Libero

Dibattito sul tema "Che cosa significa oggi essere illuministi".

Interventi di: Eugenio Scalfari il 3 dicembre 2000, Franco Volpi (8 dicembre), Sebastiano Maffettone (30 dicembre), Umberto Eco (31 dicembre), Sergio Givone (2 gennaio 2000), Gianni Vattino (4 gennaio), Roberto Esposito (6 gennaio), Sergio Moravia (10 gennaio), Carlo Bernardini (12 gennaio), Giancarlo Bosetti (18 gennaio), Norberto Bobbio (25 gennaio), Ralf Dahrendorf (31 gennaio).

 

Il nostro secolo senza Lumi
 


di EUGENIO SCALFARI

SI APRE con un saggio intitolato "Il contro Illuminismo" il libro Controcorrente di Isaiah Berlin uscito da poco nelle librerie in versione italiana (Adelphi) e si chiude con una cinquantina di pagine sul "Nazionalismo-negligenza passata e potenza presente": un inizio e una conclusione che colpiscono in questo storico delle idee che è stato uno dei pensatori più significativi del Novecento.
I due scritti sono stati composti uno a ridosso dell' altro nei primi anni Settanta e sembrano di oggi tanto è intensa la loro attualità.
L'autore, almeno in apparenza, non esprime giudizi di valore propri né sulle tesi degli anti-illuministi né su quelle dei nazionalisti; si limita a scavare ed esporre il pensiero degli uni e degli altri, che appartengono in realtà al medesimo filone: il romanticismo dello "Sturm und Drang", la "Kultur" tedesca, l'organicismo delle culture localistiche, dei retaggi, dei vincoli del sangue e della terra con le loro variazioni che vanno dal più spinto anarchismo individualistico al vitalismo e al culto della potenza e del carisma del Capo.

Berlin non prende partito: descrive come farebbe un magistrale entomologo, deidealizza le posizioni e ne mostra l’essenza profonda e le implicazioni che dal piano delle idee tracimano in quello dei fatti. Al nazionalismo, del quale acutamente segnala una ripresa vigorosa proprio in anni nei quali ne veniva sancita una quasi definitiva scomparsa, riserva anche critiche severe e preoccupazioni profonde; contemporaneamente però riconosce la forza di quelle idee, di quei movimenti di pensiero (e di fatti) che ha in Fichte e in Herder i suoi primi protagonisti e che si dipana quasi senza interruzioni dalla seconda metà del XVIII secolo fino ai giorni nostri.
La scelta dei temi di questo libro, il titolo che l’autore gli ha anteposto (Against the current), l’interpretazione che ne dà l’autore dell’introduzione, Roger Hansheer, che Berlin calorosamente ringrazia «per aver fornito un’esposizione così partecipe e limpida delle mie idee», mi fanno arrischiare un’ipotesi: che cioè il cuore di Berlin — se di cuore si può parlare discutendo della storia delle idee, ma perché no? — stia piuttosto dalla parte dei romantici che non da quella dei «philosophes».
A suffragare questa ipotesi ci sono due assenze nel libro che pesano quanto le presenze che vanno da Machiavelli a Vico a Sorel a Herzen e a tutta la vastissima platea dell’irrazionalismo volontaristico dell’Otto — Novecento.
La prima e più vistosa assenza è proprio quella dell’Illuminismo e della triade dei suoi maggiori protagonisti francesi, Voltaire, Diderot, Rousseau, ai quali si deve aggiungere la triade inglese di Hume, Locke, Newton. Berlin lascia il campo a quella vera e propria caricatura dell’Illuminismo costruita dai suoi avversari e diventata una «vulgata» rilanciata perfino dal Croce: e cioè il carattere del tutto astratto, utopistico, deterministico, illusoriamente calato dall’alto come una gabbia sulla spontaneità e la vitale differenza delle culture che sarebbe stato il tratto determinante della civiltà dei Lumi.
Mi si potrà obiettare che in una rassegna delle idee «controcorrente» non c’era posto per l’Illuminismo che rappresenta qui il bersaglio colpito e non la freccia che colpisce. Evidentemente è proprio questo il criterio che ha guidato la scelta dell’autore e la costruzione del libro.
Ma qui mi pare si debba cogliere un primo errore di Berlin o perlomeno un varco vistoso alla sua pretesa oggettività di analista: quando egli scriveva quei saggi la cultura dominante non era già più — e da gran tempo — il razionalismo dei Lumi bensì appunto il volontarismo irrazionale sboccato nell’esistenzialismo prima (subito dopo la seconda guerra mondiale) e nel nichilismo compiuto poi o tutt’al più nella cultura dell’Essere d’impronta heideggeriana.
La scienza — è vero — e l’adorazione della tecnologia hanno assunto negli ultimi decenni del secolo appena trascorso un peso prima sconosciuto e la scienza è certamente razionalità e uso di metodiche deduttivoinduttive che fanno perno sul principio di causalità.
In qualche modo l’egemonia del pensiero scientifico potrebbe testimoniare il riaccendersi della fiamma illuministica e quindi, per chi vuole produrre una saggistica «controcorrente», giustificherebbe la scelta dell’Illuminismo come bersaglio e del volontarismo irrazionale e romantico come la freccia contundente di cui si esaminano la natura, le ascendenze e le filiazioni ideali.
Ma, a ben guardare, le cose non stanno affatto così. Il pensiero scientifico contemporaneo è ormai ben lontano dal classicismo newtoniano ancorato alla causalità e al principio di contraddizione: ha scoperto invece la casualità, il relativismo, il principio di indeterminazione, la coesistenza di isole di elementi «ordinati» galleggianti in un ambiente di forze caotiche e permanentemente insidiate dal caos incombente. Sostenere che questo particolare tipo di pensiero scientifico derivi dall’Illuminismo dei «philosophes» e ne segnali una reviviscenza contro la quale valga la pena di sostenere l’irrazionalismo dei romantici rivalutandone la ribellione ad un’egemonia dominante è quantomeno azzardato.
D’altra parte l’operazione cultura di Isaiah Berlin nei confronti del pensiero dei Lumi trascura, secondo me, un aspetto di importanza capitale: dal punto di vista della storia delle idee se c’è stato un pensiero di rottura col passato, con le tradizioni consolidate da secoli, con i tabù, questo è stato il pensiero dei Lumi in tutte le sue variegate correnti.
La «Kultur» romantica o più semplicemente arcaica del sangue e della terra ha dominato il mondo per secoli anzi per millenni in tutte le latitudini del pianeta e purtroppo lo domina tuttora. Etichettare quel modo di sentire ancor prima che di pensare come un coraggioso recupero d’una concretezza storica smarrita e una liberazione salutare dalla gabbia «cimmerica» (come disse Goethe) apprestata dai «philosophes» è, questa sì, una caricatura storica che non va considerata con indulgenza ma demistificata con ferma consapevolezza. Il mondo moderno soffre non per un eccesso, ma per un drammatico deficit di razionalità; la razionalità è minoritaria, la razionalità è controcorrente, la razionalità meriterebbe un’azione filosofica e storica di recupero.
Ma soprattutto merita (e qui non uso un condizionale ottativo) che si faccia giustizia delle caricature con le quali la si vuole dipingere e la si riporti a quello che in effetti è stata nella storia del pensiero moderno che per le sue parti valide e tuttora vitali affonda nel Settecento dei «philosophes», nel Seicento di Descartes, di Spinoza e di Galileo, nel Cinquecento di Montaigne le sue radici più profonde e più nutritive.

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Non è certo in un articolo di giornale che si possa affrontare un tema di questa vastità che del resto ha avuto i suoi interpreti, i suoi critici, gli storici che ne hanno narrato la nascita, lo sviluppo e gli effetti, i filosofi che ne hanno esaminato le derivazioni e l’influenza sul pensiero successivo.
Vorrei ricordare a questo proposito che Kant trae gran parte delle sue radici dalla cultura illuministica, che tutta la grande fase dell’economia classica, dai fisiocratici ad Adam Smith, a Ricardo e a Malthus, ne costituisce parte integrante e che lo stesso Nietzsche indica in Voltaire uno dei suoi punti di riferimento.
Lo dico qui di passata, ma mi ha colpito che nel saggio «Il contro Illuminismo» di Berlin si parli di tutti coloro, maggiori e minori, che illustrarono l’irrazionalismo, il volontarismo, il vitalismo, con una completezza ed una scrupolosità inappuntabili, ma il nome di Nietzsche, cioè di quella che apparentemente rappresenta la stella polare di quella vasta costellazione, viene fatto una sola volta quasi di sfuggita senza alcun approfondimento del suo pensiero e delle sue derivazioni. Nel saggio di Berlin Nietzsche è soltanto nominato in mezzo ad un lungo elenco di nomi.
Questa lacuna non può certo essere casuale. Evidentemente Berlin era consapevole che Nietzsche aveva uno spessore di pensiero tale da non poter essere trattato e classificato insieme agli Herder, agli Herzen e neppure insieme a Kierkegaard e a Schopenhauer che Berlin richiama più volte e verso il quale Nietzsche ha certamente un debito culturale molto notevole.
Se il creatore di Zarathustra non viene arruolato da Berlin nel battaglione degli antiilluministi una ragione ci sarà. Mi limito qui a segnalare questa assenza sulla quale varrà la pena di ritornare.
Che cosa fu dunque l’Illuminismo nella sua essenza culturale e nella storia delle idee?
In sintesi si può dire:
1. Segnò il discrimine culturale e politico tra l’ancien régime e il pensiero moderno nelle sue realizzazioni giuridiche, politiche, costituzionali e culturali.
2. Condusse la sua battaglia nella politica e nel costume avendo come bandiera la libertà individuale nell’ambito della legge e concepì la legge come un contratto sociale stipulato tra i membri di una comunità.
3. Il principio basilare dell’ordine giuridicomorale fu quello di limitare la libertà dei singoli quandoessa dovesse invadere ed offendere la libertà altrui. 4. Propugnò l'eguaglianza degli individui e il cosmopolitismo; ritenne che gli ordinamenti razionali potessero essere applicati a comunità di etnie e storie diverse sviluppando in esse l'educazione e la tolleranza. Non ebbe, nei suoi protagonisti di maggior rilievo e spessore, alcuna tentazione all'astrattezza e ad imporre a tutti gli uomini uno schema astratto e "cemiteriale" (Goethe). Né Voltaire, né Rousseau, né Hume pensarono mai nulla di simile e mai lo pensò Diderot che fu il massimo filosofo di quel gruppo. L'Encyclopédie, che rappresentò l'ossatura di quella corrente di pensiero, fu anzi la prima e vera "scuola" che insegnò alla nascente opinione pubblica la concretezza dei problemi e la specificità dei temi, delle informazioni e dei progetti. Non a caso è su quella scuola che si formarono Beccaria, i fratelli Verri e tutta la grande corrente illuministica italiana. 5. Predicò la tolleranza, il rispetto delle altrui opinioni, l'abolizione dei privilegi di ogni genere di casta e di sangue, la sostituzione del potere assoluto con il potere democratico e l'equilibrio tra vari poteri indipendenti tra di loro. 6. Lottò contro l'uso temporalistico della religione e contro le sue pretese di assolutezza e di esclusivo possesso e magistero della verità. È falso tuttavia che gli illuministi esaurissero il mondo delle idee nella ragione e cancellassero con un tratto di penna l'ombra del mistero. Non ci sono dichiarazioni e argomentazioni del genere nei maggiori dei suoi esponenti. Ho già detto, e ancora me ne scuso, che in questa sede non posso che limitarmi a ricordare pochi aspetti essenziali. Ma mi premeva qui di segnalare che, purtroppo, essere illuministi oggi è il vero modo di mettersi contro corrente rispetto al pensiero e alla prassi comune e dominante. Il fatto che un pensatore del livello di Berlin non se ne sia reso conto ed abbia anzi, in qualche modo, reso testimonianza del contrario mi ha molto stupito e mi è sembrato opportuno darne segnalazione. Spero che altri riprendano il tema e lo approfondiscano a sufficienza


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Volpi

 

Prendendo spunto dalla traduzione adelphiana del libro di Isaiah Berlin Controcorrente, domenica 3 dicembre Eugenio Scalfari è intervenuto ponendo una questione ridivenuta oggi attuale: che cos’è illuminismo? Ovvero: la nostra epoca è illuminata? Conosciamo la celebre risposta di Kant, pubblicata esattamente il 5 dicembre 1784: «Illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità imputabile a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a lui stesso questa minorità lo è se la sua causa non sta in un difetto di intelligenza, ma nella mancanza di risolutezza e coraggio di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro».
Se questo è illuminismo, fa bene Scalfari a lamentare che la nostra epoca è ancora troppo poco illuminata e che i Lumi non sono più di moda tra pensatori e intellettuali, tra le eminenze grigie e i maîtres à penser della cultura contemporanea, orientati di preferenza verso i «romantici» e il loro immaginario mitico e simbolico, le cui degenerazioni politiche hanno profondamente marcato il Novecento. Si capisce dunque la preoccupazione di Scalfari quando avverte che perfino il cuore di un intellettuale di indiscussa appartenenza liberaldemocratica come Berlin batte più per i romantici che per i philosophes dei Lumi. Scalfari ricorda perciò le conquiste ideali dell’illuminismo, i principi che esso ha fondato e ai quali oggi non si può non richiamarsi: libertà di pensiero ed espressione, inviolabilità dell’individuo e dei suoi diritti fondamentali, uguaglianza, solidarietà. Si deve riconoscere a Scalfari il merito di aver colto l’importanza del libro di Berlin, di cui altrimenti solo pochi specialisti avrebbero parlato, e di averlo collegato a un problema filosofico oggi fondamentale, quello dei valori che ispirano la nostra idea di umanità e che sono alla base di ogni moderna società democratica.
Non so da che parte battesse il cuore di Berlin. Immagino, al di là delle sue personali inclinazioni, che da raffinato storico delle idee egli intendesse mettere in discussione alcuni stereotipi della storiografia tradizionale, mostrando come l’età dei Lumi non presenti solo fulgore, ma sia anche solcata da alcune vene oscure che alla fine si sono rivelate determinanti. Cosa che Berlin ha cercato di mostrare anche in altri due libri, pure tradotti da Adelphi: Il mago del Nord, un’acuta interpretazione di Hamann, e Il legno storto dell’umanità, espressione presa a prestito da Kant per esprimere un disincantato pessimismo verso i nobili e ottimistici ideali dell’antropofilia.
Ma venature torbide si trovano, oltre che tra le nebbie nordiche di Königsberg, anche nei grandi philosophes del luglio francese. Per esempio in Rousseau, pensatore corrusco e visionario, le cui idee pedagogiche e politiche presentano tratti fanatici, per non dire totalitari, che ispirarono il Terrore non meno che l’Illuminismo. D’altra parte, sul versante romantico non tutto è irrazionalismo: nel cuore della Germania filosofica di allora Hölderlin, Hegel e Schelling piantarono un albero della libertà nello Stift di Tubinga, dov’erano contubernali, per celebrare l’anniversario della presa della Bastiglia e gli ideali di libertà che quell’evento simboleggiava.
Ma non è questo il punto. La distinzione di Scalfari è idealtipica, non storica, e il problema che egli pone è di principio: qual è il paradigma di pensiero da assumere oggi? Quello illuminista della ragione o quello romantico dell’immaginazione? La risposta è chiara: «Il mondo moderno soffre non per un eccesso, ma per un drammatico deficit di razionalità». Sacrosante parole, da condividere in toto. Ma se è vero che il paradigma illuministicorazionalistico ha portato a conquiste civili irrinunciabili, è altrettanto vero che la Ragione si è vieppiù ridotta a mera razionalità strumentale, dimostrandosi incapace di governare quella forza cieca che Nietzsche chiama volontà di potenza. Adorno e Horkheimer parlavano di una «dialettica dell’illuminismo» che nelle moderne società di massa finisce per rovesciarsi nel suo contrario. Prima di loro Goya raffigurava nei suoi schizzi il sueño de la razón che produce mostri.
Dunque la razionalità di cui l’età moderna difetta non è quella strumentale, che la tecnoscienza ci fornisce anzi in abbondanza, bensì quella sostanziale, capace di fondare identità e risorse simboliche condivise. Per questa funzione il sacro, il mito, il simbolico, con le loro potenti immagini che i romantici hanno coltivato, sono risorse troppo importanti per essere lasciate in balìa dell’irrazionalismo. Né si deve necessariamente aderire alla contrapposizione fra Kultur e Zivilisation, e magari giocare l’una contro l’altra, come faceva Thomas Mann quando asseriva che «la germanicità è cultura, anima, libertà, arte, e non civilizzazione, società, diritto di voto, letteratura».
Se ben ricordo, proprio Scalfari ha criticato con acume tale antitesi discutendo su queste pagine le Considerazioni di un impolitico. Ma il vero nodo è Nietzsche. In lui si concentra simbolicamente il problema della crisi della ragione con gli squassi che ne sono derivati. Il fuoco da lui appiccato divampa oggi dappertutto. Egli ha asserito che la ragione altro non è che un fragile strumento organico di autoconservazione, Dio un’ipotesi per ridurre la contingenza del caos, la verità uno scorcio prospettico, una specie di errore senza il quale l’uomo non potrebbe sopravvivere. Allo stesso modo non ci sono fatti, ma solo interpretazioni, funzionali alla vita e alla sua conservazione. Servendosi del sottile rasoio «genealogico» egli ha decostruito gli edifici della ragione, accelerando la svalutazione dei valori e il nichilismo. E la sua descrizione ha avuto un carattere operativo, contribuendo a produrre la crisi che descriveva.
In questo senso Gottfried Benn pensava di spiegare perfino la coerente frammentarietà dell’opera nicciana: «Adesso capisco», affermava, «perché Nietzsche scriveva per aforismi. Chi non vede più connessioni, più alcuna traccia di un sistema, può ancora procedere solo per episodi». Questa è la grandezza tragica di Nietzsche. Eppure, diversamente da Benn, possiamo pensare che i suoi aforismi non siano frammenti sconnessi, ma tocchi cromatici di una composizione puntillista che fa vedere un intero. Prendiamo per esempio la nostra idea di umanità, e i valori che essa include. Già Kant denunciava l’insufficienza di uno dei pilastri su cui essa è basata, la definizione greca dell’uomo come animale razionale. Né l’animalitas né la rationalitas bastano a costituire la humanitas dell’uomo. Ci vuole in più quella che egli chiamava la spiritualitas o personalitas, concetto che traeva dall’altro pilastro della nostra tradizione, il cristianesimo.
Da tempo, tuttavia, la scienza e la tecnica accrescono il nostro sapere e la nostra capacità di intervento sull’entità «uomo» in un modo che entra sempre più in conflitto con la fede cristiana. Ci troviamo oggi in una «crisi antropologica». Ebbene, con la sua lapidaria affermazione che l’uomo è «l’animale non ancora definito» Nietzsche l’ha anticipato tutta: l’essere umano ­ ci ha fatto capire ­ è esposto ed aperto a due estremi ugualmente rischiosi per il suo comportamento, la spaventosa naturalezza delle sue pulsioni e la sconfinatezza del suo ragionare. Noi, nella crisi antropologica da Nietzsche diagnosticata, dobbiamo chiederci: abbiamo un’idea di uomo condivisa, un’antropologia adeguata ai problemi che la globalizzazione e la multiculturalità pongono? Ecco la questione filosofica che vedo emergere dall’intervento di Scalfari: una questione fondamentale che va affrontata con la dovuta pazienza, quella di cui si era prudentemente armato Kant quando affermava che «illuminare» un individuo è facile, ma «illuminare» un’epoca è impresa quasi disperata.

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Le idee scettiche e i lumi di scalfari

A proposito di un articolo in difesa dell’illuminismo

di SEBASTIANO MAFFETTONE


Eugenio Scalfari, in un lungo e meditato articolo pubblicato da questo giornale il 3 dicembre scorso, ha preso spunto dal libro Controcorrente (Adelphi) del prestigioso storico delle idee Isaiah Berlin, per proporre un'appassionata difesa dell'Illuminismo. A dire di Scalfari, infatti, «essere illuministi oggi è il vero modo di essere contro corrente rispetto al pensiero e alla prassi dominante». Si potrebbe subito osservare con qualche malizia che, a giudicare dalle pagine culturali, la sua influenza sulla visione filosofica di Repubblica, che pare dominata da un perdurante antiilluminismo, deve essere stata curiosamente modesta (che questa non sia una necessità ineluttabile nel nostro paese si può vedere dalle pagine culturali di altri giornali).
Ma le polemiche di bottega non mi interessano più di tanto. Perché vorrei invece discutere delle ragioni che Scalfari pone a sostegno della sua tesi. Essere contro corrente equivalea suo dire, e io sono d'accordo con luia essere illuministi sostanzialmente perché è diffuso oggi il predominio di un «volontarismo irrazionale», che diventa esistenzialismo e nichilismo, e si congiunge a un deficit perdurante di razionalità.
Vorrei cercare di cogliere il senso dell'antiilluminismo implicito nel clima culturale dominante nel nostro tempo. Per farlo, ricorrerò all'identikit semplificato di quello che potrebbe essere un personaggio tipo, un personaggio di fantasia, che io chiamo Torbido, e che voi potete immaginare come un intellettuale alla moda o come un'espressione sofisticata del senso comune. Anticipo da ora che, a mio parere, per dirla nel gergo dei filosofi, l'essenza dell'antiilluminismo oggi popolare non equivale a una forma di sfiducia nella ragione teoretica e scientifica, ma piuttosto a scetticismo nei confronti della ragione pratica.
Ma andiamo con ordine, e torniamo al nostro amico Torbido. Torbido èe come dubitarne?risolutamente postmoderno nella visione del mondo morale. Guarda con un sorriso di malcelata superiorità ai princìpi morali, ed è convinto che non esistano regole etiche al di fuori delle appartenenze e delle condivisioni. Si può, a suo credere, avere una morale comune se e solo se si è membri dello stesso clubetnico, politico, religioso o criminale poco importa. Ma ciò non può avvenire nella società aperta, che è, per definizione, popolata da membri di club differenti.
Questa arrière pensée postmoderna lo porta poi ad essere, e questo è forse uno dei lati migliori di Torbido, piuttosto libertario per quanto riguarda le scelte politiche. Dato che non ci sono scelte etiche oggettivamente migliori di altree qui io non ho mai capito come egli faccia a condannare moralmente per esempio chi commette un genocidiola politica della società aperta oscilla tra la violenza e il consenso di tutti. Torbido non nasconde la sua ammirazione per la forza come evento tra gli eventi nella storia, ma finisce poi di solito con l'asserire che solo il permesso di tutti i cittadini adulti in grado di intendere e volere giustifica, in mancanza di tesi morali sensate, le decisioni politiche.
Torbido non è uno spirito religioso, anche se civetta con New Age e, quando è di buon umore, sostiene che gli oroscopi e i miti hanno la stessa credibilità della fisica teorica. Tuttavia, anche se può apparire strano a prima vista, il suo scetticismo pratico piace ai religiosi doc. In fondo, le tesi di Torbido riconoscono che nella società moderna e pluralista non ci sono opzioni etiche e metafisiche dotate di senso, e queste ultime restano quindi appannaggio della religione. Tutto ciò che è spiritualmente importante, in altre parole, resta all'interno dei club, siano questi cattolici, buddisti o quant'altro vi piaccia. E che cosa può volere di più del monopolio delle verità morali un religioso spregiudicato e non fondamentalista? Ancora più stranamente, Torbido riesce ad andare d'accordo, specie quando non parla di astrologia, con lo scientismo che ancora prevale in molti ambienti scientifici. In fondo, come diciamo noi, spesso e volentieri gli scienziati sono positivisti, e, per conseguenza, poco gli importa dell'uso esterno della ragione nel mondo, purché questa prevalga per così dire intra moenia, nei laboratori e nelle aule.
Torbido è il ritratto fedele dell'antiilluminista, o almeno così ritiene il suo ideatore, per un motivo chiaro e preciso: non crede che si possa fare un uso pubblico e pratico della ragione. Quest'ultima ha i suoi spazi nel mondo della conoscenza scientifica e della produzione, e lì deve essere confinata. Ma non ci riguarda per Torbido e tutti quelli come lui come esseri umani pienamente intesi. Non c'è un modo di vita che possa pretendere di ispirarsi a criteri di ragionevolezza e razionalità. Non c'è, per la verità, nella visione dominante di Torbido, alcuna oggettività etica, estetica e politica che tenga. Le nostre priorità morali, culturali e politiche altro non sono che gusti en travesti. Tutto il resto è storia e biologia, dominio di tradizioni cieche e di violenze occulte.
Torbido ha un pensiero che non impegna e, anche per ciò, è alla moda. L'Illuminista, però, non ama Torbido, o meglio non ama le sue idee scettiche e facili. Cerca di rispondergli, facendo propria la fiducia illuministica in un uso pubblico e pratico della ragione. Sulla scorta di Kant, ma anche di Habermas e Rawls tra i contemporanei, io ho chiamato «etica pubblica» questo modo di rispondere filosoficamente e in coerenza con la tradizione illuministica al clima culturale dominante. E' un modo che accetta il pluralismo dei valori e rifiuta ogni credenza in verità morali assolute. Ma non concede a Torbido il nucleo della sua tesi principale, sarebbe a dire che i dubbi e le difficoltà che tutti condividiamo equivalgano all'impossibilità di dare senso alle cose nel mondo della teoria come in quello della pratica. L'illuminista crede che la critica di ogni argomento sia fondamentale, ma crede anche che da ciò non si possa passare, come invece vuole Torbido, alla critica dell'argomentare in quanto tale.
Ora avete davanti i due profili schematici dei detrattori e dei fautori dell'Illuminismo. Scegliere quale ci piace di più dipende da ognuno di noi. Sono convinto che ci siano buone ragioni per essere a favore della mia strategia e contro quella di Torbido. Ma, si sa, su questioni del genere non vi sono certezze, e uno psicoanalista può aiutare forse più di un filosofo. Io posso solo dire quale ragione preteorica mi abbia portato per quel poco che riesco a capire a orientarmi a favore della opzione illuministica.
Sono nato e cresciuto a Napoli, e credo di averne tratto una lezione indelebile. L'affannarsi del popolino, lo scetticismo dei signori, la sfiducia nell'altro, la resa al passato, l'impotenza nell'ottenere risultati, la depressione collettiva mascherata dal riso, l'impossibilità della speranza, erano tutti i segni di una mentalità in cui premoderno e postmoderno si congiungevano. Si congiungevano nel negare spazio al progetto illuministico della modernità, che pure tanto doveva al pensiero dei figli dell'antica «capitale di un regno senza strade e senza città». Per schierarmi contro quello che c'era e non andava, avevo così da essere antiantiilluminista.
Si può obiettare che deve cambiare prima il mondo e poi le idee che lo attraversano, per cui la fioritura ideale dipende dallo sfondo materiale, e che perciò la mia tesi pecca di un eccesso di idealismo. Può essere. Ma è sempre difficile dire se venga prima l'uovo o la gallina. E poi ognuno comincia dal suo orticello. E io ho cominciato dall'essere contro i vezzi e i successi filosofici del malcapitato Torbido. E, come vuole Scalfari, a navigare contro corrente a favore dell'Illuminismo.

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La forza del senso comune

LE IDEE

di UMBERTO ECO


MI HA naturalmente appassionato il dibattito sull'illuminismo. Mi ha divertito l'osservazione di Maffettone (con il quale concordo per tutto il resto) sul fatto che l'illuminista Scalfari abbia avuto poca influenza sulle pagine culturali di Repubblica. Evvia, dopo un inizio (venti anni fa) un poco troppo Nord-Sud (ma all'epoca anche Scalfari era post-crociano), le pagine si sono divise equamente tra articoli su Nietzsche e rievocazioni dei salotti del Settecento, e quindi un poco di Lumi vi hanno circolato. Caso mai è più ispirata alla Tradizione la pagina culturale del Corriere. Comunque, non è questo il punto. Vorrei piuttosto dire la mia su cosa significhi essere illuministi oggi, visto che dai tempi dell'Encyclopedie molta acqua è passata sotto i ponti e non credo valga ancora la pena di interessarsi al lavoro degli stipettai, come in quei giorni faceva Diderot.
Naturalmente condizione indispensabile per un'etica intellettuale illuministica è che si sia disposti a sottoporre a critica non solo ogni credenza ma persino quelle che la scienza ci consegna come verità assolute.

MA, DETTO questo, credo si debbano individuare alcune condizioni irrinunciabili affinché si possa dire che ci si ispira non al criterio di una Ragione Forte (alla Hegel) ma di una umana ragionevolezza. Perché l'eredità fondamentale dell'illuminismo sta tutta qui: c'è un modo ragionevole di ragionare e, se si tengono i piedi per terra, tutti dovrebbero concordare su quello che diciamo, perché anche in filosofia bisogna dare retta al buon senso.
Questo implica che vi sia un buon senso, o un senso comune, che non sarà così invadente come la "retta ragione" ma, insomma, qualche cosa conta. Basta non affidare responsabilità troppo metafisiche al calcolo e, come suggeriva Leibniz, vale sempre la pena di mettersi introno a un tavolo e dire "calculemus".
Dunque, penso che un buon illuminista sia qualcuno che crede che le cose "vadano in certo modo". Questo realismo minimalista è stato recentemente riaffermato da Searle, che non le dice tutte giuste, ma ogni tanto ha delle idee limpide e ragionevoli. Dire che la realtà va in un certo modo non significa dire che possiamo conoscerlo o che un giorno lo conosceremo. Ma anche se non lo conoscessimo mai, le cose andrebbero così e non altrimenti. Persino chi coltivasse l'idea che le cose vanno oggi in un modo e domani nell'altro, e cioè che il mondo è bizzarro, caotico, mutevole, e passa da una legge all'altra in barba a metafisici e cosmologi, ammetterebbe che questa capricciosa mutevolezza del mondo è proprio il modo in cui vanno le cose. E quindi vale la pena di continuare a proporre delle descrizioni di queste maledettissime cose.
Una volta dicevo a Vattimo che ci sono forse delle leggi di natura, visto che se incrociamo un cane con un cane ne nasce un cane ma se incrociamo un cane con un gatto o non nasce niente o nasce qualcosa che non desidereremmo vederci girare per casa. Vattimo mi rispondeva che oggi l'ingegneria genetica riesce persino ad alterare le leggi che governano le specie. Appunto, gli rispondevo, se per incrociare un cane con un gatto ci vuole una ingegneria (e cioè un'arte) questo significa che esiste da qualche parte una natura su cui quest'arte artificiosamente si esercita. Questo significa che io sono più illuminista di Vattimo, ma non credo gli dispiaccia saperlo.
Il buon senso ci dice che ci sono casi in cui possiamo concordare tutti come vadano le cose. Dire che il sole sorge a est e tramonta a ovest non è questione di senso comune, perché si basa su convenzioni astronomiche. Peggio che peggio dire che non è il sole ma la terra che gira. Chissà, forse l'intera cosmologia galileiana è da rimettere in discussione. Ma dire che noi vediamo il sole sorgere da una parte e tramontare dall'altra, questo è un dato di senso comune ed è ragionevole ammetterlo.
Mentre scrivo ho da poco appreso della morte di Quine: se c'era un empirista era lui, tanto che arrivava a dire che lo stesso significato di una parola, stringi stringi, era legato alla nostra regolarità di risposta a uno stimolo: però se c'era un pensatore convinto che ogni nostra verità non si presenta da sola, bensì legata a un complesso di convenzioni culturali, era sempre lui. Come fare stare insieme queste due posizioni apparentemente contraddittorie? Perché sappiamo per esperienza che ci cadono gocce d'acqua sulla mano, e affermiamo per convenzione culturale che probabilmente piove. Se, prima di discutere che cosa significhi "pioggia", metereologicamente parlando, due persone ammettono di comune accordo che gli cadono gocce d' acqua sulla mano, ecco due buoni illuministi minimali.
Rimane celebre, di Quine, la storia di Gavagai, che rielaboro liberamente. Dunque, un esploratore che non sa nulla della lingua indigena, mentre passa un coniglio tra l'erba, lo addita al nativo e quello reagisce con "gavagai". Vuole forse dire che per il nativo "gavagai" significa coniglio? Non è detto, potrebbe significare animale, o coniglio che corre. Poco male, si rifà la prova mentre passa un cane, o quando il coniglio sta fermo. Ma se il nativo avesse inteso con "gavagai" che stava vedendo le erbe agitate dal movimento di un animale? O che davanti ai suoi occhi si stava verificando un evento spaziotemporale? O che gli piacciono i conigli? Morale: l'esploratore non può fare che delle ipotesi e costruirsi un proprio manuale di traduzione, che forse non è migliore di un altro (l'importante è che presenti una certa coerenza). Il buon illuminista metterà quindi in questione ogni possibile manuale di traduzione. Ma non potrà mai negare che l'indigeno ha detto "gavagai", e che non l'ha detto mentre guardava il cielo, bensì proprio mentre puntava gli occhi su quello spazio in cui all'esploratore era parso di vedere un coniglio.
Badate che questo atteggiamento basta anche per i dibattiti più trascendentali. Che abbia ragione il Papa a sostenere che gli embrioni sono già esseri umani o San Tommaso quando afferma che gli embrioni non parteciperanno alla resurrezione della carne, è materia di cultura. Ma è materia di sano empirismo riconoscere di comune accordo le differenze fisiche tra un embrione e un feto. E poi, calculemus.
C'è un'etica non trascendente che ogni buon illuminista minimale dovrebbe riconoscere? Penso di sì. In genere, un essere umano vorrebbe avere tutto ciò che gli piace. Per fare questo dovrebbe sottrarlo a qualsiasi altro essere umano a cui piaccia la stessa cosa. Per evitare che poi l'altro lo sottragga a lui, la soluzione più comoda è uccidere l'altro. Homo homini lupus, e vinca il migliore. Però questa legge non può essere generalizzata, perché se uccido tutti resto solo, e l'uomo è animale sociale. Adamo ha bisogno almeno di Eva, non tanto per soddisfare il desiderio sessuale (per questo sarebbe bastata una capra) ma per procreare, e dunque moltiplicarsi. Se Adamo ammazza Eva, Caino e Abele, rimane un animale solitario. Se poi Eva e figli uccidono lui, peggio ancora.
Pertanto l'uomo deve negoziare benevolenza e mutuo rispetto. Deve cioè sottoscrivere un contratto sociale. Quando Gesù dice di amare il prossimo e suggerisce di non fare agli altri quello che non si vuole che sia fatto a noi, è un ottimo illuminista (lo è quasi sempre, tranne quando sostiene di essere figlio di Dio - perché quella era un'evidenza empirica chiara caso mai a lui, ma non agli altri, e quindi non si poteva essere basata sulla ragionevolezza bensì sulla fede). L'illuminista pensa che si possa elaborare un'etica, anche molto complessa, anche eroica (è giusto per esempio morire per salvare la vita ai propri figli) basandosi sul principio di negoziazione necessaria.
Infine l'illuminista sa che l'uomo ha cinque bisogni fondamentali (sul momento non riesco a trovarne di più): il nutrimento, il sonno, l'affetto (che comprende il sesso, ma anche il bisogno di legarsi almeno a un animale domestico), il giocare (ovvero fare qualcosa per il puro piacere di farla), e il chiedersi perché. Li ho posti in serie di irrinunciabilità decrescente, ma è certo che anche il bambino, una volta poppato, dormito, giocherellato e appreso a identificare il babbo e la mamma, appena cresce domanda il perché di tutto. I primi quattro bisogni sono comuni anche agli animali, il quinto è tipicamente umano e richiede l'esercizio del linguaggio. Il perché fondamentale è perché le cose ci sono. Il filosofo si chiede perché ci sia dell'essere piuttosto che il nulla, ma non chiede nulla di più di quanto faccia l'uomo comune quando si chiede chi abbia fatto il mondo e cosa ci fosse prima. Nel tentare di rispondere a questa domanda l'uomo costruisce gli dei (o li scopre, non voglio affrontare questioni teologiche).
Dunque l'illuminista, tra l'altro, sa che, quando l'uomo nomina gli dei, l' uomo sta facendo qualcosa che non si può prendere sottogamba. Ancora una volta, l'illuminista sa che la forma di un pantheon è fenomeno culturale, che si può criticare, ma che la domanda che porta alla costruzione del pantheon è un dato di natura, degno della massima considerazione e rispetto.
Ecco, sarei disposto a riconoscere un illuminista, oggi, a queste condizioni irrinunciabili. Se va bene così, m'iscrivo

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la ragione sul rasoio

che cosa significa essere oggi illuministi?

di SERGIO GIVONE


L’articolo di Sergio Givone, che qui pubblichiamo, prende spunto da un intervento di Eugenio Scalfari uscito su queste pagine il 3 dicembre scorso con il titolo "I lumi del nostro secolo non sono più di moda". Il fondatore di Repubblica si soffermava sul libro di Isaiah Berlin, Controcorrente, criticando in quella raccolta di saggi l’assenza di un’adeguata riflessione sull’illuminismo, sostituita da una lettura piuttosto caricaturale.
Sulle stesse questioni sono successivamente intervenuti Franco Volpi ("I lumi e l’ombra lunga di Nietzsche", pubblicato l’8 dicembre) e Sebastiano Maffettone ("Le idee scettiche e i lumi di Scalfari", uscito il 30 scorso). L’altro ieri la Repubblica ha ospitato un commento di Umberto Eco, dal titolo "La forza del senso comune".

Nel suo intervento su Repubblica dello scorso 31 dicembre, Umberto Eco sosteneva con ottimi argomenti che l’illuminismo in fondo è un modo ragionevole di ragionare e che buon illuminista è chi crede che «le cose vadano in un certo modo». Poiché ritengo che si possa affermare, senza tradire lo spirito dell’illuminismo, che le cose vadano in un certo modo ma potrebbero andare anche in un altro, vedo di spiegarmi partendo da lontano.
Una volta c’erano i «poeti teologi», sosteneva Giambattista Vico. Non sapevano come stessero effettivamente le cose. Ma dovevano rispondere a domande piuttosto impegnative del tipo: che ci facciamo noi qui? chi ci ha messo in questa buia selva dove ciascuno è nello stesso tempo cacciatore e preda? e come uscirne, posto che sia possibile? Mica facile rispondere. Ma loro ci provavano. Cercavano segni ovunque. E li trovavano. Tutto gli appariva animato da forze misteriose, tutto gli parlava. Ne ricavavano un sapere fasullo fin che si vuole, ma in grado di portare alla luce significati nascosti e tutt’altro che insensati. Al punto da poterci edificare sopra un sapere, e sopra questo sapere una vita più degna e meno bestiale.
Poi sono arrivati i «famuli». Ossia i servi, i lavoratori. I quali avevano il compito di soddisfare i bisogni materiali dei loro padroni. Per fare questo ritenevano inutile (e come dargli torto?) contemplare le profondità dei cieli, elevare altari, inventarsi simboli e geroglifici e poi decifrarli. Meglio guardarsi intorno. Cercar di capire come funzionano le cose. E agire di conseguenza. Se poi tutto ciò svuota il mondo del suo incanto e dei suoi irrisolvibili enigmi, che importa? Non c’è chi non veda i vantaggi che se ne ricavano. A cominciare dal fatto che l’esistenza su questa terra si fa meno dura, meno dolorosa, soprattutto meno paurosa.
Lo schema di questo percorso indicato dal grande filosofo napoletano appare ormai un luogo comune della modernità. Dal mito al logos. Da un’età in cui dominano violenza e autorità a un’età in cui la ragione si fa strada, sia pure faticosamente, e impone la sua legge. Non è questo il cammino dell’umanità, magari segnato da ricadute e deviazioni, ma riconoscibile come un filo rosso nella confusa trama dei secoli e come la sola vera speranza per l’uomo? Pazienza se ciò comporta la rimozione del trascendente. Per di lì bisogna passare.
Ma il primo ad avere dei dubbi in proposito sarebbe lo stesso Vico. Per lui non si tratta tanto del passaggio dall’età della superstizione all’età della ragione quanto dell’opposizione di due diverse modalità linguistiche che si fronteggiano e si contraddicono. Se in uno specchio d’acqua i poeti teologi vedono divinità lacustri a custodire qualcosa come l’origine della vita e il suo senso inafferrabile e meraviglioso, diciamo pure divino, certamente vedono qualcosa che non c’è. Ma diremo che mentono? O non diremo piuttosto che il giorno in cui delle loro visioni non ne fosse più nulla noi saremmo un po’ più ciechi? Viceversa, se nello stesso specchio d’acqua i famuli riconoscono l’elemento fondamentale di cui siamo fatti e procedono alla sua analisi, magari con lo scopo di verificarne la potabilità, non li rimproveremo certo di scarsa sensibilità religiosa. Anche se per fare quello che fanno devono dimenticarsi di naiadi, silfidi e compagnia bella.
Insomma, quella vichiana non è una concezione progressiva, bensì drammatica della storia, visto che oscilla fra saperi in conflitto e non mediabili. All’uomo è data sempre e soltanto una parte della verità, mai la verità tutt’intera, e la parte che gli è data, gli è data a prezzo dell’altra. O la verità mitopoietica così simile alla menzogna, ma la sola in grado di dire qualcosa sull’insondabile mistero che ci avvolge, oppure la verità della scienza e della tecnica, così vera, ma così indifferente all’umano. Che poi Vico, pensatore cristiano, prospetti per la fine dei tempi una conciliazione delle due prospettive, quando l’uomo parlerà la lingua che Dio ha usato per creare il mondo e quindi la verità gli sarà rivelata pienamente, ebbene, questo tratto del suo pensiero (che pure avrebbe suscitato l’interesse di Walter Benjamin) complica ulteriormente il quadro. Chi sarebbe disposto oggi a condividere tale fede?
Qualcuno si sarà domandato a questo punto che cosa c’entra il discorso fin qui svolto con il dibattito sull’illuminismo aperto da Scalfari. C’entra. Intanto val la pena di ricordare che il progetto illuminista, qual è possibile ricavare dall’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, il cui sottotitolo non a caso è Dizionario delle scienze, delle arti e dei mestieri, risponde a una doppia esigenza: diffondere un sapere tecnicoscientifico e contrastare un sapere tradizionale giudicato retrivo, mitologico. Evidente il nesso tra questi due aspetti. E come non ammettere che il modello di conoscenza privilegiato finisce col diventare esclusivo di tutti gli altri e anzi si costituisce sulla base della loro confutazione? Come non notare, qui, un nodo irrisolto?
Sia come sia, qualcosa non ha funzionato nel progetto illuminista. Difficile non essere d’accordo con Scalfari quando osserva, sconfortato, che di illuminismo ce n’è ben poco in giro. In compenso trionfano le credenze tribali, i fanatismi, le più buie ossessioni di morte. Con l’inesauribile spinta distruttiva che accompagna tutto ciò. A illuminare il mondo sembra non esserci altro che la televisione, sappiamo con quali risultati. E’ il mondo a cadere dentro l’apparato mediatico. E a restarne ostaggio. Aveva visto giusto Günther Anders. «In principio era la televisione, il mondo è venuto dopo, per essere mandato in onda». Se però Norberto Bobbio avverte che a essere minacciata è la democrazia, quando media e potere coincidono nello stesso soggetto, può accadere che i filosofi facciano spallucce.
E tuttavia... Resta da porre la questione più spinosa. Vale a dire: perché, dopo aver imboccato la strada che avrebbe dovuto condurci nella terra della ragione illuminata, siamo venuti a trovarci da tutta un’altra parte? S’è trattato semplicemente d’un errore, d’uno sviamento, come di chi, essendosi fermato ad ascoltare le sirene dell’irrazionale ne è stato sedotto e travolto? O è la stessa mappa dell’illuminismo a condurre dove l’illuminismo mai e poi mai avrebbe immaginato?
Non solo. Ma c’è la lezione di Horkheimer e Adorno. E se l’avessimo messa troppo affrettatamente da parte? Siamo sicuri che i due francofortesi esagerassero quando avvertivano che nella terra della ragione illuminata brilla un sole di sventura? Dialettica dell’illuminismo. La stessa che qualcuno aveva creduto di scorgere in atto nella rivoluzione francese, che dell’illuminismo è figlia. O preferiamo credere che la rivoluzione finisce nel terrore non in base a una sua precisa logica, anzi, dialettica, ma solo perché ai giacobini è scappata la mano?
L’eredità dell’illuminismo è in queste domande. Guai prenderle a pretesto per una sua liquidazione sommaria. L’illuminismo resta per noi qualcosa di necessario e di irrinunciabile. Anche se, nel momento in cui lo riconosciamo, non possiamo non prendere atto dei suoi limiti e delle sue contraddizioni. Infatti anche ciò che l’illuminismo rimuove è per noi qualcosa di necessario e irrinunciabile.
Perciò, se infine ci chiediamo che cosa significhi per noi essere illuministi, risponderei parafrasando Croce: non è possibile non esserlo. Ma esserlo comporta, da una parte, fare i conti con la nostra storia, magari impietosamente. E dall’altra, come propone Isaiah Berlin, prendersi cura (che sia questa la pietà del pensiero?) di ciò che è rimasto nascosto nelle pieghe di una storia altra ma non meno nostra.

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i lumi

Soffusi e deboli così li preferisco

di GIANI VATTIMO


L’intervento di Gianni Vattimo, che qui pubblichiamo, prende spunto da un articolo di Eugenio Scalfari uscito su queste pagine il 3 dicembre scorso con il titolo "I lumi del nostro secolo non sono più di moda" e, più in particolare, è una replica al commento successivo di Umberto Eco, intitolato "la forza del senso comune" e pubblicato il 31 dicembre. Sulle stesse questioni sono intervenuti Franco Volpi (l’8 dicembre), Sebastiano Maffettone (il 30 dicembre) e Sergio Givone (il 2 gennaio).

Caro direttore, sarà poi vero che, come dice nel suo bell'articolo del 31 dicembre, Umberto Eco è più illuminista di me? Ha forse ragione nel dire che non ci tengo a tutti i costi ad essere riconosciuto come (più) illuminista (di lui). Ma quando leggo che lui si sente illuminista perché è interessato a come in generale vanno le cose, e dunque a un certo concetto, sia pur relativamente, stabile di realtà, mi vien voglia di obiettargli almeno due cose che, insieme alla nozione kantiana di illuminismo (la ragione che diventa maggiorenne, ma proprio perché riconosce finalmente i propri limiti) dovrebbero aiutarci a discutere più "empiricamente", realisticamente o come si vuol dire, la questione. Primo: se vogliamo tener conto davvero di come vanno le cose, non possiamo ignorare che, del loro "andare", fa parte anche il nostro parlarne e tenerne conto. Come dire che noi guardiamo al corso delle cose non dall'esterno, from nowhere come ha detto un filosofo americano, o dal punto di vista di Dio (forse solo Emanuele Severino crede ancora di poterlo fare). Noi guardiamo al corso delle cose, distinguiamo il loro andare "generalmente" così piuttosto che altrimenti, ma siamo dentro al processo e non possiamo mettere tra parentesi questo "fatto". La differenza tra Kant e Hegel, o tra Eco e me (ma sì, bisogna pure scegliersi un termine di confronto, come diceva Woody Allen), è che nonostante tutto Kant crede ancora di poter parlare dal punto di vista di un Soggetto, sia pur finito ma stabile e non sottomesso, lui, al divenire storico. Dunque la ragione (la Ragione) ha una sua purezza, le sue categorie che si applicano sempre e dovunque ci sia un essere razionale finito eccetera. Hegel - buono questo, dirà Eco; e per molti versi concordo - pensa ancora in termini di Assoluto, certo; ma almeno comincia ad accorgersi che, se si dà un punto di vista vero, divino, definitivo, per l'uomo va conquistato. Per questo Marx era più hegeliano che kantiano, pensava anche lui che la visione limpida della verità fosse qualcosa da conquistarsi nella storia. Poi, come si sa, la storia ha smentito proprio questa aspettativa di Marx e di Hegel: il comunismo reale non era affatto razionale, e ai più è parso che questo fallimento non dipendesse solo dalla malvagità degli uomini o dal destino cinico e baro, ma dal difetto stesso del progetto. Risultato: torniamo a Kant? In parte sì, ma riconoscendo che la finitezza della ragione umana non consiste solo nel fatto che le categorie si debbono SEMPRE applicare a un materiale che ci viene dalla sensazione; anche quel "sempre" è un po' eccessivo. Finitezza vuol dire che anche il nostro guardare il mondo fa parte dei fatti del mondo, e non possiamo mai, nemmeno per scherzo, intenderlo come un guardare "puro", che ci direbbe come davvero e sempre vanno le cose. Illuminismo sarebbe qui dunque la consapevolezza della storicità della ragione, che giustamente chiameremo piuttosto ragionevolezza: per esempio, nell'etica, mischiando la fede nei nostri valori con il senso di responsabilità, che tiene conto delle conseguenze (non: fiat iustitia pereat mundus, per esempio), e tra queste, anche della storica "vivibilità" di un mondo che si ispiri a quei valori: dunque tenendo conto delle idee, dei valori, delle aspettative degli altri, e non solo dei propri ideali. Saremmo così meno convinti dei diritti umani fondamentali? E' questo che gli "illuministi" rimproverano sempre agli storicisti. Ma se ci mettessimo d'accordo che il diritto umano fondamentale è quello di essere interpellati sul proprio destino, o, appunto, quello di "mettersi d'accordo"? Non ci troveremmo così di fronte né ad autorità assolute che in nome della legge "naturale" ci vietano la fecondazione eterologa o le unioni civili omosessuali; e nemmeno di fronte a illuministi "ragionevoli" che, magari con argomenti meno dogmatici, finiscono spesso per arrivare alle stesse conclusioni (per esempio: le adozioni da parte di coppie omosessuali vanno vietate perché il bambino può trovarsi a disagio nei confronti dei compagni che hanno genitori "normali". Come dire che è meglio non essere ebreo in una società dove tutti celebrano il Natale e l'Epifania..). Qui viene il secondo punto delle mie osservazioni. Che anche il nostro sguardo sul mondo faccia parte del corso delle cose significa anzitutto che è un fatto, cioè un prodotto storico "motivato". Nessuno scienziato guarda il mondo "oggettivamente" per amore della verità o per corrispondere a un dovere eterno. Lo fa per vincere il Nobel, o per produrre una medicina utile anche a se stesso, o per realizzare un mondo più giusto eccetera. I "valori" per i quali si muove non sono scritti in qualche ordine naturale, sono scelti liberamente. Che non vuol dire a capocchia ed arbitrariamente: ma appunto in relazione alla loro "presentabilità" agli altri, alla loro capacità di resistere a ogni obiezione umanamente immaginabile nella situazione concreta. Non posso dire che vanno sterminati gli ebrei o gli zingari pensando che tutti saranno d'accordo. Devo pensare che il diritto di ebrei e zingari a non essere sterminati sia legato al valore eterno e naturale della vita? Qualcuno dirà che così l'imperativo sarebbe più forte e più garantito il suo rispetto. Ma è poi proprio in nome di questo diritto eterno della vita che papi e vescovi o autorità civili varie mi vieteranno di bere alcoolici, di fumare spinelli, al limite anche di lasciarmi morire se la vita non ha più senso per me. Dunque, anche dal punto di vista "politico", molto meglio pensare in termini di consenso; motivato da argomentazioni, certo, che però si rifanno sempre solo alla nostra possibilmente condivisa esperienza storica - del tipo: ma se hai letto questo e questo, e se ricordi questo e questo, come fai ancora a dire che…? Se c'è una natura vera delle cose, c'è anche sempre una autorità - il papa, il comitato centrale, lo scienziato oggettivo, ecc. - che la conosce meglio di me e che può impormela anche contro la mia volontà. A che altro serve insistere sulla oggettività e la "datità" del vero, se non a garantire qualche autorità a qualcuno? Quando pensiamo che le leggi debbano essere fondate solo sul consenso consapevole, l'idea di poter ricorrere invece a una natura data (e anche di per sé buona, fonte di norme; ma perché?) appare migliore solo a chi ha una radicata sfiducia nella possibilità di incontrare ragionevolezza nel mondo umano. Se penso che i miei concittadini potrebbero dare la maggioranza a Berlusconi, Previti, Bossi e via straparlando e delinquendo, anch'io sono tentato di pensare che la legge non può fondarsi sul consenso ma deve avere basi più forti e "oggettive". Proprio questo svela però il senso profondamente autoritario dell'appello alla natura, alla verità, alle leggi eterne delle cose. Se voglio vivere in un mondo che garantisca la mia libertà devo per forza espormi al rischio di vivere in una società democratica, dove, per l'appunto, le leggi sono fatte con il consenso argomentato di tutti. Posso solo ridurre il rischio di lasciar trionfare i pazzi contribuendo allo sviluppo della cultura collettiva, con investimenti sulla scuola, partecipando attivamente alla discussione pubblica, e anche evitando politicamente che qualcuno possa imporre a tutti le proprie idee senza contraddittorio eccetera. Anche, e soprattutto, sforzandomi di garantire, specialmente quando sono maggioranza e posso farlo, il diritto delle minoranze, fino all'obiezione di coscienza, quando non violi diritti riconosciuti a tutti (non lascerò che l'unico farmacista della regione mi rifiuti il profilattico o la pillola del giorno dopo..). Questo modo di vedere il rapporto tra etica - valori professati individualmente purché non a scapito della pari libertà altrui; valori condivisi in base ad argomentazioni storico-culturali, etica della responsabilità - e politica non ha bisogno di fondamenti assoluti. Si obietta: ma anche il rispetto della libertà altrui deve essere fondato su una scelta di valore. Si tratta però di una scelta che faccio in nome di una preferenza vitale: preferisco un mondo in cui ci si confronta discutendo a un mondo in cui ci si ammazza; e lo preferisco anche se sono dalla parte dei forti e dei privilegiati, perché non mi piace stare in un mondo blindato, se una sera voglio andare a divertirmi in un locale del Bronx uscendo dalle strade protette di Manhattan voglio poterlo fare. Inoltre: la fede nella libertà è una credenza vitale anche in un altro e più radicale senso: non posso predicarla agli altri, o addirittura imporla con la forza (se non fate elezioni libere sospendiamo gli aiuti). La posso rivendicare per me, e aiutare coloro fra gli altri che la rivendicano (sostegno ai movimenti di liberazione, diritto di asilo, ecc.); ma non la posso né voglio garantire a chi non ne sente il bisogno… Ma che sia passato davanti a me il coniglio gavagai, o un qualunque vivente che corre via comunque io lo chiami, non è un fatto naturale, una datità oggettiva con cui devo fare i conti? Vero: ma: a) nello stesso tempo sono passati davanti a me una quantità di altri enti (particelle di vari elementi, vibrazioni di luce, forse uno spirito invisibile...) e non li ho annoverati tra i fatti; stavo guardando solo una certa zona del mondo, e facevo attenzione solo a esseri capaci di correre nell'erba ecc. E' ciò che, credo, si chiama questione della rilevanza: anche che abbia visto un "fatto" è già risultato di una interazione tra me e il mondo; se mi si chiede di dire che cosa c'è davanti a me dirò che c'è una tastiera di computer, la mia libreria ecc: ma non tot di ossigeno, tot di azoto, tot di anidride carbonica. Come farei se dovessi rispondere a un questionario chimico. Siccome neanche quando in laboratorio si fa un esperimento "a parità di condizioni" si controllano tutte le condizioni, ma solo quelle che si presuppone possano influire sull'andamento dell'esperimento, dirò che non conosco mai LA realtà; ma che chiamo reale ciò che non dipende da me e su cui, sempre, intervengo; reale è così una voce che ascolto, certo, ma che non si dà se non mi metto ad ascoltarla, che "c'è" solo se e nella misura in cui le rispondo. Non mi sembra che queste tesi che prendo da Heidegger siano poi tanto diverse da quelle di Quine... In ogni caso, che ci sia il coniglio fuori di me comunque lo si chiami non mi sogno di negarlo. Ma anche solo rivendicare questa realtà "in sé", come fa Eco, risponde già a un piano, a un programma (qui, quello di stabilire se si è o no illuministi). E il programma non può essere legittimato descrivendo la realtà stessa; solo se dovessimo dire che la realtà è sempre in sé buona, perché creata da un Dio buono (ma anche poco preoccupato della nostra libertà) potremmo trarre da essa norme per giudicare il bene e il male. Invece, come sembra pensare anche Eco, noi cerchiamo di capire come stanno le cose solo perché ci interessa intervenire su di esse con le nostre arti e tecniche; appunto, guardiamo alle cose come stanno solo dal punto di vista di questo interesse, che è storico, culturale, scelto responsabilmente in dialogo con gli altri, di oggi e di ieri. Chi dice tutto questo? Non credo che sia l'essere che parla in me; sono io, pensatore debole collocato nel mio secolo. Propongo cioè questa teoria dal punto di vista di una lettura della mia (nostra) cultura; non perché so come stanno le cose in sé, ma perché, dall'interno di una situazione storica, mi sforzo di capire (che vuol dire: interpretare) il suo "senso" - anche come direzione verso cui essa indica, provenendo da dove proviene. Ebbene, parlare di pensiero debole significa ritenere che il senso della nostra provenienza "occidentale", giudaico-cristiana e anche illuministica, sia l'indebolimento delle pretese strutture forti dell'essere: dallo stato autoritario a quello democratico, dalla credenza nell'evidenza di coscienza alla consapevolezza freudiana dei moventi inconsci, dalla certezza dell'oggettività al sospetto marxiano e nietzschiano nei confronti delle ideologie, delle bugie inconsapevoli dovute alla nostra condizionatezza storica… Persino gli enti di cui parla la fisica di oggi sono tutto tranne che "reali" nel senso del coniglio gavagai… Se c'è un'altra interpretazione della nostra situazione, sarò lieto di discuterla, come un'altra possibile interpretazione, e in base ad argomenti storici (autori, testi, esperienze vissute, ecc.). Naturalmente, se qualcuno viene e pretende che quel che dice è la verità "oggettiva", allora mi ricordo, parafrasandolo, di Goebbels, metto mano alla pistola.

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la nera schiena della ragione

che cosa significa essere oggi illuministi

di ROBERTO ESPOSITO


L’intervento di Roberto Esposito che qui pubblichiamo, prende spunto da un articolo di Eugenio Scalfari uscito su queste pagine il 3 dicembre scorso con il titolo "I lumi del nostro secolo non sono più di moda". Più in generale si fa riferimento al dibattito che si è stabilito su queste pagine al riguardo, e che si è sempre presentato sotto la testatina "Che cosa significa essere illuministi oggi".
Allo scambio di idee su questo tema hanno partecipato anche Franco Volpi (l’8 dicembre) e Sebastiano Maffettone (il 30 dicembre). Un commento di Umberto Eco intitolato "La forza del senso comune" è stato pubblicato il 31 dicembre. Sergio Givone è intervenuto il 2 gennaio 2001 e Gianni Vattimo il 4 gennaio.

Prima ancora di entrare nel merito delle questioni aperte dall'articolo di Scalfari e da quelli che gli sono seguiti sul nostro rapporto con l'illuminismo, credo che valga la pena di porci una domanda preliminare. Perché parlare di noi attraverso l'illuminismo? Perché questo ritorno sul problema dell'illuminismo a qualche anno di distanza da un dibattito per molti versi simile, a sua volta preceduto da altre discussioni sullo stesso argomento? Certo, si può rispondere, ciò accade anche per altre stagioni della nostra tradizioneper l'umanesimo, il barocco, il romanticismo, il positivismo. Ma, appunto, né con la stessa frequenza, né con la stessa intensità. Nell'illuminismo c'è qualcosa che ci tocca e ci preme assai più da vicinoun rapporto privilegiato con la nostra vita presente. E' come se parlare di illuminismo non voglia semplicemente dire istituire il raffronto con una matrice, certo cruciale, della nostra cultura, ma parlare direttamente di noinon solo suoi figli riconoscenti oppure, come sostiene Scalfari, ingrati, ma suoi contemporanei nonostante e attraverso il tempo che ci separa da esso.
La risposta più convincente a questa domandasull'illuminismo, su di noi: è appunto la stessa cosace la fornisce Michel Foucault in un saggio di poco precedente la sua morte, intitolato precisamente Che cos'è l'illuminismo . In esso il filosofo, analizzando i testi kantiani in argomento, sostiene che Kant non intende l'illuminismo semplicemente come un'età del mondo, come un evento di cui si percepiscono i segni e neanche come l'aurora di qualcosa che sta per compiersi, ma piuttosto e soprattutto come il punto a partire da cui la filosofia s'interroga sul proprio presente. Mentre fino alloraspiega ancora Foucaultla cultura moderna si era sempre definita nei modi di un rapporto "longitudinale" nei confronti del proprio passato, attraverso una comparazione con gli Antichi, Kant interroga l'illuminismo secondo una relazione "sagittale" con la propria attualità: «Qual è la mia attualità? Qual è il senso di questa attualità? E che cosa faccio quando parlo di attualità?». Da questo punto di vista l'illuminismo non è soltanto una delle tante facce, ma la forma stessa della filosofia moderna.
E' per questo, evidentemente, che non possiamo non dirci illuministi, anche a prescindere dalla nostra valutazione sul suo significato e sulla sua eredità. Quella eredità emerge come parte di noi non appena ci interroghiamo sulla nostra vita, sui nostri progetti, sui nostri valorianche se essi risultano diversi e addirittura opposti tra di loro. Se c'è, anzi, un contenuto veramente universale nell'illuminismo è esattamente l'accettazione di tale diversità. E ciò non tanto nei termini dell'ormai abusato relativismo culturale, quanto piuttosto in quelli del carattere ambivalente, doppio, di ogni espressione della realtà.
E' questoper tornare direttamente al nostro dibattitoil motivo per cui non solo è sbagliato, ma non è possibile adottare né un atteggiamento di condanna preconcetta, come quello di Horkheimer e Adorno, né un atteggiamento di adesione integrale: dal momento che il tratto specifico dell'illuminismo sta precisamente nella sua differenza interna, nella sua forza di autodecostruzione. Come altrimenti potrebbero starvi insieme i nomi di Voltaire e di Rousseau, di David e di Füssli, di Kant e di Sade, di Mozart e di Blake?
Non solo. Ma come potrebbero convivere all'interno di ciascuno di essi la rivendicazione orgogliosa della ragione dispiegata e la coscienza dei limiti che la trattengono in un'orbita definita, la speranza nel progresso civile, etico, politico rappresentato dalla grande rivoluzione ed il timore per i mostri che essa stessa ha generato dal suo seno? E ancora i segni contraddittori dell'estendersi della pace e del ritorno della guerra, della forza delle istituzioni moderne e degli abusi che continuamente ne derivano, degli slanci e dei regressi, delle conquiste e dei fallimenti, degli impulsi e delle ferite che rovesciano il mondo su se stesso prima di imprimergli una nuova spinta in avanti?
In uno dei più bei libri di questi anni sull'illuminismo1789 I sogni e gli incubi della ragioneJean Starobinski racconta che Goethe, tornato dal suo viaggio in Italia, elabora la teoria secondo la quale il colore risulta dalla polarità della luce e dell'oscurità. Questo stesso principio che lega luce e tenebre in un nodo irresolubile nell'ambito della visione vale per l'intero universo intellettuale, politico, morale: «io non sono che una parte delle tenebredice Mefistofeleche ebbe per figlia la luce; quella stessa luce, che alla Madre Notte ora contende spazio e rango antico». Ecco, l'illuminismo cui dobbiamo guardare perché ci restituisce il senso della nostra contemporaneità è quello che ha la forza di cogliere il proprio fondo cavo, di avvertire la notte che non sta solo nel suo passato, ma che insidia il suo presente e il suo futuro.
Da questo punto di vista concordo con Givone quando vede in Vico il primo illuminista e contemporaneamente colui che avvia una riflessione critica sull'età rischiarata e con Volpi quando scrive che il simbolo, il mito, l'immaginazione sono risorse troppo preziose per essere lasciate agli irrazionalisticome una certa tradizione analitica invita a fare in omaggio ad una cultura angloamericana (che nel frattempo si è in larga parte convertita a Heidegger e Derrida). Insomma l'illuminismo è di gran lunga preferibile all'antiilluminismo, se, e solo se, è in grado di comprenderne e in qualche modo assumerne le ragionidi rivolgere su se stesso il fascio di luce critica con cui intende illuminare la realtà esterna. Per esempio incrociando il motivo irrinunciabile dell'universalismo non con la logica dell'identità, ma con quella della differenza, con tutta la difficoltà che tale operazione certamente comporta.
In questo senso non direi davverocome vuole Maffettoneche le pagine culturali di Repubblica si siano allontanate dalla sensibilità di Scalfari. Al contrario. E ciò non soltanto per l'alternanza tra interventi su Nietzsche e articoli sui salotti francesi, ricordata scherzosamente da Eco, ma anche perché solo la conoscenza della grande cultura della prima metà del secoloMann, Musil, Schmitt, Heidegger, Jüngercon tutti i suoi splendori ed errori può aprirci gli occhi nei confronti di qualsiasi integralismo, cattolico e laico, comunitario e liberale, continentale ed analitico che contraddice l'illuminismo nel momento stesso in cui se ne dichiara unico erede.
E del resto non è stato proprio Scalfari in un libro che ho avuto l'opportunità di presentare a NapoliAlla ricerca della morale perdutaa ricordare come soltanto sullo sfondo in ombra di Pascal, dei problemi che egli pone pur senza riuscire a risolverli, è possibile riconoscerci nella luce di Voltaire? Con la conseguente conclusione, tirata anche da Vattimo nell’ultimo intervento, che è vano ogni tentativo di fondare la morale su presupposti esclusivamente razionali, e dunque oggettivi, dal momento checome direbbe il più grande degli antiilluministineanche il principio di ragione può reggersi in bilico su se stesso.

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quanti lumi nella storia

che cosa vuol dire essere oggi illuministi

di SERGIO MORAVIA


L’intervento di Sergio Moravia, che qui pubblichiamo, prende spunto da un articolo di Eugenio Scalfari uscito su queste pagine il 3 dicembre scorso con il titolo "I lumi del nostro secolo non sono più di moda". Più in generale si fa riferimento al dibattito che ne è seguito, e presentato sempre sotto la testatina "Che cosa significa essere illuministi oggi".
Allo scambio di idee su questo tema hanno partecipato anche Franco Volpi (l’8 dicembre) e Sebastiano Maffettone (il 30 dicembre). Un commento di Umberto Eco intitolato "La forza del senso comune" è stato pubblicato il 31 dicembre. Sergio Givone è intervenuto il 2 gennaio, Gianni Vattimo il 4 e Roberto Esposito il 6 di questo stesso mese.

Ho la sensazione che nell’articolo di Scalfari e negli interventi che lo hanno seguito si siano intrecciati tre temi in parte diversi tra loro: un giudizio su Isaiah Berlin, un ripensamento dell’Illuminismo nei suoi più significativi contenuti storicointellettuali, una presa di posizione sul rilievo dell’eredità illuministica per noi oggi (accompagnata talvolta da accenni a posizioni filosofiche di carattere generale degli studiosi intervenuti).
Per quanto riguarda il primo tema, il mio giudizio è assai simile a quello espresso da Scalfari. Berlin è stato certo un saggista affascinante, che ho sempre letto con grande partecipazione. Alla storia delle idee ha però donato più spesso intuizioni diversamente valide che non analisi fondate e rigorose dei temi affrontati.
Il «Controilluminismo» di vari suoi scritti si collega a una reazione storiografica ed eticopolitica contro i presunti universalismi astorici e altri "difetti" e "pericoli" di molti principi illuministici, che è stata particolarmente viva nella Germania e nell’Italia della prima metà del Novecento (si pensi, tanto per fare un nome, a Benedetto Croce). Ma è una reazione che nei nostri annidiciamolo con franchezzaappare assolutamente inattuale.
Il discorso sull’Illuminismo è ovviamente assai più impegnativo, e non lo si può sviluppare nell’ambito di un articolo. Come tutti gli "ismi", esso è essenzialmente un costrutto interpretativo che enfatizza, di determinati processi storici e concezioni teoriche, ora certi aspetti ora altri in stretto rapporto con gli interessi dell’interprete e della sua cultura (e congiuntura) di appartenenza. In ogni caso, è un fatto che ben pochi studiosi odierni riducono il pensiero dei Lumi a un insieme di idee astratte e di improponibili utopie. L’elenco dei suoi valori più peculiari e positivi stilato da Scalfari è impeccabile. Impeccabile, e anche impressionante. In esso troviamo infatti alcuni dei principi più validi della Modernità, a cominciare dalla libertà, dal libero esame, dalla laicità delle istituzioni politiche.
Naturalmente l’Illuminismo non è stato solo questo. Qualcuno (penso al grande storico americano Lester G. Crocker, ben noto anche da noi per un paio di volumi assai significativi) ne ha sottolineato la tendenza a semplificare/liquidare credenze assai complesse, a liberarsi sbrigativamente di istanze ed esigenze non facilmente accantonabili. L’Illuminismo, insomma, visto come un’età soprattutto di "crisi" (per impiegare un concetto assai caro a Crocker): di crisi senza redenzioni e senza, tanto meno, paradisi futuri. Un’età caratterizzata anzi da un duplice, perverso approdo: il Terrore rivoluzionario e le idee del marchese de Sade. Sono tesi difficilmente accettabili, ma non prive di motivi che fanno riflettere.
Ancor più stimolanti le considerazioni sull’Aufklärung di Adorno e Horkheimer. La loro celebre Dialettica dell’Illuminismo è un’opera acuta, provocatoria, capace di creare un salutare disagio anche nel lettore più agguerrito. Senza dubbio è anche un libro assai discutibileper l’unilateralità della diagnosi che esprime su tendenze psicoantropologiche e sociali estremamente negative promosse, secondo i due autori, proprio dallo spirito illuministico (il crescente squilibrio tra il potere dell’individuo e quello della società, l’interpretazione sempre più funzionalstrumentalistica della scienza e della stessa istruzione, il progressivo smarrimento del senso dei Limiti e di una mentalità realmente autocritica). D’altra parte, se abbiamo a lungo accettato un’immagine tutta in positivo dell’età dei Lumi, sarà pur lecito prendere coscienza almeno per una volta, con i due francofortesi, del lato oscuro che ha accompagnato silenziosamente la crescita della Raison: dell’oneroso pedaggio pagato dalla civiltà che così spesso ha dichiarato di ispirarvisi per far valere determinati ideali e valori teoricopratici.
In realtà l’articolo di Scalfari è stato letto (forse, in parte, oltre i suoi stessi auspici) in chiave prevalentemente "contemporaneistica". Che peso ha, nel nostro tempo, la Raison dei Lumi? Qual è l’attualità del suo messaggio? Dobbiamo forse cercare altrove i punti di riferimento più efficaci per costruire e vivere una vita più degna e giusta? La serietà di tali domande richiede il più possibile risposte chiare e distinte.
1. Se la Raison viene proposta così, al singolare e con la lettera maiuscola, allora la prima replica deve essere negativa. In effetti una parte cospicua del sapere moderno si è congedata da quella Ragione, elaborando uno strumentario cognitivo infinitamente più articolatoanche se, di necessità, spesso assai meno certo e rassicurante.
2. Se l’Illuminismo vale come un quasisinonimo di Progresso de claritate in claritatem, allora ben pochi sentiranno di potersi definire illuministi (non certo io, che pure ho dedicato allo studio dei Lumi una parte della mia vita). Il punto è che questa quasi sinonimia è per molti versi fuorviante. Semmai il più profondo messaggio illuministico è consegnato all’esortazione kantiana espressa nella ben nota, ma sempre stupenda, formula Sapere aude. Ciò che l’Illuminismo ci propone è non già una certezza ma una ricerca. Oggigiorno la sola anima legittimata a dirsi illuministica è, per me, quella pronta a viaggiare verso l’insidia delle Colonne d’Ercole (e, se del caso, a superarle). A osservare cose sconosciute, a comparare tutti i dati naturali e, ancor più, tutti gli usi e costumi umanianche per pensarne di nuovi e di migliori. Forse il fatto che tante sciences de l’homme siano nate nel Settecento non è un caso: è un’implicita proposta di proseguire lungo la strada delle conoscenze anche più perturbanti e rischiose. Perché proprio questo sembra essere il destinoo meglio la vocazionedell’uomo moderno.
3. Noi faremo vivere ancor oggi l’eredità illuministica se proseguiremo questa ricerca senza fineallargandola anche (il punto è cruciale) a quegli universi dell’interiorità, della trascendenza, dell’esistere au jour le jour che i Lumi hanno in parte trascurato. Faremo vivere tale eredità se realizzeremo questa ricerca non solo col calcolo della ragione ma anche coll’entusiasmo del cuore. Ciò che io, vecchio settecentista, invidio di più alla stagione illuministica è la Passione. È la «volontà di sapere», nel convincimento (in verità, coll’impegno) che tale Sapere si compirà anche nell’attuazione di una Pratica di vita in più sensi migliore. Tolleranza, felicità, pace perpetua, rigenerazione e poi, naturalmente, Liberté, Égalité, Fraternité. Questi sono i termini chiave dell’età dei Lumi che ancora possiamo e dobbiamo amare.
I loro creatori e seguaci (ivi compresi quelli odierni) sono stati spesso accusati di ingenuità e di retorica. Beh, un momento. Anch’io so bene che non tuttoanzi troppo pocoè stato realizzato in rapporto ai fini indicati da quei termini. Neppure ignoro che ogni Luce produce, nella notte, insondabili coni d’ombra. E poco fa ho pure accennato che ogni conquista éclairée è costata spesso prezzi assai alti. Ma ciò non significa che i concetti/valori di cui sopra siano vanie che se ne possa o se ne debba fare a meno. Significa piuttosto che dobbiamo, capire, vigilare, approfondire. Ed eventualmente cambiare.
Cerchiamo dunquequesto sìanche in altre direzioni, e sulla base di nuovi presupposti o di diverse finalità. Ma non liquidiamo, con sospetta superficialità, le ideeforza che i Lumi ci hanno consegnato. Devono in particolare, coesisteresenza gerarchie precostituiteun tempo della Prosecuzione e un tempo della Trasformazione. In un famoso saggio Franco Venturi ha contrapposto, nel secolo XVIII, le Riforme alle Utopie. Non credo d’essere completamente d’accordo. Ma se continuo ad amare un certo spirito dell’utopia, non per questo respingo a priori l’opera dei (buoni) riformatori. Perché l’aut aut anziché l’et et?
Alcuni anni orsono Habermas ha scritto che la Modernità (per lui strettamente connessa all’Illuminismo) è un «progetto incompiuto». È probabileanzi è certo. Ma non mi pare un buon motivo per abbandonare tout court quel progettosaltando maga

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la notte di Isaiah berlin

dibattito sull’illuminismo

di GIANCARLO BOSETTI


Che cosa significa oggi essere illuministi? L’intervento di Giancarlo Bosetti che qui pubblichiamo prende spunto da un articolo di Eugenio Scalfari uscito su queste pagine il 3 dicembre scorso con il titolo "I lumi del secolo non sono più di moda".
Più in generale l’articolo di Bosetti segue il dibattito che è scaturito dall’intervento di Scalfari. Allo scambio di idee su questo tema hanno partecipato anche Franco Volpi (l’8 dicembre) e Sebastiano Maffettone (il 30 dicembre). Un commento di Umberto Eco intitolato "La forza del senso comune" è stato pubblicato il 31 dicembre. Sergio Givone è intervenuto il 2 gennaio, Gianni Vattimo il 4, Roberto Esposito il 6 e Sergio Moravia il 10 di questo stesso mese.

La discussione aperta da Eugenio Scalfari sull'Illuminismo contiene già diverse possibili diramazioni: se oggi assumere le difese della cultura dei Lumi non sia "controcorrente" più che schierarsi con i suoi vari nemici; se quella medesima contrapposizione abbia ancora senso; se le accuse di utopismo, astrattezza universalistica, determinismo rivolte all'Illuminismo siano anche solo in parte meritate. E infine perché lo stesso Isaiah Berlin fosse così attratto dallo studio dei nemici della "ragione" al punto da suscitare il sospetto che il suo cuore stesse con loro, con i romantici, con gli Herder, i Kierkegaard, gli Hamann più che con i philosophes. Io parto da quest'ultima domanda, che ha il vantaggio di essere più circoscritta e precisa: "da che parte stava" il cuore di Sir Isaiah, perché confido che se riusciamo rispondere bene a questa - che ha in effetti, almeno in apparenza, il carattere di un thriller filosofico - troviamo almeno una parte delle risposte alle altre. E questa domanda - aggiungo - mi piace molto per una ragione egoistica: me la sono posta varie volte anch'io, non unico, negli anni, quando Berlin era ancora vivo, l'ho posta a lui, e con l'aiuto dei suoi scritti, delle sue conversazioni e di alcuni altri studiosi, penso qualche volta di intravedere una risposta. Anche se mi rovino un po' il colpo di scena finale, per chiarezza di svolgimento vi anticipo la conclusione: Isaiah Berlin fece uso a piene mani degli autori del versante romantico e irrazionalistico, "oscuro" o "notturno" della storia del pensiero, amava anche sinceramente alcuni di loro per avere "praticato" la loro mente, ma "non stava dalla loro parte" in alcun modo. Essi erano parte del problema anche se del problema a volte sapevano offrire una meravigliosa visione, proprio come un grande nevrotico, che si presenta come un problema, può dare un bellissimo contributo alla storia dell'analisi psichica perché talvolta è quello che ci fa vedere la soluzione. Che gli heideggeriani, i nichilisti e i debolisti di ogni genere (cito uno per tutti: Vattimo, il più bravo e - Habermas direbbe - il più urbanisiert) non si allarmino perché non sto cercando di "psichiatrizzarli" alla maniera degli stalinisti, sto dicendo che Berlin cerca e raccoglie le confidenze di alcuni di loro per descrivere le loro ossessioni (il caso più evidente è quello di Johann Georg Hamann, che Berlin considera un "fanatico", "un po' pazzo") per ricavarne una migliore conoscenza dell'animo umano, ma anche dei limiti, dei pericoli, dei vizi gravi e molto nocivi che affliggono "gli altri", i razionalisti, i presunti "normali", con i loro eccessi, e le loro patologie. E' come aiutarsi con Hitler per capire Stalin, con le perversioni del nazionalismo per capire le perversioni del costruttivismo comunista e dell'ingegneria sociale applicata alle masse, sterminio di kulaki compreso. Isaiah Berlin sapeva benissimo di maneggiare una materia altamente esplosiva, assai dolente e totalmente mescolata ai guai e ai massacri del secolo trascorso, guai che negli anni Novanta si sono riaffacciati con le pulizie etniche nei Balcani. Berlin aveva già personalmente riproposto i suoi vecchi studi su Hamann (con Il Mago del Nord) proprio per questa ragione. Era il suo modo di "parlare" dei violenti nazionalismi post-comunisti. Prima ancora di pubblicare il libro, nel '93 mi aveva affidato durante le vacanze a Paraggi, per i primi numeri di Reset che esordiva di lì a poco, un vecchio dattiloscritto su Hamann. Perché? Perché, mi spiegò, "cercavo l'uomo che per primo gettò la bomba contro l'Illuminismo e l'ho trovato in questo contemporaneo e concittadino di Kant - era di Koenigsberg anche lui - e ne siamo ancora tutti vittime". Che cosa voleva dire? Che la tradizione di pensiero antirazionalistica, anticartesiana, o antiplatonica, quella che possiamo chiamare variamente e un po' arbitrariamente storicistica, romantica, esistenzialistica, soggettivistica, quella di Vico, Herder, Goethe (e nella quale Hamann è pienamente inscritto) ha avuto il merito di rompere con la "philosophia perennis", con quello che è stato per duemilacinquecento anni il cuore della vita filosofica dell'umanità, il principio che la verità sia una sola. Con il Romanticismo questa unità, questo monismo della verità si rompe. Comincia Vico: la verità dipende dal centro di gravità di una cultura, dipende dall'epoca. Prosegue Herder: dipende dal luogo, dal clima, dalla varietà dei costumi. Questa scoperta apre la strada a una novità sconvolgente: il pluralismo. Hamann rappresenta una posizione rilevante su questo medesimo percorso, ma lui lancia una sfida "dinamitarda"; invece di ricavare dal pluralismo la lezione della tolleranza (come Herder) esagera con una violenza distruttiva verso la diversità degli "altri" e mette le basi del nazionalismo, inaugura una fonte inquinata che non ha ancora finito di distribuire i suoi veleni. Se era comprensibile e necessaria una reazione alle eccessive pretese di uniformità dell'universalismo e del costruttivismo razionalistico, la reazione eccessiva di segno opposto edifica anche l'altra ala di quella specie di arsenale da cui sono uscite tutte le disgrazie della storia contemporanea. Soffriamo - ancora parole di Berlin - di un male duplice: "eccesso di uniformità sul versante illuministico ed estremismo della reazione romantica". L'unica reazione terapeutica davvero salutare sta nel concepire la convivenza di valori che si presentano come diversi, e spesso confliggenti, eppure ugualmente umani ed ugualmente aspiranti a veder riconosciuta la loro validità. Non basta accettare l'esistenza del pluralismo, che già certo è una buona cosa. Salvatore Veca, al quale si deve la pubblicazione in Italia di un libro molto importante e forse il più noto di Berlin, Quattro saggi sul concetto di libertà, ha sintetizzato così il pluralismo, più esigente, del nostro autore: "Molti e differenti sono i valori ultimi, i fini cui gli esseri umani possono aspirare restando pienamente umani, e mantenendo la capacità di riconoscersi e mutuamente comprendersi". Gli ideali buoni, in numero non infinito, sono tanti, diversi. E confliggono. E se confliggono bisogna scegliere. Ma la scelta non deve finire in massacro. Quindi, moderazione. Ancora Berlin: "Ripeto le parole dell'oracolo di Delfi: "non andate troppo lontano". Voglio dire, non spingetevi troppo in là. Di nulla troppo". E' la massima di una filosofia liberale dell'antieccesso, non semplicemente di un illuminista ma di un "anti-antiilluminista" (Veca). Questo del thriller potrebbe sembrare il finale. Invece non è così: c'è un controfinale. Viene infatti da chiedersi, a questo punto: se la conclusione di Berlin è, di fronte ai pericoli, da una parte e dall'altra, troppa ragione e troppo poca, quella di dire "non esagerate", allora Berlin rappresenta una via di mezzo tra Illuminismo e non? Ed è una idea sensata quella di collocarlo "fuori" del progetto dei Lumi causa delle sue intense frequentazioni romantiche? La risposta è decisamente: no. Per molte ragioni, di cui qui posso dirne soltanto una. La lezione di Berlin, di tutta la sua traiettoria intellettuale e politica è forse il più aguzzo sviluppo di uno dei "pacchetti" centrali delle idee illuministiche. Si tratta del "pacchetto" kantiano che va sotto il nome di legno storto. "Da un legno storto, come quello di cui l'uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto". Kant impiegava questa immagine per dire dei limiti entro i quali è possibile perseguire un progetto politico razionale: tradurre in realtà degli ideali è possibile a condizione che non si aspiri a realizzare in terra uno "stato perfetto", soprattutto se si confida in "governanti perfetti". Vi si oppone la natura umana, carica di difetti irriducibili. Berlin ha intitolato così la raccolta dei suoi scritti degli ultimi anni (Il legno storto dell'umanità). Ed il saggio più importante, che è il discorso pronunciato a Torino per l'accettazione del premio Senatore Agnelli nel 1988, contiene la più compiuta formulazione del pluralismo degli ideali e della necessità di perseguirli nei limiti di una visione realistica della natura umana, ed ammaestrati dalla lezione di Machiavelli, Vico, Herder. E soprattutto di Kant, il cui pensiero contiene la principale sintesi filosofica dell'Illuminismo. Ma non si tratta solo di un legame filologico con il più importante pensatore di Koenigsberg; la stessa idea della mutua intellegibilità degli ideali umani, pur diversi e confliggenti, è alle radici di quella "etica del discorso" che coglie nel linguaggio le premesse per una comunicazione razionale tra gli appartenenti alla nostra specie. Quel "calcolemus" che Umberto Eco individua, con Leibniz, come modo per cercare soluzioni ragionevoli e pragmatiche ai conflitti, presuppone molte più cose di quelle che di solito le filosofie postmoderniste hanno voglia di riconoscere, dal momento che qualunque "fondamento" o "premessa" razionale mette in crisi il loro rifiuto di ogni genere di entità "sottostante". Ma senza scomodare adesso nessuna metafisica, e senza confondere Berlin con Habermas, così diverso per tantissime ragioni, si può ben riconoscere la collocazione illuministica del pensiero di Berlin. E rispondere alla domanda su "da che parte sta", se non l'intero suo cuore, almeno l'intera sua testa. Certo ha ragione Scalfari quando rivendica una visione più adeguata del bagaglio dell'Illuminismo francese, che Berlin non ha approfondito con la stessa passione che ha dedicato ai suoi amati autori baltici e russi. Spesso la rappresentazione "cimiteriale", dogmatica e astratta dei philosophes precettori della Ragione trascura che essi erano consapevoli del "pacchetto" del "legno storto" sicuramente molto più di Robespierre, con il quale non vanno confusi. In particolare Diderot. E non solo per la molteplice "concretezza" delle loro attività scientifiche, tecniche, imprenditoriali (l'Encyclopédie), ma anche per chiarezza teorica. Sono tipici tratti degli illuministi francesi la rivendicazione del diritto all'errore e al dubbio. "Si deve esigere da me che io cerchi la verità, non già che la trovi", scriveva Diderot nelle Pensées philosophiques, la difesa dello scetticismo: "Ciò che non è mai stato posto in questione non è affatto provato". E anche nella sfera politica Diderot sapeva bene che il perseguimento di un ideale di progresso non dava esiti univoci: la visione della avanzata delle umane sorti, anche in epoca di Lumi, era temperata dalla convinzione che la perdita di una condizione naturale di innocenza comportava anche una decadenza morale e che, per di più, nella civilizzazione si annidava il rischio della tirannide. "Diffidate di colui che vuol mettere ordine", diceva Diderot. "Di nulla, troppo", direbbe Berlin, il legno è storto. La filosofia dell'antieccesso, come vedete, non lo allontanava dai fondatori del mondo moderno.

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bobbio

Le illusioni del comunismo e la mia battaglia per i Lumi

di GIANCARLO BOSETTI


Caro Bobbio, in qualche enciclopedia ho letto: Norberto Bobbio, "esponente del pensiero neoilluminista". Per competenza formalmente riconosciuta devo darle la parola nella discussione aperta sulla Repubblica da un articolo di Eugenio Scalfari che solleva vari quesiti, ma soprattutto questo: Isaiah Berlin ha intitolato una sua raccolta di saggi su autori antiilluministi Controcorrente, ma oggi che cosa è più "controcorrente", stare con gli illuministi o con i loro avversari? "A giudicare dalle filosofie dominanti oggi, e soprattutto dai due grandi punti di riferimento dei filosofi contemporanei, che sono Nietzsche e Heidegger, dovrei dire che ha ragione Scalfari, che è controcorrente l'Illuminismo". Ma cominciamo da Berlin: Scalfari sospetta che il suo cuore stia dall'altra parte. Anche lei ha avuto dei sospetti del genere, in un articolo del 1980 per la Rivista storica italiana, dedicato allo stesso libro, che era appena uscito in Inghilterra. "Non c'è dubbio che leggendo i libri di Berlin e soprattutto gli autori a cui va la sua simpatia, sembrerebbe di sì che lui stia dalla parte dei filosofi antiilluministi, sia i pre-illuministi, come Vico, Herder e un assoluto reazionario come Hamann, sia i post-illuministi come un altro dei suoi preferiti, Sorel". Vico è fondamentale nella storia del pensiero secondo Berlin. "Certamente, ed è un tipico rappresentante dell'antiilluminismo; non per nulla Giambattista Vico è stato una quasi-scoperta di Benedetto Croce che ha svolto una delle sue grandi battaglie filosofiche contro l'Illuminismo considerandolo una manifestazione di quello che si usava chiamare "razionalismo astratto", l'espressione di una ragione che non sa riconoscere la pluralità delle situazioni storiche. Per lui la ragione illuministica era una ragione eminentemente antistorica". Ma la partita non si chiude qui, con questa contrapposizione crociana. "L'Illuminismo può essere considerato da due lati diversi, secondo che cosa gli si contrappone. Se gli si contrappone lo storicismo, che fa valere la ricchezza e la complessità del discorso degli storici, può sembrare una filosofia del passato, però se lo si considera nel suo significato autentico di philosophie des Lumières, di Aufklärung nel senso kantiano, e in questo caso gli si contrappone non lo storicismo ma l'oscurantismo, le filosofie tradizionali di ispirazione religiosa, il dogmatismo, in generale la cultura dei secoli che gli Illuministi chiamavano il "regno delle tenebre", allora non è altro che la filosofia del progresso contrapposta alla filosofia reazionaria". Questa versione suscita indubbiamente più simpatie. "La scelta della contrapposizione dipende dalla maggiore o minore avversione che si ha per l'Illuminismo. Certamente quelli come me che, dopo la guerra, si sono considerati "neoilluministi", facevano riferimento al fil de la lumière, a un ideale di rischiaramento, in una situazione che vedeva prevalere da un lato la filosofia romantica, idealistica, di Croce e Gentile, e dall'altro filosofie di ispirazione religiosa come il neotomismo dell'Università cattolica del Sacro Cuore. Le consideravamo entrambe filosofie regressive anche perché avevano in qualche modo accompagnato il fascismo, o lo avevano giustificato e sostenuto (basta pensare a Gentile). Contro queste noi sostenevamo una filosofia della ragione autonoma, che giudica la storia, non si dà il compito di giustificarla secondo il principio hegeliano che tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale". Sono cose che si imparavano nei licei degli anni Sessanta e Settanta, ma adesso si vanno forse un po' allontanando. "Noi vedevamo la storia dal punto di vista di una idea di progresso fondato sul principio della libertà, intesa come liberazione progressiva e non mai del tutto esaurita, da tutti i pregiudizi, dai miti, dalle filosofie metafisiche, che in sostanza erano fideistiche. Noi neoilluministi rivendicavamo le ragioni della ragione. E nel contrasto tra ragione e fede, tenevamo per la ragione. Pensate un po'". E su Vico c'erano molte polemiche. "Perché era l'autore di Croce, il rappresentante di una filosofia fortemente antiilluministica, in quanto storicistica. Nicola Abbagnano, con la pretesa di essere originale, sosteva che Vico fosse in realtà un illuminista, il primo illuminista italiano. Ma per la maggior parte di noi, che pure eravamo suoi amici, questa interpretazione era inaccettabile. In sostanza il concetto di Illuminismo, come tutti gli "ismi" si presta alle più diverse interpretazioni: se lo guardi con simpatia è filosofia dei Lumi contro le tenebre, se lo guardi con antipatia è intellettualismo contro storicismo". Insomma il concetto è un po' vago. "Ed era piuttosto vago anche in Gobetti. Pensando a questa discussione, in questi giorni ho riletto un suo articolo che si intitola Illuminismo. Era l'editoriale di presentazione della sua terza rivista, nata nel dicembre del '24, che si chiamava il Baretti, dal nome dello scrittore del 700 elevato a rappresentare l'Illuminismo italiano. Eppure Gobetti, che era crociano, veniva da una educazione di tipo storicistico. Si capisce che il concetto, nella sua mente affollata di idee che urgono e spingono dalle parti più diverse, viene preso per il suo significato positivo anche se generico: è una bandiera di battaglia contro il fascismo, contro Gentile e il suo idealismo, contro le conversioni alla Papini, contro il neoclassicismo della Ronda, contro il futurismo e le "cento religioni", contro il provincialismo e il nazionalismo". Ma se sia Croce che Berlin, entrambi liberali, hanno questa grande simpatia per Vico e per autori storicisti e atiilluministi, viene da chiedersi: tra liberalismo e Illuminismo ci sono dei conti in sospeso? "L'antiilluminismo negli scritti di Berlin mi ha fatto sorgere la domanda se il suo sia veramente un pensiero liberale. Lui è indubbiamente considerato un grande pensatore liberale, ma gli autori, tutti quelli che propone, rivaluta, mette in onore, appartengono alla tradizione opposta, tranne uno: John Stuart Mill. Ora, nella tradizione liberale sono fondamentali, oltre a Kant, John Locke e Benjamin Constant. Quest'ultimo è l'autore de La libertà degli antichi contrapposta alla libertà dei moderni (un libro che fissa per sempre che cosa si dovrebbe intendere per liberalismo, non la libertà degli antichi ma quella dei moderni, che è libertà da, freedom from, libertà dallo Stato, emancipazione degli individui dalla soggezione alla collettività, mentre la libertà degli antichi è quella che si identifica con l'autonomia, cioè con l'obbedienza alla legge che ciascuno dà a se stesso (Rousseau). La libertà liberale dei moderni è uno scioglimento che si vorrebbe definitivo da ogni forma di organicismo. Ora se si prende questa libertà alla Constant e la si va a cercare negli autori di Berlin non la si trova proprio, nonostante lo stesso Berlin sia, come si sa, l'autore dei Quattro saggi sul concetto di libertà ed abbia legato il suo nome proprio alla distinzione tra "libertà negativa" e "libertà positiva"". Ma in Berlin c'è la libertà di Kant che è anche emancipazione dell'individuo. E il romantico Hamann lui lo studia a fondo ma lo descrive come un fanatico, come l'iniziatore della velenosa e violenta tradizione del nazionalismo. "Sì, ma anche la intervista che diede a Reset nel 1994 non è del tutto convincente. Tornava a insistere sui meriti di Vico e di Herder e sul pluralismo, confermando che il grande obbiettivo di Berlin era l'attacco al monismo, in tutti i suoi aspetti, quello ontologico (la realtà è regolata da un unico principio), quello metodologico (la realtà tutta, umana e naturale, è conoscibile attraverso una unica ragione, quella della scienza), quello teleologico (tutto converge armonicamente verso una unica meta) e quello etico (c'è un valore ultimo, un unico bene uguale per tutti). Il monismo è sempre il grande bersaglio di Berlin, l'eterno nemico da battere, per fare trionfare il pluralismo. Rimane il fatto che gli autori che Berlin coltiva sono i nemici dell'Illuminismo. Questa contraddizione rimane. Una volta ho fatto l'ipotesi che essi rappresentassero per lui i campioni della "libertà positiva", ma non sono mai riuscito a darne una convincente spiegazione". La libertà positiva (la libertà "di", la capacità di diventare padroni di se stessi, di fare, di eliminare gli ostacoli), alla quale Berlin preferiva quella negativa (la libertà "da"), più genuinamente liberale, mentre la prima è imparentata con il socialismo e il comunismo, ci porta qui a misurare i rapporti tra Illuminismo e marxismo. Per Berlin il marxismo rappresentava la "esagerazione" dalla parte opposta a quella del nazionalismo, il comunismo era un eccesso di universalismo e di razionalismo, altrettanto pericoloso. "Ma anche in questo Berlin non mi convince, perché rispetto alla libertà della democrazia liberale e borghese, nazismo e comunismo sono due fratelli: hanno lo stesso nemico. Ho molto apprezzato il libro appena uscito, di Paolo Bellinazzi - L'utopia reazionaria (Name editore) - che analizza gli argomenti che nazismo e comunismo propongono a difesa delle proprie tesi e dimostra che, contrariamente alla opinione comune secondo cui nazismo e comunismo sono ideologie opposte, essi hanno matrici comuni: tutti e due combattono il libero mondo borghese del mercato e degli stati parlamentari, tutti e due sposano la Gemeinschaft contro la Gesellschaft, la comunità arcaica (quella in cui l'individuo è soltanto parte di un organismo) contro la moderna società degli individui singoli (e in quanto tali in libero rapporto tra di loro), tutt'e due avversano l'individualismo e sono fautori dell'organicismo sociale". Lei sta dicendo che comunismo e nazismo vengono presentati entrambi come nemici della modernità. "Sì, e il Bellinazzi argomenta molto bene questa tesi. Quando per esempio scava nei rapporti tra i due antagonisti Carl Schmitt e György Lukacs scopre che sostengono su per giù le stesse idee perchè hanno lo stesso nemico, la borghesia e le filosofie del mercato; in un certo senso avversano entrambi la stessa produzione della ricchezza, sono tutti e due reazionari. Il principe di questi reazionari sarebbe Rousseau, che rappresenta l'archetipo della filosofia retriva e antimoderna, una filosofia che conviene agli uni come agli altri proprio perché reazionaria". Che cosa non va in Rousseau, dal punto di vista della modernità? "Che stronca il razionalismo e l'ottimismo degli illuministi e raccomanda ai suoi contemporanei di ritirarsi nella propia interiorità in un secolo come il Settecento che era invece destinato ad emancipare l'individuo dal ritorno all'interiorità agostiniana: in te redi, in interiore homine habitat veritas. E Rousseau in pieno Illuminismo propone questa marcia a ritroso nei secoli. Ma è interessante anche la critica che l'autore svolge, dal punto di vista della modernità, della scuola di Francoforte di Adorno e Horkheimer, di cui è indicativo proprio l'attacco all'Illuminismo. Cito dal libro: "Comunismo e nazifascismo sono dei movimenti retrogradi che cercarono di tornare indietro, dando di bel nuovo il potere in mano a ristrette e aristocratiche oligarchie"". Ma lei è d'accordo con le tesi di Bellinazzi? "Il libro è molto ben documentato dal punto di vista storico e filosofico e mi ha colpito anche per una certa assonanza di idee. Ho sempre sostenuto che la storia del Novecento è caratterizzata da tre protagonisti, fascismo, comunismo e democrazia (e non solo dai primi due). Ho anche sempre sostenuto che la vittoria sarebbe toccata ai due dei tre che si sarebbero alleati. La seconda guerra mondiale è stata vinta dalla alleanza tra democrazia e comunismo, che è stata fatale per il nazismo. Questo è indubbio, però è anche vero che questa alleanza era una alleanza di guerra, che si è saldata nel momento in cui stava scoppiando la guerra mondiale.E infatti appena il nazismo è stato sconfitto è cominciata la guerra fredda tra i due vincitori, per cinquant'anni, una guerra che questa volta è finita senza bisogno di sparare, perchè con Gorbaciov i comunisti hanno gettato la spugna". Quindi quella alleanza non aveva radici in una maggiore affinità, o almeno in una minore distanza, tra comunismo e democrazia? Perché, vede, ci siamo in un certo senso abituati a pensare al marxismo - in questo d'accordo anche Berlin - come una "esagerazione" ma dalla parte opposta a quella del nazismo, come un eccesso del "razionalismo astratto", invece che come un eccesso dell'"irrazionalismo concreto". Insomma, errore sì, ma dalla parte degli Illuministi e al di là di loro. "Questa è una delle idee che i comunisti hanno coltivato per autogiustificarsi, è stato un tentativo di autolegittimazione del comunismo". Eppure il nazismo si dichiara nemico dei Lumi, mentre il comunismo si propugna continuatore e "superatore". "Questa valutazione è destinata a cambiare. Noi che abbiamo combattuto il nazismo alleati dei comunisti (e per fortuna c'è stata questa alleanza, che ha determinato la vittoria della democrazia) abbiamo sempre cercato di legittimare e giustificare in qualche modo i comunisti. Era comprensibile che cercassimo di rappresentarlo come un fenomeno progressivo e non regressivo. Eravamo alleati in una guerra mortale, capite? Ci sforzavamo di vederne gli aspetti positivi, che dopo la caduta del comunismo, non vediamo più. Dopo la sua sconfitta definitiva siamo stati costretti a rivedere le idee che ci eravamo fatti sul comunismo". Quante volte hanno attaccato lei, Bobbio e tutti gli azionisti per "condiscendenza" verso i comunisti. "E' vero: tutte le accuse di filocomunismo che ho ricevuto dipendono da quella ragione. Ma vogliamo renderci conto che noi della nostra generazione siamo stati alleati del comunismo per combattere il nazismo? Non è una giustificazione ma una spiegazione. E' evidente che abbiamo sempre mantenuto una certa differenza nel giudizio critico su nazismo e comunismo e che non abbiamo mai pensato di identificarli. Ma una volta caduto il Muro di Berlino, i fatti ci hanno costretto a cambiare idea". I fatti e i libri. Tre anni fa è arrivato il momento del Libro nero sul comunismo di Courtois. "E me l'ha fatta lei per l'Unità quella intervista, nel 1998, in cui dicevo che bisognava prendere atto che "non c'è paese in cui sia stato instaurato un regime comunista, ove non si sia imposto un sistema di terrore, dall'Unione Sovietica alla Cina, dall'Albania di Hoxa alla Romania di Ceaucescu, dalla Corea di Kim Il Sung alla Cambogia di Pol Pot". Insomma, di fronte alla prova di fatto che il comunismo era intrinsecamente antidemocratico e totalitario, bisogna ammettere che la tesi del Bellinazzi è giusta: non c'è dubbio che c'è stata una parentela tra nazismo e comunismo. L'uno e l'altro hanno avuto come bersaglio il mondo borghese, non hanno riconosciuto la positività storica del mondo mercantile, vi hanno visto solo egoismo e cinismo, hanno considerato la corsa alla ricchezza borghese come un elemento negativo da combattere per creare una società che abolisse tutto questo. Comunisti e nazisti credevano che la loro utopia indicasse la via del progresso, invece erano ugualmente reazionari. In termini filosofici erano reazionari tanto Marx quanto Nietzsche. Il valore del mondo libero borghese sfugge all'uno e all'altro, ed è combattuto tanto dal nazismo quanto dallo stalinismo". Obbiezione: ma si può coinvolgere in questa equazione tutto il marxismo? Dal movimento operaio nasce anche il riformismo socialdemocratico, la cittadinanza sociale, un sistema di civiltà che è il nostro. "E le rispondo che la fonte principale della socialdemocrazia non è Marx, perché questa nasce in Inghilterra. La vera antitesi entro il movimento operaio, quella che dà vita alla tradizione riformista, scaturisce da un mondo non marxista. Ha contato di più in questo John Stuart Mill che Marx". Altra obbiezione. Marx era in guardia contro l'accusa di non volere il progresso e attaccava l'"anticapitalismo romantico". Il Manifesto comunista contiene un enfatico apprezzamento per la rivoluzione borghese. Il momento del proletariato doveva venire "dopo". "Questa era la linea di difesa di Marx, ma le repliche della storia hanno dimostrato che sbagliava. La sua ideologia ha prodotto il comunismo e il comunismo è stato l'opposto di quello che immaginava. Quando parlava del passaggio dal regno della necessità a quello della libertà, esprimeva una sua illusione, e si è rivelato un terribile errore di visione storica". Nell'89 lei parlava in un celebre articolo sulla Stampa di "utopia capovolta", adesso questa è diventata una "utopia retrograda". "Accetto l'espressione del titolo del libro di Bellinazzi, utopia reazionaria. E' insita in questo disegno utopico di trasformazione radicale della società una idea antiliberale, perché il liberalismo crede che la storia della libertà sia una storia di continui passaggi dal bene al male dal male al bene, di tentativi riusciti e tentativi falliti. Non c'è una fine obbligata nella società perfetta. Liberalismo è uguale ad antiperfezionismo, mentre il marxismo come il nazismo erano utopie perfezionistiche". Contro il perfezionismo allora lei è d'accordo con Isaiah Berlin? "Di nulla troppo". "E in questo Berlin, il Berlin del "legno storto", quello del discorso di Torino del 1988, della ricerca della compatibilità tra ideali diversi, e ugualmente validi, aveva completamente ragione".

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il cuore di Berlin batteva per i lumi


di RALF Dahrendorf


La lettura di alcuni saggi di Isaiah Berlin ha indotto Eugenio Scalfari ad aprire, sulle colonne de La Repubblica, un dibattito affascinante, ovvia¬mente destinato a rimanere aper¬to: il problema è se vi sia oggi un eccesso, o al contrario un deficit di Illuminismo. Scalfari non ha dubbi: abbiamo bisogno di accre¬scere, non certo di diminuire i lu¬mi della ragione. Ed io sono lieto di associarmi a lui su questo pun¬to di carattere generale. Tuttavia il suo articolo, così come i com¬menti di altri eminenti autori, mi inducono a formulare tre postille.
La prima riguarda la questione di quanto il controilluminismo «stia a cuore» a Isaiah Berlin. Che a Scalfari sia sfuggito il pe¬nultimo paragrafo del suo sag¬gio? «Queste cupe dottrine di¬vennero fonte di ispirazione dei monarchici in Francia, e accanto alla nozione di eroismo romanti¬co, così come alla drastica con¬trapposizione tra nazioni e indi¬vidui creativi e non creativi, sto¬rici e antistorici, ispirarono il na¬zionalismo, l’imperialismo e in¬fine, nella loro forma più violen¬ta e patologica, le dottrine fasciste e totalitarie del ventesi¬mo secolo».
Il testo in questione era stato scritto per Il Dizionario di storia delle idee, un’occasione che non si prestava certo all’esposizione appassionata di convincimenti personali. (E c’era oltre tutto una rigida limitazione dello spazio; in un’altra opera di Berlin, Il le¬gno storto del’umanità, Scalfari potrà trovare ampi brani dedicati a Nietzsche). Il cuore di Isaiah Berlin è sempre stato dalla parte dell’Illuminismo.
A lui si deve inoltre una chiara esposizione delle diverse impli¬cazioni dell’Illuminismo. La for¬mula di un «pluralismo senza re¬lativismo» esprime nel modo più semplice i suoi convincimenti. Gli individui hanno opinioni di¬verse e profondamente radicate; e spesso non c’è modo di decide¬re in favore dell’una o dell’altra. Con ciò non si vuol dire che le opinioni si equivalgano, tutt’al¬tro! Ma dobbiamo trovare un mo¬do per convivere con la pluralità. La difesa della libertà in quanto concetto fondamentalmente «negativo» di tolleranza, di di¬sponibilità al dibattito e di oppor¬tunità, che valsero a Berlin pe¬santi attacchi, è al centro della sua visione dell’Illuminismo.

L’espressione «versione dell’Il¬luminismo» mi porta alla seconda delle mie note: che cos’è l’Illumi¬nismo? Lo chiese Immanuel Kant nel suo celebre articolo del 1784; e rispose al quesito postulando l’uso pubblico della ragione. «Vi¬viamo in un’era illuminata? No, ma viviamo in un’era illumini¬sta». Come dire che non si può pensare a un’età dei Lumi come a qualcosa di compiuto. L’illumini¬smo è un metodo, non uno stato delle cose: un metodo aperto agli umani dal momento in cui abbia¬no abbandonato le forme di di¬pendenza auto inflitte, e cessato di essere sudditi per divenire cit¬tadini.
Karl Popper è chiaramente un diretto discendente di Kant. La sua nozione della società aperta descrive la condizione che Kant aveva in mente (e che Isaiah Ber¬lin ha sviluppato nel suo Saggio sulla Libertà). Storicamente, sul significato dell’Illuminismo esi¬stono almeno due concezioni al¬ternative: quella di Rousseau e quella di Hegel.
Quando Kant parla dell’uso pubblico della ragione, non parte dal presupposto che il dibattito debba portare a un solo ed unico ri¬sultato. I punti di vista saranno di¬versi, e noi dobbiamo pensare a un meccanismo istituzionale in gra¬do di conciliarli. E’ a questo che dovrebbe servire, in termini mo¬derni, la garanzia costituzionale della libertà. Diverso il mondo di Rousseau. La volonté générale che invoca non riconosce ecce¬zioni, e neppure minoranze. Qui il presupposto è che quando gli es¬seri umani avranno visto la luce, sarà la stessa luce per tutti. Ed è su questo punto che in Origins of To¬talitarian Democracy (Origini della democrazia totalitaria) J. L. Talmon attacca per la prima volta Rousseau, accusandolo di essere uno dei progenitori intellettuali della tirannia moderna.
Hegel è andato ovviamente un passo più in là. In un celebre para¬grafo (il numero 258) della sua Fi¬losofia del Diritto, ridicolizza Kant per aver preso in considera¬zione soltanto i punti di vista indi¬viduali, e concede a Rousseau, sia pure controvoglia, almeno il me¬rito di aver riconosciuto una vo¬lontà comune o generale. Ma in questo caso si tratta soltanto di un puro e semplice contratto – il con¬tratto sociale , mentre ciò che ve¬ramente conta è la «volontà obiet¬tiva», «di per sé ragionevole in quanto concetto». E di che mai si tratta? Dello Stato come compen¬dio dell’ideale morale, della Prus¬sia, e più tardi di altri usurpatori.
Perciò dobbiamo chiederci co¬sa intendiamo esattamente per Il¬luminismo. Per quanto mi riguar¬da (contrariamente a Umberto Eco), vorrei tracciare una linea chiara, escludendo dalla defini¬zione non soltanto Hegel, ma lo stesso Rousseau (contrariamente a Eugenio Scalfari).
Arriviamo così alla terza delle mie note, che verte sullo stesso problema, e riguarda soprattutto la parola ragione. Chi si colloca nella tradizione della rivoluzione francese e dei suoi ideologi prefe¬risce scrivere «Ragione» con la maiuscola: mentre chi è più in¬fluenzato dalla rivoluzione ame¬ricana (se di rivoluzione si può parlare in questo caso), ritiene che per la «ragione» l’iniziale minu¬scola sia senz’altro sufficiente. In ogni caso, la ragione non è una dea ma uno strumento. E ragionare è più importante che adorare la Ra¬gione.
Questa la differenza tra la no¬zione di illuminismo francese e quella anglosassone. La prima so¬stiene che i concetti vadano pen¬sati fino in fondo, per giungere a una conclusione in maniera siste¬matica e con cartesiana chiarezza. Mentre per la seconda, le questio¬ni umane vanno affrontate speri¬mentalmente, e ogni conclusione è temporanea e potenzialmente erronea. Nella Ragione francese c’è qualcosa di definitivo, mentre quella anglosassone rimane pe¬rennemente incompiuta. La prima si incarna nella linearità della co¬stituzione dell’Unione europea (quanto meno nella sua prima ver¬sione, quella del Trattato di Ro¬ma), mentre l’altra si realizza nel¬la meravigliosa adattabilità della costituzione degli Stati Uniti d’A¬merica, e più ancora in quella non scritta del Regno Unito.
Le differenze dunque sono im¬portanti, anzi importantissime; e se non escludono un fronte comu¬ne di difesa dal contro illumini¬smo, forniscono una risposta su dove e come tracciare la linea di demarcazione tra la società aperta e i suoi nemici.

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Quello che resta
del secolo dei Lumi

Le verità
che corteggiamo

di EUGENIO SCALFARI


"CHE faccia bello o cattivo tempo è mia abitudine andare a passeggiare ogni pomeriggio verso le 5 nei giardini del Palais-Royal. Intrattengo me stesso con la politica, l'amore, il gusto, la filosofia e abbandono la mente al suo libertinaggio lasciandola padrona di seguire ogni pensiero che le si presenti, saggio o folle che sia. E la mente si comporta come quei giovani dissoluti che corrono dietro alle ragazze con l'aria sventata, il volto sorridente, l'occhio vivace e il nasino all'insù, corteggiandole tutte senza attaccarsi a nessuna di loro. Ecco: i miei pensieri sono le mie puttane". Così comincia uno dei più bei dialoghi filosofici di Denis Diderot, "Le neveu de Rameau" con un tocco di leggerezza elegante che rileva fin dalle prime battute lo stile del grande scrittore e contiene in poche righe apparentemente svagate il tema di fondo d'ogni filosofo e d'ogni filosofia: la natura del pensiero, anzi il pensiero che pensa se stesso.
La mente di Diderot è libertina, insegue un pensiero e presto l'abbandona per corteggiarne un altro come fanno i giovanotti a caccia di ragazze allegre sotto i portici del Palais-Royal. "I pensieri sono le mie puttane": è una battuta di quelle che non s'erano mai incontrate prima né mai si incontreranno più sulla bocca d'un filosofo e può ben essere considerata l'"incipit" della filosofia dei lumi.
Quelle quattro parole sono la sintesi di una folla di domande (e di risposte) e cioè: che cos'è la mente, che cos'è il pensiero, chi è l'io che dispone della mente e corteggia i pensieri man mano che essi appaiono, che cos'è la volontà che decide di abbandonare un pensiero per seguirne un altro, chi è che immagina una scena del genere pensando il proprio pensiero e la propria mente.

Quattro parole che definiscono un'intera e compiuta ontologia intrisa di scetticismo, sperimentalismo, irriverenza, rottura col passato, rifiuto dell'autorità e della sacralità, indicando gli ascendenti di quello che verrà chiamato l'Illuminismo: Montaigne, Spinoza, Descartes, Leibniz, Galileo, Newton; e i compagni di viaggio: Locke, Hume, Voltaire e una folla d'altri maggiori e minori. Poco dopo ma quasi coevo toccherà a Kant ricevere il lascito illuminista e ritrasmetterlo sotto la forma del pensiero critico. Rousseau fa parte a sé: nel bel mezzo della civiltà dei lumi è lui che spalanca la porta al romanticismo e contemporaneamente alla dialettica tra la ragione e l'emozione ponendo le basi intellettuali dell'utopia rovesciata del giacobinismo robespierrista. Nell'azione politica e ideologica dei Robespierre e dei Saint-Just non c'è l'ispirazione di Diderot e di Voltaire, tanto meno quella di Montesquieu. Condorcet, l'ultimo degli illuministi, cadrà vittima del Tribunale rivoluzionario dopo il fosco processo contro i capi girondini. Ma si può attribuire a Rousseau la paternità ideologica del Terrore? E dei seguiti del giacobinismo nel Novecento europeo? Si possono tener responsabili i filosofi, i profeti, i religiosi, degli errori delle colpe dei delitti commessi dall'azione dei politici? Si può giudicare la Storia come un immenso e sempre reiterato reato d'opinione? Chi si incammina su quella strada si impiglia in un'inestricabile rete che sarebbe stata infaticabilmente tessuta da centinaia di mandanti in assassinio a cominciare da Abramo passando per Platone fino ad arrivare a Lutero a Loyola e infine a Nietzsche. Ma questa non è la storia delle idee bensì quella del mattatoio che è altra cosa. [* * * ] Aprendo questo dibattito sull'Illuminismo mi ero chiesto se esso fosse ancora un lievito attivo nella società contemporanea o un lascito ormai esaurito e pietrificato. In polemica con i suoi numerosi critici mi domandavo se oggi ci fosse un eccesso o non piuttosto un deficit di razionalità. Infine mi ponevo il problema di demistificare la caricatura tante volte disegnata che raffigura la filosofia dei lumi come una sorta di impero della ragione astratta contro la concretezza della vita, delle emozioni, dei sentimenti. Queste domande e altre ancora che vi erano connesse portavano a discutere che cosa fosse stato l'Illuminismo come sistema di pensiero e come movimento culturale e politico storicamente determinato. Il dibattito ha avuto un'ampiezza e una partecipazione che francamente non mi aspettavo, con interventi di grande spessore che meriterebbero d'esser raccolti e conservati. Non pretendo certo di concludere un confronto su un tema che anche in questa occasione ha dimostrato la sua attualità e vitalità né mi propongono di rispondere ai vari interlocutori, che ringrazio per i contributi dati alla migliore conoscenza di una corrente di pensiero che segna l'ingresso della cultura europea nella modernità. Mi proverò invece ad esporre alcuni punti che mi paiono acquisiti e alcune questioni che restano invece aperte e meritevoli di riflessioni ulteriori. E comincio dal nucleo centrale della filosofia dei lumi che riguarda la relativizzazione dell'Assoluto in tutte le sue forme filosofiche, religiose, politiche. Ho accennato agli antenati dell'Illuminismo facendo per primo il nome di Montaigne, ma in realtà si potrebbe risalire molto più indietro, al IV secolo avanti Cristo, allo scetticismo di Pirrone e di Timone. C'è infatti un fondo scettico nel pensiero dei "philosophes" che preserva i più consapevoli tra loro perfino dall'asserire come indiscutibile verità il relativismo che impregna la loro filosofia la quale era vista da loro stessi come un procedere in mezzo alle tenebre con una piccola lucerna che rischiarava il cammino, sempre a rischio di spegnersi non soltanto a causa dell'intolleranza degli avversari e dell'arbitrio del potere religioso e politico, ma anche dell'oscurantismo dell'opinione pubblica, dei tabù consolidati nel tempo e infine dallo stesso loro metodo di conoscenza sperimentale affidato ai sensi e alla ragione che i più consapevoli tra di loro ritenevano essere una sorta di sesto senso, un'efflorescenza cerebrale che subiva i mutamenti dell'organo che la emanava ed era quindi ben lontana dall'essere quello strumento perfetto capace di scoprire a colpo sicuro le regole auree che governano l'universo, la natura e l'azione dei viventi. Chi dipinge i "philosophes" come i portatori di un'arrogante miscredenza che appiattisce il mondo su un naturalismo materialista e meccanico ed una nuova religione guidata dalla dea Ragione che tutto spiega cancellando ogni ombra e ogni mistero, ha capito ben poco di questa corrente di pensiero che non a caso non dette mai vita ad un sistema filosofico ma molto più suggestivamente ad un viaggio conoscitivo dove l'aspetto più importante era quello di viaggiare alla ricerca del nuovo più che il nuovo in se stesso. Con le sole eccezioni, in realtà piuttosto rozze e secondarie, di La Mettrie e d'Holbach, i rappresentanti maggiori dei lumi redassero con l'Enciclopedia e con i loro scritti filosofici, artistici, politici, non già un sistema chiuso ma un'opera volutamente rimasta aperta a successivi contributi ed evoluzioni. E non parlarono mai con voce univoca, anzi ciascuno di loro fece parte a sé, spesso contraddicendo i compagni di viaggio e talvolta contraddicendo anche se stessi nel dubbioso procedere dell'opera loro. [* * * ] Mi dispiace osservare che su questo punto perfino un pensatore della levatura di Ralf Dahrendorf, nel suo intervento di ieri, indulga alla versione semplicistica che fa degli illuministi francesi gli adoratori della dea Ragione in contrapposizione con la cultura empirica dei liberali anglosassoni e americani. Questa contrapposizione scolastica fa parte di una "vulgata" che non ha nessuna base storica; il pensiero di Locke si mosse vorrei dire in tandem con quello di Voltaire, Hume fu un punto di riferimento costante per i collaboratori dell'Enciclopedia, i padri fondatori della democrazia americana si formarono sul pensiero dei "philosophes". Un mese prima che Voltaire morisse, Benjamin Franklin arriva a Parigi per incontrarlo ed ecco la cronaca fatta dallo stesso Voltaire: "Franklin aveva portato con sé un suo nipotino che chiese la mia benedizione. Gliel'ho data ponendogli le mani sul capo e pronunciando le parole "God and Liberty". Poi le ripetei in francese "Dieu e Liberté". C'erano con noi una ventina di persone e piangevano tutte". Il giorno dopo tutta Parigi sa di quell'incontro straordinario e l'entusiasmo raddoppia. Ricordo questi fatti per riconfermare anche su base documentale che una contrapposizione tra illuministi francesi e anglosassoni è inesistente e che la società aperta è stata l'obiettivo degli uni e degli altri. Del resto per chi batté in breccia l'assolutismo in tutte le sue forme non avrebbe potuto essere diversamente. Ma torniamo all'essenza filosofica di quel pensiero. La derivazione metodologica da Descartes è palese ma la correzione che Diderot opera sul pensiero cartesiano ha un'importanza fondamentale. Descartes aveva fondato l'intera sua ontologia dell'esistente sulla distinzione tra la "res cogitans" e la "res extensa" o per dirla in modo più piano tra l'anima pensante e il corpo; aveva dato alla "res cogitans" un'esistenza indipendente dai corpi e in quel dualismo aveva recuperato quella metafisica che il "cogito, ergo sum" sembrava aver superato per sempre. Ma Diderot contesta alla radice il dualismo cartesiano e trasforma la "res cogitans" in una funzione della "res extensa". Da un lato si rifà allo Spinoza della "natura naturans", la natura che genera se stessa all'infinito e in forme sempre diverse; dall'altro precorre Nietzsche e la rivalutazione del corpo fatta dal cantore di Zarathustra. Il rapporto Diderot-Nietzsche è stato assai poco esplorato fin qui ed è una lacuna non secondaria negli studi nietzschiani; lo stesso filo che corre tra Spinoza e Nietzsche non mi pare approfondito a sufficienza forse perché si è impigliato nell'ostacolo del panteismo che viceversa è estraneo tanto all'uno quanto all'alto. Non è questa la sede per affrontare problemi di tale dimensione; mi premeva segnalare quale sia stata e tuttora sia l'attualità filosofica del movimento dei lumi e in particolare del suo principale rappresentante. Da questo punto di vista mi permetto di suggerire, non certo agli specialisti ma al pubblico colto, la lettura del dialogo diderottiano Le rêve de d'Alembert che contiene forse la versione più compiuta del pensiero filosofico dell'autore e che, per una serie di circostanze editoriali, è invece uno dei testi meno conosciuti non solo in Italia ma nella stessa Francia. [* * *] Ma c'è un altro aspetto dell'Illuminismo che costituisce elemento fondante della modernità ed è il tema della rappresentazione, della verità e della volontà nelle loro reciproche inferenze. La modernità si può definire in molti modi e con molteplici attribuzioni ma chi volesse arrivare al nocciolo di questa definizione credo che l'identificherebbe in quel rapporto circolare che coinvolge al tempo stesso l'attività conoscitiva, quella estetica, la prassi e la morale. Dopo i "philosophes" quella ricerca diventa centrale in Kant, in Schelling, in Feuerbach, in Schopenhauer e in Giacomo Leopardi. E naturalmente in Nietzsche. Sia detto qui di passata: la grandezza filosofica di Leopardi, come ha ben visto Severino, continua ad essere ignorata e subordinata alla sublimità della sua poetica. È un errore. Leopardi è stato grandissimo pensatore oltreché e forse prima che poeta. I passi dello Zibaldone dove si parla del rapporto tra la verità, l'illusione, l'azione, la morte, il nulla, configurano un pensiero di altissima profondità. Non so se Schopenhauer lo conoscesse quando scrisse il suo Mondo come volontà e rappresentazione pochi anni dopo, né se lo conoscesse Nietzsche quando scrisse la Genealogia della morale, lo Zarathustra e più ancora Gaia Scienza e i Pensieri postumi coevi all'Aurora; ma è certo che il nucleo filosofico leopardiano costituisce uno dei cardini del pensiero moderno ed ha una derivazione illuministica di tutta evidenza. Richiamo da questo punto di vista il poema volterriano sul terremoto di Lisbona e la constatazione del male assoluto come problema inesplicabile che abbatte ogni metafisica provvidenziale privilegiando la casualità della vita e dei suoi svolgimenti senza più traccia di mitologie progressiste, pur indispensabili per dare un senso che al tempo stesso è puramente immaginario ma necessario alla vivibilità dell'esistenza, esattamente come l'illusione necessaria descritta da Leopardi. [* * *] Si dovrebbe ancora parlare della filosofia dei lumi nel suo aspetto di movimento culturale e politico, che è stato presentissimo nell'intervista di Bobbio e in molti altri interventi. Del resto su questo punto i fatti parlano da soli e non mi riferisco soltanto all'azione dirompente che l'Illuminismo ebbe nel segnare il passaggio storico dall'Ancien Régime al costituzionalismo, alla divisione dei poteri, al sistema rappresentativo, ai diritti dell'uomo, all'eguaglianza giuridica e ai diritti di cittadinanza. Mi riferisco alla spinta potente con cui quella corrente di pensiero continuò ad alimentare tutte le lotte che seguirono fino ai tempi nostri contro la tirannide totalitaria, l'assolutismo, le tentazioni neotemporalistiche e i tanti e spesso tragici ritorni all'"utopia reazionaria" di cui parla Bobbio nel suo intervento. Da questo punto di vista, come bene hanno visto Esposito, Givone e Sergio Moravia, la tesi di Horkheimer e Adorno che ritiene l'Illuminismo responsabile non solo del Terrore robespierrista ma anche dei lager comunisti e perfino dell'Olocausto hitleriano è talmente fuori da ogni validità intellettuale da non meritar neppur una confutazione. Ne abbiamo già parlato all'inizio, ma viene acconcio di richiamare qui il pensiero di Heinrich e di Thomas Mann, quest'ultimo convinto di errore quando furono i fatti a dimostrargli d'aver sbagliato nelle sue Considerazioni d'un impolitico e a stimolarlo ad una pubblica e radicale rettifica del suo pensiero. Politicamente il lascito illuminista fa ancora tutt'uno con la politica riformatrice e col pieno recupero della triade "Libertà eguaglianza fraternità" tanto tradita e calpestata durante le drammatiche crisi e massacri del Novecento. Filosoficamente il lascito è quello di procedere con sentimento morale e razionalità intellettuale traendo dal buio alcune provvisorie certezze che galleggiano sull'oceano del caos. Così la nostra specie ha fatto e continuerà a fare perché questa è la nostra condizione esistenziale: di cercare la verità perfino quando sappiamo che non la troveremo neppure oltre le colonne d'Ercole dove la nostra audacia e la nostra necessità ci porta.

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I LUMI LA RAGIONE I DITTATORI


un dialogo tra Umberto Galimberti ed Eugenio Scalfari su "Illuminismo e totalitarismo"
 

Scalfari: Il pensiero cristiano si biforca fin dall´inizio: da un lato la salvezza delle anime, dall´altro l´avvento del Regno sulla terra, la salvezza dei corpi e la resurrezione
Galimberti: Quando dico che la ragione è un insieme di regole bisogna tener presente che tutte le cose sono ambivalenti, disponibili per significati anche opposti
Scalfari:"Anche sul versante comunista abbiamo sentito dire che l´illuminismo andava criticato per la sua astrattezza: per non parlare di quanto afferma la Scuola di Francofort

 

EUGENIO SCALFARI: «Si ha spesso l´impressione che il tema dell´illuminismo sia stato volutamente consegnato all´oblio, forse perché - paradossalmente - è stato oggetto di critica da sponde diverse e anche opposte: oggi, si dice, un papa come Wojtyla attacca l´illuminismo per la fiducia dei Lumi nella ragione, per la pretesa di rendere autonomi gli individui. Ma anche sul versante comunista abbiamo sempre sentito dire che l´illuminismo andava criticato per la sua «astrattezza». Per non parlare della Scuola di Francoforte, che addirittura identifica l´esito «dialettico» dell´illuminismo nei totalitarismi contemporanei, invece che leggervi un tradimento dei Lumi.
«Questa rimozione dell´illuminismo costituisce comunque una latenza, perché ogniqualvolta si arriva ai nodi cruciali della cultura contemporanea, ecco che l´illuminismo ritorna puntualmente: come principale nemico. Come spiegarsi questa vitalità latente dell´illuminismo negli stessi critici che lo ritengono superato? Perché, insomma, viene individuato come il nemico? Tra le tante risposte possibili, vediamo innanzitutto quelle che si possono desumere dalle critiche che gli vengono mosse.
«È il nemico per i cattolici, e non soltanto per l´attuale papa. Papa Wojtyla ha solo radicalizzato un´ostilità che ha dietro di sé una lunga tradizione. Per trovarne l´origine, occorre risalire almeno a Pio IX, e anche più indietro: a quando l´illuminismo si è rivelato come uno spartiacque culturale e politico tra l´ancien régime e la modernità. Questo suo ruolo di spartiacque tra due epoche - che ai miei occhi ne costituisce un pregio - è innegabile: sotto i colpi del nuovo pensiero dei Lumi cade l´ancien régime come struttura gerarchica, politica, ideologica; e cade il sacrum del Re, il corpo del Re.
«E tuttavia, lo ribadisco, l´illuminismo è un nemico anche per coloro che non si riconoscono nell´ancien régime e che, anzi, in modi diversi, lo combattono. E questo è un paradosso.
«L´attacco di papa Wojtyla - e nomino lui perché è il testimone tuttora in campo - è un attacco singolare, in quanto viene da qualcuno che contemporaneamente predica l´ecumenismo nei confronti degli ebrei, dei musulmani e perfino dei buddisti. Questo è senz´altro un atteggiamento nuovo, originale e apprezzabile. Quel che è più notevole, però, è l´attenzione dei cattolici per il rapporto con i non credenti, che costituiscono un vasto settore dell´opinione pubblica moderna. Nell´ambito di questo ecumenismo, i cattolici si preoccupano ora di mantenere con i non credenti un contatto, e di approfondirlo, se non altro sui temi della morale e del bene comune.
«Tuttavia, a differenza di ciò che avviene nei rapporti con i credenti di religioni diverse, l´atteggiamento ecumenico allargato ai non credenti incontra un ostacolo, che è costituito proprio dalla presenza inassimilabile di un nucleo di pensiero che proviene dall´illuminismo. Oltre ad aver segnato lo spartiacque tra l´ancien régime e la modernità, l´illuminismo ha infatti messo in questione l´esistenza dell´assoluto: non soltanto come trascendenza, ma anche come verità. Quindi, per chi si basa sul presupposto di una trascendenza, che è depositaria della verità assoluta, l´illuminismo è il vero nemico. Le altre critiche vengono di solito da chi ha sostituito il paradiso in terra al paradiso in cielo, e cioè dalle ideologie totalitarie e totalizzanti, che riscoprono una forma di assoluto nella verità di cui ritengono di essere depositarie.
«Si spiega, dunque, il paradosso da cui eravamo partiti, ossia il convergere, sull´illuminismo, di critiche provenienti da sponde diverse e perfino opposte: per un verso, da un certo cattolicesimo - ma potrei dire dal cattolicesimo in genere - e dalla destra hegeliana, che sfocia in fenomeni diversi, perfino nel nazismo; e, per altro verso, dalla sinistra hegeliana.
«Detto molto approssimativamente: i regimi totalitari - nel Novecento, il nazismo e il comunismo - trovano sulla loro strada l´ostacolo di chi ha messo in discussione gli assoluti. Non c´è, dunque, una vera contraddizione nel fatto che l´illuminismo venga attaccato tanto da destra che da sinistra».
UMBERTO GALIMBERTI: «Prima di riprendere i punti stabiliti da Scalfari, vorrei aggiungerne uno preliminare: l´illuminismo è l´età della ragione. A questo punto dobbiamo accordarci sul significato di "ragione". Come Aristotele - che chiama il suo libro di logica Organon, cioè "strumento" - dobbiamo riferirci anche noi al suo senso più umile, strumentale: la ragione è un insieme di regole per poter convivere. Ed è questo il modo in cui anche l´illuminismo considera la ragione. Kant, infatti, intraprende una critica della ragione, non la sua apologia; va alla ricerca dei suoi limiti, non della sua espansione universale.
«Quando dico che la ragione è un insieme di regole, bisogna tener presente che tutte le cose sono ambivalenti: per esempio, questo registratore, ora, svolge una sua funzione, ma io posso prenderlo e usarlo come un´arma impropria. Se non presupponessi regole d´uso e di linguaggio, dicendo "registratore" potrei riferirmi a questo apparecchio o a un´arma impropria. Tutte le cose, insomma, sono disponibili per tutti i significati.
«La ragione procede per definizioni, che delimitano il significato di una cosa; mediante il principio di non contraddizione, che non consente di far oscillare la cosa tra una pluralità di significati. La si è inventata, insomma, mediante grandi regole, grazie a cui gli uomini possono comunicare e, dal punto di vista psicologico, ridurre l´angoscia. Altrimenti, se tutte le cose restassero indeterminate, nell´uso e nel commercio delle cose ci troveremmo sempre in uno stato ansiogeno. Pensiamo al "primitivo" che, fintanto che non codifica, rimane sempre in uno stato di allerta.
«La ragione è un grande strumento che non dice la verità, ma dice le regole di convivenza. E arrivare a queste regole è un risultato importantissimo. Io non solleverei il concetto di ragione oltre questa misura, che è già sufficiente ad escludere i miti, le religioni, quell´eccesso di significato di cui si circondano tutti gli apparati simbolici, e a creare un regime di discorsività e di convivenza corretto che è la condizione per la fondazione della città.
«Per Platone, la fondazione della polis presuppone, infatti, un´intesa linguistica. È questo il motivo per cui è necessario escludere dalla città i retori, che muovono la gente tramite gli affetti; i sacerdoti, che parlano ex autoritate; i poeti, che mentono troppo e lasciano oscillare i significati. Sono ammessi invece i filosofi, che parlano dopo aver definito le cose e si attengono alle regole.
«L´illuminismo costituisce una ripresa di questo scenario greco. Il più grande illuminista, Kant, scrivendo una critica della ragion pura, è come se dichiarasse: non esageriamo con la ragione, vediamo che cosa può dire, con correttezza ed esattezza, e che cosa invece non può dire. Può trattare questioni matematiche e fisiche, ma non problemi metafisici, perché questi sorpassano i limiti dell´esperienza.
«I custodi della ragione sono custodi che limitano l´apparato razionale: sanno che l´apparato razionale è forte solo se conosce i suoi limiti, se è consapevole della sua valenza strumentale e non, invece, totalizzante.
«Sotto questo profilo, quindi, la ragione è l´antitotalitarismo per eccellenza, perché conosce il suo limite. Ed è lo stesso limite che vige nella pratica scientifica. Gli scienziati sono assolutamente persuasi di non dire cose vere, ma di dire semplicemente cose esatte: ex-actus, cioè "ottenuto dalle premesse di partenza". È questo, mi pare, il modo corretto di condurre la ragione.
«Arriviamo ora ai punti toccati da Scalfari, che mi paiono decisivi. Il primo è che l´illuminismo mette fine alla gerarchia dell´ancien régime e inaugura la dimensione della libertà individuale; sottrae la sovranità all´ordine gerarchico precedente e la diffonde tra gli individui. Qui, però, bisogna fare attenzione: la ragione non si emancipa senza residui, ma gronda sempre di dimensioni antirazionali: penso, per esempio, a un Galileo che fa l´oroscopo per le figlie, o a un Newton che scrive un libro di demonologia. Anche il concetto di individuo è molto equivoco e, a mio parere, viene chiarito solo con l´illuminismo. Il concetto di individuo non esiste in Grecia, perché è una nozione fondamentalmente cristiana: mentre i greci antepongono la comunità al singolo, i cristiani colgono innanzitutto l´individuo grazie alla nozione di "anima". Per Platone, il singolo è giusto se è "aggiustato" addirittura con l´ordine cosmico. Per i cristiani, l´individuo ha come scopo innanzitutto la salvezza individuale, la salvezza dell´anima, appunto, che è affidata alla pratica religiosa e quindi alla Chiesa. La convivenza e il buon vivere civile passano in secondo piano.
«Che cosa spetta alla comunità, dal punto di vista dei cristiani? Null´altro che la limitazione o l´eliminazione degli ostacoli che impediscono la salvezza dell´anima. Lo Stato ha solo il compito di togliere gli impedimenti che si frappongono tra gli individui e la pratica salvifica. La salvezza è individuale, non è comunitaria. L´individuo deve vedersela direttamente con Dio, che abita l´anima: in interiore animae habitat Deus, dice Agostino. E Rousseau, giustamente, ne conclude che "il cristiano non può essere un buon cittadino". Potrà magari esserlo di fatto, ma non di diritto, perché il suo scopo non è la buona convivenza, ma, come ho detto, la salvezza della sua anima.
«L´illuminismo desume la nozione di individuo dal cristianesimo, ma la libera dalla categoria della salvezza e ne sposta l´obiettivo: un individuo è tale in quanto è in relazione di fratellanza e di uguaglianza con gli altri, in quanto è parte di una città, e non in quanto si salva l´anima. Questo spostamento ha un´importanza straordinaria: la società civile, infatti, nasce solo quando l´individuo viene pensato in vista dell´altro individuo, e non in vista della salvezza dell´anima.
«Il secondo punto indicato da Scalfari è l´ecumenismo. L´ecumenismo, però, non è la tolleranza illuminista, è semplicemente un proposito di buona educazione: mentre un tempo avremmo fatto la guerra con chi la pensava diversamente da noi, oggi gli stringiamo la mano. Ma ciascuno resta del proprio parere. L´ecumenismo, dunque, è un atto pratico di buona educazione. La tolleranza illuminista, invece - almeno quale traspare dalle Lettere sulla tolleranza di Locke - ha una valenza teorica: io, nel mio pensiero, devo tollerare che forse tu, che sei il mio avversario, sei nella verità ad un gradiente maggiore del mio. Questa è l´autentica tolleranza. L´ecumenismo, quindi, non ha nulla a che fare con la tolleranza illuminista.
«Se l´ecumenismo può esercitarsi nei confronti delle altre religioni, la miscredenza resta comunque il nemico. Oggi la Chiesa non ha più quella forza, che aveva nel Rinascimento, per poter impiccare i miscredenti. Oggi si limita a segnalarli o a emarginarli, o magari a dialogare con loro, come faceva Martini. Ma se avesse la forza necessaria li impiccherebbe tutti. La violenza è parte essenziale del sacro: chi presume di essere il depositario della verità è cieco e violento. La ragione, invece, è tale se conosce i suoi limiti, dunque non può mai essere assoluta: procede passo dopo passo, per prove ed errori, e non presume mai di disporre della verità unica.
«Infine, c´è una differenza antropologica tra gli illuministi e gli uomini di religione - ai quali io accosterei, sotto questo profilo, anche i fascisti e i comunisti: gli uomini di religione, e i totalitaristi, vivono un tempo escatologico, mentre l´illuminismo vive un tempo progettuale. Il primo è pervaso da speranze di palingenesi e di salvezza; il secondo è molto più modesto, è un tempo volto esclusivamente al miglioramento della condizione attuale.
«Il tempo escatologico è un tempo inscritto in un disegno, per cui la storia è sempre storia sacra, storia della salvezza. Questa concezione giudaico-cristiana del tempo prevede che alla fine della storia si realizzi quello che era stato annunciato all´inizio.
«Anche il comunismo, d´altra parte, vive un tempo escatologico: nel passato c´è il male, nel presente la redenzione, nel futuro la salvezza. Marx usa le stesse espressioni che troviamo nella Bibbia a proposito del popolo ebraico: "La classe operaia ha fame e sete di giustizia". Poiché i totalitarismi, comunismo e fascismo, vivono un´escatologia, li considero alla stregua di forme religiose. L´illuminismo, invece, non vive un´escatologia, vive il progresso metodico della ragione».
EUGENIO SCALFARI: «Secondo un´analisi attenta, dunque, l´ispirazione dei movimenti totalitaristici, più che esser fatta risalire all´illuminismo, deve essere ricondotta a certe forme del pensiero cristiano ed operaio. Vorrei aggiungere, però, che il pensiero cristiano si biforca fin dall´inizio: da un lato, la salvezza delle anime; dall´altro, l´avvento del Regno sulla terra, la salvezza dei corpi e la resurrezione dei morti. È il pensiero apocalittico - parte fondante del pensiero cristiano - che comincia con Giovanni, e che caratterizza anche tutto il messianesimo ebraico: la felicità, il Regno di Dio, si realizzano alla fine dei tempi sulla terra.
«Le radici dell´escatologia totalitaria affondano insomma nel pensiero apocalittico cristiano e nel pensiero messianico ebraico. Quest´ultimo, non a caso, è molto poco interessato a immaginare il paradiso o l´inferno, e alcune sue correnti negano perfino l´immortalità.
«Il popolo eletto, così come la classe operaia per Marx, combatte e vive nel proprio tempo, ma è tuttavia un popolo che resta sempre in attesa. Abbiamo comunque a che fare con un pensiero escatologico mondano: alla fine dei tempi, con l´avvento del Regno e della felicità, comincerà un tempo immobile, la storia sarà finita; così come accadrà quando la razza superiore avrà prevalso su tutte le altre, o quando la classe operaia avrà abolito lo Stato e il comunismo sarà realizzato su tutta la terra.
«Se cerchiamo il vero incunabolo di queste spinte totalitarie, troviamo le religioni monoteiste».