"Nei monti di Berzo si ritrova una chiesetta, sotto della quale s'attrova una caverna rotonda, con altare in mezzo; nella superiore si celebra, vi è dipinta l'effiggie di Santo Glisente, dedicata a Dio sotto l'invocatione di questo Santo; pure nel coro di Sant Lorenzo antica parochiale stà depinta la vita di questo asserto Santo, così lo chiamano i popoli, con habito d'eremita, con una pecorella che lo nutriva del suo latte, et un orsa che li recava pomi et radici d'herbe; dice il volgo fosse soldato di Carlo Magno, e si ritrovano alcune memorie nella terra di Civedate e di Monno che dicono Carlo Magno pasasse per questa Valle miserabile con tremila lanze e otto vescovi e vi edificasse chiese e li vescovi concedessero molte indulgenze". Così annotava frettoloso e con trasparente scetticismo l'ex parroco di Berzo don Paolo Benvenuto Bona (Breno 1602 1670 e.), autorevole tonsurato da poco uscito pressoché indenne dalla turbolenta questione degli oratori pelagini, in una scheletrica lettera redatta sotto la data del 3 luglio 1662, indirizzata all'eruditissimo Bernardino Faino, strenuo cacciatore di rilucenti lapislazzuli agiografici ed infaticabile cesellatore di medaglioni raffiguranti le molteplici sfumature e le infinite sembianze della santità bresciana. Il pensieroso monsignor Bona, sempre più indebolito ed esacerbato dai ripetuti attacchi di una intestardita "indispositione d'obstruttione hipocondriaca", ascrivibile al suo personale genio di "humor malinconico", aggiungeva di aver investigato "molto, ma sempre indarno e senza frutto" sulle tracce del Santo casereccio, persino soggiornando indaffarato tra i rigogliosi scaffali della "libraria Ambrosiana di Milano", al fine di "promovere la devozione di questo asserto Santo" fatto oggetto sì di diffusa venerazione, "mà popolare e senza fondamento". Nessun risultato ebbero a dare gli scavi condotti dietro l'ancona della chiesa di San Lorenzo, se non quello di mettere in luce "alcuni ossicini in una cassettina, ma senza nome e senza scrittura". Posta a 1956 metri, al margine più basso del cacumine arrotondato della Colma di San Glisente (m. 2160) cui si perviene ansimanti dopo una lunga ascesa, allietata dalla singolare bellezza dei luoghi e dal progressivo aprirsi del panorama su una dilettevole porzione della Valle Camonica e su una sfavillante cerchia di montagne, l'antichissima chiesetta, dal profilo a capanna, presenta un'architettura improntata a rigorosa semplicità e rusticità, senza alcun notabile dettaglio, in stridente contrasto con la palpabile grandiosità del luogo. L'interno, estremamente povero, rimesso a nuovo e lindamente dealbato, è diviso in due campate. Raggiungibile percorrendo un lungo cunicolo, sotto la chiesa si insinua ben conservata una cripta (assegnata dagli studiosi a periodo oscillante tra i secoli XI e XV) il cui ambiente principale -munito di avanzo d'altare- è sorretto da quattro colonnine di granito, esili ed eleganti. La cappelletta si trova segnalata già agli inizi del Duecento. La prima notizia della sua esistenza si ricava da una carta di perinuta, rogata dal notaio Pietro da Esine sotto il giorno di giovedi 21 aprile 1222, con la quale gli "officiales et elericos" della chiesa della Santissirna Trinità di Esine -tali Galliciano, Meliorato, Teutaldo e Giovanni- cedono al compaesano Marcio de Castello un campetto ubicato a cavallo tra i censuari di Berzo e Bienno, più precisamente "ubi dicitur Pontesellum" confinante "a mane et a sero ecelesiae Sancti Glisentini" (con un terreno di proprietà della chiesetta, dunque), ricevendo in pagamento la cinquantesima parte del monte Varesagna di Esine nonchè un'area coltivata a prato situata entro le pertinenze di detta montagna, in località "Bosechum". L'acquisita porzione della Varesagna risulta ancora in proprietà della SS. Trinità il 16 aprile 1606 quando un terreno posto nelle vicinanze venne locato a Giovanni Sibaldi di Bovegno, malghese del nobile veneziano Giovanni Emo, abate dei Santi Gervasio e Protasio di Clusane.