature; e di questo spirito par che 'l senso stesso ci dimostri il corpo del Sole esserne ricetto principalissimo, dal quale espandendosi un'immensa luce per l'universo, accompagnata da tale spirito calorifico e penetrante per tutti i corpi vegetabili, gli rende vivi e fecondi. Questo ragionevolmente stimar si può essere qualche cosa di più del lume, poi che ei penetra e si diffonde per tutte le sustanze corporee, ben che densissime, per molte delle quali non così penetra essa luce: tal che, sì come dal nostro fuoco veggiamo e sentiamo uscir luce e calore, e questo passar per tutti i corpi, ben che opaci e solidissimi, e quella trovar contrasto dalla solidità e opacità, così l'emanazione del Sole è lucida e calorifica, e la parte calorifica è la più penetrante. Che poi di questo spirito e di questa luce il corpo solare sia, come ho detto, un ricetto e, per così dire, una conserva che ab extra gli riceva, più tosto che un principio e fonte primario dal quale originariamente si derivino, parmi che se n'abbia evidente certezza nelle Sacre Lettere, nelle quali veggiamo, avanti la creazione del Sole, lo spirito con la sua calorifica e feconda virtù “foventem aquas seu incubantem super aquas”, per le future generazioni; e parimente aviamo la creazione della luce nel primo giorno, dove che il corpo solare fu creato il giorno quarto. Onde molto verisimilmente possiamo affermare, questo spirito fecondante e questa luce diffusa per tutto il mondo concorrere ad unirsi e fortificarsi in esso corpo solare, per ciò nel centro dell'universo collocato, e quindi poi, fatta più splendida e vigorosa, di nuovo diffondersi.

Di questa luce primogenita e non molto splendida avanti la sua unione e concorso nel corpo solare, ne aviamo attestazione dal Profeta nel Salmo 73, v. 16 “Tuus est dies et tua est nox: Tu fabricatus es auroram et Solem”; il qual luogo vien interpretato, Iddio aver fatto avanti al sole una luce simile a quella dell'aurora: di più, nel testo ebreo in luogo d'“aurora” si legge “lume”, per insinuarci quella luce che fu creata molto avanti il Sole, assai più debile della medesima ricevuta, fortificata e di nuovo diffusa da esso corpo solare. A questa sentenza mostra d'alludere l'opinione d'alcuni antichi filosofi, che hanno creduto lo splendor del Sole esser un concorso nel centro del mondo de gli splendori delle stelle, che, standogli intorno sfericamente disposte, vibrano i raggi loro, li quali, concorrendo e intersecandosi in esso centro, accrescono ivi e per mille volte raddoppiano la luce loro; onde ella poi, fortificata, si reflette e si sparge assai più vigorosa e ripiena, dirò così, di maschio e vivace calore, e si diffonde a vivificare tutti i corpi che intorno ad esso centro si raggirano: sì che con certa similitudine, come nel cuore dell'animale si fa una continua rigenerazione di spiriti vitali, che sostengono e vivificano tutte le membra, mentre però viene altresì ad esso cuore altronde somministrato il pabulo e nutrimento, senza il quale ei perirebbe, così nel sole, mentre ab extra concorre il suo pabulo, si conserva quel fonte onde continuamente deriva e si diffonde questo lume e calore prolifico, che dà la vita a tutti i membri che attorno gli riseggono. Ma come che della mirabil forza ed energia di questo spirito e lume del Sole, diffuso per l'universo, io potessi produr molte attestazioni di filosofi e gravi scrittori, voglio che mi basti un solo luogo del Beato Dionisio Aeropagita nel libro De divinis nominibus, il quale è tale: “Lux etiam colligit convertitque ad se omia, quæ videntur, quæ moventur, quæ illustrantur, quæ calescunt, et uno nomine ea quæ ab eius splendore continentur. Itaque Sol Ilios dicitur, quod omnia congreget colligatque dispersa.” E poco più a basso scrive dell'istesso: “Si enim Sol hic, quem videmus, eorum quæ sub sensum cadunt essentias et qualitates, quamquam multæ sint ac dissimiles, tamen ipse, qui unus est æqualibiterque lumen fundit, renovat, alit, tuetur, perficit, dividit, coiniungit, fovet, fœcunda reddit, auget, mutat, firmat, edit, movet, vitaliaque facit omnia, et unaquæque res huius universitatis, pro captu suo, unius atque eiusdem Solis est particeps, causasque multorum, quæ participant, in se æquabiliter anticipatas habet; certe maiore ratione etc.”

Ora, stante questa filosofica posizione, la quale è forse una delle principali porte per cui si entri nella contemplazione della natura, io crederrei, parlando sempre con quella umiltà e reverenza che devo a Santa Chiesa e tutti i suoi dottissimi Padri, da me riveriti e osservati ed al giudizio de' quali sottopongo me ed ogni mio pensiero, crederrei, dico, che il luogo del Salmo potesse aver questo senso, cioè che “Deus in Sole posuit tabernaculum suum” come in sede nobilissima di tutto 'l mondo sensibile; dove poi si dice che “Ipse, tanquam sponsum procedens de thalamo suo, exultavit ut gigas ad currendam viam”, intenderei, ciò esser detto del Sole irradiante, ciò è del lume e del già detto spirito calorifico e fecondante tutte le corporee sustanze, il quale, partendo dal corpo solare, velocissimamente si diffonde per tutto 'l mondo: al qual senso si adattano puntualmente tutte le parole. E prima, nella parola “sponsus” aviamo la virtù fecondante e prolifica; l'“exultare” ci addita quell'emanazione di essi raggi solari fatta, in certo modo, a salti, come 'l senso chiaramente ci mostra; “ut gigas,” o vero “ut fortis”, ci denota l'efficacissima attività e virtù di penetrare per tutti i corpi, ed insieme la somma velocità del muoversi per immensi spazii, essendo l'emanazione della luce come instantanea. Confermansi dalle parole “procedens de thalamo suo”, che tale emanazione e movimento si deve referire ad esso lume solare, e non all'istesso corpo del Sole; poi che il corpo e globo del Sole è ricetto e “tanquam thalamus” di esso lume, né torna ben a dire che “thalamus procedat de thalamo”. Da quello che segue, “a summo cæli egressio eius”, aviamo la prima derivazione e partita di questo spirito e lume dall'altissime parti del cielo, ciò è sin dalle stelle del firmamento o anco dalle sedi più sublimi. “Et occorsus eius usque ad summum eius”: ecco la reflessione e, per così dire, la reimanazione dell'istesso lume sino alla medesima sommità del mondo. Segue : “Nec est qui abscondat a calore eius”: eccoci additato il calore vivificante e fecondante, distinto dalla luce e molto più di quella penetrante per tutte le corporali sustanze, ben che densissime; poi che dalla penetrazione della luce molte cose ci difendono e ricuoprono, ma da questa altra virtù, “non est qui se abscondat a calore eius”. Né devo tacer cert'altra mia considerazione, non aliena da questo proposito. Io ho già scoperto il concorso continuo di alcune materie tenebrose sopra il corpo solare, dove elleno si mostrano al senso sotto aspetto di macchie oscurissime, ed ivi poi si vanno consumando e risolvendo; ed accennai come queste per avventura si potrebbono stimar parte di quel pabulo, o forse gli escrementi di esso, del quale il Sole da alcuni antichi filosofi fu stimato bisognoso per suo sostentamento. Ho anco dimostrato, per l'osservazioni continuate di tali materie tenebrose, come il corpo solare per necessità si rivolge in sé stesso, e di più accennato quanto sia ragionevol il creder che da tal rivolgimento dependino i movimenti de' pianeti intorno al medesimo Sole. Di più, noi sappiamo che l'intenzione di questo Salmo è di laudare la legge divina, paragonandola il profeta col corpo celeste, del quale, tra le cose corporali, nissuna è più bella, più utile e più potente. Però, avendo egli cantati gli encomii del Sole e non gli essendo occulto che egli fa raggirarsi intorno tutti i corpi mobili del mondo, passando alle maggiori prerogative della legge divina e volendola anteporre al Sole, aggiunge: “Lex Domini immaculata, convertes animas” etc.; quasi volendo dire che essa legge è tanto più eccellente del Sole istesso, quanto l'esser immaculato ed aver facoltà di convertire intorno a sé le anime è più eccellente condizione che l'essere sparso di macchie, come è il Sole, ed il farsi raggirar attorno i globi corporei e mondani.

So e confesso il mio soverchio ardire nel voler por bocca, essendo imperito nelle Sacre Lettere, in esplicar sensi di sì alta contemplazione: ma come che il sottomettermi io totalmente al giudizio de' miei superiori può rendermi scusato, così quel che segue del versetto già esplicato, “Testimonium Domini fidele, sapientiam præstans parvulis”, m'ha dato speranza, poter esser che la infinita benignità di Dio possa indirizzare verso la purità della mia mente un minimo raggio della sua grazia, per la quale mi si illumini alcuno de' reconditi sensi delle sue parole. Quanto ho scritto, signor mio, è un piccol parto, bisognoso d'esser ridotto a miglior forma, lambendolo e ripulendolo con affezione e pazienza, essendo solamente abbozzato e di membra capaci sì di figura assai proporzionata, ma per ora incomposte e rozze: se averò possibilità, l'anderò riducendo a miglior simmetria; intanto la prego a non lo lasciar venir in mano di persona che, adoprando, invece della delicatezza della lingua materna, l'asprezza ed acutezza del dente novercale, in luogo di ripulirlo non lo lacerasse e dilaniasse del tutto. Con che le bacio riverentemente le mani, insieme con li Signori Buonarroti, Guiducci, Soldani e Giraldi, qui presenti al serrar della lettera.

 

Di Firenze, li 23 Marzo 1615

Di V. S. molt'Illustre e Reverendissima

 

                                                               Servitore obligatissimo

                                                                               Galileo Galilei

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XIV

 

A MADAMA CRISTINA DI LORENA GRANDUCHESSA DI TOSCANA

(1615)

 

Io scopersi pochi anni a dietro, come ben sa l'Altezza Vostra Serenissima, molti particolari nel cielo, stati invisibili sino a questa età; li quali, sì per la novità, sì per alcune conseguenze che da essi dependono, contrarianti ad alcune proposizioni naturali comunemente ricevute dalle scuole de i filosofi, mi eccitorno contro non piccol numero di tali professori; quasi che io di mia mano avessi tali cose collocate in cielo, per intorbidar la natura e le scienze. E scordatisi in certo modo che la moltitudine de' veri concorre all'investigazione, accrescimento e stabilimento delle discipline, e non alla diminuzione o destruzione, e dimostrandosi nell'istesso tempo più affezionati alle proprie opinioni che alle vere, scorsero a negare e far prova d'annullare quelle novità, delle quali il senso istesso, quando avessero voluto con attenzione riguardarle, gli averebbe potuti render sicuri; e per questo produssero varie cose, ed alcune scritture pubblicarono ripiene di vani discorsi, e, quel che fu più grave errore, sparse di attestazioni delle Sacre Scritture, tolte da luoghi non bene da loro intesi e lontano dal proposito addotti: nel quale errore forse non sarebbono incorsi, se avessero avvertito un utilissimo documento che ci dà S. Agostino intorno all'andar con riguardo nel determinar resolutamente sopra le cose oscure e difficili ad esser comprese per via del solo discorso; mentre, parlando pur di certa conclusione naturale attenente a i corpi celesti, scrive così: “Nunc autem, servata semper moderatione piæ gravitatis, nihil credere de re obscura temere debemus, ne forte quod postea veritas patefecerit, quamvis libris sanctis, sive Testamenti Veteris sive Novi, nullo modo esse possit adversum, tamen propter amorem nostri errori oderimus.”.

È accaduto poi che il tempo è andato successivamente scoprendo a tutti le verità prima da me additate, e con la verità del fatto la diversità degli animi tra quelli che schiettamente e senz'altro livore non ammettevano per veri tali scoprimenti, e quegli che all'incredulità aggiugnevano qualche effetto alterato: onde, sì come i più intendenti della scienza astronomica e della naturale restarono persuasi al mio primo avviso, così si sono andati quietando di grado in grado gli altri tutti che non venivano mantenuti in negativa o in dubbio da altro che dall'inaspettata novità e dal non aver avuta occasione di vederne sensate esperienze; ma quelli che, oltre all'amor del primo errore, non saprei qual altro loro immaginato interesse gli rende non bene affetti non tanto verso le cose quanto verso l'autore, quelle, non le potendo più negare, cuoprono sotto un continuo silenzio, e divertendo il pensiero ad altre fantasie, inacerbiti più che prima da quello onde gli altri si sono addolciti e quietati, tentano di progiudicarmi con altri modi. De' quali io veramente non farei maggiore stima di quel che mi abbia fatto dell'altre contraddizioni, delle quali mi risi sempre, sicuro dell'esito che doveva avere 'l negozio, s'io non vedessi che le nuove calunnie e persecuzioni non terminano nella molta o poca dottrina, nella quale io scarsamente pretendo, ma si estendono a tentar di offendermi con macchie che devono essere e sono da me più aborrite che la morte, né devo contentarmi che le sieno conosciute per ingiuste da quelli solamente che conoscono me e loro, ma da ogn'altra persona ancora. Persistendo dunque nel primo loro instituto di voler con ogni immaginabil maniera atterrar me e le cose mie, sapendo come io ne' miei studii di astronomia e di filosofia tengo, circa alla costituzione delle parti del mondo, che il Sole, senza mutar luogo, resti situato nel centro delle conversioni de gli orbi celesti, e che la Terra, convertibile in se stessa, se gli muova intorno; e di più sentendo che tal posizione vo confermando non solo col reprovar le ragioni di Tolommeo e d'Aristotile, ma col produrne molte in contrario, ed in particolare alcune attenenti ad effetti naturali, le cause de' quali forse in altro modo non si possono assegnare, ed altre astronomiche, dependenti da molti rincontri de' nuovi scoprimenti celesti, li quali apertamente confutano il sistema Tolemaico e mirabilmente con quest'altra posizione si accordano e la confermano; e forse confusi per la conosciuta verità d'altre proposizioni da me affermate, diverse dalle comuni; e però diffidando ormai di difesa, mentre restassero nel campo filosofico; si son risoluti a tentar di fare scudo alle fallacie de' lor discorsi col manto di simulata religione e con l'autorità delle Scritture Sacre, applicate da loro, con poca intelligenza, alla confutazione di argioni né intese né sentite.

E prima, hanno per lor medesimi cercato di spargere concetto nell'universale, che tali proposizioni sieno contro alle Sacre Lettere, ed in conseguenza dannande ed eretiche; di poi, scorgendo quanto per lo più l'inclinazione dell'umana natura sia più pronta ad abbracciar quell'imprese dalle quali il prossimo ne venga, ben che, ingiustamente, oppresso, che quelle ond'egli ne riceva giusto sollevamento, non gli è stato difficile il trovare chi per tale, cio è per dannada ed eretica, l'abbia con insolita confidenza predicata sin da i pulpiti, con poco pietoso e men considerato aggravio non solo di questa dottrina e di chi la segue, ma di tutte le matematiche e de' matematici insieme; quindi, venuti in maggior confidenza, e vanamente sperando che quel seme, che prima fondò radice nella mente loro non sincera, possa diffonder suoi rami ed alzargli verso il cielo, vanno mormorando tra 'l popolo che per tale ella sarà in breve dichiarata dall'autorità suprema. E conoscendo che tal dichiarazione spianterebbe non sol queste due conclusioni, ma renderebbe dannande tutte l'altre osservazioni e proposizioni astronomiche e naturali, che con esse hanno corrispondenza e necessaria connessione, per agevolarsi il negozio cercano, per quanto possono, di far apparir questa opinione, almanco appresso all'universale, come nuova e mia particolare, dissimulando di sapere che Niccolò Copernico fu suo autore e più presto innovatore e confermatore, uomo non solamente cattolico, ma sacerdote e canonico, e tanto stimato, che, trattandosi nel Concilio lateranense, sotto Leon X, della emendazion del calendario ecclesiastico, egli fu chiamato a Roma sin dall'ultime parti di Germania per questa riforma, la quale allora rimase imperfetta solo perché non si aveva ancora esatta cognizione della giusta misura dell'anno e del mese lunare: onde a lui fu dato carico dal Vescovo Semproniense, allora soprintendente a ques'impresa, di cercar con replicati studi e fatiche di venire in maggior lume e certezza di essi movimenti celesti; ond'egli, con fatiche veramente atlantiche e col suo mirabil ingegno, rimessosi a tale studio, si avanzò tanto in queste scienze, e a tale esattezza ridusse la notizia de' periodi de' movimenti celesti, che si guadagnò il titolo di sommo astronomo, e conforme alla sua dottrina non solamente si è poi regolato il calendario, ma si fabbricorno le tavole di tutti i movimenti de' pianeti: ed avendo egli ridotta tal dottrina in sei libri, la pubblicò al mondo a i prieghi del Cardinal Capuano e del Vescovo Culmense; e come quello che si era rimesso con tante fatiche a questa impresa d'ordine del Sommo Pontificio, al suo successore, ciò è a Paolo III, dedicò il suo libro delle Revoluzioni Celesti, il qual, stampato pur allora, è stato ricevuto da Santa Chiesa, letto e studiato per tutto il mondo, senza che mai si sia presa pur minima ombra di scrupolo nella sua dottrina. La quale ora mentre si va scoprendo quanto ella sia ben fondata sopra ben manifeste esperienze e necessarie dimostrazioni, non mancano persone che, non avendo pur mai veduto tal libro, procurano il premio delle tante fatiche al suo autore con la nota di farlo dichiarare eretico; e questo solamente per sodisfare ad un lor particolare sdegno, concepito senza ragione contro di un altro, che non ha più interesse col Copernico che l'approvar la sua dottrina.

Ora, per queste false note che costoro tanto ingiustamente cercano di addossarmi, ho stimato necessario per mia giustificazione appresso l'universale, del cui giudizio e concetto, in materia di religione e di reputazione, devo far grandissima stima, discorrer circa a quei particolari che costoro vanno producendo per detestare ed abolire questa opinione, ed in somma per dichiararla non pur falsa, ma eretica, facendosi sempre scudo di un simulato zelo di religione e volendo pur interessare le Scritture Sacre e farle in certo modo ministre de' loro non sinceri proponimenti, col voler, di più, s'io non erro, contro l'intenzion di quelle e de' Santi Padri, estendere, per non dir abusare, la loro autorità, sì che anco in conclusioni pure naturali e non de Fide, si deve lasciar totalmente il senso e le ragioni dimostrative per qualche luogo della Scrittura, che tal volta sotto le apparenti parole potrà contenere sentimento diverso. Dove spero di dimostrar, con quanto più pio e religioso zelo procedo io, che non fanno loro, mentre propongo non che non si danni questo libro, ma che non si danni, come vorrebbono essi, senza intenderlo, ascoltarlo, né pur vederlo, e massime sendo autore che non mai tratta di cose attenenti a religione o a fede, né con ragioni dependenti in modo alcuno da autorità di Scritture Sacre, dove egli possa malamente averle interpretate, ma sempre se ne sta su conclusioni naturali, attenenti a i moti celesti, trattate con astronomiche e geometriche dimostrazioni, fondate prima sopra sensate esperienze ed accuratissime osservazioni. Non che egli non avesse posto cura a i luoghi delle Sacre Lettere; ma perché benissimo intendeva, che sendo tal sua dottrina dimostrata, non poteva contrariare alle Scritture intese perfettamente: e però nel fine della dedicatoria, parlando del Sommo Pontefice, dice così: “Si fortasse erunt matæologi, qui, cum omnium mathematum ignari sint, tamen de illis iudicium assumunt, propter aliquem locum Scripturæ, male ad suum propositum detortum, ausi fuerint hoc meum institutum repræhendere ac insectari, illos nihil moror, adeo ut etiam illorum iudicium tanquam temerarium contemnam. Non enim obscurum est, Lactantium, celebrem alioqui scriptorem, sed mathematicum parum, admodum pueriliter de forma Terræ loqui, cum deridet eos qui Terram globi formam habere prodiderunt. Itaque non debet mirum videri studiosis, si qui tales nos etiam ridebunt. Mathemata mathematicis scribuntur, quibus et hi nostri labores (si me non fallit opinio) videbuntur etiam Republicæ Ecclesiasticæ conducere aliquid, cuius principatum Tua Sanctitas nunc tenet.”

E di questo genere si scorge esser questi che s'ingegnano di persuadere che tale autore si danni, senza pur vederlo; e per persuadere che ciò non solamente sia lecito, ma ben fatto, vanno producendo alcune autorità della Scrittura e de' sacri teologi e de' Concilii; le quali sì come da me son reverite e tenute di suprema autorità, sì che somma temerità stimerei esser quella di chi volesse contradirgli mentre vengono conforme all'instituto di Santa Chiesa adoperate, così credo che non sia errore il parlar mentre si può dubitare che alcuno voglia, per qualche suo interesse, produrle e servirsene diversamente da quello che è nella santissima intenzione di Santa Chiesa; però protestandomi (e anco credo che la sincerità mia si farà per se stessa manifesta) che io intendo non solamente di sottopormi a rimuover liberamente quegli errori ne' quali per mia ignoranza potessi in questa scrittura incorrere in materie attenenti a religione, ma mi dichiaro ancora non voler nell'istesse materie ingaggiar lite con nissuno, ancor che fossero punti disputabili: perché il mio fine non tende ad altro, se non che, se in queste considerazioni, remote dalla mia professione propria, tra gli errori che ci potessero essere dentro, ci è qualcosa atta ad eccitar altri a qualche avvertimento utile per Santa Chiesa, circa 'l determinar sopra 'l sistema Copernicano, ella sia presa e fattone quel capitale che parrà a' superiori; se no, sia pure stracciata ed abbruciata la mia scrittura, ch'io non intendo o pretendo di guadagnarne frutto alcuno che non fusse pio e cattolico. E di più, ben che molte delle cose che io noto le abbia sentite con i proprii orecchi, liberamente ammetto e concedo a chi l'ha dette che dette non l'abbia, se così gli piace, confessando poter essere ch'io abbia frainteso; e però quando rispondo non sia detto per loro, ma per chi avesse quella opinione.

Il motivo, dunque, che loro producono per condennar l'opinione della mobilità della Terra e stabilità del Sole, è, che leggendosi nelle Sacre lettere, in molti luoghi, che il Sole si muove e che la Terra sta ferma, né potendo la Scrittura mai mentire o errare, ne séguita per necessaria conseguenza che erronea e dannanda sia la sentenza di chi volesse asserire, il Sole esser per se stesso immobile, e mobile la Terra.

Sopra questa ragione parmi primieramente da considerare, essere e santissimamente detto e prudentissimamente stabilito, non poter mai la Sacra Scrittura mentire, tutta volta che si sia penetrato il suo vero sentimento; il qual non credo che si possa negare essere molte volte recondito e molto diverso da quello che suona il puro significato delle parole. Dal che ne séguita, che qualunque volta alcuno, nell'esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono literale, potrebbe, errando esso, far apparir nelle Scritture non solo contradizioni e proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, non meno affetti corporali ed umani, come d'ira, di pentimento, d'odio, ed anco tal volta la dimenticanza delle cose passate e l'ignoranza delle future; le quali proposizioni, sì come, dettante lo Spirito Santo, furono in tal guisa profferite da gli scrittori sacri per accomodarsi alla capacità del vulgo assai rozzo e indisciplinato, così per quelli che meritano d'esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori ne produchino i veri sensi, e n'additino le ragioni particolari per che e' siano sotto cotali parole profferiti: ed è questa dottrina così trita e specificata appresso tutti i teologi, che superfluo sarebbe il produrne attestazione alcuna.

Di qui mi par di poter assai ragionevolmente dedurre, che la medesima Sacra Scrittura, qualunque volta gli è occorso di pronunziare alcuna conclusione naturale, e massime delle più recondite e difficili ad esser capite, ella non abbia pretermesso questo medesimo avviso, per non aggiugnere confusione nelle menti di quel medesimo popolo e renderlo più contumace contro a i dogmi di più alto misterio. Perché se, come si è detto e chiaramente si scorge, per il solo rispetto d'accomodarsi alla capacità popolare non si è la Scrittura astenuta di adombrare principalissimi pronunziati, attribuendo sino all'istesso Iddio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, chi vorrà asseverantemente sostenere che l'istessa Scrittura, posto da banda cotal rispetto, nel parlare anco incidentemente di Terra, d'acqua, di Sole o d'altra creatura, abbia eletto di contenersi con tutto rigore dentro a i puri e ristretti significati delle parole? E massime nel pronunziar di esse creature cose non punto concernenti al primario instituto delle medesime Sacre Lettere, ciò è al culto divino ed alla salute dell'anime, e cose grandemente remote dalla apprensione del vulgo.

Stante, dunque, ciò, mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima essecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all'intendimento dell'universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al nudo significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all'incontro, essendo la natura inesorabile ed immutabile, e mai non trascendente i termini delle leggi impostegli, come quella che nulla cura che le sue recondite ragioni e modi d'operare sieno o non sieno esposti alla capacità degli uomini; pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio, non che condennato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle parole diverso sembiante; poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com'ogni effetto di natura, né meno eccelentemente ci si scuopre Iddio negli effetti di natura che ne' sacri detti delle Scritture: il che volse per avventura intender Tertulliano in quelle parole: “Nos definimus, Deum primo natura cognoscendum, deinde doctrina recognoscendum: natura, ex operibus; doctrina, ex prædicationibus.”

Ma non per questo voglio inferire, non doversi aver somma considerazione de i luoghi delle Scritture Sacre; anzi, venuti in certezza di alcune conclusioni naturali, doviamo servircene per mezi accomodatissimi alla vera esposizione di esse Scritture ed all'investigazione di quei sensi che in loro necessariamente si contengono, come verissime e concordi con le verità dimostrate. Stimerei per questo che l'autorità delle Sacre Lettere avesse avuto la mira a persuadere principalmente a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell'istesso Spirito Santo: di più, che ancora in quelle proposizioni che non sono de Fide l'autorità delle medesime Sacre Lettere deva esser anteposta all'autorità di tutte le Scritture umane, scritte non con metodo dimostrativo, ma o con pura narrazione o anco con probabili ragioni, direi doversi reputar tanto convenevole e necessario, quanto l'istessa divina sapienza supera ogni umano giudizio e coniettura. Ma che quell'istesso Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d'intelletto, abbia voluto, posponendo l'uso di questi, darci con altro mezo le notizie che per quelli possiamo conseguire, sì che anco in quelle conclusioni naturali, che o dalle sensate esperienze o dalle necessarie dimostrazioni ci vengono esposte innanzi a gli occhi e all'intelletto, doviamo negare il senso e la ragione, non credo che sia necessario il crederlo, e massime in quelle scienze delle quali una minima particella solamente, ed anco in conclusioni divise, se ne legge nella Scrittura; quale appunto è l'astronomia, di cui ve n'è così piccola parte, che non vi si trovano né pur nominati i pianeti, eccetto il Sole e la Luna, e duna o due volte solamente, Venere, sotto nome di Lucifero. Però se gli scrittori sacri avessero avuto pensiero di persuadere al popolo le disposizioni e movimenti de' corpi celesti, e che in conseguenza dovessimo noi ancora dalle Sacre Scritture apprender tal notizia, non ne avrebbon, per mio credere, trattato così poco, che è come niente in comparazione delle infinite conclusioni ammirande che in tale scienza si contengono e si dimostrano. Anzi, che non solamente gli autori delle Sacre Letter non abbino preteso d'insegnarci le costituzioni e movimenti de' cieli e delle stelle, e loro figure, grandezze e distanze, ma che a bello studio, ben che tutte queste cose fussero a loro notissime, se ne sieno astenuti, è opinione di santissimi e dottissimi Padri: ed in sant'Agostino si leggono le seguenti parole: “Quæri etiam solet, quæ forma et figura cæli esse credenda sit secundum Scripturas nostras: multi enim multum disputant de iis rebus, quas maiore prudentia nostri authores omiserunt, ad beatam vitam non profuturas discentibus, et occupantes (quod peius est) multum prolixa et rebus salubribus impedenda temporum spatia. Quid enim ad me pertinet, ultram cælum, sicut sphera, undique concludat Terram, in media mundi mole libratam, an eam ex una parte desuper, velut discus, operiat? Sed quia de fide agitur Scripturarum, propter illam causam quam non semel commemoravi, ne scilicet quisquam, eloquia divina non intelligens, cum de his rebus tale aliquid vel invenerit in libris nostris vel ex illis audierit quod perceptis assertionibus adversari videatur, nullo modo eis cætera utilia monentibus vel narrantibus vel pronunciantibus credat; breviter dicendum est, de figura cæli hoc scisse authores nostros quod veritas habet, sed Spiritum Dei, qui per ipsos loquebatur, noluisse ista docere homines, nulli saluti profutura.”

E pur l'istesso disprezzo avuto da' medesimi scrittori sacri nel determinar quello che si deva credere di tali accidenti de' corpi celesti ci vien nel seguente cap. 10 replicato dal medesimo Sant'Agostino, nella quistione, se si deva stimare che 'l cielo si muova o pure stia fermo, scrivendo così: “De motu etiam cæli nonnulli fratres quæstionem movent, utrum stets an moveatur: quia si movetur, inquiunt, quomodo firmamentum est? Si autem stat, quomodo sydera, quæ in ipso fixa creduntur, ab oriente usque ad occidentem circumeunt, septentrionalibus breviores gyros iuxta cardinem peragentibus, ut cælum, si est alius nobis occultus cardo ex alio vertice, sicut sphera, si autem nullus alius cardo est, veluti discus, rotari videatur? Quibus respondeo, multum subtilibus et laboriosis ista perquiri, ut vere percipiatrur utrum ita an non ita sit; quibus ineundis atque tractandis nec mihi iam tempus est, nec illis esse debet quos ad salutem suam et Sanctæ Ecclesiæ necessariam utilitatem cupimus informari.”

Dalle quali cose descendendo più al nostro particolare, ne séguita per necessaria conseguenza, che non avendo voluto lo Spirito Santo insegnarci se il cielo si muova o stia fermo, né la sua figura sia in forma di sfera o di disco o distesa in piano, né se la Terra sia contenuta nel centro di esso o da una banda, non avrà manco avuto intenzione di renderci certi di altre conclusioni dell'istesso genere, e collegate in maniera con le pur ora nominate, che senza la determinazion di esse non se ne può asserire questa o quella parte; quali sono il determinar del moto e della quiete di essa Terra e del Sole.

E se l'istesso Spirito Santo a bello studio ha pretermesso d'insegnarci simili proposizioni, come nulla attenenti alla sua intenzione, ciò è alla nostra salute, come si potrà adesso affermare, che il tener di esse questa parte, e non quella, sia tanto necessario che l'una sia de Fide, e l'altra erronea? Potrà, dunque essere un'opinione eretica, e nulla concernente alla salute dell'anime? o potrà dirsi, aver lo Spirito Santo voluto non insegnarci cosa concernente alla salute? Io qui direi che quello che intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, ciò è l'intenzione delle Spirito Santo essere d'insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo.

Ma torniamo a considerare, quanto nelle conclusioni naturali si devono stimar le dimostrazioni necessarie e le sensate esperienze, e di quanta autorità le abbino reputate i dotti e i santi teologici; da i quali, tra cent'altre attestazioni, abbiamo le seguenti: “Illud etiam diligenter cavendum et omnino fugiendum est, ne in tractanda Mosis doctrina quidquam affirmate et asseveranter sentiamus et dicamus, quod repugnet manifestis experimentis et rationibus philosopiæ vel aliarum disciplinarum: namque, cum verum omne semper cum vero congruat, non potest veritas Sacrarum Literarum veris rationibus et experimentis humanarum doctrinarum esse contraria.” Ed appresso sant'Agostino si legge: “Si manifestæ certæque rationi velut Santarum Scripturarum obiicitur authoritas, non intelligit qui hoc facit; et non Scripturæ sensum, ad quem penetrare non potuit, sed suum potius, obiicit veritati; nec quod in ea, sed in ipso, velut pro ea, invenit, opponit.”

Stante questo, ed essendo, come si è detto, che due verità non possono contrariarsi, è officio de' saggi espositori affaticarsi per penetrare i veri sensi de' luoghi sacri, che indubitabilmente saranno concordanti con quelle conclusioni naturali, delle quali il senso manifesto e le dimostrazioni necessarie ci avessero prima resi certi e sicuri. Anzi, essendo, come si è detto, che le Scritture per l'addotte cagioni ammettono in molti luoghi esposizioni lontane dal significato delle parole, e, di più, non potendo noi con certezza asserire che tutti gl'interpreti parlino inspirati divinamente, poi che, se così fusse, niuna diversità sarebbe tra di loro circa i sensi de' medesimi luoghi, crederei che fusse molto prudentemente fatto se non si permettesse ad alcuno impegnare i luoghi della Scrittura ed in certo modo obligargli a dover sostener per vere queste o quelle conclusioni naturali, delle quali una volta il senso e le ragioni dimostrative e necessarie ci potessero manifestare il contrario. E chi vuol por termine alli umani ingegni? Chi vorrà asserire, già essersi veduto e saputo tutto quello che è al mondo di sensibile e di scibile? Forse quelli che in altre occasioni confesseranno (e con gran verità) che ea quæ scimus sunt minima pars eorum quæ ignoramus? Anzi pure, se noi abbiamo dalla bocca dell'istesso Spirito Santo, che Deus tradidit mundum disputationi eorum, ut non inveniat homo opus quod operatus est Deus ab initio ad finem, non si dovrà, per mio parere, contradicendo a tal sentenza, precluder la strada al libero filosofare circa le cose del mondo e della natura, quasi che elleno sien di già state con certezza ritrovate e palesate tute. Né si dovrebbe stimar temerità il non si quietare nelle opinioni già state quasi comuni, né dovrebb'esser chi prendesse a sdegno se alcuno non aderisce in dispute naturali a quell'opinione che piace loro, e massime intorno a problemi stati già migliaia d'anni controversi tra filosofi grandissimi, quale è la stabilità del sole e mobilità della Terra: opinione tenuta da Pittagora, e da tutta la sua setta, e da Eraclide Pontico, il quale fu dell'istessa opinione, da Filolao maestro di Platone, e dall'istesso Platone, come riferisce Aristotile, e del quale scrive Plutarco nella vita di Numa, che esso Platone già fatto vecchio diceva, assurdissima cosa essere il tenere altramente. L'istesso fu creduto da Aristarco Samio, come abbiamo appresso Archimede, da Seleuco matematico, da Niceta filosofo, referente Cicerone, e da molti altri, e finalmente ampliata e con molte osservazioni e dimostrazioni confermata da Niccolò Copernico. E Seneca, eminentissimo filosofo, nel libro De cometis ci avvertisce, doversi con grandissima diligenza cercar di venire in certezza, se sia il cielo o la Terra in cui risegga la diurna conversione.

E per questo, oltre agli articoli concernenti alla salute ed allo stabilimento della Fede, contro la fermezza de' quali non è pericolo alcuno che possa insurgere mai dottrina valida ed efficace, non saria forse se non saggio ed util consiglio il non ne aggregar altri senza necessità: e se così è, disordine veramente sarebbe l'aggiugnergli a richiesta di persone, le quali, oltre che noi ignoriamo se parlino inspirate da celeste virtù, chiaramente vediamo che in esse si potrebbe desiderare quella intelligenza che sarebbe necessaria prima a capire, e poi a redarguire, le dimostrazioni con le quali le acutissime scienze procedono nel confermare simili conclusioni. Ma più direi, quando mi fusse lecito produrre il mio parere, che forse più converrebbe al decoro ed alla maestà di esse Sacre Lettere il provvedere che non ogni leggiero e vulgare scrittore potesse, per autorizzar sue composizioni, bene spesso fondate sopra vane fantasie, spargervi luoghi della Scrittura Santa, interpetrati, o più presto stiracchiati, in sensi tanto remoti dall'intenzione retta di essa Scrittura, quanto vicini alla derisione di coloro che non senza qualche ostentazione se ne vanno adornando. Esempli di tale abuso se ne potrebbono addur molti: ma voglio che mi bastino due, non remoti da queste materie astronomiche. L'uno de' quali sieno le scritture che furon pubblicate contro a i pianeti Medicei, ultimamente da me scoperti, contro la cui esistenza furono opposti molti luoghi della Sacra Scrittura: ora che i pianeti si fanno veder da tutto il mondo, sentirei volentieri con quali nuove interpretazioni vien da quei medesimi oppositori esposta la Scrittura, e scusata la lor semplicità. L'altro esempio sia di quello che pur nuovamente ha stampato contro a gli astronomi e filosofi, che la Luna non altramente riceve lume dal Sole, ma è per se stessa splendida; la qual immaginazione conferma in ultimo, o, per meglio dire, si persuade di confermare, con varii luoghi della Scrittura, li quali gli par che non si potessero salvare, quando la sua opinione non fusse vera e necessaria. Tutta via, che la Luna sia per se stessa tenebrosa, è non men chiaro che lo splendor del Sole.

Quindi resta manifesto che tali autori, per non aver penetrato i veri sensi della Scrittura, l'avrebbono, quando la loro autorità fosse di gran momento, posta in obligo di dover costringere altrui a tener per vere, conclusioni repugnanti alle ragioni manifeste ed al senso: abuso che Deus avertat che andasse pigliando piede o autorità, perché bisognerebbe vietar in breve tempo tutte le scienze speculative; perché, essendo per natura il numero degli uomini poco atti ad intendere perfettamente le Scritture Sacre e l'altre scienze maggiore assai del numero degl'intelligenti, quelli, scorrendo superficialmente le Scritture, si arrogherebbono autorità di poter decretare sopra tutte le questioni della natura, in vigore di qualche parola mal intesa da loro ed in altro proposito prodotta dagli scrittori sacri: né potrebbe il piccol numero degl'intendenti reprimer il furioso torrente di quelli, i quali troverebbono tanti più seguaci, quanto il potersi far reputar sapienti senza studio e senza fatica è più soave che il consumarsi senza riposo intorno alle discipline laboriosissime. Però grazie infinite doviamo render a Dio benedetto, il quale per sua benignità ci spoglia di questo timore, mentre spoglia d'autorità simil sorte di persone, riponendo il consultare, risolvere e decretare sopra determinazioni tanto importanti nella somma sapienza e bontà di prudentissimi padri e nella suprema autorità di quelli, che, scorti dallo Spirito Sabnto non possono se non santamente ordinare, permettendo che della leggerezza di quelli altri non sia fatto stima. Questa sorte d'uomini, per mio credere, son quelli contro i quali, non senza ragione, si riscaldano i gravi e santi scrittori, e de i quali in particolare scrive San Girolamo: “Hanc” (intendendo della Scrittura Sacra) “garrula anus, hanc delirus senex, hanc sophista verbosus, hanc universi præsumunt, lacerant, docent antequam discant. Alii, adducto supercilio, grandia verba trutinantes, inter mulierculas de Sacris Literis philosophantur; alii discunt, proh pudor, a fæminis quod viros doceant, et, ne parum hoc sit, quadam facilitate verborum, imo audacia, edisserunt aliis quod ipsi non intelligunt. Taceo de mei similibus, qui, si forte ad Scriputras Sanctas post seculares literas venerint, et sermone composito aurem populi mulserint, quidquid dixerint, hoc legem Dei putant, nec scire dignantur quid Prophetæ quid Apostoli senserint, sed ad sensum suum incongrua aptant testimonia; quasi grande sit, et non vitiosissimum docendi genus, depravare sententias, et ad voluntatem suam Scripturam trahere repugnantem.”

Io non voglio metter nel numero di simili scrittori secolari alcuni teologi, riputati da me per uomini di profonda dottrina e di santissimi costumi, e per ciò tenuti in grande stima e venerazione; ma non posso già negare di non rimaner con qualche scrupolo, ed in conseguenza con desiderio che mi fusse rimosso, mentre sento che essi pretendono di poter costringere altri, con l'autorità della Scrittura, a seguire in dispute naturali quella opinione che pare a loro che più consuoni con i luoghi di quella, stimandosi insieme di non essere in obbligo di solvere le ragioni o esperienze in contrario. In esplicazione e confirmazione del qual lor parere, dicono che essendo la teologia regina di tutte le scienze, non deve in conto alcuno abbassarsi per accomodarsi a' dogmi dell'altre men degne ed a lei inferiori, ma sì ben l'altre devono riferirsi ad essa, come a suprema imperatrice, e mutare ed alterar le lor conclusioni conforme alli statuti e decreti teologicali: e più aggiungono che quando nell'inferiore scienza si avesse alcuna conlusione per sicura, in vigor di dimostrazioni o di esperienze, alla quale si trovassi nella Scrittura altra conclusione repugnante, devono gli stessi professori di quella scienza procurar per se medesimi di quella scienza procurare per se medesimi di scioglier le lor dimostrazioni e scoprir le fallacie delle proprie esperienze, senza ricorrere a i teologi e scritturali; non convenendo, come si è detto, alla dignità della teologia abbassarsi all'investigazione delle fallacie delle scienze soggette, ma solo bastando a lei il determinargli la verità della conclusione, con l'assoluta autorità e con la sicurezza di non poter errare. Le conclusioni poi naturali nelle quali dicon essi che noi doviamo fermarci sopra la Scrittura, senza glosarla o interpretarla in sensi diversi dalle parole, dicono essere quelle delle quali la Scrittura parla sempre nel medesimo modo, e i Santi Padri tutti nel medesimo sentimento le ricevono ed espongono. Ora intorno a queste determinazioni mi accascano da considerare alcuni particolari, li quali proporrò per esserne reso cauto da chi più di me intende di queste materie, al giudizio de' quali io sempre mi sottopongo.

E prima, dubiterei che potesse cader qualche poco di equivocazione, mentre che non si distinguessero le preminenze per le quali la sacra teologia è degna del titolo di regina. Imperò che ella potrebbe esser tale, o vero perché quello che da tutte l'altre scienze viene insegnato, si trovasse compreso e dimostrato in lei, ma con mezi più eccellenti e con più sublime dottrina, nel modo che, per essempio, le regole del misurare i campi e del conteggiare molto più eminentemente si contengono nell'aritmetica e geometria d'Euclide, che nelle pratiche degli agrimensori e de' computisti; o vero perché il suggetto, intorno al quale si occupa la teologia, superasse di dignità tutti gli altri suggetti che son materia dell'altre scienze, ed anco perché i suoi insegnamenti procedessero con mezi più sublimi. Che alla teologia convenga il titolo e la autorità regia nella prima maniera, non credo che poss'essere affermato per vero da quei teologi che avranno qualche pratica nell'altre scienze; de' quali nissuno crederò io che dirà che molto più eccellente ed esattamente si contenga la geometria, la astronomia, la musica e la medicina ne' libri sacri, che in Archimede, in Tolommeo, in Boezio ed in Galeno. Però pare che la regia sopreminenza se gli deva nella seconda maniera, ciò è per l'altezza del suggetto, e per l'ammirabil insegnamento delle divine revelazioni in quelle conclusioni che per altri mezi non potevano dagli uomini esser comprese e che sommamente concernono all'acquisto dell'eterna beatitudine. Ora, se la teologia, occupandosi nell'altissime contemplazioni divine e risedendo per dignità nel trono regio, per lo che ella è fatta di somma autorità, non discende alle più basse ed umili speculazioni delle inferiori scienze, anzi, come di sopra si è dichiarato, quelle non cura, come non concernenti alla beatitudine, non dovrebbono i ministri e i professori di quella arrogarsi autorità di decretare nelle professioni non essercitate né studiate da loro; perché questo sarebbe come se un principe assoluto, conoscendo di poter liberamente comandare e farsi ubbidire, volesse, non essendo egli né medico né architetto, che si medicasse e fabbricasse a modo suo, con grave pericolo della vita de' miseri infermi, e manifesta rovina degli edifizi.

Il comandar poi a gli stessi professori d'astronomia, che procurino per lor medesimi di cautelarsi contro alle proprie osservazioni e dimostrazioni, come quelle che non possino esser altro che fallacie e sofismi, è un comandargli cosa più che impossibile a farsi; perché non solamente se gli comanda che non vegghino quel che e' veggono e che non intendino quel che gl'intendono, ma che, cercando, trovino il contrario di quello che gli vien per le mani. Però, prima che far questo, bisognerebbe che fusse lor mostrato il modo di far che le potenze dell'anima si comandassero l'una all'altra, e le inferiori alle superiori, sì che l'immaginativa e la volontà potessero e volessero credere il contrario di quel che l'intelletto intende (parlo sempre delle proposizioni pure naturali e che non sono de Fide, e non delle sopranaturali e de Fide). Io vorrei pregar questi prudentissimi Padri, che volessero con ogni diligenza considerare la differenza che è tra le dottrine opinabili e le dimostrative; acciò, rappresentandosi bene avanti la mente con qual forza stringhino le necessarie illazioni, si accertassero maggiormente come non è in potestà de' professori delle scienze demostrative il mutar l'opinioni a voglia loro, applicandosi ora a questa ed ora a quella, e che gran differenza è tra il comandare a un matematico o a un filosofo e 'l disporre un mercante o un legista, e che non con, l'istessa facilità si possono mutare le conclusioni dimostrate circa le cose della natura e del cielo, che le opinioni circa a quello che sia lecito o no in un contratto, in un censo, in un cambio. Tal differenza è stata benissimo conosciuta da i Padri dottissimi e santi, come l'aver loro posto grande studio in confutar molti argumenti, o, per meglio dire, molte fallacie filosofiche ci manifesta, e come espressamente si legge appresso alcuni di loro; ed in patrticolare aviamo in sant'Agostino le seguenti parole: “Hoc indubitanter tenendum est, ut quicquid sapientes huius mundi de natura rerum veraciter demonstrare potuerint, ostendamus nostris Literis non esse contrarium; quicquid autem illi in suis voluminibus contrarium Sacris Literis docent, sine ulla dubitatione credamus id falsissimum esse, et, quoquomodo possumus, etiam ostendamus; atque ita teneamus fidem Domini nostri, in quo sunt absconditi omnes theasuri sapientæ, ut neque falsæ philosophiæ loquacitate seducamur, neque simulatæ religionis superstitione terreamur.”

Dalle quali parole mi par che si cavi questa dottrina, cioè che nei libri de' sapienti di questo mondo si contenghino alcune cose della natura dimostrate veracemente, ed altre semplicemente insegnate; e che, quanto alle prime, sia ofizio de' saggi teologi mostrare che le non son contrarie alle Sacre Scritture; quanto all'altre, insegnate ma non necessariamente dimostrate, se vi sarà cosa contraria alle Sacre Lettere, si deve stimare che sia indubitatamente falsa, e tale in ogni possibil modo si deve dimostrare. Se, dunque, le conclusioni naturali, dimostrate veracemente, non si hanno a posporre a i luoghi della Scrittura, ma sì ben dichiarare come tali luoghi non contrariano ad esse conclusioni, adunque bisogna, prima che condannare una proposizion naturale, mostrar ch'ella non sia dimostrata necessariamente: e questo devon fare non quelli che la tengon per vera, ma quelli che la stiman falsa; e ciò par molto ragionevole e conforme alla natura; ciò è che molto più facilmente sien per trovar le fallacie in un discorso quelli che lo stiman falso, che quelli che lo reputan vero e concludente; anzi in questo particolare accadrà che i seguaci di questa opinione, quanto più andran rivolgendo le carte, esaminando le ragioni, replicando l'osservazione e riscontrando l'esperienze, tanto più si confermino in questa credenza. E l'Altezza Vostra sa quel che occorse al matematico passato dello Studio di Pisa, che messosi nella sua vecchiezza a vedere la dottrina del Copernico con speranza di poter fondatamente confutarla (poi che in tanto la reputava falsa, in quanto non l'aveva mai veduta), gli avvenne, che non prima restò capace de' suoi fondamenti, progressi e dimostrazioni, che ei si trovò persuaso, e d'impugnatore ne divenne saldissimo mantenitore. Potrei anco nominargli altri matematici, i quali, mossi da gli ultimi miei scoprimenti, hanno confessato esser necessario mutare la già concepita costituzione del mondo, non potendo in conto alcuno più sussistere.

Se per rimuover dal mondo questa opinione e dottrina batasse il serrar la bocca ad un solo, come forse si persuadono quelli che, misurando i giudizi degli altri co 'l loro proprio, gli par impossibile che tal opinione abbia a sussistere e trovar seguaci, questo sarebbe facilissimo a farsi; ma il negozio cammina altramente; perché, per eseguire una tal determinazione, sarebbe necessario proibir non solo il libro del Copernico e gli scritti degli altri autori che seguono l'istessa dottrina, ma bisognerebbe interdire tutta la scienza d'astronomia intiera, e più, vietar a gli uomini guardare verso il cielo, acciò non vedessero Marte e Venere or vicinissimi alla terra or remotissimi con tanta differenza che questa si scorge 40 volte, e quello fa 60, maggior una volta che l'altra, ed acciò che la medesima Venere non si scorgesse or rotonda or falcata con sottilissime corna, e molte altre sensate osservazioni, che in modo alcuno non si possono adattare al sistema Tolemaico, ma son saldissimi argumenti del Copernicano. Ma il proibire il Copernico, ora che per molte nuove osservazioni e per l'applicazione di molti literati alla sua lettura si va di giorno in giorno scoprendo più vera la sua posizione e ferma la sua dottrina, avendol'ammesso per tanti anni mentre egli era men seguito e confermato, parrebbe, a mio giudizio, un contravvenire alla verità, e cercar tanto più di occultarla e supprimerla, quanto più ella si dimostra palese e chiara. Il non abolire interamente tutto il libro, ma solamente dannar per erronea questa particolar proposizione, sarebbe, s'io non m'inganno, detrimento maggior per l'anime, lasciandogli occasione di veder provata una proposizione, la qual fusse poi peccato il crederla. Il proibir tutta la scienza, che altro sarebbe che un reprovar cento luoghi delle Sacre Lettere, i quali ci insegnano come la gloria e la grandezza del sommo Iddio mirabilmente si scorge in tutte le sue fatture, e divinamente si legge nell'aperto libro del cielo? Né sia chi creda che la lettura degli altissimi concetti, che sono scritti in quelle carte, finisca nel solo veder lo splendor del Sole e delle stelle e 'l lor nascere ed ascondersi, che è il termine sin dove penetrano gli occhi dei bruti e del vulgo; ma vi son dentro misteri tantro profondi e concetti tanto sublimi, che le vigilie, le fatiche e gli studi di cento e cento acutissimi ingegni non gli hanno ancora interamente penetrati con l'investigazioni continuate per migliaia e migliaia d'anni. E credino pure gli idioti che, sì come quello che gli occhi loro comprendono nel riguardar l'aspetto esterno d'un corpo umano è piccolissima cosa in comparazione de gli ammirandi artifizi che in esso ritrova un esquisito e diligentissimo anatomista e filosofo, mentre va investigando l'uso di tanti muscoli, tendini, nervi ed ossi, esaminando gli offizi del cuore e de gli altri membri principali, ricercando le sedi delle facultà vitali, osservando le maravigliose strutture de gli strumenti de' sensi, e, senza finir mai di stupirsi e di appagarsi, contemplando i ricetti dell'immaginazione, della memoria e del discorso; così quello che 'l puro senso della vista rappresenta, è come nulla in proporzion de' l'alte meraviglie che, mercé delle lunghe ed accurate osservazioni, l'ingegno degl'intelligenti scorge nel cielo. E questo è quanto mi occorre considerare circa a questo particolare.

Quanto poi a quello che soggiungono, che quelle proposizioni naturali delle quali la Scrittura pronunzia sempre l'istesso e che i Padri tutti concordemente nell'istesso senso ricevono, debbino esser intese conforme al nudo significato delle parole, senza glose e interpretazioni, e ricevute e tenute per verissime, e che in conseguenza, per esser tale la mobilità del Sole e la stabilità della Terra, sia de Fide il tenerle per vere, ed erronea l'opinion contraria; mi occorre di considerar, prima, che delle proposizioni naturali alcune sono delle quali, con ogni umana specolazione e discorso, solo se ne può conseguire più presto qualche probabile opinione e verisimil coniettura, che una sicura e dimostrata scienza, come, per esempio, se le stelle sieno animate; altre sono, delle quali o si ha, o si può credere fermamente che aver si possa, con esperienze, con lunghe osservazioni e con necessarie dimostrazioni, indubitata certezza, quale è, se la Terra e 'l Sole si muovino o no, se la Terra sia sferica o no. Quanto alle prime, io non dubito punto che dove gli umani discorsi non possono arrivare, e che di esse per conseguenza non si può avere scienza, ma solamente opinione e fede, piamente convenga conformarsi assolutamente col puro senso della Scrittura. Ma quanto alle altre, io crederei, come di sopra si è detto, che prima fosse d'accertarsi del fatto, il quale ci scorgerebbe al ritrovamento de' veri sensi delle Scritture, li quali assolutamente si troverebbero concordi col fatto dimostrato, ben che le parole nel primo aspetto sonassero altramente; poi che due veri non possono mai contrariarsi. E questa mi par dottrina tanto retta e sicura, quanto io la trovo scritta puntualmente in sant'Agostino, il quale, parlando a punto della figura del cielo e quale essa si deve credere essere, poi che pare che quel che ne affermano gli astronomi sia contrario alla Scrittura, stimandola quegli rotonda, e chiamandola la scrittura distesa come una pelle, determina che niente si ha da curar che la Scrittura contrarii a gli astronomi, ma credere alla sua autorità, se quello che loro dicono sarà falso e fondato solamente sopra conietture dell'infirmità umana; ma se quello che loro affermano fosse provato con ragioni indubitabili, non dice questo Santo Padre che si comandi a gli astronomi che lor medesimi, solvendo le lor dimostrazioni, dichiarino la lor conclusione per falsa, ma dice che si deve mostrare che quello che è detto nella Scrittura della pelle, non è contario a quelle vere dimostrazioni. Ecco le sue parole: “Sed ait aliquis: Quomodo non est contrarium iis qui figuram spheræ cælo tribuunt, quod scriptum est in libris nostris, Qui extendit cælum sicut pellem? Sit sane contarium, si falsum est quod illi dicunt; hoc enim verum est, quod divina dicit authoritas, potius quam illud quod humana infirmitas coniicit. Sed si forte illud talibus illi documentis probare potuerint, ut dubitari inde non debeat, demonstrandum est, hoc quod apud nos est de pelle dictum, veris illis rationibus non esse contrarium.” Segue poi di ammonirci che noi non doviamo esser meno osservanti in concordare un luogo della Scrittura con una proposizione naturale dimostrata, che con un altro luogo della Scrittura che sonasse il contrario. Anzi mi par degna d'esser ammirata ed immitata la circuspezzione di questo Santo, il quale anco nelle conclusioni oscure, e delle quali si può esser sicuri che non se ne possa avere scienza per dimostrazioni umane, va molto riservato nel determinar quello che si deva credere, come si vede da quello che egli scrive nel fine del 2° libro De Genesi ad literam, parlando se le stelle sieno da credersi animate: “Quod licet in præsenti facile non possit conpræhendi, arbitror tamen, in processu tractandarum Scripturarum opportuniora loca posse occurrere, ubi nobis de hac re secundum sanctæ authoritatis literas, etsi non ostendere certum aliquid, tamen credere, licebit. Nunc autem, servata semper moderatione piæ gravitatis, nihil credere de re obscura temere debemus, ne forte quod postea veritas patefecerit, quamvis libris sanctis, sive Testamenti Veteris sive Novi, nullo modo esse possit adversum, tamen propter amorem nostri erroris oderimus.”

Di qui e da altri luoghi parmi, s'io non m'inganno, la intenzione de' Santi Padri esser, che nelle quistioni naturali e che non son de Fide prima si deva considerar se elle sono indubitabilmente dimostrate o con esperienze sensate conosciute, o vero se una tal cognizione e dimostrazione aver si possa: la quale ottenendosi, ed essendo ella ancora dono di Dio, si deve applicare all'investigazione de' veri sensi delle Sacre Lettere in quei luoghi che in apparenza mostrassero di sonar diversamente; i quali indubitatamente saranno penetrati da' sapienti teologi, insieme con le ragioni per che lo Spirito Santo gli abbia volsuti tal volta, per nostro essercizio o per altra a me recondita ragione, velare sotto parole di significato diverso.

Quanto all'altro punto, riguardando noi al primario scopo di esse Sacre Lettere, non crederei che l'aver loro sempre parlato nell'istesso senso avesse a perturbar questa regola; perché, se occorrendo alla Scrittura, per accomodarsi alla capacità del vulgo, pronunziare una volta una proposizione con parole di sentimento diverso dalla essenza di essa proposizione; perché non dovrà ella aver osservato l'istesso, per l'istesso rispetto, quante volte gli occorreva la medesima cosa? Anzi mi pare che 'l fare altramente averebbe cresciuta la confusione, e scemata la credulità nel popolo. Che poi della quiete o movimento del Sole e della Terra fosse necessario, per accomodarsi alla capacità popolare, asserirne quello che suonan le parole della Scrittura, l'esperienza ce lo mostra chiaro: poi che anco all'età nostra popolo assai men rozo vien mantenuto nell'istessa opinione da ragioni che, ben ponderate ed essaminate, si troveranno esser frivolissime, ed esperienze o in tutto false o totalmente fuori del caso; né si può pur tentar di rimuoverlo, non sendo capace delle ragioni contrarie, dependenti da troppo esquisite osservazioni e sottili dimostrazioni, appoggiate sopra astrazioni, che ad esser concepite richieggon troppo gagliarda imaginativa. Per lo che, quando bene appresso i sapienti fusse più che certa e dimostrata la stabilità del Sole e 'l moto della Terra, bisognerebbe ad ogni modo, per mantenersi il credito appresso il numerosissimo volgo, proferire il contrario; poi che de i mille uomini vulgari che venghino interrogati sopra questi particolari, forse non se ne troverà uno solo, che non risponda, parergli, e così creder per fermo, che 'l Sole si muova e che la Terra stia ferma. Ma non però deve alcun prendere questo comunissimo assenso popolare per argumento della verità di quel che viene asserito; perché se noi interrogheremo gli stessi uomini delle cause e motivi per i quali e' credono in quella maniera, ed, all'incontro, ascolteremo quali esperienze e dimostrazioni induchino quegli altri pochi a creder il contrario, troveremo questi esser persuasi da saldissime ragioni, e quelli da semplicissime apparenze e rincontri vani e ridicoli.

Che dunque fosse necessario attribuire al Sole il moto, e la quiete alla Terra, per non confonder la poca capacità del vulgo e renderlo renitente e contumace nel prestar fede a gli articoli principali e che sono assolutamente de Fide, è assai manifesto: e se così era necessario a farsi, non è punto da meravigliarsi che così sia stato con somma prudenza esseguito nelle divine Scritture. Ma più dirò, che non solamente il rispetto dell'incapacità del Vulgo, ma la corrente opinione di quei tempi, fece che gli scrittori sacri nelle cose non necessarie alla beatitudine più si accomodorno all'uso ricevuto che alla essenza del fatto. Di che parlando san Girolamo scrive: “Quasi non multa in Scripturis Sanctis dicantur iuxta opinionem illius temporis quo gesta referuntur, et non iuxta quod rei veritas continebat.” Ed altrove il medesimo Santo: “Consuetudinis, Scripturarum est, ut opinionem multarum rerum sic narret Historicus, quomodo eo tempore ab omnibus credebatur.” E san Tommaso in Iob, al cap. 27, sopra le parole “Qui extendit aquilonem super vacuum, et appendit Terram super nihilum”, nota che la Scrittura chiama vacuo e niente lo spazio che abbraccia e circonda la Terra, e che noi sappiamo non esser vòto, ma ripieno d'aria: nulla dimeno, dice egli che la Scrittura, per accomodarsi alla credenza del vulgo, che pensa che in tale spazio non sia nulla, lo chiama vacuo e niente. Ecco le parole di san Tommaso: “Quod de superiori hemisphærio cæli nihil nobis apparet. nisi saptium äere plenum, quod vulgares homines reputant vacuum: loquitur enim secundum extimationem vulgarium hominum, pro ut est mos in Sacra Scriptura.” Ora da questo luogo mi pare che assai chiaramente argumentar si possa, che la Scrittura Sacra, per il medesimo rispetto, abbia avuto più gran cagione di chiamare il Sole mobile e la Terra stabile. Perché, se noi tenteremo la capacità degli uomini vulgari, gli troveremo molto più inetti a restar persuasi della stabilità del Sole e mobilità della Terra, che dell'esser lo spazio, che ci circonda, ripieno d'aria: adunque, se gli autori sacri in questo punto, che non aveva tanta difficoltà appresso la capacità del vulgo ad esser persuaso, nulla dimeno si sono astenuti dal tentare di persuaderglielo, non dovrà parere se non molto ragionevole che in altre proposizioni molto più recondite abbino osservato il medesimo stile.

Anzi, conoscendo l'istesso Copernico qual forza abbia nella nostra fantasia un'invecchiata consuetudine ed un modo di concepir le cose già sin dall'infanzia fattoci familiare, per non accrescer confusione e difficoltà nella nostra astrazione, dopo aver prima dimostrato che i movimenti li quali a noi appariscono esser del sole o del firmamento son veramente della Terra, nel venir poi a ridurgli in tavole ed all'applicargli all'uso, gli va nominando per del Sole e del cielo superiore a i pianeti, chiamando nascere e tramontar del sole, delle stelle, mutazioni nell'obliquità dello zodiaco e variazione ne' punti degli equinozii, movimento medio, anomalia e prostaferesi del Sole, ed altre cose tali, quelle che son veramente della Terra. Ma perché, sendo noi congiunti con lei, ed in conseguenza a parte d'ogni suo movimento, non gli possiamo immediate riconoscere in lei, ma ci convien far di lei relazione a i corpi celesti ne' quali ci appariscono, però gli nominiamo come fatti là dove fatti ci rassembrano. Quindi si noti quanto sia ben fatto l'accomodarsi al nostro più consueto modo d'intendere.

Che poi la comun concordia de' Padri, nel ricever una proposizione naturale dalla Scrittura nel medesimo senso tutti, debba autenticarla in maniera che divenga de Fide il tenerla per tale, crederei che ciò si dovesse al più intender di quelle conclusioni solamente, le quali fussero da essi Padri state discusse e ventilate con assoluta diligenza e disputate per l'una e per l'altra parte, accordandosi poi tutti a reprovar quella e tener questa. Ma la mobilità della Terra e stabilità del Sole non son di questo genere, con ciò sia che tale opinione fosse in quei tempi totalmente sepolta e remota dalle quistioni delle scuole, e non considerata, non che seguita, da veruno: onde si può credere che né pur cascasse concetto a' Padri di disputarla, avendo i luoghi della Scritture, la lor opinione, e l'assenso de gli uomini tutti, concordi nell'istesso parere, senza che si sentisse la contradizione di alcuno. Non basta dunque il dir che i Padri tutti ammettono la stabilità della Terra, etc., adunque il tenerla è de Fide; ma bisogna provar che gli abbino condennato l'opinione contraria; imperò che io potrò sempre dire, che il non avere avuta loro occasione di farvi sopra reflessione e discuterla, ha fatto che l'hanno lasciata ed ammessa solo come corrente, ma non già come resoluta e stabilita. E ciò mi par di poter dir con assai ferma ragione: imperò che o i Padri fecero reflessione sopra questa conclusione come controversa, o no: se no, adunque niente ci potettero, né anco in mente loro, determinare, né deve la loro non curanza mettere in obligo noi a ricevere quei precetti che essi non hanno, né pur con l'intenzione, imposti: ma se ci fecero applicazione e considerazione, già l'averebbono dannata se l'avessero giudicata per erronea; il che non si trova che essi abbino fatto. Anzi, dopo che alcuni teologi l'hanno cominciata a considerare, si vede che non l'hanno stimata erronea, come si legge ne i Comentari di Didaco a Stunica sopra Iob, al c. 9, v. 6, sopra le parole “Qui commovet Terram de loco suo” etc: dove lungamente discorre sopra la posizione Copernicana, e conclude, la mobilità della Terra non esser contro alla Scrittura.

Oltre che io averei qualche dubbio circa la verità di tal determinazione, ciò è se sia vero che la Chiesa obblighi a tenere come de Fide simili conclusioni naturali, insignite solamente di una concorde interpretazione di tutti i Padri: e dubito che poss'essere che quelli che stimano in questa maniera, possin aver desiderato d'ampliar a favor della propria opinione il decreto de' Concilii, il quale non veggo che in questo proposito proibisca altro se non lo stravolger in sensi contrarii a quel di Santa Chiesa o del comun consenso de' Padri quei luoghi solamente che sono de Fide, o attenenti a i costumi, concernenti all'edificazione della dottrina cristiana: e così parla il Concilio Tridentino alla Sessione IV. Ma la mobilità o stabilità della Terra o del Sole non son de Fide né contro a i costumi, né vi è chi voglia scontorcere luoghi della Scrittura per contrariare a Santa Chiesa o a i Padri: anzi chi ha scritta questa dottrina non si è mai servito di luoghi sacri, acciò resti sempre nell'autorità di gravi e sapienti teologi l'interpretar detti luoghi conforme al vero sentimento. E quanto i decreti de' Concilii si conformino co' santi Padri in questi particolari, può esser assai manifesto: poi che tantum abest che si risolvino a ricever per de Fide simili conclusioni naturali o a reprovar come erronee le contrarie opinioni che, più presto avendo riguardo alla primaria intenzione di Santa Chiesa, reputano inutile l'occuparsi in cercar di venir in certezza di quelle. Senta l'Altezza Vostra Serenissima quello che risponde sant'Agostino a quei fratelli che muovono la quistione, se sia vero che il cielo si muova o pure stia fermo: “His respondeo, multum subtilis et laboriosis rationibus ista perquiri, ut vere percipiatur utrum ita an non ita sit: quibus ineundis atque tractandis nech mihi iam tempus est, nec illis esse debet quos ad salutem suam et Sanctæ Ecclesiæ necessarium utilitatem cupimus informari.”

Ma quando pure anco nelle proposizioni naturali, da luoghi della Scrittura esposti concordemente nel medesimo senso da tutti i Padri si avesse a prendere la resoluzione di condennarle o ammetterle, non però veggo che questa regola avesse luogo nel nostro caso, avvenga che sopra i medesimi luoghi si leggono de' Padri diverse esposizioni: dicendo Dionisio Areopagita, che non il Sole, ma il primo mobile, si fermò; l'istesso stima sant'Agostino, ciò è che si fermassero tutti i corpi celesti; e dell'istessa opinione è l'Abulense. Ma più, tra gli autori Ebrei, a i quali applaude Ioseffo, alcuni hanno stimato che veramente il Sole non si fermasse, ma che così apparve mediante la brevità del tempo nel quale gl'Isdraeliti dettero la sconfitta a' nemici. Così, del miracolo al tempo di Ezechia, Paulo Burgense stima non essere stato fatto nel Sole, ma nell'orivuolo. Ma che in effetto sia necessario glosare e interpretare le parole del testo di Iosuè, qualunque si ponga la costituzione del mondo, dimostrerò più a basso.

Ma finalmente, concedendo a questi signori più di quello che comandano, ciò è di sottoscrivere interamente al parere de' sapienti teologi, ciò è che tal particolar disquisizione non si trova essere stata fatta da i Padri antichi, potrà esser fatta da i sapienti della nostra età, li quali, ascoltate prima l'esperienze, l'osservazioni, le ragioni e le dimostrazioni de' filosofi ed astronomi per l'una e per l'altra parte, poi che la controversia è di problemi naturali e di dilemmi necessarii ed impossibili ad essere altramente che in una delle due maniere controverse, potranno con assai sicurezza determinar quello che le divine ispirazioni gli detteranno. Ma che senza ventilare e discutere minutissimamente tutte le ragioni dell'una e dell'altra parte, e che senza venire in certezza del fatto si sia per prendere una tanta resoluzione, non è da sperarsi da quelli che non si curerebbono d'arrisicar la maestà e dignità delle Sacre Lettere per sostentamento della reputazione di lor vane immaginazioni, né da temersi da quelli che non ricercano altro se non che si vadia con somma attenzione ponderando quali sieno i fondamenti di questa dottrina, e questo solo per zelo stantissimo del vero e delle Sacre Lettere, e della maestà. dignità ed autorità nella quale ogni cristiano deve procurare che esse sieno mantenute. La quale dignità chi non vede con quanto maggior zelo vien desiderata e procurata da quelli che, sottoponendosi onninamente a Santa Chiesa, domandano non che si proibisca questa o quella opinione, ma solamente di poter mettere in considerazione cose onde ella maggiormente si assicuri nell'elezione più sicura, che da quelli che, abbagliati da proprio interesse o sollevati da maligne suggestioni, predicano che ella fulmini senz'altro la spada, poi che ella ha potestà di farlo, non considerando che non tutto quel che si può fare è sempre utile che si faccia? Di questo parere non son già stati i Padri santissimi: anzi, conoscendo di quanto progiudizio e quanto contro al primario instituto della Chiesa Cattolica sarebbe il volere da' luoghi della Scrittura definire conclusioni naturali, delle quali, o con esperienze o con dimostrazioni necessarie, si potrebbe in qualche tempo dimostrare il contrario di quel che suonan le nude parole, sono andati non solamente circospettissimi, ma hanno, per ammaestramento degli altri, lasciati i seguenti precetti: “In rebus obscuris atque a nostri oculis remotissimis, si qua inde scripta, etiam divina, legerimus, quæ possint, salva fide qua imbuimur, aliis atque aliis parere sententiis, in ullam earum nos præcipiti affirmatione ita proiiciamus, ut, si forte diligentius discussa veritas eam recte labefactaverit, corruamus; non pro sententia divinarum Scripturarum, sed pro nostra ita dimicantes, ut eam velimus Scripturarum esse, quæ nostra est, com potius eam, quæ Scripturarum est, nostram esse velle debeamus.” Soggiugne poco di sotto, per ammaestrarci come nissuna proposizione può esser contro la Fede se prima non è dimostrata esser falsa, dicendo: “Tamdiu non est contra Fidem, donec veritate certissima refellatur: quod si factum fuerit, non hoc habebat divina Scriptura, sed hoc senserat humana ignorantia.” Dal che si vede come falsi sarebbono i sentimenti che noi dessimo a' luoghi della Scrittura, ogni volta che non concordassero con le verità dimostrate: e però devesi con l'aiuto del vero dimostrato cercar il senso sicuro della Scrittura, e non, conforme al nudo suono delle parole, che sembrasse vero alla debolezza nostra, volere in certo modo sforzar la natura e negare l'esperienze e le dimostrazioni necessarie.

Ma noti di più, l'Altezza Vostra, con quante circospezzioni cammina questo santissimo uomo prima che risolversi ad affermare alcuna interpretazione della Scrittura per certa e talmente sicura che non si abbia da temere di poter incontrare qualche difficoltà che ci apporti disturbo, che, non contento che alcun senso della Scrittura concordi con alcuna dimostrazione, soggiugne: “Si autem hoc verum esse certa ratio demonstraverit, adhuc incertum erit, utrum hoc in illis verbis sanctorum librorum scriptor sentiri voluerit, an aliquid aliud non minus verum: quod si cætera contextio sermonis non hoc eum voluisse probaverit, non ideo falsum erit aliud quod ipse intelligi voluit, sed et verum et quod utlis cognoscatur.” Ma quello che accresce la meraviglia circa la circospezzione dìcon la quale questo autore cammina, è che, non si assicurando su 'l vedere che e le ragioni dimostrative e quelle che suonano le parole della Scrittura ed il resto della testura precedente e susseguente cospirino nella medesima intenzione, aggiugne le seguenti parole: “Si autem contextio Scripturæ, hoc voluisse intelligi scriptorem non repugnaverit, adhuc restabit quærere, utrum et aliud non potuerit”; né si risolvendo ad accettar questo senso o escluder quello, anzi non gli parendo di potersi stimar mai cautelato a sufficienza, séguita: “Quod si et aliud potuisse invenerimus, incertum erit, quidnam eorum ille voluerit; aut utrumque voluisse, non inconvenienter creditur, si utrique sententiæ certa circumstantia suffragatur.” E finalmente, quasi volendo render ragione di questo suo instituto, col mostrarci a quali pericoli esporrebbono sé e le Scritture e la Chiesa quelli che, riguardando più al mantenimento d'un suo errore che alla dignità della Scrittura, vorrebbono estender l'autorità di quella oltre a i termini che ella stessa si prescrive, soggiugne le seguenti parole, che per sé sole doverebbono bastare a reprimere e moderare la soverchia licenza che tal uno pretende di potersi pigliare: “Plerumque enim accidit, ut aliquid de Terra, de cælo,de cæteris huius munda elementis, de moti et conversione vel etiam magnitude et intervallis siderum, de certi defectibus Solis et Lunæ, de circuitibus annorum et temporum, de naturis animalium, fruticum, lapidum, atque huiusmodi cæteris, etiam non Christianus ita noverit, ut certissima ratione vel experientia teneat. Turpe autem est nimis et perniciosum ac maxime cavendum, ut Christianum de his rebus quasi secundum Christianas Literas loquentem ita delirare quilibet infidelis audiat, ut, quemadmodum diciur, toto cælo errare conspiciens, risum tenere vix possit; et non tam molestum est quod errans homo derideretur, sed quod authores nostri ab eis qui forsi sunt talia sensisse creduntur, et, cum magno exitio eorum de quorum salute stagimus, tamquam indoct repræhenduntur atque respuuntur. Cum enim quemquam de numero Christianorum ea in re quam ipsi optime norunt errare depræhenderint, et vanam sententiam suam de nostris libris asserent, quo pacto illis libris credituri sunt de resurrectione mortuorum et de spe vitæ æternæ regnoque cælorum, quando de his rebus quas iam experiri vel indubitatis rationibus percipere potuerunt, fallaciter putaverint esse conscriptos?” Quanto poi restino offesi i Padri veramente saggi e prudenti da questi tali che, per sostener proposizioni da loro non capite, vanno in certo modo impegnando i luoghi delle Scritture, riducendosi poi ad accrescere il primo errore col produrr'altri luoghi meno intesi de' primi, esplica il medesimo Santo con le parole che seguono: “Quid enim molestiæ tristiæque ingerant prudentibus fratribus temerarii præsumptores, satis dici non potest, cum si quando de prava et falsa opinione sua repræhendi et convinci cœperint ab eis qui nostrorum librorum authoritate non tenentur, ad defendendum id quod levissima temeritate et apertissima falsitate dixerunt, eosdem libros sanctos unde id probent, proferre conantur; vel etiam memoriter, quæ ad testimonium valere arbitrantur, multa inde verba pronunciant, non intelligentes neque quæ loquuntur neque de quibus affirmant.”

Del numero di questi parmi che sieno costoro, che non volendo o non potendo intendere le dimostrazioni ed esperienze con le quali l'autore ed i seguaci di questa posizione la confermano, attendono pure a portare innanzi le Scritture, non si accorgendo che quante più ne producono e quanto più persiston in affermar quelle esser chiarissime e non ammetter altri sensi che quelli che essi gli danno, di tanto maggior progiudizio sarebbono alla dignità di quelle (quando il lor giudizio fosse di molta autorità), se poi la verità conosciuta manifestamente in contrario arrecasse qualche confusione, al meno in quelli che son separati da Santa Chiesa, de' quali pur ella è zelantissima e madre desiderosa di ridurgli nel suo grembo. Vegga dunque l'Altezza Vostra quanto disordinatamente procedono quelli che, nelle dispute naturali, nella prima fronte costituiscono per loro argomenti luoghi della Scrittura, e ben spesso malamente da loro intesi.

Ma se questi tali veramente stimano e interamente credono d'avere il vero sentimento di un tal luogo particolare della Scrittura, bisogna, per necessaria conseguenza, che si tenghino anco sicuri d'aver in mano l'assoluta verità di quella conclusione naturale che intendono di disputare, e che insieme conoschino d'aver grandissimo vantaggio sopra l'avversario, a cui tocca a difender la parte falsa; essendo che quello che sostiene il vero, può aver molte esperienze sensate e molte dimostrazioni necessarie per la parte sua, mentre che l'avversario non può valersi d'altro che d'ingannevoli apparenze, di paralogismi e di fallacie. Ora se loro, contenendosi dentro a i termini naturali e non producendo altre armi che le filosofiche, sanno ad ogni modo d'esser tanto superiori all'avversario, perché, nel venir poi al congresso, por subito mano ad un'arme inevitabile e tremenda, per atterrire con la sola vista il loro avversario? Ma, se io devo dir il vero, credo che essi sieno i primi atterriti, e che, sentendosi inabili a potere star forti contro alli assalti dell'avversario, tentino di trovar modo di non se lo lasciar accostare, vietandogli l'uso del discorso che la Divina Bontà gli ha conceduto, ed abusando dell'autorità giustissima della Sacra Scrittura che, ben intesa e usata, non può mai, conforme alla comun sentenza de' teologi, oppugnar le manifeste esperienze o le necessarie dimostrazioni. Ma che questi tali rifugghino alle Scritture per coprir la loro impossibilità di capire, non che di solvere, le ragioni contrarie, dovrebbe, s'io non m'inganno, essergli di nessun profitto, non essendo mai sin qui stata cotal opinione dannata da Santa Chiesa. Però, quando volessero procedere con sincerità, doverebbono o, tacendo, confessarsi inabili a poter trattar di simili materie, o vero prima considerare che non è nella potestà loro né di altri che del Sommo Pontefice o de' sacri Concilii il dichiarare una proposizione per erronea, ma che bene sta nell'arbitrio loro il disputar della sua falsità; dipoi, intendendo come è impossibile che alcuna proposizione sia insieme vera ed eretica, dovrebbono occuparsi di quella parte che più aspetta a loro, ciò è in dimostrar la falsità di quella; la quale come avessero scoperta, o non occorrerebbe più il proibirla, perché nessuno la seguirebbe, o il proibirla sarebbe sicuro e senza pericolo di scandalo alcuno.

Però applichinsi prima questi tali a redarguire le ragioni del Copernico e di altri, e lascino il condennarla poi per erronea ed eretica a chi ciò si appartiene; ma non sperino già d'esser per trovare nei circuspetti e sapientissimi Padri e nell'assoluta sapienza di Quel che non può errare, quelle repentine resoluzioni nelle quali essi talora si lascerebbono precipitare da qualche loro affetto o interesse particolare; perché sopra queste ed altre simili proposizioni, che non sono direttamente de Fide, non è chi dubiti che il Sommo Pontefice ritien sempre assoluta potestà di ammetterle o di condennarle; ma non è già in poter di creatura alcuna il farle esser vere o false, diversamente da quel che elleno per sua natura e de facto si trovano essere. Però par che miglior consiglio sia l'assicurarsi prima della necessaria ed immutabil verità del fatto, sopra la quale nissuno ha imperio, che, senza tal sicurezza, col dannare una parte spogliarsi dell'autorità e libertà di poter sempre eleggere, riducendo sotto necessità quelle determinazioni che di presente sono indifferenti e libere e riposte nell'arbitrio dell'autorità suprema. Ed in somma, se non è possibile che una conclusione sia dichiarata eretica mentre si dubita che ella poss'esser vera, vana doverà esser la fatica di quelli che pretendono di dannar la mobilità della Terra e la stabilità del Sole, se prima non la dimostrano essere impossibile e falsa.

Resta finalmente che consideriamo, quanto sia vero che il luogo di Giosuè si possa prendere senza alterare il puro significato delle parole, e come possa essere che, obedendo il Sole al comandamento di Giosuè, che fu che egli si fermasse, ne potesse da ciò seguire che il giorno per molto spazio si prolungasse.

La qual cosa, stante i movimenti celesti conforme alla costituzione Tolemaica, non può in modo alcuno avvenire: perché, facendosi il movimento del Sole per l'eclittica secondo l'ordine de' segni, il quale è da occidente verso oriente, ciò è contrario al movimento del primo mobile da oriente in occidente, che è quello che fa il giorno e la notte, chiara cosa è che, cessando il Sole dal suo vero e proprio movimento, il giorno si farebbe più corto, e non più lungo, e che all'incontro il modo dell'allungarlo sarebbe l'affrettare il suo movimento; in tanto che, per fare che il Sole restasse sopra l'orizonte per qualche tempo in un istesso luogo, senza declinar verso l'occidente, converrebbe accelerare il suo movimento tanto che pareggiasse quel del primo mobile, che sarebbe un accelerarlo circa trecento sessanta volte più del consueto. Quando dunque Iosuè avesse avuto intenzione che le sue parole fossero prese nel loro puro e propriissimo significato, averebbe detto al Sole ch'egli accelerasse il suo movimento, tanto che il ratto del primo mobile non lo portasse all'occaso; ma perchè le sue parole erano ascoltate da gente che forse non aveva altra cognizione de' movimenti celesti che di questo massimo e comunissimo da levante a ponente, accomodandosi alla capacità loro, e non avendo intenzione d'insegnargli la costituzione delle sfere, ma solo che comprendessero la grandezza del miracolo fatto nell'allungamento del giorno, parlò conforme all'intendimento loro.

Forse questa considerazione mosse prima Dionisio Areopagita a dire che in questo miracolo si fermò il primo mobile, e fermandosi questo, in conseguenza si fermoron tutte le sfere celesti: della quale opinione è l'istesso sant'Agostino, e l'Abulense diffusamente la conferma. Anzi, che l'intenzione dell'istesso Iosuè fusse che si fermasse tutto il sistema delle celesti sfere, si comprende dal comandamento fatto ancora alla Luna, ben che essa non avesse che fare nell'allungamento del giorno; e sotto il precetto fatto ad essa Luna s'intendono gli orbi de gli altri pianeti, taciuti in questo luogo come in tutto il resto delle Sacre Scritture, delle quali non è stata mai intenzione d'insegnarci le scienze astronomiche.

Parmi dunque, s'io non m'inganno, che assai chiaramente si scorga che, posto il sistema Tolemaico, sia necessario interpretar le parole con qualche sentimento diverso dal loro puro significato: la quale interpretazione, ammonito dagli utilissimi documenti di sant'Agostino, non direi esser necessariamente questa, sì che altra forse migliore e più accomodata non potesse sovvenire ad alcun altro. Ma se forse questo medesimo, più conforme a quanto leggiamo in Giosuè, si potesse intendere nel sistema Copernicano, con l'aggiunta di un'altra osservazione, nuovamente da me dimostrata nel corpo solare, voglio per ultimo mettere in considerazione; parlando sempre con quei medesimi riserbi di non esser talmente affezionato alle cose mie, che io voglia anteporle a quelle degli altri, e creder che di migliori e più conformi all'intenzione delle Sacre Lettere non se ne possino addurre.

Posto dunque, prima, che nel miracolo di Iosuè si fermasse tutto 'l sistema delle conversioni celesti, conforme al parere de' sopra nominati autori, e questo acciò che, fermatone una sola, non si confondesser tutte le costituzioni e s'introducesse senza necessità perturbamento in tutto 'l corso della natura, vengo nel secondo luogo a considerare come il corpo solare, ben che stabile nell'istesso luogo, si rivolge però in se stesso, facendo un'intera conversione in un mese in circa, sì come concludentemente mi par d'aver dimostrato nelle mie Lettere delle Macchie Solari: il qual movimento vegghiamo sensatamente esser, nella parte superior del globo, inclinato verso il mezo giorno, e quindi, verso la parte inferiore, piegarsi verso aquilone, nell'istesso modo appunto che si fanno i rivolgimenti di tutti gli orbi de' pianeti. Terzo, riguardando noi alla nobiltà del Sole, ed essendo egli fonte di luce, dal qual pur, com'io necessariamente dimostro, non solamente la Luna e la Terra, ma tutti gli altri pianeti, nell'istesso modo per se stessi tenebrosi, vengono illuminati., non credo che sarà lontano dal ben filosofare il dir che egli, come ministro massimo della natura e in certo modo anima e cuore del mondo, infonde a gli altri corpi che lo circondano non solo la luce, ma il moto ancora, co 'l rigirarsi in se medesimo; sì che, nell'istesso modo che, cessando 'l moto del cuore nell'animale, cesserebbono tutti gli altri movimenti delle sue membra, così, cessando la conversion del Sole, si fermerebbono le conversioni di tutti i pianeti. E come che della mirabil forza ed energia del Sole io potessi produrne gli assensi di molti gravi scrittori, voglio che basti un luogo solo del Beato Dionisio Areopagita nel libro De divinis nominibus; il quale del Sole scrive così: “Lux etiam colligit convertitque ad se omnia, quæ videntur, quæ moventur, quæ illustrantur, quæ calescunt, et uno nomine ea quæ ab eius splendore continentur. Itaque Sol Ilios dicitur, quod omnia congreget colligatque dispersa.” E poco più a basso scrive dell'istesso Sole: “Si enim Sol hic, quem videmus, eorum quæ sub sensum cadunt essentias et qualitates, quamquam multæ sint ac dissimiles, tamen ipse, qui unus est æquabiliterque lumen fundit, renovat, alit, tuetur, perficit, dividit, coniungit, fovet, fœcunda reddit, auget, mutat, firmat, edit, movet, vitaliaque facit omnia, et unaquæque rea huis universitatis, pro captu suo, unius atque eiusdem Solis est particeps, causasque multorum, quæ participant, in se æquabiliter anticipatas habet; certe maiore ratione” etc. Essendo, dunque, il Sole e fonte di luce e principio de' movimenti, volendo Iddio che al comandamento di Iosuè restasse per molte ore nel medesimo stato immobilmente tutto 'l sistema mondano, bastò fermare il Sole, alla cui quiete fermatesi tutte l'altre conversioni, restarono e la Terra e la luna e 'l Sole nella medesima costituzione, e tutti gli altri pianeti insieme; né per tutto quel tempo declinò 'l giorno verso la notte, ma miracolosamente si prolungò: ed in questa maniera col fermare il Sole, senza alterar punto o confondere gli altri aspetti e scambievoli costituzioni delle stelle, si potette allungare il giorno in terra, conforme esquisitamente al senso literale del sacro testo.

Ma quello di che, s'io non m'inganno, si deve far non piccola stima, è che con questa costituzione Copernicana si ha il senso literale apertissimo e facilissimo d'un altro particolare che si legge nel medesimo miracolo; il quale è, che il Sole si fermò nel mezo del cielo. Sopra 'l qual passo gravi teologi muovono difficoltà: poi che par molto probabile che quando Giosuè domandò l'allungamento del giorno, il Sole fusse vicino al tramontare, e non al meridiano; perché quando fusse stato nel meridiano, essendo allora intorno al solstizio estivo, e però i giorni lunghissimi, non par verisimile che fusse necessario pregar l'allungamento del giorno per conseguir vittoria in un conflitto, potendo benissimo bastare per ciò lo spazio di sette ore e più di giorno che rimanevano ancora. Dal che mossi gravissimi teologi, hanno veramente tenuto che 'l Sole fusse vicino all'occaso; e così par che suonino anco le parole, dicendosi: Ferma, Sole, fermati; ché se fosse stato nel meridiano, o non occorreva ricercare il miracolo, o sarebbe bastato pregar solo qualche ritardamento. Di questa opinione è il Caietano, alla quale sottoscrive il Magaglianes, confermandola con dire che Iosuè aveva quell'istesso giorno fatte tant'altre cose avanti il comandamento del sole, che impossibile era che fussero spedite in mezo giorno: onde si riducono ad interpretar le parole in medio cæli veramente con qualche durezza, dicendo che l'importano l'istesso che il dire che il Sole si fermò essendo nel nostro emisferio, ciò è sopra l'orizonte. Ma tal durezza ed ogn'altra, s'io non erro, sfuggirem noi, collocando, conforme al sistema Copernicano, il Sole nel mezo, ciò è nel centro degli orbi celesti e delle conversione de' pianeti, sì come è necessarissimo di porvelo; perché, ponendo qualsivoglia ora del giorno, o la meridiana, o altra quanto ne piace vicina alla sera, il giorno fu allungato e fermate tutte le conversioni celesti col fermarsi il Sole nel mezo del cielo, ciò è nel centro di esso cielo, dove egli risiede: senso tanto più accomodato alla lettera, oltre a quel che si è detto, quanto che, quando anco si volesse affermare la quiete del Sole essersi fatta nell'ora del mezo giorno, il parlar proprio sarebbe stato il dire che stetit in meridie, vel in meridiano circulo, e non in medio cæli, poi che di un corpo sferico, quale è il cielo, il mezo è veramente e solamente il centro.

Quanto poi ad altri luoghi della Scrittura, che paiono contrariare a questa posizione, io non ho dubbio che quando ella fusse conosciuta per vera e dimostrata, quei medesimi teologi che, mentre la reputan falsa, stimano tali luoghi incapaci di esposizioni concordanti con quella, ne troverebbono interpretazioni molto ben congruenti, e massime quando all'intelligenza delle Sacre Lettere aggiugnessero qualche cognizione delle scienze astronomiche: e come di presente, mentre la stimano falsa, gli par d'incontrar, nel leggere le Scritture, solamente luoghi ad essa repugnanti, quando si avessero formato altro concetto, ne incontrerebbero per avventura altrettanti di concordi; e forse giudicherebbono che Santa Chiesa molto acconciamente narrasse che Iddio colloca il Sole nel centro del cielo e che quindi, col rigirarlo in se stesso a guisa d'una ruota, contribuisce agli ordinati corsi alla Luna ed all'altre stelle erranti, mentre ella canta:

 

                                Cæli Deus sanctissime,

                qui lucidum centrum poli

                candore pingis igneo,

                augens decoro lumine;

                quarto die qui flammeam

                solis rotam constituens,

                lunæ ministras ordinem,

                vagosque cursus siderum

 

Potrebbono dire, il nome di firmamento convenirsi molto bene ad literam alla sfera stellata ed a tutto quello che è sopra le conversioni de' pianeti, che, secondo questa disposizione, è totalmente fermo ed immobile. Così, movendosi la Terra circolarmente, s'intenderebbono i suoi poli dove si legge: “Nec dum terrat fecerat, et flumina et cardines orbis Terræ”; i quali cardini paiono indarno attribuiti al globo terrestre, se egli sopra non se gli deve raggirare.

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XV

 

A ELIA DIODATI IN PARIGI

 

(Bellosguardo, 16 agosto 1631)

 

 

Ho, dopo molte difficoltà, ottenuto di stampare i miei Dialoghi, ancorché la materia che tratto, e la maniera con che la porto, meritasse ch'io fussi pregato di pubblicargli da que' medesimi che hanno fatte le difficoltà, come, in leggendogli a suo tempo, V. S. stessa comprenderà. È vero che non ho potuto nel titolo del libro ottenere di nominare il flusso e reflusso del mare, ancorché questo sia l'argomento principale che tratto nell'opera; ma ben mi vien conceduto ch'io proponga li due sistemi massimi Tolemaico e Copernicano, con dire che amendue gli esamino, producendo per l'una e per l'altra parte quel tutto che si può dire, lasciandone poi il giudizio in pendente. Ne è sin ora stampata la terza parte, e spero che in tre mesi si finirà il rimanente. Credo che, se si fusse intitolato il libro De flusso e reflusso, sarebbe stato con più utile dello stampatore. Ma doppo qualche tempo si spargerà la voce, per relazione di quei primi che l'averanno letto; e intanto V. S. ne sarà stata da me avvisata.


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XVI

 

AD ANDREA ClOLI IN SIENA

 

(Firenze, 6 ottobre 1632)

 

Ill.mo Sig.re e Pad.ne Col.mo

 

Trovomi in gran confusione per una intimazione statami fatta tre giorni sono dal Padre Inquisitore, di ordine della Sacra Congregazione del S.to Offizio di Roma, di dovermi per tutto il presente mese presentare là a quel Tribunale, dove mi sarà significato quanto io debba fare. Ora, conoscendo l'importanza del negozio, e 'l debito di farne consapevole il Ser.mo Padrone e il bisogno di consiglio e indirizzo di quanto io debba in ciò fare, ho resoluto di venir costà quanto prima per proporre all'A. S.ma quei partiti e provisioni, de i quali più di uno mi passano per la fantasia, per i quali io possa nel medesimo tempo mostrarmi, quale io sono, obedientissimo e zelantissimo di S.ta Chiesa, e anco desideroso di cautelarmi quanto sia possibile, contro alle persecuzioni di ingiuste suggestioni che possano immeritamente avermi concitato contro la mente, per altro santissima, de i superiori. Ne do conto a V. S. Ill.ma, e anco, per non giugnere costà del tutto inaspettato, per lei al Ser.mo G. Duca; e non sentendo cosa in contrario, mi partirò domenica prossima, lasciando spazio a V. S. Ill.ma di avvisarmi, se accidente alcuno ci fusse, che repugnasse a questo mio proposito. E qui reverentemente gli bacio la mano e nella sua buona grazia e protezione mi raccomando.

 

Di Firenze, li 6 di Ottobre 1632

Di V. S. Ill.ma

 

                                                               Dev.mo e Obblig.mo Ser.re

                                                                               Galileo Galilei

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XVII

 

A FRANCESCO BARBERINI IN ROMA

 

(Firenze, 13 ottobre 1632)

 

Emin.mo e Rev.mo Sig.re e Pad.e Col.mo

 

Che il mio Dialogo, Em.mo e Rev.mo Sig.re, ultimamente pubblicato fusse per aver dei contradittori, fu previsto da me e da tutti gl'amici miei, perché così ne assicuravano gl'incontri dell'altre mie opere per avanti mandate alle stampe, e perché così pare che comunemente portino seco le dottrine le quali dalle comuni e inveterate opinioni punto punto si allontanano. Ma che l'odio di alcuni contra di me e le mie scritture, solo perché adombrano in parte lo splendor delle loro, dovesse esser potente a imprimer nelle menti santissime dei superiori, questo mio libro esser indegno della luce, mi giunse veramente inaspettato; perloché il comandamento che due mesi fa si dette qua allo stampatore e a me, di non lasciare uscir fuori tal mio libro, mi fu avviso assai grave. Tuttavia di gran sollevamento mi era la purità della mia coscienza, la quale mi persuadeva, non mi dovere esser difficile il manifestar l'innocenza mia: e ben desideravo e speravo che mi dovesse esser dato campo di poter sincerarmi; e mi confidavo nel medesimo tempo, che la mia umiltà, reverenza, summissione, e assolutissima autorità conceduta sopra tutti i miei concetti, fusse stata potente a rappresentare a i prudentissimi superiori la mia prontezza all'obbedire esser tale, che potesse rendergli sicuri che io ad ogni minimo cenno mi sarei mosso per venire non solo a Roma, ma in capo al mondo. Perloché non posso negare, l'intimazione fattami ultimamente d'ordine della Sacra Congregazione del S. Offizio, di dovermi presentare dentro al termine del presente mese avanti a quello eccelso Tribunale, essermi di grandissima afflizzione; mentre meco medesimo vo considerando, i frutti di tutti i miei studi e fatiche di tanti anni, le quali avevano per l'addietro portato per l'orecchie de i letterati con fama non in tutto oscura il mio nome, essermi ora convertiti in gravi note della mia reputazione, con dare attacco a i miei emoli d'insurger contro a gl'amici miei serrando lor la bocca non pure alle mie lodi ma alle scuse ancora, con l'opporgli l'avere io finalmente meritato d'esser citato al Tribunale del Santo Offizio: atto, che non si vede eseguire se non sopra i gravemente delinquenti. Questo in modo mi affligge, che mi fa detestare tutto 'l tempo già da me consumato in quella sorte di studii per i quali io ambiva e sperava di potermi alquanto separare dal trito e popolar sentiero de gli studiosi; e con l'indurmi pentimento d'avere esposto al mondo parte de i miei componimenti, m'invoglia a supprimere e condannare al fuoco quelli che mi restano in mano, saziando interamente la brama de i miei nimici, a i quali i miei pensieri son tanto molesti .

Questa, Em.o Sig.re, è quella afflizzione, la quale, continuando senza alcuna intermissione di rigirarmisi per la mente, con l'avermi aggiunto una continua vigilia al peso di 70 anni e a più altre mie corporali indisposizioni, mi rende sicuro, entrando in un viaggio per lunghezza e per straordinarii impedimenti e incomodi faticoso, che io non mi condurrei con la vita alla metà; onde, spinto dal comune natural desiderio della propria salute, ho preso resoluzione di ricorrere all'intercessione di V. Em. inanimito da quella ineffabile benignità che ciascheduno e io sopra tutti per più esperienze ho conosciuta in lei supplicandola che mi faccia grazia di rappresentare a cotesti prudentissimi Padri il mio compassionevole stato presente, non per sfuggire il render conto delle azzioni mie, perché è da me somamente bramato, sicuro di poterci fare non piccol guadagno, ma solo perché si compiaccino di agevolarmi il potergli obbedire e 'l sincerarmi. Non mancherà alla prudenza de i sapientissimi Padri modo di poter benignamente ottener l'intento loro: e a me per ora si rappresentano due maniere. L'una è che io sarò prontissimo a distendere in carta e rappresentare minutissimamente e sincerissimamente tutto 'l progresso delle cose dette, scritte e operate da me, dal primo giorno in qua che furon suscitati moti sopra 'l libro di Niccolò Copernico e sua rinovata opinione; nella quale scrittura io son più che sicuro di far talmente chiara e palese la sincerità della mia mente e il purissimo, zelantissimo e santissimo affetto verso S.ta Chiesa e il suo Rettore e ministri, che non sarà alcuno che, sendo ignudo di passione e di affetto alterato, non confessi essermi io portato tanto piamente e cattolicamente, che pietà maggiore non averebbe potuto dimostrare qualsivoglia dei Padri che del titoIo di santità vengono insigniti. Io ho appresso di me tutte le scritture che per tale occasione feci qui e in Roma, dalle quali (torno a replicarlo) ciascheduno comprenderà, non mi esser io mosso a implicarmi in questa impresa salvo che per zelo di S.ta Chiesa, e per sumministrare ai ministri di quella quelle notizie che i miei lunghi studii mi avevano arrecate, e di alcune delle quali forse poteva taluno esser bisognoso, come di materie oscure e separate dalle dottrine più frequentate; e ben son sicuro che agevolissimo mi sarà il far palese e chiaro, come del pormi a tale impresa mi furon gagliardo invito le determinazioni e santissimi precetti in tanti luoghi sparsi nei libri de i sacri dottori di S.ta Chiesa, e come finalmente l'ultima mia conferma in tal proponimento s'impresse in me nel sentire un brevissimo ma santissimo e ammirabil pronunziato, che, quasi ecco dello Spirito Santo, improvisamente uscì dalla bocca di persona eminentisima in dottrina e veneranda per santità di vita; pronunziato tale, che in sè contiene, sotto manco di dieci parole con arguta leggiadria accoppiate, quanto da lunghi discorsi disseminati ne i libri de i sacri dottori si raccoglie. Io per ora tacerò il detto ammirabile e l'autor di esso non mi parendo se non cautamente e convenientemente fatto il non interessar nissuno nel presente affare, dove solo la persona mia viene in considerazione

Se mi succederà d'ottener tal grazia, oh quanto spero io che la mia innocenza debba esser conosciuta e abbracciata da cotesti prudentissimi e giustissimi Padri, e quanto abbiano a restar maravigliati di qualche stratagemma che fu usato da qualcuno, accecato e spinto a muover la prima pietra non per zelo di pietà, ma per odio non contro di questa o di quella opinione, ma contro alla persona mia. Io non mi potrei accomodare a creder che domanda che mi si rappresenta tanto ragionevole mi dovesse esser negata, e tanto più quanto il concederla non toglie il potermi costrigner nel modo già intrapreso. E chi vorrà negarmi tale udienza per scrittura, e gravarmi di fatica insuperabile dalla mia debolezza, per le cause già dette, mentre io l'assicuro che, sentite le ragioni mie, compassionerà 'l mio stato, e soverchio gastigo al mio demerito (se pur ve n'è ombra) gli parrà il travaglio portomi sin ora per l'altrui (per quanto temo) poco sincere affermazioni? E quando tal mia scrittura non sodisfacesse appieno a tutti i capi sopra i quali mi vien mossa imputazione e querela, potranno essermi proposte le particolari difficoltà, ché io non mancherò di rispondere quanto Iddio mi detterà. Ma dubito, Emin.mo e Rev.mo mio Sig.re, che possa essere che i miei oppositori non siano per venire (come si suol dire) di così buone gambe a mettere in carta quello che in voce e ad aures forse avranno contro di me pronunziato, come io mi offerisco a mettere in scrittura le mie difese.

Ma finalmente, quando non si voglino accettare mie giustificazioni in scritture, ma si voglia la viva voce, qui sono Inquisitore, Nunzio, Arcivescovo e altri ministri di S.ta Chiesa, ai quali sono prontissimo ch presentarmi ad ogni richiesta: e pur mi sembra verisimile che anco cause di maggiore affare si trattano avanti questi tribunali; né può parer verisimile che sotto a gl'occhi perspicacissimi e zelantissimi di quelli che veddero il mio libro, con liberissima autorità di levare, aggiugnere e mutare ad arbitrio loro, possa esser passato errore di tanto momento, senza esser veduto, che ecceda la facoltà d'esser corretto e gastigato da i superiori di questa città.

Questi, Em. S. sono i partiti che per salvezza della mia vita e per sodisfazione di cotesto eccelso e venerando Tribunale mi sovvengono. Prego la benignità sua che voglia rappresentargli, con scusare insieme se per mia ignoranza vi avessi commesso veruno errore. E per ultima conclusione, quando né la grave età, né le molte corporali indisposizioni, né afflizzion di mente, né la lunghezza di un viaggio per i presenti sospetti travagliosissimo, siano giudicate da cotesto sacro e eccelso Tribunale scuse bastanti ad impetrar dispensa o proroga alcuna, io mi porrò in viaggio, anteponendo l'ubbidire al vivere. E qui, Em.mo e Rev.mo Sig.re, con ogni umiltà inchinandomi, gli bacio la veste e prego il colmo di felicità.

 

Di Firenze, li 13 di Ottobre 1632.

 

Di V. Em.za Rev.ma

Um.mo e Obb.mo Servo

Galileo Galilei.

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XVIII

 

A CESARE MARSILI IN BOLOGNA

 

(Firenze, 16 ottobre 1632)

 

Ill.mo Sig.re e Pad.ne Col.mo

 

Sono poco meno di 2 mesi che il P. Inquisitore di qui commesse, di ordine del R.mo P. Maestro del Sacro Palazzo di Roma, al libraio e a me, che non dovessimo dar fuora più copie del mio Dialogo sino ad altro avviso: e questa fu la prima conferma di una acerbissima persecuzione, che poco avanti avevo inteso che si andava machinando contro di me e 'l mio libro; la quale persecuzione è andata pigliando tanto vigore, che finalmente, 15 giorni sono, mi venne una intimazione dalla S. Congregazione del S.to Offizio, che per tutto questo mese io debba presentarmi a quello eccelso Tribunale. Tale avviso mi affligge gravemente, non perché io non sperassi di potermi appieno giustificare e far palese la mia innocenzia e santissimo zelo verso S.ta Chiesa; ma la grave età, accompagnata con molte corporali indisposizioni, con la giunta di questo travaglio di mente, in un viaggio lungo e travagliosissimo per i presenti sospetti, mi rendono quasi che sicuro che io non mi vi potrei condur con la vita. Ho fatto ogni opera per ottener di sincerarmi con scritture, o vero che la causa mia sia veduta qui, dove sono ministri di S.ta Chiesa; e sto aspettando qualche resoluzione. Intanto ne ho voluto dar conto a V. S. Ill.ma, come a mio padrone affezionatissimo e che so che compassionerà questo mio infortunio.

Ricevei una lunga lettera dal molto R. Padre Buonaventura, piena di scuse, le quali veramente non erano necessarie, perché io non ho mai auto dubbio deila sua bonissima intenzione, ma mi dolevo della mia disgrazia, che mi arrecava disgusto contro alla volontà e opinione di chi me lo cagionava. Io non posso riscrivergli per adesso, trovandomi occupatissimo; e solo prego V. S. a dirgli che non intendo che S. Paternità muti nulla nel suo libro già stampato, anzi che io gli rendo grazie delle onorate menzioni che fa di me. E qui reverentemente inclinandola, gli bacio le mani e prego felicità.

 

Fir.ze, li 16 di 8bre 1632.

 

Di V. S. Ill.ma

Ser.re Obblig.mo

Gal.o G.


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XIX

 

AD ANDREA CIOLI IN LIVORNO

 

 

(Roma, 19 febbraio 1633)

 

Ill.mo Sig.re e Pad.ne Col.mo

 

De gl'accidenti occorsimi ne i 25 giorni del mio viaggio so che V. S. Ill.ma ne averà inteso dal S. Geri Bocchineri al quale in più lettere ne ho dato conto; però non ne replico altri. Giunto qui in Roma, fui ricevuto dall'Ecc.mo S. Ambasciatore con quella benignità che non si può descrivere, dove con la medesima vo continuando di trattenermi. Circa lo stato delle cose mie non posso dir nulla; salvo che per coniettura pare a me, e anco al S. Ambasciatore e suoi ministri di casa, che la travagliosa procella sia, o almeno si mostri tranquillata assai onde non sia da sbigottirsi del tutto per qualche inevitabil naufragio, e disperar di esser per condursi in porto, e massime mentre, conforme al mio dottore, tra l'onde alterate

 

Scorrendo me ne vo con umil vele.

 

Io mi trattengo perpetuamente in casa, parendo che non convenga in questo tempo andar vagando e a mostra per la città. Sin ora non mi è stato imposto o detto nulla ex offitio; anzi uno di quei SS.ri della Congregazione è stato due volte da me con molta umanità dandomi destramente occasione di dir qualche cosa in dichiarazione e confermazione della mia sincerissima e ossequentissima mente, stata sempre tale verso S.ta Chiesa e suoi ministri e tutto da esso con attenzione, e, per quanto ho potuto comprendere, con approbazione, ascoltato: e se la sua visita è stata (come ragionevolmente par che sia credibile) con consenso e forse con ordine della Sa.a Congregazione, questo pare un principio di trattamento molto mansueto e benigno, e del tutto dissimile alle comminate corde, catene e carceri etc. Il sentire anco da molti e in parte avere io stesso veduto, che non manchino di quelli, e de i potenti l'affetto de i quali verso di me e i miei affari non si mostri se non ben disposto, mi è di consolazione: e perché io stimo assai più facile il confermar questi nella buona intenzione che il rimuovere altri dalla sinistra, però io stimerei (e cosi è parere anco al S. Ambasciatore) che fusser buone due lettere del Ser.mo Padrone alli Em.mi SS.i Card.li Scaglia e Bentivoglio; sopra di che io supplico il favore di V. S. Ill.ma, tutta volta che ella concorra nell'istesso senso.

 

Di Roma, li 19 di Feb. 1633.

 

Di V. S. Ill.ma

Dev.mo e Obblig.mo Ser.re

Galileo Galilei.


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XX

 

A GERI BOCCHINERI IN FIRENZE

 

(Roma, 23 aprile 1633)

 

Molto Ill.re Sig.re Osser.mo

 

Scrivo del letto dove mi trovo da 16 ore in qua, ritenuto da dolori eccessivi in una coscia; li quali per la pratica che ne ho, doveranno in altrettanto tempo svanire. Mi sono poco fa venuti a visitare il Commissario e il Fiscale, a che son quelli che mi disaminano; e mi hanno dato parola e ferma intenzione di spedirmi subito che io levi del letto, replicandomi più volte che io stia di buono animo e allegramente. Io fo più capitale di questa promessa che di quante speranze mi sono state date per il passato, le quali si è visto per esperienza essere state fondate più su le conietture che sopra la scienza. Che la mia innocenza e sincerità sia per essere conosciuta, io l'ho sempre sperato, e ora più che mai. Scrivo con incomodo, però finisco.

All'mo S. Bali un reverentissimo baciamani: a sé stessa e suoi fratelli il simile. Desidero che le mie monache vegghino questa, e Vincenzio ancora.

 

Roma, 23 di Aprile 1633.

Di V. S. molto I.

 

Par.te e Serv.re Obblig.mo

G. G.

 


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XXI

 

AD ANDREA CIOLI IN FIRENZE

 

(Siena, 23 luglio 1633)

 

Ill.mo Sig.re e Pad.n Col.mo

 

Non ho passato ordinario senza scrivere al S. Geri Bocchineri intorno a i progressi del mio negozio, il quale non averà passato accidente alcuno di momento senza participarlo a V. S. Ill.ma, ché tale era il nostro appuntamento; e però rare volte ho scritto a lei in proprio, in riguardo anco alle molte e continue sue occupazioni da non doversi accresciere senza necessità. Gli scrivo adesso, spinto dal desiderio di liberarmi dal lungo tedio di una carcere di più di 6 mesi già passati a giunta al travaglio e afflizzion di mente di un anno intero, e anco non senza molti incomodi e pericoli corporali; e tutto addossatomi per quei miei demeriti che son noti a tutti, fuor che a quelli che mi hanno di questo e di maggior castigo giudicato colpevole. Ma di questo altra volta.

Il tempo della mia carcerazione non ha altro limite che la volontà di S. S.tà, la quale, alle richieste e intercessioni del S. Amb.re Niccolini, si contentò che in luogo delle carcere del S.to Offizio mi fusse assegnato il palazzo e giardino de' Medici alla Trinità, dove stetti alcuni giorni; fatta poi, per alcuni miei rispetti, nuova instanza dal medesimo S. Ambasciatore, fui rimesso qui in Siena nell'Arcivescovado, dove sono da 15 giorni in qua tra gl'inesplicabili eccessi di cortesia di questo Ill.mo Arcivescovo. Io però, oltre al desiderio, averei gran necessità di tornare a casa mia e di esser restituito nella mia libertà, la quale si va conietturando da molti che sia riserbata per grazia speciale alla domanda del S. G. D., da non gl'esser negata, mentre si vede quanto si è impetrato alle sole dimande del S. Ambasciatore. Prego per tanto V. S. Ill.ma, e per lei il Ser.mo Padrone, a restar servito di favorirmi di una domanda a S. S.tà o al S. Card. Barberino per la mia liberazione; dove per maggiore efficacia potrà inserirsi la mancanza del mio servizio di tanto tempo, figurandola di qualche maggior progiudizio per la Casa di S. Alt.za di quello che veramente è. Si crede, come ho detto, da tutti quelli con i quali ne ho parlato e da gl'istessi ministri del S.o Offizio, che la grazia a tanto intercessore non sarà negata.

Confido tanto nella benignità del S. G. D. mio Signore e nel favore di V. S. Ill.ma, che reputerei superfluo l'aggiugnere altre preghiere. Starò per tanto attendendone l'effetto, mentre con umiltà alla S. A. bacio la veste, e nella buona grazia e protezione di V. S. Ill.ma mi raccomando.

 

Di Siena, li 23 di Luglio 1633.

Di V. S. Ill.ma

 

Dev.mo e Obblig.mo Ser.re

Galileo Galilei.

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XXII

 

A ELIA DIODATI IN PARIGI

 

(Arcetri, 7 marzo 1634)

 

 

Vengo ora alla sua lettera: e perché ella replicatamente mi domanda qualche ragguaglio de' miei passati travagli, non posso se non sommariamente dirgli, che da che fui chiamato a Roma sino al presente, sono, la Dio grazia, stato di sanità meglio che da molti anni in qua. Fui ritenuto a Roma in carcere 5 mesi, e la carcere fu la casa del Sig. Amb. di Toscana; dal quale e dalla Signora sua consorte fui visto e trattato in modo, che con affetto maggiore non avrebbero potuto trattare i padri loro. Spedita che fu la mia causa, restai condennato in carcere all'arbitrio di Sua Santità; e fu la carcere il palazzo e giardino del G. Duca alla Trinità de' Monti per alcuni giorni, ma pur permutata poi in Siena in casa Monsig. Arcivescovo, dove parimenti stetti 5 mesi, trattato da padre di Sua Sig.a Ill.a e in continue visite della nobiltà di quella città; dove composi un trattato di un argomento nuovo, in materia di meccaniche, pieno di molte specolazioni curiose ed utili. Di Siena mi fu permesso tornarmene alla mia villa, dove ancora mi trovo, con divieto di scendere alla città; e questa esclusione mi vien fatta per tenermi assente dalla Corte e da i Principi. Ma tornato alla villa in tempo che la Corte era a Pisa, venuto il G. Duca in Firenze, due giorni dopo il suo arrivo mi mandò uno staffieri ad avvisare come era per strada per venire a visitarmi; e mez'ora dopo arrivò con un solo gentil'uomo in una piccola carrozzina, e smontato in casa mia si trattenne a ragionar meco in camera mia con estrema soavità poco manco di 2 ore. Stante dunque il non aver patito punto nelle due cose, che sole devono da noi esser sopra tutte l'altre stimate, dico nella vita e nella reputazione (come in questa il raddoppiato affetto dei Padroni e di tutti gl'amici mi accertano), i torti e l'ingiustizie, che l'invidia e la malignità mi hanno machinato contro, non mi hanno travagliato né mi travagliano. Anzi (restando illesa la vita e l'onore) la grandezza dell'ingiurie mi è più presto di sollevamento, ed è come una spezie di vendetta, e l'infamia ricade sopra i traditori e i costituiti nel più sublime grado dell'ignoranza, madre della malignità, dell'invidia, della rabbia e di tutti gli altri vizii e peccati scelerati e brutti. Bisogna che gl'amici assenti si contentino di queste generalità, perché i particolari, che sono moltissimi, eccedono di troppo il potere esser racchiusi in una lettera. Di tanto si contenti V. S., e si quieti e consoli nel mio essere ancora in stato di poter ridurre al netto le altre mie fatiche e pubblicarle.

L'avviso che tiene V. S. d'Argentina, mi è piaciuto assai, e riconosco l'onore dall'intercessione e indefessa vigilanza sua. Arei auto gusto che 'l mio Dialogo fusse capitato in Lovanio in mano del Fromondo, il quale tra i filosofi non assoluti matematici mi par dei men duri. In Venezia un tal D. Antonio Rocco ha stampato in difesa dei placiti d'Aristotele, contro a quelle imputazioni che io gl'oppongo nel Dialogo: è purissimo peripatetico, e remotissimo dall'intender nulla di matematica né d'astronomia, pieno di mordacità e di contumelie. Un altro iesuita intendo avere stampato in Roma per provare la proposizione della mobilità della terra esser assolutarnente eretica; ma questo non l'ho ancora veduto.


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XXIII

 

A ELIA DIODATI IN PARIGI

 

(Arcetri, 25 luglio 1634)

Molto Ill.re Sig.re e P.rone Col.mo

 

Spero che l'intender V. S. i miei passati e presenti travagli insieme col sospetto di altri futuri mi renderanno scusato appresso di lei e degli altri amici e padroni di costà della dilazione nel rispondere alle sue lettere, e appresso di quelli del totale silenzio, mentre da V. S. potranno esser fatti consapevoli della sinistra direzzione che in questi tempi corre per le cose mie.

Nella mia sentenza in Roma restai condennato dal S.to Offizio alle carceri ad arbitrio di S. S.tà; alla quale piacque di assegnarmi per carcere il palazzo e giardino del Granduca alla Trinità de' Monti; e perchè questo seguì l'anno passato del mese di Giugno e mi fu data intenzione che, passato quello e il seguente mese domandando io grazia della total liberazione, l'avrei impetrata, per non aver (costretto dalla stagione) a dimorarvi tutta la state e anco parte dell'autunno, ottenni una permuta in Siena, dove mi fu assegnata la casa dell'Arcivescovo: e quivi dimorai cinque mesi, dopo i quali mi fu permutata la carcere nel ristretto di questa piccola villetta, lontana un miglio da Firenze, con strettissima proibizione di non calare alla città, né ammetter conversazioni e concorsi di molti amici insieme, né convitargli. Qui mi andavo trattenendo assai quietamente con le visite frequenti di un monasterio prossimo, dove avevo due figliuole monache, da me molto amate e in particolare la maggiore, donna di esquisito ingegno, singolar bontà e a me affezzionatissima. Questa, per radunanza di umori melanconici fatta nella mia assenza, da lei creduta travagliosa, finalmente incorsa in una precipitosa disenteria, in sei giorni si morì essendo di età di trentatré anni, lasciando me in una estrema afflizzione. La quale fu raddoppiata da un altro sinistro incontro; che fu che, ritornandomene io dal convento a casa mia in compagnia del medico, che veniva dalla visita di detta mia figliuola inferma poco prima che spirasse, mi veniva dicendo il caso esser del tutto disperato, e che non avrebbe passato il seguente giorno, sì come seguii quando, arrivato a casa, trovai il Vicario dell'Inquisitore che era venuto a intimarmi d'ordine del S.to Offizio di Roma venuto all'Inquisitore con lettere del S.r Card.le Barberino, ch'io dovessi desistere dal far dimandar più grazia della licenza di poter tornarmene a Firenze, altrimenti che mi arebbono fatto tornar là, alle carceri vere del S.to Offizio. E questa fu la risposta che fu data al memoriale che il S.r Ambasciator di Toscana, dopo nove mesi del mio essilio, aveva presentato al detto Tribunale: dalla qual risposta mi par che assai probabilmente si possa conietturare, la mia presente carcere non esser per terminarsi se non in quella commune, angustissima e diuturna.

Da questo e da altri accidenti, che troppo lungo sarebbe a scrivergli si vede che la rabia de' miei potentissimi persecutori si va continuamente inasprendo. Li quali finalmente hanno voluto per sé stessi manifestarmisi, atteso che, ritrovandosi uno mio amico caro circa due mesi fa in Roma a ragionamento col P. Cristoforo Grembergero, giesuita, Matematico di quel Collegio, venuti sopra i fatti miei, disse il giesuita all'amico queste parole formali: “Se il Galileo si avesse saputo mantenere l'affetto dei Padri di questo Collegio, viverebbe glorioso al mondo e non sarebbe stato nulla delle sue disgrazie, e arebbe potuto scrivere ad arbitrio suo d'ogni materia, dico anco di moti di terra, etc.”: si che V. S. vede che non è questa né quella opinione quello che mi ha fatto e fa la guerra, ma l'essere in disgrazia dei giesuiti.

Della vigilanza dei miei persecutori ho diversi altri rincontri. Tra i quali uno fu, che una lettera scrittami non so da chi da paesi oltramontani e inviatami a Roma, dove quello che scriveva doveva credere che tuttavia dimorassi, fu intercetta e portata al S.r Card.le Barberino; e, per quanto da Roma mi venne poi scritto, fu mia ventura che non era lettera responsiva, ma prima, piena di grandi encomii sopra il mio Dialogo; e fu veduta da più persone, e intendo che ce ne sono copie per Roma e mi è stato dato intenzione che la potrò vedere. Aggiungonsi altre perturbazioni di mente e molte corporali imperfezzioni, le quali, sopra quella dell'età più che settuagenaria, mi tengono oppresso in maniera, che ogni piccola fatica mi è affannosa e grave. Però conviene che per tutti questi rispetti gli amici mi compatischino e perdonino quel mancamento che ha aspetto di negligenza, ma realmente è impotenza; e bisogna che V. S., come mio parziale sopra tutti gl'altri, mi aiuti a mantenermi la grazia dei miei benevoli di costà e, in particolare del S.re Gassendo, tanto da me amato e riverito, col quale potrà V. S. partecipare il contenuto di questa, ricercandomi egli relazione dello stato mio in una sua lettera, piena della solita sua benignità. Mi farà anco grazia farli sapere come ho ricevuta e con particolar gusto letta la Dissertazione del S.re Martino Hortensio; e io, piacendo a Dio ch'io mi sgravi in parte dai miei travagli non mancherò di rispondere alla sua cortese lettera. Con questa riceverà anco V. S. i cristalli per un telescopio, domandatimi dal medesimo S.re Gassendo per suo uso e di altri, desiderosi di fare alcune osservazioni celesti; li quali potrà V. S. inviargli significandoli che il cannone, cioè la distanza tra vetro e vetro, deve essere quanto è lo spago che intorno ad essi è avvolto, poco più o meno secondo la qualità della vista di chi se ne deve servire.

Berigardo e Chiaramonte, amendue lettori in Pisa, mi hanno scritto contro; questo per sua difesa, e quello, per quanto dice, contro a sua voglia, ma per compiacere a persona che lo può favorire nelle sue occorrenze: ma amendue molto languidamente. Ma, quello che è degno di considerazione, alcuni, vedendosi un larghissimo campo di poter senza pericolo prevalersi dell'adulazione per augumento de' proprii interessi, si son lasciati tirare a scriver cose, che fuori delle presenti occasioni sarebbero facilmente reputate assai esorbitanti se non temerarie. Il Fromondo si ridusse a sommerger fin presso alla bocca la mobilità della Terra nell'eresia. Ma ultimamente un Padre Gesuita ha stampato in Roma che tale opinione è tanto orribile, perniziosa e scandalosa, che, se bene si permette che nelle catedre, nei circoli, nelle pubbliche dispute e nelle stampe si portino argomenti contro ai principalissimi articoli della fede, come contro all'immortalità dell'anima, alla creazione, all'Incarnazione etc., non però si deve permetter che si disputi, né si argomenti contro alla stabilità della Terra; sì che questo solo articolo sopra tutti si ha talmente a tener per sicuro, che in modo alcuno si abbia, né anco per modo di disputa e per sua maggior corroborazione, a instargli contro. Il titolo di questo libro è: Melchioris Inchofer, e Societate Iesu, Tractatus syllepticus. Ècci anco Antonio Rocco, che pur con termine poco civile mi scrive contro in mantenimento della peripatetica dottrina e in risposta alle cose da me impugnate contra Aristotile; il quale da sé stesso si confessa ignudo dell'intelligenza di matematica e astronomia. Questo è cervello stupido e nulla intelligente di quello che io scrivo, ma ben arrogante e temerario al possibile. A tutti questi miei oppositori, che son molti, ho io pensiero di rispondere; ma perché l'esaminare a parte a parte le vanità di tutti sarebbe impresa lunghissima e di poca utilità, penso di fare un libro di postille, come da me notate nelle margini di tali libri intorno alle cose più essenziali e agli errori più maiuscoli, e come raccolte da un altro mandarle fuori.

Ma prima, piacendo a Dio, voglio publicare i libri del moto e altre mie fatiche, cose tutte nuove e da me anteposte alle altre cose mie sin ora mandate in luce.

Riceverà V. S. la presente dal S.r Ruberto Galilei, mio parente e signore, al quale potrà fare parte del contenuto di questa, atteso che a S.S. scrivo bene, ma assai brevemente. Tengo anco lettere del Sig.re de Peiresc, d'Aix, ricevute insieme con quelle del S.re Gassendo; e perché amendue mi domandano i vetri per un telescopio da fare osservazioni celesti, mi faccia grazia significare al S.r Gassendo che dia conto al S.r de Peiresc d'aver avuto i vetri, pregandolo contentarsi che di essi anco il Sig.r de Peiresc possa servirsi facendo di più appresso il detto Signore mie scuse se differisco a rispondere alla sua gratissima, trovandomi pieno di molestie che mi violentano a mancar talvolta a quelli officii che io più desidero di essequire. Sono stracco e averò soverchiamente tediata V. S.: mi perdoni e mi comandi. Gli bacio le mani.

 

Dalla villa d'Arcetri, li 25 di Luglio 1634.

Di V. S. molto I.

 

Servitor Devotissimo e Obligatissimo

Galileo Galilei.

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XXIV

 

A FORTUNIO LICETI IN PADOVA

 

(Arcetri, 15 settembre 1640)

 

Molto Ill.re e Eccl.mo Sig.r e P.ron Osse.mo

 

La gratissima di V. S. molto Ill.re ed Eccel.ma delli 7 stante, piena di termini cortesi e affettuosissimi, mi è stata resa questo giorno; e, non avendo io altro tempo di risponderli fuorchè poche ore che restano sino a notte, per non differire la risposta una settimana più in là, cerco di satisfare a questo obligo, benché succintamente, ma però con pure e semplici parole.

A quello che V. S. Eccel.ma insieme meco grandemente desidera, cioè che in dispute di scienze si osservino quei più cortesi e modesti termini che in materia sì veneranda, quale è la sacra filosofia, si convengono, li do parola di non mi separare pure un dito dal suo ingenuo e onorato stile; per il che fare userò li stessi titoli, attributi ed encomi di onorevolezza verso la persona sua, che ella verso di me ha umanamente adoperati; benché molto più a lei che a me, e molto più eccellenti, si converrebbero; ma la sua singolar cortesia non me ne ha lasciati di potere usarne maggiori.

Mi giunge grato il sentire che V. S. Eccel.ma insieme con molti altri, sì come ella dice, mi tenga per avverso alla peripatetica filosofia, perché questo mi dà occasione di liberarmi da cotal nota (che tale la stimo io) e di mostrare quale io internamente sono ammiratore di un tanto uomo, quale è Aristotile. Mi contenterò bene in questa strettezza di tempo accennare con brevità quello che penso con più tempo di poter più diffusamente e manifestamente dichiarare e confermare.

Io stimo (e credo che essa ancora stimi) che l'esser veramente Peripatetico, cioè filosofo Aristotelico, consista principalissimamente nel filosofare conforme alli Aristotelici insegnamenti procedendo con quei metodi e con quelle vere supposizioni e principii sopra i quali si fonda lo scientifico discorso, supponendo quelle generali notizie, il deviar dalle quali sarebbe grandissimo difetto. Tra queste supposizioni è tutto quello che Aristotele ci insegna nella sua Dialettica, attenente al farci cauti nello sfuggire le fallacie del discorso, indirizzandolo e addestrandolo a bene silogizzare e dedurre dalle premesse concessioni la necessaria conclusione; e tal dottrina riguarda alla forma del dirittamente argumentare. In quanto a questa parte, credo di avere appreso dalli innumerabili progressi matematici puri, non mai fallaci, tal sicurezza nel dimostrare, che, se non mai, almeno rarissime volte io sia nel mio argumentare cascato in equivoci. Sin qui dunque io sono Peripatetico .

Tra le sicure maniere per conseguire la verità è l'anteporre l'esperienze a qualsivoglia discorso, essendo noi sicuri che in esso, almanco copertamente, sarà contenuta la fallacia, non sendo possibile che una sensata esperienza sia contraria al vero: e questo è pure precetto stimatissimo da Aristotile, e di gran lunga anteposto al valore e alla forza dell'autorità di tutti gli uomini del mondo, la quale V. S. medesima ammette che non pure non doviamo cedere alle autorità di altri, ma doviamo negarla a noi medesimi qualunque volta incontriamo il senso mostrarci il contrario.

Or qui, Eccel.mo Sig.r, sia detto con buona pace di V. S. mi par d'esser giudicato per contrario al filosofar peripatetico da quelli che sinistramente si servono del sopradetto precetto, purissimo e sicurissimo, cioè che vogliono che il ben filosofare sia il ricevere e sostenere qual si voglia detto e proposizione scritta da Aristotele, alla cui assoluta autorità si sottopongono, e per mantenimento della quale si inducono a negare esperienze sensate, o a dare strane interpetrazioni a' testi di Aristotele, per dichiarazione e limitazione de i quali bene spesso farebbero dire al medesimo filosofo altre cose non meno stravaganti, e sicuramente lontane dalla sua imaginazione. Non repugna che un grande artefice abbia sicurissimi e perfettissimi precetti nell'arte sua, e che talvolta nell'operare erri in qualche particolare; come, per esempio, che un musico o un pittore, possedendo i veri precetti dell'arte, faccia nella pratica qualche dissonanza, o inavvertentemente alcuno errore in prospettiva. Io dunque, perché so che tali artefici non pure possedevano i veri precetti, ma essi medesimi ne erano stati li inventori, vedendo qualche mancamento in alcuna delle loro opere, devo riceverlo per ben fatto e degno di esser sostenuto e imitato, in virtù dell'autorità di quelli? Qui certo non presterò io il mio assenso. Voglio aggiugnere per ora questo solo: che io mi rendo sicuro che se Aristotele tornasse al mondo, egli riceverebbe me tra i suoi seguaci, in virtù delle mie poche contradizioni, ma ben concludenti molto più che moltissimi altri che, per sostenere ogni suo detto per vero, vanno espiscando dai suoi testi concetti che mai non li sariano caduti in mente. E quando Aristotele vedesse le novità scoperte novamente in cielo, dove egli affermò quello essere inalterabile e immutabile, perché niuna alterazione vi si era sino allora veduta, indubitatamente egli, mutando oppinione, direbbe ora il contrario: ché ben si raccoglie, che, mentre ei dice il cielo esser inalterabile perché non vi si era veduto alterazione, direbbe ora essere alterabile, perché alterazioni vi si scorgono. Si fa l'ora tarda, e io entrerei in un pelago larghissimo, se io volessi produr tutto quello che in tale occasione mi è passato più volte per la mente; però mi riserverò ad altra occasione.

Quanto all'avermi V. S. Eccel.ma attribuito oppinioni non mie, ciò può essere accaduto che ella ne abbia prese alcune attribuitemi da altri, ma non già scritte da me: come, per esempio che, per detto del filosofo Lagalla, io tenga la luce esser corporea mentre che nel medesimo autore e nel medesimo luogo si scrive aver io sempre ingenuamente confessato di non saper che cosa sia la luce: e così il prender come risolutamente primarii miei pensieri alcuni riportati dal sig.r Mario Guiducci, potrebbe esser che io non ci avessi avuto parte, benché io mi reputi a onore che si creda tali concetti esser mia, stimandoli io veri e nobili.

Circa l'esser per avventura parso prolisso nel rispondere alle sue obiezioni, non lo ascrivo io a minimo neo, né pur ombra d'indignazione in V. S. Eccel.ma, sì come né anco in me mancamento, se non in quanto con minor tedio del lettore averei potuto esprimere i miei sensi; ma la mia natural durezza nel dichiararmi mi fa tal volta traboccare dove io non vorrei: oltreché, sia, per la nostra concertata filosofica e amichevole libertà, lecito di piacevolmente dire, quando ella paragonassi la multiplicità e lunghezza delle opposizioni che ella fa alla unica mia proposizione del candore lunare distesa in pochissimi versi paragonasse, dico, con la lunghezza delle mie risposte; forse ella non troverebbe la proporzione dei suoi detti a' miei minore della proporzione dei versi della mia lettera ai versi che le sue instanze contengono. Ma queste son coserelle da non prenderle altro che per ischerzo.

Piacemi grandemente che ella applauda al mio pensiero, di ridur in altra testura le mie risposte, inviandole a lei medesima; dove averò campo di non mi lasciar vincere in usar termini di reverenza al suo nome, benché io sia certo di dover esser di lunga mano superato in dottrina dal suo elevato ingegno. Potrebbe bene accadere che il mio infortunio, di avere a servirmi delli occhi e della penna di altri, con troppo tedio dello scrittore, prolungasse qualche giorno di più quello che in altri tempi per me stesso averei spedito in pochi giorni, ed ella, per la prontezza e vivacità del suo ingegno, in poche ore. Viva felice e mi continui la sua buona grazia, da me per favorevole fortuna stimata e pregiata; e il Signor la prosperi.

 

D'Arcetri, li 15 di 7bre 1640.


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XXV

 

[SOPRA IL CANDORE DELLA LUNA]

AL PRlNClPE LEOPOLDO Dl TOSCANA

 

 

(Arcetri, 31 marzo 1640)

 

Serenissimo Principe e mio Signor Colendissimo

 

Tardi, Serenissimo Principe, pongo io in esecuzione il comandamento fattomi più giorni sono dall'Altezza Vostra Serenissima intorno al dovere maturamente considerare il trattato dell'eccellentissimo signor Fortunio Liceti intorno alla pietra lucifera di Bologna, e sopra di questo significarle il giudizio che ne fo. Ho fatta la da lei impostami considerazione, e del darne io conto al'Altezza Vostra Serenissima così tardamente, prego che sia servita di accettare la mia scusa, condonando tutto l'indugio alla mia miserabil perdita della vista, per il cui mancamento mi è forza ricorrere all'aiuto degli occhi e della penna di altri; dalla qual necessità ne séguita un gran dispendio di tempo, e massime aggiuntovi l'altro mio difetto, di aver, per la grave età, diminuita gran parte della memoria, sì che nel far deporre in carta i miei concetti, molte e molte volte mi bisogna far rileggere i periodi scritti avanti, per poter soggiugnere gli altri seguenti e schivar di non repeter più volte le cose già dette. E creda l'Altezza Vostra Serenissima a me, che dalla esperienza ne sono bene addottrinato, che dallo scrivere servendosi degli occhi e della mano proprii, al dover usar quelli di un altro, vi è quasi quella differenzia che altri nel gioco delli scacchi troverebbe tra il giocar con gli occhi aperti e il giocar con gli occhi bendati o chiusi. Imperoché in questa seconda maniera, dalle tre o quattro gite di alcuni pezzi in poi, è impossibile tenere a memoria delle mosse di altri più; né può bastare il farsi replicar piu volte il posto dei pezzi, con pensiero di poter produrre il gioco fino all'ultimo scacco, perché credo si tratti poco meno che dell'impossibile. Supposto dunque che l'Altezza Vostra Serenissima per sua benignità sia per ammettere la necessaria scusa della mia tardanza, verrò a schiettamente e sinceramente esporle quel giudizio che ho fatto sopra detto libro.

Ma prima che ad altro io descenda, voglio che l'Altezza Vostra Serenissima sappia come l'eccellentissimo signor Liceti, subito uscito in luce il suo trattato De lapide Bononiensi, me ne inviò una copia, pregandomi che io liberamente dovessi significarli quello che a me pareva di questa sua fatica; e mentre che l'Altezza Vostra Serenissima mi ricerca dell'istesso, con ogni schiettezza le aprirò il mio senso.

Dicole dunque, che se io volessi conforme al merito diffondermi nelle lodi dell'ampla e sottilissima dottrina che mi è parso scorgervi, oltre al convenirmi assai in lungo distendere, dubiterei che le mie parole, benché purissime e sincere, potessero apparire ad alcuno iperboliche o adulatorie: ad alcuno, dico, di quelli, che troppo laconicamente vorrebbero vedere, nei più angusti spazii che possibil fusse, ristretti i filosofici insegnamenti, sì che sempre si usasse quella rigida e concisa maniera, spogliata di qualsivoglia vaghezza ed ornamento, che è propria dei puri geometri, li quali né pure una parola proferiscono che dalla assoluta necessità non sia loro suggerita. Ma io, all'incontro, non solamente non ascrivo a difetto in un trattato, ancorché indirizzato ad un solo scopo, interserire altre varie notizie, purché non siano totalmente separate e senza veruna coerenza annesse al principale instituto; che anzi stimo, la nobiltà, la grandezza e la magnificenza, che fa le azzioni ed imprese nostre meravigliose ed eccellenti, non consistere nelle cose necessarie (ancorché il mancarvi queste sia il maggior difetto che commetter si possa), ma nelle non necessarie, purché non sieno poste fuori di proposito, ma abbino qualche relazione, ancorché piccola, al principale intento. E così, per esempio, vile e plebeo meritamente si chiamerebbe quel convito nel quale mancassero i cibi e le bevande, principal requisito e necessario; ma non però il non mancar di queste lo fa così magnifico e nobile, che sommamente più non gli arrechino grandezza e nobiltà la vaghezza dell'egregio e sontuoso apparato, lo splendore dei vasi d'argento e d'oro, che, adornando la mensa e le credenze, dilettano la vista, i concenti di varie armonie, le sceniche rappresentazioni, e i piacevoli scherzi, all'udito così graziosi. La maestà di un poema eroico vien sommamente ampliata dalla vaghezza e varietà de gli episodii; e Pindaro, principe de' lirici, si sublima tanto col digredire in maniera dal principale suo intento, che è di lodar l'eroe da esso cantato, che nel tesser le laudi di quello non consuma la decima, né anco tal ora la vigesima, parte de i versi, i quali spende in varie descrizzioni di cose che in ultimo, con fila assai sottili, sono annesse al principal concetto. lo per tanto interamente applaudo alla maniera che il signor Liceti, abbondantissimo di mille e mille notizie, tiene nei suoi componimenti, ed in particolare in questo, nel quale, prima che condurre il famelico lettore a saziare sua brama con l'ultimo insegnamento del problema principalmente desiderato, ci porge un util diletto di tante belle cognizioni, che bene ci obliga a rendergliene mille grazie, mentre che con grato risparmio di tempo e di fatica ci libera dal rivoltare i libri di cento e cento autori.

Degna dunque di lodi infinite stimo io questa sua nobile ed util fatica. Ed acciocché l'Altezza Vostra Serenissima resti sicura che io schiettamente e non simulatamente discorro, voglio contraporre alle meritate lodi che a tutto il resto del suo libro si convengono, alcune mie considerazioni intorno alla digressione che fa il signor Liceti nel capitolo L di questo suo libro, le quali mi pare che possino rendere la dottrina in quello contenuta non ben sicura né incolpabile; se però, quello che communemente ed umanamente suole accadere, l'interesse proprio non m'inganna, essendo il contenuto di tutto il detto capitolo non altro che una moltitudine di obiezzioni che egli bene acutamente fa contro ad una mia particolare ed antiquata opinione, nella quale ho creduto ed affermato, quel tenue lume secondario che nella parte tenebrosa della luna si scorge, massimamente quando ella è poco remota dalla congiunzione col Sole, essere effetto cagionato dal reflesso de' raggi solari nella superficie del nostro globo terrestre: al che egli contradice con molte opposizioni, le quali, contro al mio desiderio, mi pare che non necessariamente convincano la mia opinione di falsità. E dico contro al mio desiderio, perché non vorrei che anco questa nota, benché piccola, macchiasse il suo, in tutto il resto, così puro e candido trattato; che nelli scritti miei, che poco di peregrino e di apprezzabile si contiene, poco di pregiudizio è l'aggiugnere a tante altre mie fallacie questa qui ancora; ché bene in un panno rozo e vile manco noiano la vista molte grandi ed oscure macchie che in un drappo vago e per la moltitudine de' fiori riguardevole non farebbe una benché minima.

Proporrò dunque quelle risposte che al presente paiono sollevarmi con speranza di dover poi, con mio util particolare, esser dalle sue dottissime repliche tolto di errore e condotto nel possesso del vero, qualunque volta queste mie risposte gli venissero agli orecchi. Ma prima che io descenda a esaminar la forza delle sue obiezzioni, voglio, per mia satisfazione, raccontare all'Altezza Vostra Serenissima i miei primi moti, dai quali io fui indotto a credere che di questo tenue lume secondario, che nella parte del disco lunare non tocco dal Sole si scorge (il quale, per brevità, con una sola parola nel progresso chiamerò candore), sola ed originaria cagione ne fusse il reflesso dei raggi solari nella superficie del globo terrestre. Avendo ed una e due volte osservato il detto candore, mosso dal natural desiderio d'intender le cause delli effetti di natura, il primo concetto che mi cadde in mente fu, che tal candore potesse essere proprio dell'istessa sustanzia e materia del globo lunare e per certificarmi se ciò potesse essere, aspettai curiosamente il tempo della prima eclisse totale di essa Luna, sicuro che quando ella per sé stessa ritenesse tal lume, molto e molto più splendido ci si mostrerebbe nelle tenebre della notte profonda, che nella chiarezza del crepuscolo; in quel modo che incomparabilmente lo splendore della medesima Luna, conferitole dal Sole, più bello e grande ci si rappresenta nella notte oscura, che non solo nel mezo giorno, ma nell'ora del crepuscolo ancora. Venne l'eclisse; e restando ella talmente oscura, che del tutto restò inconspicua, fui reso certo, il candore non esser nativo suo, e però necessariamente doverle esser conferito ab extra. E perché ad illuminare un corpo opaco ed oscuro vi è necessario il beneficio di un altro ben risplendente, né trovandosi al mondo altri che le stelle erranti e fisse, il Sole e la Terra, in quanto dal Sole è illustrata, venivo di necessità tratto a ricorrere e a far capo ad alcuno di questi. E cominciando dal Sole, essendo manifesto quanto grande sia l'illuminazione che esso le manda e che nello emisferio lunare ad esso esposto si deve, giudicai, il candore che nell'altro emisferio, non visto dal Sole, si diffonde, non potere essere opera dei raggi solari. Né meno potersi attribuire al resto dei lumi celesti, cioè delle stelle: imperochè la vista loro non vien tolta alla Luna posta nelle tenebre dell'eclisse; onde quelle pure illustrandola sempre egualmente, molto più lucida ci si rappresenterebbe nell'oscuro campo della notte, che nel crepuscolo; di che accade tutto l'opposito. E perché manifestamente si osserva, il candore farsi di grande mediocre, e di mediocre minore e minimo, tal effetto in conto veruno dalle stelle non può derivare. Restavami sola la Terra, atta a poter satisfare a tutte le particolarità, col non fare ella verso la Luna altro che puntualissimamente quello che la Luna fa verso la Terra, illuminando la sua parte oscura nelle tenebre della notte col reflesso de' raggi solari, or più, or meno, or pochissimo, or niente. E meco medesimo più arditamente discorrendo, dissi: Sono la Luna e la Terra due corpi opachi e tenebrosi egualmente; vi è il Sole, che di pari illustra continuamente un emisferio di ciascheduno lasciando l'altro oscuro; e di questi, la Luna è potente a illuminare l'oscuro della Terra: oh perché si dovrà metter in dubbio che il luminoso della Terra non incandisca l'oscuro della Luna? Parvemi questo discorso talmente ragionevole, che io presi ardire di palesarlo, stimando che dovesse esser ricevuto come concludente; né è restato il mio creder vano, poiché niuno de i comuni ingegni speculativi l'ha impugnato, sinché il discorso dell'eccellentissimo signor Liceti, sopra tutti gli altri eminente, ha con grand'acutezza penetrato, tal mio pensiero ed opinione essere stata manchevole. Tuttavia, o sia per mia debolezza ed incapacità, o pure che le impugnazioni non siano di quella strettissima necessità che nella assoluta demostrativa scienza si richiede, non mi conosco ancora per al tutto convinto; e perché in me non cessa il desiderio di sapere, bramando di esser tolto del dubbio e posto nel certo, communicherò a lei tutto quello che mi occorre potersi dire in risposta alle sue contradizzioni, per mantenimento della mia opinione.

E facendo principio dal titolo del capitolo 50, che è: De Lunæ subobscura luce, prope coniunctiones et in deliquiis observata; digressio physico-mathematica, già che egli medesimo le dà titolo di digressione, è manifesto segno di averla esso stimata considerazione non necessaria nel suo trattato, ma solo avervela interposta per magnificarlo; conforme a quel che di sopra ho detto, che la nobiltà e magnificenzia consiste più negli ornamenti non necessarii, che in quelle cose che di necessità devono esser portate. E sin qui approvo e laudo il suo instituto, se non in quanto seco porta indizio del mio non ben saldo discorso. E perché egli procede come matematico e fisico, andrò esaminando come filosofo, qualunque io mi sia, e come matematico le sue opposizioni; facendo anco qualche poco di considerazione intorno alla forma dell'argumentare che egli tal volta tiene, quanto ella sia conforme a i dialettici precetti posti da Aristotele.

Piglio dunque la sua prima instanza, contenuta dal principio del capitolo sino a “Dein vero, quum in plenilunio Terra” etc. Mentre io vo con attenzione esaminando questo primo discorso, lo trovo veramente con bello artifizio tessuto; e l'artifizio mi si rappresenta tale. Due parti si contengono in esso conteste: l'una è nella quale ei vuol dimostrare, il candor della Luna non potersi in modo alcuno riconoscere dalla Terra; l'altra è il concludere, tal effetto procedere dall'etere ambiente essa Luna. Quanto alla prima, molto probabilmente cammina il suo discorso, dicendo, il candor della Luna non poter derivare se non da quel corpo dal quale provengono le differenze di esso candore, le quali differenze sono il farsi tal candore or più ed or meno lucido: e questo non può provenire dalla Terra, avvengaché la sua lontananza dalla Luna non si muta: e però il reflesso della Terra deve esser sempre uniforme, ed in conseguenza impotente a produr differenze in esso candore; adunque, né meno il candor medesimo. Il discorso, pigliandolo a tutto rigore, patisce non leggier mancamento: il quale è, che nel raccorre la conclusione dalle premesse, s'introduce un quarto termine, non toccato nelle premesse, il quale è la Terra. Sono le premesse: “Un effetto mutabile non può provenire da causa immutabile: il candore è effetto mutabile; ma la distanza tra la Terra e la Luna è immutabile; adunque il candore non può provenir dalla Terra”. Ora questo termine “Terra” non è posto nelle premesse, ma vi è in suo luogo “distanza tra la Terra e la Luna”; onde, a voler che l'argumento cammini in buona forma, bisognava, avendo detto nelle premesse “Un effetto mutabile non può provenire da causa immutabile; ma la distanza tra la Terra e la Luna è immutabile”, bisognava, dico, dir nella conclusione “Adunque il candore non procede dalla distanza tra la Terra e la Luna”: ed il silogismo, raddrizzato così, quanto alla forma procedeva bene, ma non concludeva niente contro di me. Ho detto che a tutto rigore ne seguirebbe questo inconveniente; ma avendo riguardo a quello che, per mio credere, il signor Liceti aveva in intenzione, figuriamo l'argumento in miglior forma, dicendo: “Un effetto mutabile non può derivare da causa immutabile: ma la distanza tra la Luna e la Terra è immutabile, ed immutabile parimente è lo splendor della Terra; adunque il candore non può provenire né dalla distanza tra la Luna e la Terra, né dallo splendore della Terra; ed in conseguenza non può provenire dalla Terra”. Non si può negare che il discorso in questa maniera raddrizzato apparisce tanto concludente, che facilmente potrebbe essere ammesso per sincero e libero da ogni fallacia da qualsivoglia filosofo; e tanto più ciò mi persuado, quanto che l'istesso signor Liceti, da me stimato per filosofo a nissun altro secondo, per niente manchevole lo ha creduto: e pure tra poco spero di esser per dimostrarlo manchevole. In tanto per ora, ammessolo per concludente, dico che egli non fa punto contro di me, il quale non ho mai detto né scritto che alla produzzione del candore si ricerchi la mutazione della distanza tra la Terra e la Luna o la mutazione dello splendore della Terra. È stato pensiero del signor Liceti; il quale, immaginandosi che di tal mutazione non possa esser causa altro che il variarsi la distanza o il mutarsi lo splendore, si è persuaso che escludendo queste due cause venga distrutta la mia opinione. Se io avessi detto che la Terra cagionasse il candore nella Luna con l'appressarsele o discostarsele, o col farsi ella or più splendida ed or meno, egli mi averebbe convinto di errore col mostrare che la Terra né si avvicina o discosta dalla Luna, né diviene una volta più vivamente splendida che un'altra. Resto io pertanto sin qui illeso dalla sua prima impugnazione, nella quale è bene ora che veggiamo se vi sia ascosa dentro alcuna fallacia, sì come, ingenuamente parlando, credo che ascosa vi sia: e per farla palese, prima mostrerò in generale che ella vi è; dipoi tenterò di additare, dove e quale ella sia in particolare

Che fallacia assolutamente vi sia, lo provo col tessere un argumento formato su le vestigie del suo, senza slargarmene pure un capello, deducendone poi una conclusione falsa; la quale vera doverebbe esser riuscita, quando nella forma dell'argumento non fusse stata fallacia. Formando dunque l'argumento su le sue pedate, proverò che quel lume che la notte si scorge in Terra, mentre che la Luna splendida si trova sopra l'orizonte, e che communemente si chiama lume di Luna, non è altrimenti effetto che, come da causa, dependa dal reflesso de' raggi solari nella superficie della Luna, dicendo così. Questo che noi chiamiamo lume di Luna è effetto mutabile, e però non può derivare se non da causa mutabile. Ma le cause mutabili, atte a produrre una tal mutabilità, sono dal signor Liceti ridotte a due capi: l'uno è l'avvicinare o discostare il corpo illuminante da quello che deve essere illuminato; e l'altro è il crescere o il diminuire lo splendore del corpo illuminante. Il primo di questi due capi non ha luogo: nella presente operazione, avvengachè, per concessione pur del medesimo signor Filosofo, la Luna mantiene sempre la medesima distanza dalla Terra; e l'altro capo molto meno ci ha luogo il che è manifesto; imperochè l'effetto che seguir si vede procede tutto al contrario di quel che proceder dovrebbe quando pur lo splendor della Luna si facesse ora più vivo e potente ed ora meno. Imperciochè, essendo lo splendor della Luna effetto dei raggi solari che la illustrano, chiara cosa è che ei sarà più vivo quando ella è men lontana dal Sole, e più debile nella sua maggior lontananza e però, posta la Luna in congiunzione col Sole, lo splendore che ella da lui riceve, più efficace sarà che quando ella li è posta all'opposizione, trovandosi in questo luogo più lontana dal Sole, che in quello, tanto quanto importa il diametro del dragone, cerchio massimo deil'orbe nel quale la Luna si rivolge; ed è manifesto, che partendosi ella dalla congiunzione e venendo verso il sestile e di lì al quadrato, ella si va continuamente discostando dal Sole, continuando pure il discostamento nell'aspetto trino, e finalmente conducendosi alla massima lontananza nella diametrale opposizione. Si va per tanto continuamente indebolendo lo splendore della Luna: ma l'effetto suo in Terra procede al contrario imperocché nel tempo della congiunzione l'illuminazione in Terra è minima, anzi pur nulla, e si comincia a far sensibile nel separarsi la Luna dalla congiunzione, né molto si fa ella apparente sino allo aspetto sestile; ma continuando lo allontanamento della Luna dal Sole, passando per il quadrato e trino, sempre il lume di Luna in Terra si fa maggiore e maggiore, sin che diviene massimo nella opposizione. Poiché dunque la mutazione nel lume il fa al contrario di quel che far si dovrebbe quando tal mutazione dependesse dal farsi lo splendore della Luna or più or meno grande e gagliardo; chiara cosa rimane, che né anco il secondo capo ha luogo. In questa operazione del farsi il lume in Terra or più or meno vivace. Adunque non ha la Luna parte alcuna nella mutazione di quel lume in Terra, del quale noi parliamo; e non avendo ella parte in tal mutazione, per la verissima ipotesi del medesimo Filosofo né meno lo stesso lume sarà effetto della Luna: tuttavia egli pure tanto manifestamente depende dalla Luna, che niuno degli uomini si troverà che vi ponga dubbio. E veramente dubbio non vi si può porre, mentre che la causa della mutazione, cioè del farsi di piccolissimo, e di giorno in giorno andar crescendo, sin che grandissimo divenga, a tanto manifesta, che non è uomo che non la comprenda, e non vegga che la Luna nuova poco o niente può illuminar la Terra, non ci mostrando del suo emisferio illuminato dal Sole altro che una sottilissima falce, la quale la sera seguente fatta più larga, e di sera in sera ingrossando le sue corna, allargatasi per buono spazio dal Sole, comincia a rendere osservabile l'effetto del suo splendore, quanto all'illuminar la Terrai ridottasi poi, dopo sette o otto giorni al quadrato, scuopre alla Terra di sè la metà del suo emisiferio splendido; e seguitando di allontanarsi ancor più dal Sole, più e più di sera in sera mostra ampla la sua figura d'intero e perfetto cerchio, grandissima ne produce in Terra la sua illuminazione.

Io veramente mi meraviglio che l'eccellentissimo signore, di ingegno tanto provido in contemplare e penetrare le cause e gli effetti meravigliosi della natura, non so per qual ragione, non abbia fatto reflesso sopra così patente causa della mutazione del lume di Luna in Terra; o perché, avendovela fatta, non l'abbia poi riconosciuta nello splendore della Terra nel produrre simile mutazione nel candor della Luna, mentre che il negozio cammina nell'istessa maniera puntualissimamente. Cioè, perché, stante sempre un intero emisferio della Terra illustrato dal Sole, la Luna non però si trova perpetuamente costituita in sito tale, che continuamente se gli opponga o scuopra o tutto o la medesima parte del detto emisferio terrestre luminoso; ma talora lo vede tutto, talora ne perde una parte, e poi un'altra maggiore, e finalmente ancora ne perde il tutto. L'intero ne vede la Luna posta alla congiunzione col Sole; nel qual tempo, esponendo essa Luna il suo emisferio opaco, non tocco da i raggi solari, alla Terra, sommamente viene incandita dalla piazza immensa luminosa di quella. Partendosi poi dalla congiunzione, comincia a scoprire una particella dell'emisferio tenebroso della Terra, rimanendole però veduta grandissima parte ancora del luminoso; onde il suo candore si debilita alquanto, e va continuamente debilitandosi mentre che, nello allontanarsi dal Sole, va sempre di giorno in giorno perdendo di vista parte maggiore del terrestre emisferio luminoso, sin che, giunta al quadrato, scuopre del terrestre emisferio, esposto alla sua vista, la metà dell'illuminato, e l'altra metà del tenebroso: cresce dunque la causa del diminuirsi il candore. E così, continuando di perdersi di sera in sera maggiore e maggior parte dell'emisferio splendido della Terra, il candore si fa a poco a poco impercettibile, sendo anco di gran pregiudizio a gli occhi del riguardante la presenzia della parte molto lucida della Luna, che confina con quello che di lei resta privo della illuminazione del Sole. Al che possiamo aggiugner ancora (come punto di gran considerazione) la chiarezza che il medesimo lume lunare introduce nel suo ambiente, la qual chiarezza è tanta, che ci offusca e toglie la vista delle stelle fisse, le quali anco per assai grande spazio son lontane dalla Luna; tal che molto meno ci deve restar cospicuo il candore, anco per altro, tenuissimo fatto.

Parmi, Serenissimo signore, d'aver sin qui a bastanza dimostrato come l'opinion mia resta illesa da questa sua prima obbiezzione, ed insieme aver concluso che nella sua instanza è forza che sia qualche fallacia. Séguita ora che io dichiari in quel che a me pare che la fallacia consista: ed è, s'io non m'inganno, che argumentando egli ex suppositione quello che egli suppone è mutilo; e dove egli è almanco di tre membra, ne prende solamente due lasciando indietro il terzo. Del potersi fare il candore, o altra illuminazione, maggiore o minore, ne assegna il signor Liceti due modi solamente: cioè il mutarsi la distanza tra il corpo illuminante e il corpo che si illumina, che è l'uno de i modi; e l'altro, col farsi lo splendore dello illuminante intensivamente più o meno gagliardo. Ma ci è il terzo, il quale è quando non intensivamente, ma estensivamente, si fa maggiore quella luce da cui l'illuminazione deriva: e così il lume di una torcia grande più gagliardamente illuminerà che d'una piccola candela, benché gli splendori di amendue intensivamente siano eguali. Ora qui averei voluto che il signor Liceti avesse considerato, quanto questa terza maniera è più potente in produrre l'effetto della mutazione del lume di Luna in Terra. Imperocché l'ingrandirsi estensivamente lo splendore della Luna, come fa, mostrandosi da principio in figura di una sottilissima falce, andandosi poi pian piano e di sera in sera dilatando, cioè facendosi estensivamente maggiore, gran mutazione di accrescimento produce nell'illuminar la Terra, ancorché intensivamente vadia debilitandosi, onde per tal rispetto il lume dovrebbe farsi men vivo. Debolissima dunque è l'efficacia delle altre due maniere, in comparazione di questa terza, la quale l'Altezza Vostra Serenissima vede quanto sia gagliarda.

Sarà bene adesso che andiamo esaminando quello che operar possa circa l'incandire la Luna il reflesso del suo etere ambiente dal signor Liceti assegnato per vera cagione dell'effetto: la quale dubito che non possa essere se non assai languida ed inefficace. Ma prima che io venga a questo, voglio qui interporre un mio, tal qual si sia, pensiero, per ritrovar l'origine donde sia proceduto il restare per tanti secoli passati occulta a gli ingegni speculativi questa, per mio credere, assai vera e concludente ragione, del derivare il candor della Luna veramente dal reflesso de' raggi solari nella terrestre superficie. Mentre che il Sole è sopra l'orizonte ed illumina il nostro emisferio terrestre, in qualsivoglia luogo che sia posta la Luna, il candor di lei non ci si rende visibile; per lo che nessuno in tal tempo si sarebbe mosso a credere né a dire che il lume della nostra Terra avesse forza di illuminare la parte della superficie lunare non tocca dal Sole onde molto meno gli potrebbe cadere in mente che la superficie della Terra priva di splendore fosse potente a incandire la Luna, cioè fusse potente, essendo tenebrosa, a portar luce là dove ella non la portò essendo luminosa. Quando dunque, tramontato che sia il Sole ed imbrunita la nostra Terra, mentre si vede scoprirsi il candore nella Luna, il giudizio popolare ad ogni altra cosa lo potrebbe referire, fuorché alla Terra: per lo che gli uomini, persuasi da questa prima e semplice apprensione, o non vi fecero reflessione, o cercarono di ritrovarne la ragione in ogni altra cosa fuorché nello splendor terrestre.

Ora, varii sono i riscontri e le ragioni le quali mi distolgono dal prestar l'assenso all'opinione del signor Liceti, che il candore lunare sia effetto di una parte del suo etere ambiente, la quale, come alquanto più densa dell'etere purissimo che il resto del cielo ingombra, possa ricevere e ripercuotere i raggi solari nella parte tenebrosa della Luna; in quella maniera che la parte dell'aria contermina alla Terra, fatta densa dalla mistione de i vapori, riceve lume da i raggi solari, e quello reflette sopra la Terra, producendo il crepuscolo e l'aurora. E perchè, oltre a questo, egli suppone che la Luna pure abbia per se stessa alquanto di lume, suo proprio e naturale; questo parimente e primieramente non credo io esser vero, né potere, quando pur vero fusse, averci parte alcuna: né so penetrare da che cosa mosso egli ve lo abbia voluto introdurre. E prima, che egli non vi sia, ce ne rende sicuri il perder noi talvolta del tutto di vista la Luna, quando ella, nella sua totale eclisse, nel mezo del cono dell'ombra terrestre si riduce; che quando ella avesse qualche proprio lume, benché tenue, nella profondissima notte si farebbe visibile; tal lume proprio non ha dunque la Luna. E quando ben ne avesse, non potendo egli esser se non tenuissimo, di niente potrebbe aiutare il candore, il quale è molto grande in quella maniera che niente opera il lume della Luna circa l'lluminar la Terra, qualvolta il Sole, elevato sopra l'orizonte, con i suoi lucidissimi raggi l'illustra; ché quando la notte, in assenza de: Sole, la Luna piena di splendore non ci avesse illuminato, giammai di giorno, alla presenza del Sole, non averemmo potuto assicurarci della illuminazione della Luna e così nel gran campo del candore, molto bene luminoso, ogni altro picciol lume resterebbe offuscato e come nullo. Quanto poi all'operazione dell'etere ambiente, circa il candire la Luna, non veggo che in modo alcuno possa satisfare a quello che al senso ci apparisce imperoché tutto il campo tenebroso della Luna è egualmente candito, e non intorno alla circonferenzia solamente, dove solo per breve spazio si dovrebbe distendere il lume che dallo etere ambiente le perviene; in quel modo che il reflesso della parte dell'aria vaporosa solamente tal parte dell'emisferio terrestre illustra, qual parte è il tempo della durazione del crepuscolo del tempo della lunghezza di tutta la notte che se l'illuminazione del crepuscolo potesse diffondersi sopra tutto l'emisferio terrestre, non averemmo mai notte profonda, ma un'aurora o un crepuscolo perpetuo; ed avvengaché secondo che in maggiore altezza si sublimasse l'orbe vaporoso intorno al globo terrestre, tanto più diuturno si farebbe il crepuscolo, in immensa Altezza converrebbe che si elevassero i vapori per illuminare l'intero emisferio. Ora, quando il signor Liceti volesse mantenere che il candore che può illustrare tutto l'emisferio tenebroso della Luna, derivasse dal reflesso dell'etere ambiente, sarebbe in obbligo di insegnarci a quanta altezza, o vogliamo dir distanza, fuor dell'orbe lunare dovesse tal parte d'etere addensato sublimarsi; nella quale impresa, oltre che alquanto laboriosa gli riuscirebbe, credo che incontrerebbe assai gagliarde contraindicanze. Una delle quali è, che giammai in verun modo potrebbero le parti di mezo essere egualmente luminose come le altre più verso la circonferenza, ma grandemente più tenebrose, avvenga che le parti intorno alla circonferenza goderebbero non solo delle parti a sé contigue, ed anco delle prossime, ma di tutte le remote ed altissime; dove che le parti di mezo, restando prive della vista delle prossime e tangenti l'estremo limbo, riceverebbero il lume solamente dalle alte e remote: ora, quanto importi l'avere l'illuminante prossimo, più che l'averlo lontano, per esser più vivamente illuminato, è tanto per sé manifesto, che non occorre spendervi più parole. E doppo questa ci è un'altra contraindicanza, pur gagliardissima; e questa è, che nel farsi l'eclisse, finito che fusse di entrare nel cono dell'ombra il disco lunare, restando ancora fuor di tal cono gran parte dell'etere alto che la Luna circonda, essendo ancora questo visto ed illuminato dal Sole, pure continuerebbe di incandire ancora la medesima faccia della Luna, e massimamente la parte conseguente all'ultimo orificio che si sommerse nell'ombra: al che troppo altamente repugna l'esperienza, la quale ce lo mostra bene alquanto sparso di luce, e, per mio credere, conferitale dallo etere suo ambiente, ma tal luce con infinita proporzione minore del vero candore; il quale, se nella profonda notte potesse conservarsi, io tengo per fermo che ei sarebbe potente a illuminarci, non ardirò di dire quanto la Luna nel suo plenilunio, ma che non cederebbe a quello che ci viene dalle corna della Luna posta presso all'aspetto sestile. E finalmente, del non potere il candore in verun modo essere effetto dell'etere ambiente, molto chiaramente lo mostra la gran diminuzione che in esso si scorge dal partirsi dalla congiunzione col Sole sino all'arrivare al quadrato, alla qual diminuzione converrebbe che proporzionalmente rispondesse la diminuzione del lume nell'etere ambiente; la quale non può esser se non piccolissima e per avventura insensibile, non si potendo, come il medesimo signor Liceti afferma, riconoscere da altro che dallo allontanamento di esso etere dal Sole. Ed ancorché né l'etere ambiente né il suo lume scorgiamo, nulladimeno quale possa essere la diminuzione di quello, lo possiamo argumentare dalla diminuzione di splendore che nel corpo stesso della Luna si scorge, mentre che alla lontananza, che è tra il Sole e la Luna posta nel quadrato, si aggiugne quello di più che ella si scosta passando dal quadrato all'opposizione: e veramente credo che niuna vista possa esser bastante a comprendere, lo splendore della Luna nel quadrato essere intensivamente maggiore che nella opposizione; e così il lume dell'etere ambiente nella congiunzione della Luna col Sole poco scapiterà nel ridursi alla quadratura, perché finalmente il suo discostamento non è altro che la trentesima parte della distanza tra il Sole e la Luna postagli in congiunzione; onde, a tal ragguaglio, il lume in questo luogo potrà diminuirsi per la trentesima parte appena, nel venire al quadrato. E tale per consequenza doverebbe essere la diminuzione del candore nella Luna, cioè appena sensibile: ma ella è non pur sensibile, ma assai grande; e ben grande può ella essere, mentre che nella congiunzione viene il disco lunare incandito dall'intero emisferio splendido della Terra, dalla cui metà solamente viene ella illustrata nella quadratura.

Ora venghiamo al secondo argumento, leggendo sino a “Deinde Luna prope coniunctiones” etc. Io di questo argumento concedo tutte le premesse, ma non concedo già che non ne segua quello che dalla concessione di esse seguir ne dovrebbe; anzi affermo che puntualmente ne séguita e che così si scorge, cioè che, per esser la Terra più da vicino illuminata dal Sole che la Luna posta in opposizione, e che per esser l'emisferio terrestre molto e molto maggiore, cioè circa dodici volte, di quello della Luna, il candore lunare dovrebbe di gran lunga superare il lume di Luna in Terra; ed affermo di più che così segue, che è quello che dal signor Liceti vien negato, affermando egli vedersi il contrario, cioè molto più debole il candore della Luna che l'illuminazione terrestre derivante dalla Luna piena: e perché ei dice ciò vedersi, mi sarebbe parso necessario il dichiarare la maniera come tal vista possa ottenersi con sicurezza e senza che il senso si ingannasse. Imperoché, mentre io vo ricercando di assicurarmi della verità del fatto, trovo che non mancano circustanze, per le quali il senso, nella prima apprensione, può errare ed esser bisognoso di correzzione, da ottenersi mediante l'aiuto del retto discorso razionale. Io veramente, domandando persone anco di bonissimo giudizio, quale si rappresenti all'occhio, più vivo e risplendente, o il lume di Luna in Terra, o il candore nella Luna, mi sento subito rispondere, che di gran lunga è superiore il lume di Luna; tuttavia credo che, applicando il discorso e la considerazione a gli accidenti che la prima apparenza possono perturbare, si troverà potere essere, ed in fatto essere, il contrario di quello che a prima vista si giudica. E prima, essendo assai manifesto che l'istesso corpo lucido, potente a illuminare altri corpi tenebrosi, più e più vivamente gli illustra secondo ch'ei sarà meno e meno lontano da essi; da questo effetto notissimo e chiaro parmi che con assai conveniente proporzione si possa anco affermare, che alla vista nostra meno risplendente si mostri il medesimo oggetto luminoso, posto in grandissima lontananza dall'occhio, che postoci molto da vicino. E se così è, vorrei che il signor Liceti avvertisse, che nel voler noi far paragone del lume di Luna in Terra col candor della Luna vicina alla congiunzione, e di essi giudicare quello che alla prima vista si rappresenta, avvertisse, dico, che la Terra illuminata dalla Luna non è dall'occhio nostro più lontana di tre o quattro braccia, lontananza incomparabilmente minore di quella della Luna candente posta alla congiunzione, la quale eccede di assai trecento milioni di braccia: qual dunque meraviglia è che, posto anco che il candor della Luna fusse eguale all'illuminazione della Luna in Terra, in tanta differenza di lontananza ci apparisse minore? Eccellentissimo signor Liceti, per giudicare nella presente causa senza fallacia, bisognerebbe che, notato a parte quello che vi si rappresenta alla vista mentre che, stando in Terra, guardate il lume di Luna in Terra, paragonandolo al candor della Luna quando poi è posta nella congiunzione, notaste ancora a parte quello che vi si rappresenterebbe alla vista quando voi foste constituito nella Luna incandita dal lume terrestre, e di lì poteste poi vedere la Terra, da voi lontanissima, illuminata dalla Luna; e se nell'una e nell'altra esperienza voi trovaste che la Terra si mostrasse più candida della Luna incandita postavi sotto i piedi, bene e concludentemente avereste sentenziato; ma dubito che la seconda esperienzia vi farebbe mutar parere, e giudicare tutto l'opposito di quello che la prima vista intorno a questo vi persuase. Cessi per tanto la fede che in questo caso l'intelletto deve prestare al senso. Ed aggiunghiamo di più, che di due oggetti visibili, ma in grandezza diseguali, il minore meno ingombrerà l'occhio di luce che il maggiore, ancorchè amendue fussero dell'istesso splendore in specie. Ora notisi che il disco lunare viene compreso sotto un angolo acutisimo, avvengaché la sua base non suttenda più che a mezo grado: ma l'angolo che dalla massima divaricazione de i raggi visivi si constituisce nell'occhio, essendo più grande che retto, suttende a più di novanta gradi interi e questo viene tutto ingombrato dall'area e piazza luminosa della Terra, mentre che da vicino la rimiriamo: essendo adunque l'ampiezza di questo grande angolo circa dugento volte maggiore dell'altro acuto, che comprende il disco lunare, meraviglia non abbiamo a prenderci dell'apparente maggioranza di luce nel rimirar la Terra, che la Luna incandita. Taccio che della differenzia dei nominati due angoli lineari molto e molto maggiore è quella delli angoli solidi, da essi lineari nascenti: e veramente angoli solidi sono i compresi dentro a i coni formati da i raggi visuali, de i quali angoli quello che ha per base la parte, ancorché piccolissima, della terrestre superficie all'occhio esposta, a ben più di quaranta mila volte maggiore dell'altro, che si fonda sul disco lunare.

Non è dunque meraviglia che il senso nella prima apparenza distortamente giudichi nella presente causa: però sarà bene che veggiamo se ci è modo di correggerlo; e potendo per avventura i modi e le maniere esser molte, io per ora ne proporrò una o due. E già che noi non possiamo mettere a petto a petto il candor della Luna ed il lume di Luna in terra, parmi che assai sicuramente potremmo giudicare tra essi facendo parallelo di amendue ad un terzo lume di un corpo illuminato: imperoché se accadesse che lo splendore di questo terzo superasse il lume di Luna, ma fusse superato dal candor della Luna, senza dubbio credo che potremmo asserire, il candor della Luna superare il lume di Luna in terra. Mi si rappresenta, atto mezo termine per ciò fare esser lo splendore del crepuscolo, facendo comparazione ad esso del lume de gli altri due. Tramontato che sia il Sole, vedesi rimanere per buono spazio di tempo la superficie della Terra assai chiara, mercé del crepuscolo, cioè molto più che quando è illustrata dalla Luna piena; il che manifestamente si scorge dal veder noi qualsivoglino minuzie in terra molto più distintamente in virtù del crepuscolo, che non si scorgono, passato esso, nell'illuminazione della Luna. Il quale effetto anco apertamente si conferma: perché se averemo in Terra qualche corpo oscuro, come, per esempio, una colonna o la nostra persona medesima, la illuminazione della Luna piena non farà far ombra in Terra a esso corpo tenebroso sin che il lume del crepuscolo non sarà di molto scemato, cioè sin tanto che il lume della Luna gli prevaglia; segno evidente, questo della Luna esser a quello, da principio e per lungo spazio di tempo, assai inferiore. Ma aggiunghiamo un'altra esperienzia, che pure ci conferma, l'illuminazione del crepuscolo superare di assai l'illuminazione del plenilunio. Osservisi qualche grande edifizio posto sopra luogo eminente, in lontananza da noi di quattro o sei o più miglia: certo per assai lungo spazio dopo il tramontar del Sole dureremo noi a scorgerlo bene, e tal vista non perderemo se non dopo notabile diminuzione del lume crepuscolino; ma se, estinta la illuminazione del crepuscolo, sopraverrà la illuminazione del plenilunio, potrà molto bene accadere che il medesimo edifizio più da noi non si scorga. Cede dunque di assai il lume di Luna al lume del crepuscolo: ma all'incontro, per scorgere il candore nella Luna non ci fa di mestiero aspettare che tanto si debiliti il lume crepuscolino, ma di non piccol tempo avanti che la Luna muova l'ombre, lo vedremo noi biancheggiare nel medesimo lume crepuscolino: cede dunque il lume di Luna al candor della lunare superficie.

Ma finalmente con nodo, al mio parere insolubile, veggiamo stretta e confermata la verità della mia conclusione dico dell'essere il candor della Luna effetto del reflesso de' raggi solari ripercossi dal globo terrestre. Stima il signor Liceti, il candor della Luna essere effetto del reflesso de' raggi solari nell'etere alquanto condensato che da vicino circonda il globo lunare, in quella guisa che l'orbe vaporoso circonda la Terra; e del tutto esclude il reflesso della Terra, come nullo: io ammetto al signor Liceti il reflesso dell'etere ambiente, ma vi aggiungo il reflesso della Terra, che egli nega, e questo assai più potente che quello dell'etere: ed avvenga che il signor Liceti reputi nullo questo, da me stimato per principale, adunque di niuno pregiudizio dovrà essere al candore della Luna il privarla di questo, che io reputo benefizio concernente al produr tal candore, purché se gli lasci il reflesso dell'etere ambiente. E per ciò fare compitamente, ponghiamo la Luna in opposizione al Sole, onde verso di lei nulla si esponga dell'emisferio terrestre luminoso, ma solo riguardi verso lei l'emisferio tenebroso; ed in tal consultazione ponghiamo che segua l'eclisse totale della Luna, sì che ella perda ancora la illuminazione de i raggi primarii del Sole, onde resti spogliata di questi e del tutto priva della vista della faccia luminosa della Terra. Qui è manifesto, che non così immediatamente che il corpo lunare si è finito d'immergere nel cono dell'ombra terrestre, si è finito di immergere ancora l'orbe dell'etere che lo circonda, ma ne resta parte fuori; la qual parte godendo ancora de i raggi solari, può incandire quella parte del corpo lunare che fu l'ultima a cadere nell'ombra ed in questo tempo potremo noi scorgere qual sia il candore prodotto dal solo etere ambiente. Ma questo poco che si vede, non si diffonde per tutta la faccia della Luna, ma solamente in parte del suo limbo; né la grandezza del suo lume ha che fare col candore grande ed argenteo che si vede nella congiunzione, ma a una assai tenue tintura bronzina ché quando fusse in spezie così vivace quale è il candore, vivacissimo e molto più limpido dovrebbe dimostrarsi in questo tempo dell'eclisse, mentre che la Luna si trova constituita in un campo molto oscuro, cioè nelle tenebre della notte, dove che, all'incontro, il candore del novilunio viene da noi veduto nel campo ancora assai chiaro del crepuscolo. Vedesi dunque, che privata la Luna del reflesso della Terra, e favorita solo da quello del suo etere ambiente perde a molti doppi quel bel candore per lo che ben necessariamente doviamo concludere, pochissima essere la parte che vi ha il reflesso dell'etere ambiente; anzi pure vi è ella come nulla, mentre le sopragiugne il tanto più vivace e potente reflesso della Terra

Qui prima che passar più avanti, non voglio tacere certa meraviglia che mi nasce nell'animo; ed è, che avendo il signor Liceti detto di voler discorrere nella presente materia fisicomatematicamente, nella presente occasione ci si serva solo della fisica, tralasciando la matematica: perché cosa da fisico e naturale è stata il formar giudizio tra il candor della Luna e il lume di Luna dalla prima e sensuale apparenza; nel qual giudizio non credo ch'ei fusse con fallacia incorso, se egli avesse aggiunto quello che ne insegna la matematica, cioè che la lontananza della Luna candita dall'occhio è più di cento milioni di volte maggiore della lontananza della Terra, e che l'angolo visuale nascente dalla Terra è più di quaranta mila volte maggiore che il nascente dalla superficie lunare, le quali disuguaglianze, come non piccole, hanno potuto perturbare il retto giudizio. Quindi apprenda ciascuno quale è talvolta la differenza tra il discorrere de i matematici e de i puri filosofi naturali e perché, senza digredire dalla materia che si tratta, mi si porge qui occasione di conferire all'Altezza Vostra Serenissima certo mio concetto non scritto da me in altro luogo, né credo toccato da altri, glie le esporrò.

Mostra l'esperienzia come il sopranominato tenue splendore bronzino, che resta nella faccia della Luna, ma per breve tempo, dopo la sua totale adombrazione, il va a poco a poco diminuendo: ed accade tal volta che pure nelle totali e centrali eclissi tal lume del tutto si ammorza, in guisa che del tutto si perde la vista della Luna; ed alcun'altra volta, pur nelle stesse totali eclissi, non così adiviene, ma resta il lunar corpo pure alquanto apparente e visibile. Già è manifesto, tal debolissima luce non le poter provenire né dal Sole né dalla Terra, la vista de' quali le è del tutto tolta; né meno essere effetto del suo etere ambiente, di già esso ancora immerso nell'ombra e privato della vista del Sole; né può tampoco esser nativo e proprio del corpo lunare, poiché, se fusse tale, in tutte le eclissi si scorgerebbe, come anco accaderebbe se fusse per avventura effetto delle stelle sparse per l'immenso cielo; ed in somma il punto grande della difficoltà consiste nel seguire alcune volte sì ed alcune volte no questo totale perdimento di vista della medesima Luna, il quale effetto, per la sua variazione, ricerca varietà nella causa effettrice. Io, doppo molte reflessioni di mente, considerato che l'effetto del quale si cerca la causa è effetto di lume, ho meco medesimo concluso, non potere esso provenire se non da qualche cosa che abbia facultà di illuminare, del benefizio della quale resti ora favorita ed ora privata la Luna; né avendo noi altro di lucido, atto a ciò poter fare, che i luminosi corpi celesti, a quelli è forza ricorrere, e tra essi investigare chi possa operare or sì ed or no nell'effetto del quale parliamo. Se questo è effetto di qualche stella, è necessario che ella, o vero alcuna volta risplenda più ed altra manco, o vero che ella ora sia esposta ed ora no alla vista della Luna; e conviene anco che tale stella sia di non minima forza d'illuminare. Tra i corpi celesti, trattone il Sole e la Luna, potenti assai per la lor vicinanza e grandezza, la prima fra le stelle mi si offre Venere, la quale in alcune constituzioni col Sole, cioè circa alle massime digressioni riluce tanto vivamente, che si vede la notte i corpi ombrosi tocchi dal suo fulgore, sparger ombra, e Giove appresso di lei con poca differenza far quasi il medesimo effetto. Ora, stante questo, che pure è verissimo, qualvolta accadesse che queste due stelle nel tempo dell'eclisse lunare fussero verso la Luna talmente costituite che la potessero ferire con i loro raggi, potrebbero in consequenza conferirle qualche lume, bastante per renderla visibile; e quando poi in altra eclisse Giove fusse verso l'opposizione del Sole, ed in consequenza dietro all'emisferio lunare a noi ascosto, e che Venere, per l'opposito, fusse prossima alla congiunzione col Sole, sì che la Terra, nel privar la Luna della vista del Sole, le togliesse anco il veder Venere, restando ella abbandonata da amendue tali fulgori, resterebbe ancora a gli occhi nostri invisibile. Potrebbesi ancora accomunare a questo benefizio qualche stella fissa, e massime la più di tutte le altre fulgente, dico la Canicola; e parmi poter far capitale di queste tre sole, ed in particolare dei due pianeti, perché debole è l'operazione di tutto il resto delle stelle fisse. E veramente par nel primo aspetto cosa assai maravigliosa, che lo splendore di tanti lumi celesti abbia sì poco ad operare circa l'illuminare la Terra o altro corpo da esse remotissimo: ma dovrà far cessare la meraviglia il considerare quanto avanzi in grandezza il disco solare, ed anco quello della Luna, la apparente piccolezza delle stelle fisse, mercé dell'immensa loro lontananza poiché per fare un'area o piazza luminosa eguale al disco del Sole o della Luna composta di stelle, ciascheduna anco eguale al Cane, non basterebbero quaranta mila accoppiate e distese insieme: giudichiamo ora quello che si può ricevere dalle quindici sole della prima grandezza, insieme con le altre, poche più di mille, e tanto minori, sparse per il Cielo. E ben che moltissime siano quelle che per la loro piccolezza restano invisibili, tuttavia veggiamo che di tali piccolissime congiuntone gran numero insieme, finalmente non formano altro che una piccola piazzetta sì poco luminosa che gli astronomi passati chiamarono con nome di stelle nebulose. E tanto basti per risposta alla seconda instanza del signor Liceti.

E venendo alla terza, senta l'Altezza Vostra Serenissima quello che l'autore scrive consequentemente, sino alle parole: “Præterea vel ipse Clarissimus Galileus, dum aliam opinionem” etc. Qui sì mi è lecito liberamente parlare, non bene resto capace de i motivi per i quali il signor Liceti inferisce, che posto che il candor della Luna derivasse dal reflesso del lume terreno, ei dovesse essere più illustre nel mezo della sua faccia oscura, che nel rimanente verso l'estremo margine; e mentre adduce per ragione di questo il ricevere le parti di mezo più lume dalla Terra, e lo sfuggire il medesimo lume dal margine estremo, spargendosi nell'ambiente, io non veggo occasion nessuna di ricever più luce nel mezo, né veggo che i raggi dello splendore terrestre debbano sfuggire dall'estremo limbo. Ciò forse accaderebbe quando il globo lunare fusse terso e liscio come uno specchio; ma egli è scabroso quanto la Terra se non più: e di questo non riceversi maggior lume nel mezo che nell'estremo ambito, pur troppo chiaramente ce lo mostra l'stessa Luna, mentre che essendo ella, nella opposizione, piena di lume del Sole, senza veruna differenza di mezo o di estremo egualmente luminosa si mostra, argumento della sua asprezza e del non sfuggire i raggi solari verso l'estrema circunferenza; che quando ella fusse tersa come uno specchio, giammai da gli uomini non sarebbe stata veduta, come io diffusamente ho dimostrato altrove. Oltre che, posto anco che la superficie lunare fusse tersa sì che i raggi luminosi, che dalla Terra le pervengono, potessero fuggire nel contatto estremo dell'orbe lunare, e perciò quivi men vivamente potessero incandirlo, non per questo all'occhio nostro tal diminuzione di lume potrebbe esser compresa: e la ragione è questa. La superficie luminosa della Terra, come quella che è vicina alla Luna, ed in ampiezza è ben dodici volte maggior di essa, molto più d'un suo emisferio abbraccia ed illumina con i suoi raggi; all'incontro poi i raggi nostri visivi, come quelli che non da una ampiezza così grande quanto è l'emisferio terrestre sì partono, ma escono da un punto solo, cioè dall'occhio nostro, notabilmente meno di un emisferio lunare abbracciano; talché oltre all'ultimo cerchio che i raggi nostri visivi nella superficie lunare descrivono, una grande striscia di luminoso resta tra essa e l'ultimo cerchio che termina la parte della superficie lunare illustrata dalla Terra, la quale striscia è a gli occhi nostri invisibile. Perché dunque nella parte veduta da noi non vi entra della poco luminosa, mercé dello sfuggimento dei raggi terrestri, niuna diminuzione di candore possiamo noi veder nella Luna. Di qui l'Altezza Vostra Serenissima può vedere con quanto più salda ragione io dichiaro che l'obiezzione del signor Liceti contro il derivare il candore dalla Terra è invalida, e quanto, all'incontro, valida e concludente sia la mia, posta di sopra, in provare che il candore non sia effetto dell'etere ambiente, mentre che io concludo che se ciò fusse, il candore nelle parti di mezo dovria apparir più oscuro che nell'estreme; la quale mia conseguenza non so se il signor Liceti potesse così agevolmente rimuovere, come ho potuto io ora rimuovere la sua, che il candore nelle parti di mezo dovesse mostrarsi più chiaro che nelle estreme, quando derivasse dalla Terra.

Quanto poi all'attribuirmi l'Autore, che io abbia poste nella Luna concavità, le quali poi, a guisa di cavi specchi, possino ripercuotere lume maggiore che altre parti non concave; sia detto con pace del mio Signore, io non ho mai né scritta né pronunziata tal cosa. Sono nella superficie della Luna lunghi tratti di asprissime montagne, gruppi di scogli scoscesi, moltissimi spazii grandi e piccoli, circondati da argini sublimi e per lo più di figure rotonde; veggonvisi alcune cavità: ma che elle sieno terse, sì che a guisa di specchi cavi possino ripercuotere i raggi, ciò è alienissimo dal mio detto e dal mio credere; ma stimo bene, tutte queste figure essere ruvide, aspere, ed in somma quali in Terra se ne veggono, naturalmente e rozamente composte. In oltre, quando pure nella faccia della Luna fussero concavità più che qualsivoglia de i nostri specchi pulite e lustrate, sì che vivacissimamente potessero reflettere non meno il lume terrestre che gli stessi raggi solari, che vedremmo noi di tali raggi, reflessi nell'ambiente della Luna ? Esposto uno de' nostri specchi concavi a' raggi diretti del Sole, che lume reflettono essi, che punto illumini l'aria nostra ambiente? Nulla sicurissimamente; e pure è vero, tali raggi reflettersi gagliardissimamente, ed in figura di cono andare ad unirà; ed esser veramente potenti ad illuminare i corpi tenebrosi ed illuminargli ancora più potentemente che l'istesso Sole: ma bisogna nella cuspide del cono, o a lei vicino, porre qualche materia densa ed opaca, la quale, tocca da tali raggi, si vedrà splendere ed offender la vista più che l'istesso Sole, e massime se lo specchio sarà grande; e se la materia sarà combustibile, immediatamente si accenderà; ed essendo fusibile, qual è il piombo o lo stagno, si fonderà, ed il rame o altro metallo più duro si infuocherà. Bisogna dunque per vedere il suo reflesso, farlo incontrare in materia atta ad essere illuminata; e finalmente potremo vedere manifestissimamente tutto il cono, ponendogli sotto carboni accesi e buttando sopra essi semola o incenso o altra cosa tale che faccia fumo; e questo passando per i raggi del cono, si illuminerà, e ci farà vedere quanto tali raggi reflessi siano più vivi delli incidenti e primarii del Sole. Adunque, siano pure quali e quanti si voglino specchi concavi nella Luna, niente faranno più vivo lo splendore diffuso per l'etere ambiente.

Io non credo che all'eccellentissimo signor Liceti sia ignoto, che i raggi reflessi da uno specchio concavo non vadano in figura di cono a unirsi se non in piccola distanza da esso specchio, e che il loro vivacissimo lume non può vedersi se non in qualche materia densa ed opaca, la quale, tocca da i detti raggi, come ho detto, acquista un lume più vivo che lo splendore dell'istesso Sole: ma la parte aversa della detta materia niente si illumina, essendo opaca; tal che a noi che siamo in Terra, dove non credo che il signor Liceti fusse per dire che arrivassero i coni de i raggi reflessi da gli specchi concavi sparsi nella superficie della Luna, a noi, dico, non toccherebbe a vedere se non le dette parti averse, le quali verrebbero illuminate solo dalla superficie della Terra, come il restante dell'emisferio lunare, e però ci resterebbero elle indistinte dal resto del lunar disco. Lascio stare che il metter lamine di materia opaca separate dal corpo lunare e sospese nel suo etere circunfuso, è cosa troppo ridicola, e da non ci far sopra fondamento veruno. Ma più poteva il signor Liceti, come fisico-matematico, raccorre dalle matematiche, che non solo i piccoli specchietti concavi, sparsi nella superficie lunare, non sono bastanti a far l'effetto che egli ne deduce ma quando tutto l'emisferio lunare fosse un solo specchio concavo o porzione di sfera tanto grande che il suo semidiametro fusse l'intervallo che è tra la Terra e la Luna, che è il medesimo che dire che ei fosse porzione dell'istessa sfera nella quale è posta la Luna, appena sarebbe bastante a reflettere e produrre il cono de' raggi reflessi insino in Terra, dove, uniti e terminati nel vertice di detto cono, potessero ravvivare il lume; il quale poi un sol punto o una minimissima particella dell'emisferio terrestre occuperebbe, e quivi solo farebbe la multiplicazione dello splendore, superiore allo splendore terrestre, ma però tanto languido, mercé della minima ed insensibile cavità dello specchio, che il cercare di vederlo o vero di ritrovarlo sarebbe un tempo vanissimamente speso. Anzi pure, non potendo pervenire all'occhio del riguardante salvo che nelle centrali congiunzioni de i tre centri terrestre, lunare e solare, giammai da noi che siamo fuor de' tropici, tale accidente non potrebbe esser incontrato; essendo che impossibile cosa è il costituire l'occhio nella medesima linea retta che li tre centri sopradetti congiunge, l'occhio, dico, di un che fuora della torrida zona, cioè de' tropici, sia costituito. Vede dunque l'Altezza Vostra Serenissima come il discorso matematico serve a schivare quelli scogli, ne' quali talvolta il puro fisico porta pericolo d'incontrarsi e rompersi.

Qui non posso non maravigliarmi alquanto di esser portato io in testimonio contro a me medesimo, mentre sento dirmi che io medesimo ho scritto, l'estremo limbo della Luna mostrarsi più lucido che le parti di mezo. È vero che io ho scritto che tali parti estreme sì mostrano a prima vista più chiare che quelle di mezo; ma immediatamente ho soggiunto, ciò in rei veritate esser falso ed una illusione, e soggiunto che tutto il disco è egualmente candido: ed il medesimo Autore nel capitolo precedente registra puntualmente le mie parole, che sono: “Dum Luna, tum ante tum etiam post coniunctionem, non procul a Sole reperitur, non modo ipsius globus, ex parte qua lucentibus cornibus exornatur, visui nostro spectandum sese offert; verum etiam tenuis quædam sublucens peripheria tenebrosæ partis, Soli nempe aversæ, orbitam delineare, atque ab ipsius ætheris obscuriori campo seiungere, videtur. Verum, si exactiori inspectione rem consideremus, videbimus, non tantum extremum tenebrosæ partis limbum incerta quadam claritate lucentem, sed integram Lunæ faciem, illam nempe quæ Solis fulgorem nondum sentit, lumine quodam, nec exiguo, albicare: apparet tamen primo intuitu subtilis tantummodo circumferentia lucens propter obscuriores Cæli partes sibi conterminas; reliqua vero superficies obscurior e contra videtur ob fulgentium cornuum, aciem nostram obtenebrantium, contactum. Verum si quis talem sibi eligat situm, ut a tecto vel camino aut aliquo alio obice inter visum et Lunam (sed procul ab oculo posito) cornua ipsa lucentia occultentur, pars vero reliqua lunaris globi aspectui nostro exposita relinquatur; tunc luce non exigua hanc quoque Lunæ plagam, licet solari lumine destitutam, splendere depræhendet, idque potissimum, si iam nocturnus horror ob Solis absentiam increverit; in campo enim obscuriori eadem lux clarior apparet.” Or il troncare le mie sentenze, portando, come da me detto asseverantemente, quello che io nella prima parte propongo per confutarlo poi nelle seguenti parole da me poste, e far ciò forse per imprimere nell'animo del lettore concetto tutto contrario a quello che io scrivo, non saprei in altra maniera scusarlo, fuor che per una scorsa di memoria.

Segue con altra instanza, dicendo: “Præterea, vel ipse Clarissimus Galileus” etc, sino a “Insuper, si Terra solare lumen in Luna” etc. Il signor Liceti con grande accortezza trapassa sotto poche parole questa instanza che egli mi fa contro, toccando solo una parte del mio detto, onde il lettore, non sentendo la mia sentenza intera, potria formarsi concetto che quello che da me vien portato in altro proposito, serva per confermare un'altra opinione, molto lontana da quella che io tengo. È vero che io ho detto, tenere che possa essere intorno aila Luna una parte del suo etere ambiente più densa del resto dell'etere purissimo la quale possa reflettere i raggi del Sole, illustrando l'estremo margine del disco lunare: al che credere mi muove il vedere nell'eclisse totale della Luna, doppo che ella sì è immersa nell'ombra terrestre restare quell'estrema parte del suo limbo che fu l'ultima a cadere nell'ombra, restar, dico, alquanto illustrata, ma di un lume che tira più al rame che all'argento, il qual colore non si estende egualmente per il restante del disco lunare, che resta molto più oscuro; e che finalmente, entrata la Luna nel mezo dell'ombra, ella del tutto perde quel poco che la faceva visibile, e noi alcune volte totalmente la perdiamo di vista. Ora, che il signor Liceti inferisca, che da quanto ho scritto si possa raccorre che io abbia detto o conceduto che il candore, il quale grandissimo si sparge per tutto il disco lunare nel novilunio, derivi dal reflesso del Sole nell'etere ambiente la Luna, è consequenza da me non pensata, non che detta; anzi di presente stimata falsissima. E qui è bene che io tocchi certo particolare degno di esser avvertito ed inteso.

Circonda perpetuamente l'etere, diciamo addensato, il globo della Luna, intorno alla quale si eleva sino a una certa altezza; sta la Luna esposta a i raggi del Sole, i quali illustrano l'emisferio lunare insieme con l'emisferio addensato e potente ad illuminare una parte dell'emisferio lunare non tocco dai raggi del Sole; e tal parte illuminata circonderà, a guisa di un anello, una striscia della superficie lunare, che confina con l'emisferio illuminato dai raggi solari; e questo anello apporterebbe il lume crepuscolino nella Luna e da noi si scorgerebbe, quando un altro lume molto maggiore non ce lo offuscasse; e questo maggior lume è il reflesso della grandissima faccia della Terra: sì che posto, per esempio, che il reflesso terrestre abbia venti gradi di luce, ma quello del reflesso dell'etere ambiente ne abbia, verbigrazia, otto o dieci, chi crederà, potersi distinguere tale anello lucido nella piazza tanto più risplendente? Certo nessuno, salvo che chi volesse dire, il reflesso dell'etere superare in candore quello della Terra, il che è falso: imperoché quello che nell'eclisse lunare rimane, somministratoli dall'etere ambiente, è di lunghissimo intervallo inferiore al candore del novilunio; che quando fusse prodotto dall'istessa causa, dovrebbe molto e molto maggiore mostrarsi nell'oscurità della notte, al tempo dell'eclisse, che nello splendore del nostro crepuscolo, come altra volta di sopra abbiamo detto. Aggiunghiamo di più, che l'essere egualmente diffuso il candore per tutto il disco lunare, ci assicura che egli non depende dall'etere ambiente, il quale non è potente ad arrivare nella parte di mezo del disco lunare; in quel modo che il crepuscolo nostro non illumina tutto un emisferio terrestre, perché se ciò fusse averemmo tutta la notte il lume crepuscolino, dove che per la maggior parte della Terra molte sono le ore notturne che restano senza crepuscolo, nelle tenebre profondissime. In oltre, con gran ragione possiamo credere che l'etere ambiente la Luna non sia così atto a reflettere vivamente i raggi del Sole sopra la Luna, come è l'ambiente nostro vaporoso a ripercuoterli sopra la Terra. Imperochè, essendo in universale la materia dell'etere celeste più pura dell'elementare aerea, così è credibile che la parte dell'etere condensato intorno alla Luna sia assai men densa, ed in conseguenza men potente a reflettere, che l'aere condensato, per la mistione de' vapori, intorno alla Terra.

Che poi l'etere ambiente la Luna sia grandemente men denso della parte dell'aria vaporosa che circonda la Terra, posso io con chiara esperienzia far manifesto. I vapori intorno alla Terra sono di maniera densi, che il Sole posto vicinissimo all'orizonte illumina una muraglia, o altro corpo opaco oppostogli, molto debolmente in comparazione del lume che gli porgeva mentre per molti gradi era sopra l'orizonte elevato; e questa molto notabile differenza non può procedere, per mio credere, da altro, se non che i raggi del Sole nel tramontare hanno a traversare per lunghissimo spazio i vapori che la Terra circondano, dove che i raggi del Sole molto elevato per spazio più breve hanno a traversare i vapori tra il Sole e l'oggetto opaco interposti: che quando non ci fussero i vapori, ma l'aria fusse purissima, l'illuminazione del Sole sarebbe sempre del medesimo vigore, tanto da i luoghi sublimi quanto da i bassi, tuttavolta che nelle superficie da essere illuminate fussero con angoli eguali ricevuti. Onde, tuttavolta che noi potessimo far paragone di due luoghi posti nella Luna, all'uno de i quali i raggi solari pervenissero passando molto obliquamente per l'etere addensato intorno alla Luna, ed all'altro assai direttamente si conducessero, cioè per breve spazio camminassero per l'etere ambiente, e che noi scorgessimo le illuminazioni di amendue essere eguali o pochissimo differenti; senz'alcun dubbio potremmo affermare, l'etere ambiente la Luna o nulla o pochissimo più essere addensato che tutto il resto del purissimo etere. Ma tali due luoghi frequentemente li possiamo vedere: imperoché, posta la Luna intorno alla quadratura del Sole, considerando il termine che dissepara la parte illuminata da i raggi solari dall'altra tenebrosa, si veggono in questa tenebrosa alcune cuspidi di monti assai distaccate e lontane dal detto termine, le quali essendo illuminate dal Sole prima che le parti più basse, benché i raggi solari a quelle obliquamente pervenghino, nulladimeno lo splendore e il lume di quelle si mostra egualmente vivo e chiaro come qualsivoglia altra parte notata nel mezo della parte illuminata. E pure alla Cuspide distaccata pervengono i raggi solari, obliquamente segando l'etere ambiente, che ad altri luoghi notati nella parte illuminata direttamente o meno obliquamente pervengono; segno manifesto, assai piccolo essere l'impedimento che l'etere ambiente può dare alla penetrazione de' raggi solari, ed, in conseguenza, assai tenue essere il lume che da esso etere può la parte oscura della Luna ricevere.

Passo alla seguente instanza: “Insuper, si Terra solare lumen in Luna” etc. Poco fa il signor Liceti acutamente stimò che io, contro all'intenzion mia, corroborassi e confermassi una sua opinione, mentre io m'ingegnava di confermarne un'altra mia, dalla sua molto differente. Penso di essermi sincerato della inavvertenza placidamente impostami: non so se con altretanta evidenzia egli potrà sciogliersi da simile imputazione che mi pare che se gli possa fare, del destruggere egli una sua proposizione, mentre tenta di destruggere una mia, attenente all'istesso proposito di che si tratta. È la sua intenzione di voler provare, che il candore nel disco lunare non dependa dal reflesso de' raggi solari nella Terra, e dice “Se tal candore derivasse dal reflesso della Terra, non si farebbe l'eclisse solare; ma l'eclisse si fa adunque tal candore non procede dalla Terra”. Nell'assegnar poi la ragione, perché l'eclisse non dovesse farsi stante tal candore nella Luna, dice che ciò avverrebbe perché lo splendore o illuminazione di quello rischiarerebbe le tenebre, che senza quello si troverebbero nel cono dell'ombra lunare, e per esso in una parte della superficie terrestre. Ora, per tor via l'operazione di tal candore, bisogna tor via l'istesso candore, e per conseguenza, quando segue l'eclisse solare (la quale egli medesimo pure ammette seguire, e tanto oscura quanto la profonda notte), dire che tal candore non vi è: ma questo poi si tira dietro necessariamente il dovere affermare, che l'etere ambiente la Luna non la incandisce, conseguenza del tutto contraria a quella che il signor Liceti ha creduto e scritto. Ed aggiungo di più, che se giammai può esser potente il reflesso dell'etere a ripercuotere i raggi solari sopra l'emisferio della Luna, ciò farebbe egli massimamente, per essere allora la Luna nella massima propinquità, anzi nell'istessa puntuale congiunzione, col Sole; sì che da tutte le parti dell'etere circunfuso si farebbe tal reflessione, e perciò validissima. Il discorso dunque del Filosofo Eccellentissimo non meno toglie la posizione mia che la sua, posto però che egli direttamente proceda; ma la verità è che ei non perturba né la sua né la mia posizione, come appresso dirò. Dico dunque, che può benissimo essere che si faccia l'eclisse del Sole per l'interposizione della Luna, e che la oscurazione sia tale che permetta il vedersi le stelle, e che il candore nella Luna vi sia, e quanto più valido esser possa, senza però esser potente a proibire tale eclisse, e che finalmente nessuno di questi particolari favorisca o pregiudichi all'opinione tanto di chi lo attribuisce e giudica effetto del reflesso del lume terrestre, quanto di chi lo attribuisce al reflesso dell'etere ambiente la Luna. Imperoché già convenghiamo che il candore vi sia nel tempo dell'eclisse solare; tal che se ei fusse potente a vietare l'eclisse, tanto la vieterebbe derivando egli dalla Terra, quanto dall'etere ambiente la Luna: ma il volerlo far poi così efficace, che ci possa supplire al lume primario del Sole, sì che il cono dell'ombra lunare non possa macchiare ed oscurare quella parte della superficie terrestre che il medesimo cono ingombra, è veramente troppo gran domanda. Signore eccellentissimo, quel lume che in tale occasione può scorgersi in Terra, è un quarto, procedente dal primo dell'istesso Sole: il quale primo illumina l'ambiente della Luna, e questo secondo illumina il disco lunare, il quale come terzo, ha da illuminare la Terra onde il volere che questi, terzo compensi il primo, è veramente, come ho detto, domanda troppo ardita. Il dir poi che questo terzo lume, benché debile, accoppiato col massimo primario non lo indebolisca, lo concederei io liberamente, quando tal copula si facesse: ma la adombrazione che si fa in Terra è terminata e compresa dal cono dell'ombra lunare, per il quale cono non passano i raggi solari, ma sì bene quelli solamente del candore della Luna: sì che alla parte della Terra ottenebrata e macchiata dall'ombra lunare niente vi arriva di splendido, fuorché il reflesso del candore, cioè un reflesso di un altro reflesso di un altro reflesso, derivante da i raggi primarii del Sole, dei quali nessuno entra nel cono dell'ombra lunare a mescolarsi con quel lume tenuissimo che dal candore della Luna per entro il suo cono si va diffondendo. Che poi il corpo lunare densissimo, né sparso di maggior lume che quello del suo candore, possa indurre tal eclisse nel Sole, che le diurne tenebre permettano la vista delle stelle, non doverebbe molto favorire il discorso del signor Liceti mentre che egli afferma, essersi anco nell'aperto cielo, e nella maggior limpidezza del Sole, vedute stelle: e communemente non son elleno le costituzioni del crepuscolo e dell'aurora, di lume benché tanto diminuito, che permettono vedersi gran copia di stelle? E finalmente, chi dà tanta sicurtà all'eccellentissimo signore che ei possa resolutamente pronunziare che nel tempo della totale eclisse del Sole non si scorga il candor della Luna? Bisognerebbe che ei producesse testimonii degni di fede, li quali deponessero avere attentamente osservato e ricercato se tal candore si vegga, ed asserito poi non si vedere; ma non so che egli potesse trovare una tal testimonianza: ma ben più tosto, all'incontro, può essere che da alcuno vi sia stato tal candore veduto, il quale, ignorando la vera cagione del reflesso della Terra, abbia creduto, il corpo della Luna esser in parte trasparente ed atto ad esser penetrato, ed in qualche modo illuminato, da i raggi solari. Ma che tale trasparenza non sia nel globo lunare, ho io in altro luogo assai concludentemente dimostrato, ed in particolare dal vedersi manifestissimamente, scogli sopra la Luna, piccolissimi in comparazione di tutto il suo globo, spargere ombre oscurissime; argumento necessariamente concludente, la materia lunare, né anco di minima profondità, esser diafana. Se dunque è stato veduto nella totale eclisse la Luna alquanto lucida, e perciò stimata trasparente, questo non poteva derivare se non dal reflesso dell'emisferio terrestre, dal Sole illuminato, del quale solo restando piccola parte ottenebrata dal cono dell'ombra lunare, il rimanente, cioè la parte grandissima, ben continuava di conservare il candore nella Luna. Quanto poi a quello che il signor Liceti scrive, che un corpo lucido minore, congiunto con un lucido maggiore, non impedisce la sua illuminazione; per dichiarazione di che egli induce una fiaccola o una maggior famma ardente, copulata coi raggi del Sole, o vero due specchi, nel minor dei quali, collocato nei raggi solari da un altro maggiore siano reflessi i medesimi raggi, niente leva la illuminazione alla vista; qui liberamente confesso la mia incapacità, e duolmi assai di non poter cavare costrutto dal discorso che qui vien portato, il quale stimo che sia pieno di ben salda dottrina, e duolmi di non poterne esser partecipe: concederò bene il tutto, se però l'intenzione dell'Autore è stata quella che io conietturalmente posso imaginarmi.

Dico adunque che interamente presterò il mio assenso, che sopraggiungendo ad un gran lume un lume minore, detrimento nessuno può ad esso maggiore sopravenire dalla aggiunta del minore, tuttavolta che questo minore sia schietto e puro, e non congiunto con qualche corpo opaco, il quale con la sua opacità sia potente a impedire la strada per la quale viene il maggior lume. Mi dichiaro, stando nei medesimi termini dei quali si tratta. Intendasi la Luna, corpo densissimo, tenebroso per sé stesso e niente trasparente, esser interposta tra il Sole e la Terra: qui non è dubbio alcuno che ella all'opposito del Sole distenderà verso la Terra il cono della sua ombra, macchiando di tenebre tutta quella parte della terrestre superficie che resterà compresa dentro il cono dell'ombra lunare; e se altronde non gli sopraggiugne qualche altra illuminazione, tal macchia sarà oscurissima. Intendasi ora sopraggiugnere nella faccia della Luna, esposta alla vista della Terra, un tal qual si sia lume: se questo sarà potente quanto il lume dell'istesso Sole, senza dubbio caccierà le tenebre, e ridurrà tutto l'emisferio terrestre egualmente in ciascuna sua parte illuminato; ma se il sopravenente lume nella Luna sarà debole e quale è il suo candore in comparazione dell'istesso Sole qual lume potrà egli arrecare alla macchia scura cagionatavi dal corpo opacissimo di essa Luna? certo che molto piccolo. E quello che il signor Liceti dice del lume reflesso da uno specchio maggiore in un minore e da questo minore in un altro oggetto illuminato da' primarii raggi del Sole, e che questo lume reflesso non impedisca l'illuminazione del Sole, ciò sarebbe vero, quando questo minore specchio fusse non di materia densa ed opaca, sì che potesse, col proibire il transito a i raggi solari, produrre ombra, ma di un cristallo limpidissimo e trasparentissimo; ma quando fusse tale, né si illuminerebbe, né farebbe reflessione de' raggi che altronde gli sopraggiugnessero e lo ferissero. Per esser dunque il corpo lunare impenetrabilissimo da i raggi del Sole, produce ombra oscurissima in Terra, la quale viene, ma molto debilmente, diminuita dall'opposto nostro lunar candore.

Segue l'argumento tolto dall'apparizione di Venere di giorno, nelle seguenti parole: “Deinceps, quum Solis vicinia nihil impediat” etc.; e continuando pur nell'instituto di voler dimostrare che il candor della Luna non depende dal reflesso della Terra, premette le seguenti proposizioni. Prima, che il lume di Venere è tanto vivo, che la vicinanza del Sole, anco di mezo giorno, non l'offusca sì che vedere non la possiamo; anzi pure si scorge ella splendida, benché minore di quello che ella si mostra nelle tenebre della notte. Pone l'altra proposizione, la quale è che io affermo, la Terra non venire illustrata dal Sole manco che qualsivoglia pianeta, ed in conseguenza non meno che Venere. Aggiugne la terza proposizione, pur da me creduta e concessa, la quale è che il reflesso del lume terrestre sopra la Luna sia più illustre di quello che la Terra riceve dalla Luna. Le quali premesse io liberamente concedo tutte, ma non so poi dedurne la conclusione che il mio oppositore ne cava; cioè che da tali premesse ne segua in conseguenza, che la Luna prossima alla congiunzione del Sole dovesse, non meno che Venere, mostrarsi splendida nel mezo giorno. Io, per me, dalle due prime premesse, cioè dall'esser la Terra non meno illustrata dal Sole che Venere, e dal vedersi Venere di giorno, non saprei dedurne altri, se non che la Terra, non meno che Venere, dovrebbe esser visibile di giorno; conseguenza tanto vera, che non credo che alcuno vi ponga dubbio, ed io più d'ogni altro l'affermo. Dall'esser poi il reflesso del lume terrestre più gagliardo sopra la Luna che quel della Luna sopra la Terra, non capisco come ne debba seguire che il candor della Luna debba essere non inferiore allo splendore di Venere, procedente dall'illuminazione dei raggi primarii e diretti del Sole; e se tal consequenza dovesse aver luogo contro di me, converrebbe che il mio oppositore facesse constare che io avessi creduto e scritto che lo splendore della Terra fusse eguale allo splendore dell'istesso Sole, cosa che io giammai non ho detta, né pur pensata. Restano dunque verissime le premesse da me concedute, come vera anco la consequenza che da quelle direttamente si può dedurre, cioè che lo splendore di Venere è tanto superiore al candor della Luna, quanto i vivi e primarii raggi solari sono più illustri che i reflessi dalla superficie terrestre. E qui se alcuno logico volesse ridurre questo argumento in forma sillogistica, dubito che non pure ei incontrerebbe il quarto termine, ma anco il quinto. Imperoché né della Terra, come causa illuminante, né del candor della Luna, come effetto della illuminazione della Terra, niente si è parlato nele premesse; onde il dedurre che la Luna incandita dalla Terra dovesse vedersi di giorno, è conclusione sospesa in aria e che nulla ha da fare con la illuminazione del Sole sopra Venere e la Terra e con l'esser rese per ciò visibili di mezo giorno. In troppo oscura maniera veramente si deduce che la Luna, incandita dalla Terra, debba vedersi di mezo giorno ex quod Venere, illustrata dal Sole, di mezo giorno si scorge.

Passiamo all'altra seguente obiezione: “Amplius, in eclipsi lunari nullam, prorsus” etc. Quanto egli qui dice, gli concedo, cioè che nell'eclisse totale della Luna ella non riceva illuminazione alcuna dalla Terra, nella cui ombra ella resta immersa, né tampoco goda de i raggi diretti del Sole, i quali nel cono dell'ombra terrestre non penetrano; e finalmente gli concedo che il reflesso dell'etere ambiente la Luna gli porge quel poco di rossigno che la rende visibile, spezialmente in quella parte del suo limbo che è l'ultima a restar coperta dal cono dell'ombra terrestre: ma tutto questo, niente veggo che debiliti il mio detto, che il candore della Luna venga dalla Terra. Parmi bene di scorgere che il mio oppositore accortanmnte cerchi di imprimere nella mente del lettore, che lo abbia largamente conceduto, il medesimo candore essere effetto dell'etere ambiente la Luna, il che manifestamente apparisca mentre che nell'eclisse lunare, mancando il reflesso della Terra, e l'illuminazione de i raggi dlretti del Sole io ammetto quel tenue splendore bronzino che in parte della Luna si scorge; e perché questo è sommamente inferiore al candore argenteo nel novilunio, vorrebbe farlo diminuito ed in gran parte ammorzato dal dover passare egli per il cono dell'ombra terrestre: il quale effetto io asseverantemente dico esser vano e falso atteso che la illuminazione di un corpo splendido che va ad illustrare un corpo opaco, niente perde nel dover passare per un mezo diafano quanto si voglia sparso di tenebre; anzi le medesime tenebre faranno apparire più vivamente il ricevuto lume, cosa tanto chiara e nota che assai mi maraviglio di sentirla passare come ignota o non avvertita: ché ben sa il medesimo signor Liceti che tutti i lumi celesti che a noi si fanno visibili e spargono di qualche luce l'emisferio terrestre nella profonda notte, passano per il medesimo cono dell'ombra terrestre, e da quello acquistano vigore di maggiormente illuminarci e farcisi visibili. Concedesi dunque, la tintura di rame derivare dall'etere ambiente la Luna: dove anco non mi par necessario di porre nel corpo lunare quel tenue lume nativo, da mescolarsi come stima il signor Liceti con questo reflesso dell'ambiente. Imperoché, se quello vi fosse, nel mezo della massima eclisse, quando il centro della Luna cade nell'asse del cono dell'ombra, pure resterebbe essa Luna in qualche modo visibile mercé del suo proprio nativo lume: tuttavia io e molti altri insieme abbiamo del tutto perduto di vista il disco lunare in più di una delle totali eclissi.

Vengo finalmente all'ultima instanza: “Denique, nec illud omittam data positiones” etc. Continuando il signor Filosofo in volere in ogni maniera scuoprire l'impossibilità della mia opinione, s'ingegna di dimostrare come il reflesso della faccia terrestre in nessuna maniera può arrivare alla Luna; e per ciò dimostrare, introduce molte proposizioni da non esser da me così di leggiero concedute. E cominciando da questo capo, certo mirabil cosa è che i caldissimi e lucidissimi raggi solari, reflessi dalla Terra, e più incontrandosi ed unendosi con i primarii incidenti, come l'istesso signor Liceti afferma, non siano potenti a valicare la grossezza della media regione dell'aria ad essa vicinissima, ammortiti dalla frigidità di quella, la qual grossezza non arriva alla lunghezza di un miglio; e che poi i reflessi dalla Luna, distante dalla medesima media regione fredda assai più di cento mila miglia, ed anco soli e non accompagnati dai diretti raggi solari siano potenti a mantenersi così lucidi e caldi, che trapassando per quella abbiano forza di riscaldare l'aria contigua alla Terra ed al mare, per il qual calore le conchiglie testate, fomentate dal caldo dell'ambiente, possano più pienamente nutrirsi ed ingrassarsi. Ma che dallo ingrassamento di questi animali si possa argumentare augumento di calore nell'ambiente che li circonda, parmi, se io non erro, che con altrettanta o più ragione se ne potrebbe inferire accrescimento di freddezza, mentre che generalmente si scorge in tutti gli altri animail far miglior digestione, e più copiosamente cibarsi ed ingrassarsi nell'arie freddissime che nelle tiepide o calde: per lo che si può inferire, la grand'illuminazione della Luna nel plenilunio accrescere appresso di noi più tosto la frigidità che il calore, e tanto più, che è tritissima e popolare osservazione, ne i tempi che l'acque si congelano farsi i ghiacci notabilmente maggiori nelle notti del plenilunio, che quando il lume della Luna è diminuito. Ma ben so io che quello augumento di calore interno dell'animale, che il signor Liceti riconosce dall'accoppiamento del calore esterno dell'ambiente, qualche altro filosofo non meno confidentemente lo attribuirebbe al maggior freddo dell'ambiente, il quale per antiperistasi facesse concentrare il nativo calore interno.

Né devo qui tacere un'altra meraviglia non minore, che pure in questa maniera di filosofare si esercita; ed è che talvolta si assegnano per produrre il medesimo effetto cause tra loro diametralmente contrarie, né meno in altre occasioni si pone la medesima causa produrre effetti contrarii. Quanto al primo caso, ecco dell'istessa più forte digestione addursi per causa da alcuni il caldo dell'ambiente, e da altri il freddo. Quanto all'altro caso, il signor Liceti afferma qui, il medesimo lume di Luna esser caldo il quale in altro luogo asserì esser freddo, come si legge nelle seguenti parole poste nel libro De novis astris et cometis, alla faccia 127, versi 7: “Quin et lumen lunare nullo calore pollere, sed frigiditatem invehere, quilibet experitur.” Né forse è minor la contrarietà che il medesimo signore pone nel mezo ombroso, o vogliamo dire nel cono dell'ombra terrestre; il quale egli non nega che talvolta molto più splendidi ci mostri gli oggetti luminosi, mentre il lume loro deve trapassare per esso; ed altra volta pronunzia, il medesimo cono, mescolandosi con quel tenue lume della Luna prodotto dal suo etere ambiente e congiunto col suo nativo, l'offusca e rende men chiaro. E qui si scorge la sicurezza del puro fisico argumentare, poiché egualmente si adatta a render ragione di uno effetto tanto per una causa naturale, quanto per la contraria. Oltre a ciò, non veggo con qual confidenza possino gli accuratissimi signori filosofi fare il cielo e i corpi celesti soggetti a qualità ed accidenti di caldo e di freddo, mentre gli predicano per impassibili, inalterabili ed esenti da queste qualità elementari, sì che, partendosi i raggi dal corpo lunare, che pure è celeste, possano esser caldi e tali mantenersi nel trapassare quella parte del cielo della Luna che termina sopra la sfera elementare, e quindi ancora scorrere per il fuoco e per tutta la più alta regione dell'aria, e passare ancora di più la media freddissima, conservandosi sempre caldi: e che poi, all'incontro, il reflesso della Terra, la quale pur troppo sensatamente sentiamo riscaldarsi e quasi direi infiammarsi nel più ardente sole dell'estate, non esser bastante a trapassare la a sé vicinissima media regione, la cui sublimità, come ho detto, non arriva a un miglio di spazio, sì come il breve intervallo di tempo che tra il lampo del baleno ed il romor del tuono intercede, sicuramente ci insegna: oltre che, se si deve prestar fede a gli istorici, né le piogge, né le nevi, né le grandini, né i lampi, né i tuoni, né i fulmini, si fanno in maggior lontananza, mentre si dice, constare per la esperienzia, esser monti tanto eminenti, che la loro più eccelsa parte non è giammai offesa dai nominati insulti; e bene molto alto conviene che sia quel monte la cui perpendicolare altezza sia più di un miglio. Lascio stare che frequentemente si vede che dalla eminenza delle nostre più alte montagne si scorgono le pianure suggette, ed anco le minori colline, ricoperte da nuvole, sì che tal vista sembra quasi un mare nel quale in qua ed in là si scorgano surgere, quasi scogli, vertici di altri mediocri monticelli; ed in questa constituzione di nuvole cade talvolta la pioggia nelle pianure più basse.

Parmi, oltre di questo, di raccorre dal discorso del mio oppositore, che egli voglia mandar di pari lo scaldare e l'illuminare, sì che dove non arrivi il calore del corpo caldo e lucido, non vi deva anco arrivare l'illluminazione, e che però, non sendo possente il caldo che noi proviamo grandissimo nella Terra illuminata e riscaldata dal Sole, a varcare la fredda regione vaporosa dell'aria, né meno ciò possa fare il lume dalla medesima Terra reflesso. Tuttavia, se noi vorremo prestar fede al senso ed alla esperienza, troveremo che il lume di una grandissina fiamma di quantità grande di paglia o di sterpi che sopra una montagna abbruci, si distenderà ed arriverà a noi constituti in molto maggior lontananza di quella nella quale il caldo di essa fiamma ci si facesse sentire. Ma che accade che, per assicurarci del poter esser la strada del caldo differente da quella del lume, ricorriamo a fiamme poste sopra montagne, o ad altre esperienze più incommode a farsi? Accosti chi si voglia il dito così per fianco alla fammella di una candela accesa; certo non sentirà offendersi dal caldo, sinché per un brevissimo spazio non se gli accosta e che poco meno che non la tocchi: ma, per l'opposito, esponga la mano sopra la medesima fiammella; sentirà l'offesa del caldo in distanza ben cento volte maggiore di quell'altra per fianco: tuttavia l'illuminazione che dalla medesima fiammella deriva, per tutti i versi si diffonde, cioè in su, in giù, lateralmente, ed in somma per tutto, ed in lontananza più di cento mila volte maggiore, sfericamente si distende.

Parmi per tanto di poter sicuramente dire che lo scaldare e l'illuminare non vadiano del tutto con pari passo: ma ben credo di poter con sicurezza affermare, che l'illuminare ed il muover la vista vadano talmente congiunti, che dovunque arrivi il lume, di quivi si renda il corpo luminoso visibile; di maniera che il muovere il senso della vista, altro non sia che illuminare la pupilla dell'occhio, alla quale quando non pervenisse il lume, l'oggetto lontano, benché luminoso, veder non si potrebbe. Quando dunque conforme a quello che scrive il signor Liceti, il reflesso del lume terrestre, come quello che, per suo detto, va di pari col calore, non si estendesse oltre alla media regione dell'aria, resterebbe in conseguenza la Terra invisibile dall'occhio posto oltre alla detta media regione, come che quivi non arrivasse il lume, che solo è potente a fare il corpo luminoso visibile; ed in oltre parte alcuna della Terra non verrebbe da noi veduta la quale più di un miglio o due ci fusse remota, ché oltre a tale altezza non si estende la grossezza della media regione dell'aria. Ma io difficilmente potrei accomodar l'intelletto al prestar assenso a una tal proposizione e massime mentre che il senso mi rende visibili pur piccole parti della Terra illuminata in lontananza di più di cento miglia, avvenga che da un luogo molto alto si scorgeranno altre montagne ed isole non meno che cento miglia lontane; e la Corsica e talora la Sardigna ben si veggono dai colli intorno a Pisa, e più distintamente ancora dalli scogli eminentissimi di Pietrapana; e da i monti della Romagna ben si scorgono, oltre al sino Adriatico, quelli della Dalmazia. E sì come noi qui di Terra vegghiamo la Luna luminosa così tengo per modo sicuro che dalla Luna e grandissima e luminosissima si scorgerebbe la Terra, in quella parte dai raggi solari illustrata, ed in conseguenza che la medesima Luna da essa Terra verrebbe illuminata.

Ma passo ad una proposizione forse molto a proposito per il mantenimento della mia opinione, e per la quale nel medesimo tempo si scorga, non piccola esser la differenza tra l'illuminazione ed il riscaldamento dei raggi solari. E prima, l'illuminazione si fa in un istante; ma il riscaldare non così, ma ci vuol tempo e non breve: e parimente, all'incontro, si toglie via l'illuminazione in un istante: ma non si estingue il conceputo caldo se non con tempo. Non molta si ricerca che sia la densità della materia per potere essere egualmente illuminata come qual si voglia densissima; onde veggiamo bene spesso tenui nugole non meno vivamente illuninate da i raggi solari, che se fussero vastissime montagne di solidi marmi; e bene possiamo noi chiamar piccola la densità di tali nugole in rispetto a quella di una montagna di marmi, ancorché la medesima densità sia molto grande in comparazione di quella dell'aria vaporosa, mentre che la medesima nugola, se fusse interposta tra il Sole e noi, ci torrebbe la vista di esso, cosa che non la fa l'aria vaporosa. Ma, all'incontro, quanto al concepire il caldo, massima si trova la differenza tra le materie di diversa densità; ché molto più si scaldano i densi metalli e le pietre, che il men denso legno o altre materie più rare. L'illuminazione, oltre al farsi in instanti, si estende per intervallo dirò quasi che infinito, ché ben tale si può chiamare quello delle innumerabili piccolissime stelle fisse, le quali, essendo dalla vista nostra libera impercettibili, pur visibili si rendono con l'aiuto del telescopio; argumento necessario che l'illuminazione di quelle sino a Terra si conduce, ché se ciò non fusse vero, tutti i cristalli del mondo visibile non le renderebbono: non so poi se il caldo loro in altrettanta lontananza così sensibile possa rendersi. Non piccola dunque è la differenza tra l'illuminare e lo scaldare: tuttavia amendue tali impressioni non si vede che possano essere ricevute se non in materie, come si è detto, che ritengano qualche densità: ché le tenuissime, rarissime e diafanissime, quali si tiene che siano l'aria pura e l'etere purissimo, veramente non si illuminano né si riscaldano, effetto che anco dalla esperienza ci può esser dimostrato, ancorché far nulla possiamo né nel purissimo etere né nell'aria schietta e sincera, avvengaché nella mista e turbata da i vapori continuamente ci ritroviamo. Tuttavia in questa ancora gli effetti dello illuminarsi e scaldarsi non si veggono esser se non debolissimi, come chiaramente ci mostrano i raggi solari dal sopradetto grande specchio concavo ripercossi, i quali né illuminano né scaldano l'aria compresa dal cono, come di sopra si è dichiarato. Che poi né l'aria pura né il purissimo etere si iiluminino, ce lo mostrano le profonde notti: imperoché, non restando di tutto l'elemento dell'aria altro non tocco dal Sole che la piccola parte compresa dentro al cono dell'ombra della Terra, e talvolta qualche altra minor particella ingombrata dalle ultime parti del cono dell'ombra lunare, sicuramente quando tutto il restante fusse illuminato, averemmo un perpetuo crepuscolo, e non mai profonde tenebre.

Concludo per tanto, che non si imprimendo il caldo, mercé de' raggi solari, se non in materie solide, dense ed opache, o che almeno partecipino tanto di densità che non diano il transito totalmente libero ai medesimi raggi solari, il caldo che noi proviamo è quello che la Terra e gli altri corpi solidi riscaldati ci somministrano; il qual calore può esser che non si elevi tanto sopra la Terra che possa tor via la freddezza di quella regione vaporosa nella quale si generano le pioggie, le nevi e le altre meteorologiche impressioni. Può dunque il calore del reflesso de' raggi solari nella Terra non transcendere la media regione vaporosa e fredda, ma ben l'illuminazione trapassar questa ed arrivare sino alla Luna, e per distanza anco molte e molte volte maggiore.

Oltre che, se io devo liberamente confessare la mia poca scienza fisica, dirò di non sapere né intender punto come tali impressioni si faccino; e quando io mi ristringo in me medesimo per vedere se io potessi penetrarne alcuna, mi ritrovo in una immensa oscurità e confusione. Io non ho mai inteso, né credo di esser per intendere, in qual maniera, doppo essere stati mesi e mesi senza pur vedersi una nuvola, possa improvvisamente in brevissimo tempo spargersene sopra un gran tratto di terra, e quindi precipitosamente cadervi milioni di barili di acqua; ed altra volta comparire altre simili nugole, e poco dopo dissolversi senza diffondere una minima stilla. Che io intenda per fisica scienza come tra le tenui e molli nuvole si produchino suoni e strepiti così immensi quanto sono i tuoni, mentre che il filosofo vuol che io creda, alla produzion del suono esser necessaria la collisione de' corpi solidi e duri, absit che io ne possa restar capace. Ma per non entrare in un pelago infinito di problemi a me insolubili, voglio far qui fine, senza però tacere la veramente ingegnosa comparazione che lo eruditissimo signor Liceti, dirò, con leggiadro scherzo poetico, pone tra la Luna e la pietra lucifera di Bologna; cioè che essa Luna, immergendosi nell'ombra della Terra, conservi per qualche tempo la tenue luce imbevuta o dal Sole o dall'etere suo ambiente, la qual luce svanisca dopo qualche dimora nell'ombra. Io veramente ammetterei questo pensiero, se non ni conturbasse la diversa maniera che tengono nel recuperare la luce smarrita e la Luna e la pietra: imperocché la Luna nello allontanarsi dal mezo del cono dell'ombra comincia a recuperare quello smarrito lume molto prima che ella scappi fuori dell'ombra e torni a godere di quel maggior lume dal quale ella fu ingravidata; effetto che non così accade nella pietra, alla quale per concepire il lume non basta l'avvicinarsi a quel maggior lume che ha da illustrarla, ma le bisogna per assai spazio di tempo soggiacergli, e così concepire la luce, da conservarsi poi per altro breve tempo nelle tenebre.

Circa quello che in ultimo soggiugne, del farsi l'ombre maggiori dal Sole basso che dall'alto, non ho che dirci altro se non che mi pare che egli altra volta negasse cotale efetto, ma che pure, benché falso, stimava di poterne render ragione non meno che se fusse vero, come egli con assai lunga ed accurata scrittura fece. E qui parimente si scorge la gran fecondia delle fisiche dimostrazioni, delle quali non ne mancano per dimostrare tanto le conclusioni vere quanto le false. Ma nel presente caso, se le ragioni addotte son concludenti, è necessario che la conclusione sia vera: e se è vera, perché negarla o metterla in dubbio? e se le ragioni prodotte non son concludenti, perché produrle?

So, Serenissimo Principe, che troppo averò tediata l'Altezza Vostra con questo mio lungo discorso; ma il suo benigno invito, e la necessità che avevo di sincerarmi appresso il mondo e purgarmi dalle imputazioni attribuitemi da questo famoso filosofo, mi hanno porto libertà di fare quello che ho fatto. E se bene il signor Liceti publicando con le stampe, ha contro di me parlato con tutto il mondo, voglio che a me basti il portar le mie difese nel cospetto solo dell'Altezza Vostra Serenissima, il cui assenso agguaglio a quello di tutto il mondo; benché io non possa negare che riceverei anche per mia gran ventura se le fussero sentite o lette da i filosofi e letterati di cotesta fioritissima Accademia, da i quali spererei aver assenso ed applauso alle mie giustificazioni, poiché esse non procedono contro alla peripatetica filosofia, ma contro ad alcuno di quelli i quali la filosofia e la aristotelica autorità oltre a i limitati termini vogliono estenderla, e con essa farsi scudo contro alle opposizioni di qualsivoglia altro che pur razionabilmente discorra. Del guadagnarmi poi l'assenso di tutti i filosofi di cotesta Accademia, gran caparra me ne porge l'eccellentissimo signor Alessandro Marsilii, della cui graziosissima conversazione ho, non molti anni sono, goduto per cinque mesi continui che mi trovai in Siena in casa l'illustrissimo e reverendissimo Monsignore Arcivescovo Piccolomini, dove giornalmente avemmo discorsi filosofici. Questo signore in particolare nomino io all'Altezza Vostra Serenissima per la lunga pratica che ho avuta con Sua Signoria eccellentissima; e come da questo mi prometto l'assenso, così me lo prometto da ogni altro che con occhio sincero vorrà riguardare le imputazioni fattemi e le mie difese. E qui umilmente inchinandomeli, le bacio la veste, e le prego da Dio il colmo di ogni felicità.

 

Di Arcetri l'ultimo di Marzo 1640.

Dell'Altezza Vostra Serenissima

 

Umilissimo e Devotissimo Servitore

Galileo Galilei


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APPENDICE

 

SENTENZA

 

“Roma, 22 giugno 1633.
Noi Gasparo del tit. di S.Croce in Gerusalemme Borgia;
Fra Felice Centino del tit. di S.Anastasia, detto d'Ascoli;
Guido del tit. di S.Maria del Popolo Bentivoglio;
Fra Desiderio Scaglia del tit. di S. Carlo, detto di Cremona;
Fra Ant.o Barberino. Detto di S.Onofrio;
Laudivio Zacchia del tit. di S.Pietro in Vincoli, detto di S.Sisto;
Berlingero del tit. di S. Agostino Gesso;
Fabricio del tit. di S.Lorenzo in Pane e Perna Verospio: chiamati Preti;
Francesco del tit. di S.Lorenzo in Damaso Barberino; e
Marzio di S.ta Maria Nova Ginetto: Diaconi;
per la misericordia di Dio, della S.ta Romana Chiesa Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l'eretica pravità Inquisitori generali della S.Sede Apostolica specialmente deputati;

Essendo che tu, Galileo fig.lo del q.m. Vinc.o Galilei, Fiorentino, dell'età tua d'anni 70, fosti denunziato del 1615 in questo S.o Off.o, che tenevi come vera la falsa dottrina, da alcuni insegnata, ch'il Sole sia centro del mondo e imobile, e che la Terra si muova anco di moto diurno; ch'avevi discepoli, a' quali insegnavi la medesima dottrina; che circa l'istessa tenevi corrispondenza con alcuni mattematici di Germania; che tu avevi dato alle stampe alcune lettere intitolate Delle macchie solari, nelle quali spiegavi l'istessa dottrina come vera; che all'obbiezioni che alle volte ti venivano fatte, tolte dalla Sacra Scrittura, rispondevi glosando detta Scrittura conforme al tuo senso; e successivamente fu presentata copia d'una scrittura, sotto forma di lettera, quale si diceva esser stata scritta da te ad un tale già tuo discepolo, e in essa, seguendo la posizione del Copernico, si contengono varie proposizioni contro il vero senso e autorità della sacra Scrittura;

Volendo per ciò questo S.cro Tribunale provedere al disordine e al danno che di qui proveniva e andava crescendosi con pregiudizio della S.ta Fede, d'ordine di N. S.re e del'Eminen.mi e Rev.mi SS.ri Card.i di questa Suprema e Universale Inq.ne, furono dalli Qualificatori Teologi qualificate le due proposizioni della stabilità del Sole e del moto della Terra, cioè:

Che il Sole sia centro del mondo e imobile di moto locale, è proposizione assurda e falsa in filosofia, e formalmente eretica, per essere espressamente contraria alla Sacra Scrittura;

Che la Terra non sia centro del mondo né imobile, ma che si muova eziandio di moto diurno, è parimente proposizione assurda e falsa nella filosofia, e considerata in teologia ad minus erronea in Fide.

Ma volendosi per allora procedere teco con benignità, fu decretato dalla Sacra Congre.ne tenuta avanti N.S. a' 25 di Febr.o 1616, che l'Emin.mo S. Card. Bellarmino ti ordinasse che tu dovessi omninamente lasciar detta opinione falsa, e ricusando tu di ciò fare, che dal Comissario di S. Off.io ti dovesse esser fatto precetto di lasciar la detta dotrina, e che non potessi insegnarla ad altri, né difenderla né trattarne, al qual precetto non acquietandoti, dovessi esser carcerato; e in essecuzione dell'istesso decreto, il giorno seguente, nel palazzo e alla presenza del sodetto Eminen.mo S.r Card.le Bellarmino, dopo esser stato dall'istesso S.r Card.le benignamente avvisato e amonito, ti fu dal P. Comissario del S. Off.o di quel tempo fatto precetto, con notaro e testimoni, che omninamente dovessi lasciar la detta falsa opinione, e che nell'avvenire tu non la potessi tenere né difendere né insegnar in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto: e avendo tu promesso d'obedire, fosti licenziato.

E acciò che si togliesse così perniciosa dottrina, e non andasse più oltre serpendo in grave pregiudizio della Cattolica verità, uscì decreto della Sacra Congr.ne dell'Indice, col quale furono proibiti li libri che trattano di tal dottrina, e essa dichiarata falsa e omninamente contraria alla Sacra e divina Scrittura.

E essendo ultimamente comparso qua un libro, stampato in Fiorenza l'anno prossimo passato, la cui inscrizione mostrava che tu ne fosse l'autore, dicendo il titolo Dialogo di Galileo Galilei delli due Massimi Sistemi del mondo, Tolemaico e Copernicano; ed informata appresso la Sacra Congre.ne che con l'impressione di detto libro ogni giorno più prendeva piede e si disseminava la falsa opinione del moto della terra e stabilità del Sole; fu il detto libro diligentemente considerato, e in esso trovata espressamente la transgressione del predetto precetto che ti fu fatto, avendo tu nel medesimo libro difesa la detta opinione già dannata e in faccia tua per tale dichiarata, avvenga che tu in detto libro con varii ragiri ti studii di persuadere che tu lasci come indecisa e espressamente probabile, il che pur è errore gravissimo, non potendo in niun modo esser probabile un'opinione dichiarata e difinita per contraria alla Scrittura divina.

Che perciò d'ordine nostro fosti chiamato a questo S. Off.o, nel quale col tuo giuramento, essaminato, riconoscesti il libro come da te composto e dato alle stampe. Confessasti che, diece o dodici anni sono incirca, dopo esserti fatto il precetto come sopra, cominciasti a scriver detto libro; che chiedesti la facoltà di stamparlo, senza però significare a quelli che ti diedero simile facoltà, che tu avevi precetto di non tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo tal dottrina.

Confessasti parimente che la scrittura di detto libro è in più luoghi distesa in tal forma, ch'il lettore potrebbe formar concetto che gl'argomenti portati per la parte falsa fossero in tal guisa pronunziati, che più tosto per la loro efficacia fossero potenti a stringer che facili ad esser sciolti; scusandoti d'esser incorso in error tanto alieno, come dicesti, dalla tua intenzione, per aver scritto in dialogo, e per la natural compiacenza che ciascuno ha delle proprie sottigliezze e del mostrarsi più arguto del comune de gl'uomini in trovar, anco per le proposizioni false, ingegnosi e apparenti discorsi di probabilità.

E essendoti stato assegnato termine conveniente a far le tue difese, producesti una fede scritta di mano dell'emin.mo S.r Card.le Bellarmino, da te procurata, come dicesti, per difenderti dalle calunnie de' tuoi nemici, da' quali ti veniva opposto che avessi abiurato e fossi stato penitenziato, ma che ti era solo stata denunziata la dichiarazione fatta da N. S.e e publicata dalla Sacra Congre.ne dell'Indice, nella quale si contiene la dottrina del moto della terra e della stabilità del sole sia contraria alle Sacre Scritture, e però non si possa né difendere né tenere; e che perciò, non si facendo menzione in detta fede delle due particole del precetto, cioè docere e quovis modo, si deve credere che nel corso di 14 o 16 anni n'avevi perso ogni memoria, e che per questa stessa cagione avevi taciuto il precetto quando chiedesti licenza di poter dare il libro alle stampe, e che tutto questo dicevi non per scusar l'errore, ma perché sia attribuito non a malizia ma a vana ambizione. Ma da detta fede, prodotta da te in tua difesa, restasti maggiormente aggravato, mentre, dicendosi in essa che detta opinione è contraria alla Sacra Scrittura, hai non meno ardito di trattarne, di difenderla e persuaderla probabile; né ti suffraga la licenza da te artifiziosamente e calidamente estorta, non avendo notificato il precetto ch'avevi.

E parendo a noi che tu non avessi detto intieramente la verità circa la tua intenzione, giudicassimo esser necessario venir contro di te al rigoroso essame; nel quale senza però pregiudizio alcuno delle cose da te confessate e contro di te dedotte come di sopra circa la detta tua intenzione, rispondesti cattolicamente.

Pertanto, visti e maturamente considerati i meriti di questa tua causa, con le sodette tue confessioni e scuse e quanto di ragione si doveva vedere e considerare, siamo venuti contro di te alla infrascritta diffinitiva sentenza.

Invocato dunque il S.mo nome di N. S.re Gesù Cristo e della sua gloriosissima Madre sempre Vergine Maria; per questa nostra diffinitiva sentenza, qual sedendo pro tribunali, di consiglio e parere de' RR Maestri di Sacra Teologia e Dottori dell'una e dell'altra legge, nostri consultori, proferimo in questi scritti nella causa e nelle cause vertenti avanti di noi tra il M.co Carlo Sinceri, dell'una e dell'altra legge Dottore, Procuratore fiscale di questo S.o Off.o, per una parte, a te Galileo Galilei antedetto, reo qua presente, inquisito, processato e confesso come sopra, dall'altra;

Diciamo, pronunziamo sentenziamo e dichiaramo che tu, Galileo sudetto, per le cose dedotte in processo e da te confessate come sopra, ti sei reso a questo S.o Off.o veementemente sospetto d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch'il sole sia centro della terra e che non si muova da oriente ad occidente, e che la terra si muova e non sia centro del mondo, e che si possa tener e difendere per probabile un'opinione dopo esser stata dichiarata e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura; e conseguentemente sei incorso in tutte le censure e pene dai sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Dalle quali siamo contenti sii assoluto, pur che prima, con cuor sincero e fede non finta, avanti di noi abiuri, maledichi e detesti li sudetti errori e eresie, e qualunque altro errore e eresia contraria alla Cattolica e Apostolica Chiesa, nel modo e forma da noi ti sarà data.

E acciocché questo tuo grave e pernicioso errore e transgressione non resti del tutto impunito, e sii più cauto nell'avvenire e essempio all'altri che si astenghino da simili delitti. Ordiniamo che per publico editto sia proibito il libro de' Dialoghi di Galileo Galilei.

Ti condaniamo al carcere formale in questo S.o Off.o ad arbitrio nostro; e per penitenze salutari t'imponiamo che per tre anni a venire dichi una volta la settimana li sette Salmi penitenziali: riservando a noi facoltà di moderare, mutare o levar in tutto o parte, le sodette pene e penitenze.

E così diciamo, pronunziamo, sentenziamo, dichiariamo, ordiniamo e reservamo in questo e in ogni altro meglior modo e forma che di ragione potemo e dovemo.

Ita pronun.mus nos Cardinales infrascripti:

 

F. Cardinalis de Asculo.

G. Cardinalis Bentivolus.

Fr. D. Cardinalis de Cremona.

Fr. Ant.s Cardinalis S. Honuphrii

B. Cardinalis Gipsius.

F. Cardinalis Verospius.

M. Cardinalis Ginettus.

 

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ABIURA

 

Io Galileo, fig.lo del q. Vinc.o Galileo di Fiorenza, dell'età mia d'anni 70, constituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Emin.mi e Rev.mi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l'eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl'occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l'aiuto di Dio crederò per l'avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la S.a Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Off.io, per aver io, dopo d'essermi stato con precetto dall'istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia il centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d'essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l'istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova;

Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d'ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, e eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l'avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simile sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d'eresia lo denonzierò a questo S. Offizio, o vero all'Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.

Giuro anco e prometto d'adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da' sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio m'aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani,

Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633.

 

Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria.

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