Dibattito sul tema "Che cosa significa oggi essere illuministi".
Interventi di: Eugenio Scalfari il 3 dicembre 2000, Franco Volpi (8 dicembre), Sebastiano Maffettone (30 dicembre), Umberto Eco (31 dicembre), Sergio Givone (2 gennaio 2000), Gianni Vattino (4 gennaio), Roberto Esposito (6 gennaio), Sergio Moravia (10 gennaio), Carlo Bernardini (12 gennaio), Giancarlo Bosetti (18 gennaio), Norberto Bobbio (25 gennaio), Ralf Dahrendorf (31 gennaio).
Il nostro secolo senza Lumi
di EUGENIO SCALFARI
SI APRE con un saggio intitolato "Il contro Illuminismo" il libro Controcorrente
di Isaiah Berlin uscito da poco nelle librerie in versione italiana (Adelphi) e
si chiude con una cinquantina di pagine sul "Nazionalismo-negligenza passata e
potenza presente": un inizio e una conclusione che colpiscono in questo storico
delle idee che è stato uno dei pensatori più significativi del Novecento.
I due scritti sono stati composti uno a ridosso dell' altro nei primi anni
Settanta e sembrano di oggi tanto è intensa la loro attualità.
L'autore, almeno in apparenza, non esprime giudizi di valore propri né sulle
tesi degli anti-illuministi né su quelle dei nazionalisti; si limita a scavare
ed esporre il pensiero degli uni e degli altri, che appartengono in realtà al
medesimo filone: il romanticismo dello "Sturm und Drang", la "Kultur" tedesca,
l'organicismo delle culture localistiche, dei retaggi, dei vincoli del sangue e
della terra con le loro variazioni che vanno dal più spinto anarchismo
individualistico al vitalismo e al culto della potenza e del carisma del Capo.
Berlin non prende partito: descrive come farebbe un magistrale entomologo,
deidealizza le posizioni e ne mostra l’essenza profonda e le implicazioni che
dal piano delle idee tracimano in quello dei fatti. Al nazionalismo, del quale
acutamente segnala una ripresa vigorosa proprio in anni nei quali ne veniva
sancita una quasi definitiva scomparsa, riserva anche critiche severe e
preoccupazioni profonde; contemporaneamente però riconosce la forza di quelle
idee, di quei movimenti di pensiero (e di fatti) che ha in Fichte e in Herder i
suoi primi protagonisti e che si dipana quasi senza interruzioni dalla seconda
metà del XVIII secolo fino ai giorni nostri.
La scelta dei temi di questo libro, il titolo che l’autore gli ha anteposto (Against
the current), l’interpretazione che ne dà l’autore dell’introduzione, Roger
Hansheer, che Berlin calorosamente ringrazia «per aver fornito un’esposizione
così partecipe e limpida delle mie idee», mi fanno arrischiare un’ipotesi: che
cioè il cuore di Berlin — se di cuore si può parlare discutendo della storia
delle idee, ma perché no? — stia piuttosto dalla parte dei romantici che non da
quella dei «philosophes».
A suffragare questa ipotesi ci sono due assenze nel libro che pesano quanto le
presenze che vanno da Machiavelli a Vico a Sorel a Herzen e a tutta la
vastissima platea dell’irrazionalismo volontaristico dell’Otto — Novecento.
La prima e più vistosa assenza è proprio quella dell’Illuminismo e della triade
dei suoi maggiori protagonisti francesi, Voltaire, Diderot, Rousseau, ai quali
si deve aggiungere la triade inglese di Hume, Locke, Newton. Berlin lascia il
campo a quella vera e propria caricatura dell’Illuminismo costruita dai suoi
avversari e diventata una «vulgata» rilanciata perfino dal Croce: e cioè il
carattere del tutto astratto, utopistico, deterministico, illusoriamente calato
dall’alto come una gabbia sulla spontaneità e la vitale differenza delle culture
che sarebbe stato il tratto determinante della civiltà dei Lumi.
Mi si potrà obiettare che in una rassegna delle idee «controcorrente» non c’era
posto per l’Illuminismo che rappresenta qui il bersaglio colpito e non la
freccia che colpisce. Evidentemente è proprio questo il criterio che ha guidato
la scelta dell’autore e la costruzione del libro.
Ma qui mi pare si debba cogliere un primo errore di Berlin o perlomeno un varco
vistoso alla sua pretesa oggettività di analista: quando egli scriveva quei
saggi la cultura dominante non era già più — e da gran tempo — il razionalismo
dei Lumi bensì appunto il volontarismo irrazionale sboccato nell’esistenzialismo
prima (subito dopo la seconda guerra mondiale) e nel nichilismo compiuto poi o
tutt’al più nella cultura dell’Essere d’impronta heideggeriana.
La scienza — è vero — e l’adorazione della tecnologia hanno assunto negli ultimi
decenni del secolo appena trascorso un peso prima sconosciuto e la scienza è
certamente razionalità e uso di metodiche deduttivoinduttive che fanno perno sul
principio di causalità.
In qualche modo l’egemonia del pensiero scientifico potrebbe testimoniare il
riaccendersi della fiamma illuministica e quindi, per chi vuole produrre una
saggistica «controcorrente», giustificherebbe la scelta dell’Illuminismo come
bersaglio e del volontarismo irrazionale e romantico come la freccia contundente
di cui si esaminano la natura, le ascendenze e le filiazioni ideali.
Ma, a ben guardare, le cose non stanno affatto così. Il pensiero scientifico
contemporaneo è ormai ben lontano dal classicismo newtoniano ancorato alla
causalità e al principio di contraddizione: ha scoperto invece la casualità, il
relativismo, il principio di indeterminazione, la coesistenza di isole di
elementi «ordinati» galleggianti in un ambiente di forze caotiche e
permanentemente insidiate dal caos incombente. Sostenere che questo particolare
tipo di pensiero scientifico derivi dall’Illuminismo dei «philosophes» e ne
segnali una reviviscenza contro la quale valga la pena di sostenere
l’irrazionalismo dei romantici rivalutandone la ribellione ad un’egemonia
dominante è quantomeno azzardato.
D’altra parte l’operazione cultura di Isaiah Berlin nei confronti del pensiero
dei Lumi trascura, secondo me, un aspetto di importanza capitale: dal punto di
vista della storia delle idee se c’è stato un pensiero di rottura col passato,
con le tradizioni consolidate da secoli, con i tabù, questo è stato il pensiero
dei Lumi in tutte le sue variegate correnti.
La «Kultur» romantica o più semplicemente arcaica del sangue e della terra ha
dominato il mondo per secoli anzi per millenni in tutte le latitudini del
pianeta e purtroppo lo domina tuttora. Etichettare quel modo di sentire ancor
prima che di pensare come un coraggioso recupero d’una concretezza storica
smarrita e una liberazione salutare dalla gabbia «cimmerica» (come disse Goethe)
apprestata dai «philosophes» è, questa sì, una caricatura storica che non va
considerata con indulgenza ma demistificata con ferma consapevolezza. Il mondo
moderno soffre non per un eccesso, ma per un drammatico deficit di razionalità;
la razionalità è minoritaria, la razionalità è controcorrente, la razionalità
meriterebbe un’azione filosofica e storica di recupero.
Ma soprattutto merita (e qui non uso un condizionale ottativo) che si faccia
giustizia delle caricature con le quali la si vuole dipingere e la si riporti a
quello che in effetti è stata nella storia del pensiero moderno che per le sue
parti valide e tuttora vitali affonda nel Settecento dei «philosophes», nel
Seicento di Descartes, di Spinoza e di Galileo, nel Cinquecento di Montaigne le
sue radici più profonde e più nutritive.
[ *** ]
Non è certo in un articolo di giornale che si possa affrontare un tema di questa
vastità che del resto ha avuto i suoi interpreti, i suoi critici, gli storici
che ne hanno narrato la nascita, lo sviluppo e gli effetti, i filosofi che ne
hanno esaminato le derivazioni e l’influenza sul pensiero successivo.
Vorrei ricordare a questo proposito che Kant trae gran parte delle sue radici
dalla cultura illuministica, che tutta la grande fase dell’economia classica,
dai fisiocratici ad Adam Smith, a Ricardo e a Malthus, ne costituisce parte
integrante e che lo stesso Nietzsche indica in Voltaire uno dei suoi punti di
riferimento.
Lo dico qui di passata, ma mi ha colpito che nel saggio «Il contro Illuminismo»
di Berlin si parli di tutti coloro, maggiori e minori, che illustrarono
l’irrazionalismo, il volontarismo, il vitalismo, con una completezza ed una
scrupolosità inappuntabili, ma il nome di Nietzsche, cioè di quella che
apparentemente rappresenta la stella polare di quella vasta costellazione, viene
fatto una sola volta quasi di sfuggita senza alcun approfondimento del suo
pensiero e delle sue derivazioni. Nel saggio di Berlin Nietzsche è soltanto
nominato in mezzo ad un lungo elenco di nomi.
Questa lacuna non può certo essere casuale. Evidentemente Berlin era consapevole
che Nietzsche aveva uno spessore di pensiero tale da non poter essere trattato e
classificato insieme agli Herder, agli Herzen e neppure insieme a Kierkegaard e
a Schopenhauer che Berlin richiama più volte e verso il quale Nietzsche ha
certamente un debito culturale molto notevole.
Se il creatore di Zarathustra non viene arruolato da Berlin nel battaglione
degli antiilluministi una ragione ci sarà. Mi limito qui a segnalare questa
assenza sulla quale varrà la pena di ritornare.
Che cosa fu dunque l’Illuminismo nella sua essenza culturale e nella storia
delle idee?
In sintesi si può dire:
1. Segnò il discrimine culturale e politico tra l’ancien régime e il pensiero
moderno nelle sue realizzazioni giuridiche, politiche, costituzionali e
culturali.
2. Condusse la sua battaglia nella politica e nel costume avendo come bandiera
la libertà individuale nell’ambito della legge e concepì la legge come un
contratto sociale stipulato tra i membri di una comunità.
3. Il principio basilare dell’ordine giuridicomorale fu quello di limitare la
libertà dei singoli quandoessa dovesse invadere ed offendere la libertà altrui.
4. Propugnò l'eguaglianza degli individui e il cosmopolitismo; ritenne che gli
ordinamenti razionali potessero essere applicati a comunità di etnie e storie
diverse sviluppando in esse l'educazione e la tolleranza. Non ebbe, nei suoi
protagonisti di maggior rilievo e spessore, alcuna tentazione all'astrattezza e
ad imporre a tutti gli uomini uno schema astratto e "cemiteriale" (Goethe). Né
Voltaire, né Rousseau, né Hume pensarono mai nulla di simile e mai lo pensò
Diderot che fu il massimo filosofo di quel gruppo. L'Encyclopédie, che
rappresentò l'ossatura di quella corrente di pensiero, fu anzi la prima e vera
"scuola" che insegnò alla nascente opinione pubblica la concretezza dei problemi
e la specificità dei temi, delle informazioni e dei progetti. Non a caso è su
quella scuola che si formarono Beccaria, i fratelli Verri e tutta la grande
corrente illuministica italiana. 5. Predicò la tolleranza, il rispetto delle
altrui opinioni, l'abolizione dei privilegi di ogni genere di casta e di sangue,
la sostituzione del potere assoluto con il potere democratico e l'equilibrio tra
vari poteri indipendenti tra di loro. 6. Lottò contro l'uso temporalistico della
religione e contro le sue pretese di assolutezza e di esclusivo possesso e
magistero della verità. È falso tuttavia che gli illuministi esaurissero il
mondo delle idee nella ragione e cancellassero con un tratto di penna l'ombra
del mistero. Non ci sono dichiarazioni e argomentazioni del genere nei maggiori
dei suoi esponenti. Ho già detto, e ancora me ne scuso, che in questa sede non
posso che limitarmi a ricordare pochi aspetti essenziali. Ma mi premeva qui di
segnalare che, purtroppo, essere illuministi oggi è il vero modo di mettersi
contro corrente rispetto al pensiero e alla prassi comune e dominante. Il fatto
che un pensatore del livello di Berlin non se ne sia reso conto ed abbia anzi,
in qualche modo, reso testimonianza del contrario mi ha molto stupito e mi è
sembrato opportuno darne segnalazione. Spero che altri riprendano il tema e lo
approfondiscano a sufficienza
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Volpi
Prendendo spunto dalla traduzione adelphiana del libro di
Isaiah Berlin Controcorrente, domenica 3 dicembre Eugenio Scalfari è intervenuto
ponendo una questione ridivenuta oggi attuale: che cos’è illuminismo? Ovvero: la
nostra epoca è illuminata? Conosciamo la celebre risposta di Kant, pubblicata
esattamente il 5 dicembre 1784: «Illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato
di minorità imputabile a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del
proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a lui stesso questa
minorità lo è se la sua causa non sta in un difetto di intelligenza, ma nella
mancanza di risolutezza e coraggio di servirsi del proprio intelletto senza la
guida di un altro».
Se questo è illuminismo, fa bene Scalfari a lamentare che la nostra epoca è
ancora troppo poco illuminata e che i Lumi non sono più di moda tra pensatori e
intellettuali, tra le eminenze grigie e i maîtres à penser della cultura
contemporanea, orientati di preferenza verso i «romantici» e il loro immaginario
mitico e simbolico, le cui degenerazioni politiche hanno profondamente marcato
il Novecento. Si capisce dunque la preoccupazione di Scalfari quando avverte che
perfino il cuore di un intellettuale di indiscussa appartenenza
liberaldemocratica come Berlin batte più per i romantici che per i philosophes
dei Lumi. Scalfari ricorda perciò le conquiste ideali dell’illuminismo, i
principi che esso ha fondato e ai quali oggi non si può non richiamarsi: libertà
di pensiero ed espressione, inviolabilità dell’individuo e dei suoi diritti
fondamentali, uguaglianza, solidarietà. Si deve riconoscere a Scalfari il merito
di aver colto l’importanza del libro di Berlin, di cui altrimenti solo pochi
specialisti avrebbero parlato, e di averlo collegato a un problema filosofico
oggi fondamentale, quello dei valori che ispirano la nostra idea di umanità e
che sono alla base di ogni moderna società democratica.
Non so da che parte battesse il cuore di Berlin. Immagino, al di là delle sue
personali inclinazioni, che da raffinato storico delle idee egli intendesse
mettere in discussione alcuni stereotipi della storiografia tradizionale,
mostrando come l’età dei Lumi non presenti solo fulgore, ma sia anche solcata da
alcune vene oscure che alla fine si sono rivelate determinanti. Cosa che Berlin
ha cercato di mostrare anche in altri due libri, pure tradotti da Adelphi: Il
mago del Nord, un’acuta interpretazione di Hamann, e Il legno storto
dell’umanità, espressione presa a prestito da Kant per esprimere un disincantato
pessimismo verso i nobili e ottimistici ideali dell’antropofilia.
Ma venature torbide si trovano, oltre che tra le nebbie nordiche di Königsberg,
anche nei grandi philosophes del luglio francese. Per esempio in Rousseau,
pensatore corrusco e visionario, le cui idee pedagogiche e politiche presentano
tratti fanatici, per non dire totalitari, che ispirarono il Terrore non meno che
l’Illuminismo. D’altra parte, sul versante romantico non tutto è irrazionalismo:
nel cuore della Germania filosofica di allora Hölderlin, Hegel e Schelling
piantarono un albero della libertà nello Stift di Tubinga, dov’erano
contubernali, per celebrare l’anniversario della presa della Bastiglia e gli
ideali di libertà che quell’evento simboleggiava.
Ma non è questo il punto. La distinzione di Scalfari è idealtipica, non storica,
e il problema che egli pone è di principio: qual è il paradigma di pensiero da
assumere oggi? Quello illuminista della ragione o quello romantico
dell’immaginazione? La risposta è chiara: «Il mondo moderno soffre non per un
eccesso, ma per un drammatico deficit di razionalità». Sacrosante parole, da
condividere in toto. Ma se è vero che il paradigma illuministicorazionalistico
ha portato a conquiste civili irrinunciabili, è altrettanto vero che la Ragione
si è vieppiù ridotta a mera razionalità strumentale, dimostrandosi incapace di
governare quella forza cieca che Nietzsche chiama volontà di potenza. Adorno e
Horkheimer parlavano di una «dialettica dell’illuminismo» che nelle moderne
società di massa finisce per rovesciarsi nel suo contrario. Prima di loro Goya
raffigurava nei suoi schizzi il sueño de la razón che produce mostri.
Dunque la razionalità di cui l’età moderna difetta non è quella strumentale, che
la tecnoscienza ci fornisce anzi in abbondanza, bensì quella sostanziale, capace
di fondare identità e risorse simboliche condivise. Per questa funzione il
sacro, il mito, il simbolico, con le loro potenti immagini che i romantici hanno
coltivato, sono risorse troppo importanti per essere lasciate in balìa
dell’irrazionalismo. Né si deve necessariamente aderire alla contrapposizione
fra Kultur e Zivilisation, e magari giocare l’una contro l’altra, come faceva
Thomas Mann quando asseriva che «la germanicità è cultura, anima, libertà, arte,
e non civilizzazione, società, diritto di voto, letteratura».
Se ben ricordo, proprio Scalfari ha criticato con acume tale antitesi discutendo
su queste pagine le Considerazioni di un impolitico. Ma il vero nodo è Nietzsche.
In lui si concentra simbolicamente il problema della crisi della ragione con gli
squassi che ne sono derivati. Il fuoco da lui appiccato divampa oggi
dappertutto. Egli ha asserito che la ragione altro non è che un fragile
strumento organico di autoconservazione, Dio un’ipotesi per ridurre la
contingenza del caos, la verità uno scorcio prospettico, una specie di errore
senza il quale l’uomo non potrebbe sopravvivere. Allo stesso modo non ci sono
fatti, ma solo interpretazioni, funzionali alla vita e alla sua conservazione.
Servendosi del sottile rasoio «genealogico» egli ha decostruito gli edifici
della ragione, accelerando la svalutazione dei valori e il nichilismo. E la sua
descrizione ha avuto un carattere operativo, contribuendo a produrre la crisi
che descriveva.
In questo senso Gottfried Benn pensava di spiegare perfino la coerente
frammentarietà dell’opera nicciana: «Adesso capisco», affermava, «perché
Nietzsche scriveva per aforismi. Chi non vede più connessioni, più alcuna
traccia di un sistema, può ancora procedere solo per episodi». Questa è la
grandezza tragica di Nietzsche. Eppure, diversamente da Benn, possiamo pensare
che i suoi aforismi non siano frammenti sconnessi, ma tocchi cromatici di una
composizione puntillista che fa vedere un intero. Prendiamo per esempio la
nostra idea di umanità, e i valori che essa include. Già Kant denunciava
l’insufficienza di uno dei pilastri su cui essa è basata, la definizione greca
dell’uomo come animale razionale. Né l’animalitas né la rationalitas bastano a
costituire la humanitas dell’uomo. Ci vuole in più quella che egli chiamava la
spiritualitas o personalitas, concetto che traeva dall’altro pilastro della
nostra tradizione, il cristianesimo.
Da tempo, tuttavia, la scienza e la tecnica accrescono il nostro sapere e la
nostra capacità di intervento sull’entità «uomo» in un modo che entra sempre più
in conflitto con la fede cristiana. Ci troviamo oggi in una «crisi
antropologica». Ebbene, con la sua lapidaria affermazione che l’uomo è
«l’animale non ancora definito» Nietzsche l’ha anticipato tutta: l’essere umano
ci ha fatto capire è esposto ed aperto a due estremi ugualmente rischiosi
per il suo comportamento, la spaventosa naturalezza delle sue pulsioni e la
sconfinatezza del suo ragionare. Noi, nella crisi antropologica da Nietzsche
diagnosticata, dobbiamo chiederci: abbiamo un’idea di uomo condivisa,
un’antropologia adeguata ai problemi che la globalizzazione e la
multiculturalità pongono? Ecco la questione filosofica che vedo emergere
dall’intervento di Scalfari: una questione fondamentale che va affrontata con la
dovuta pazienza, quella di cui si era prudentemente armato Kant quando affermava
che «illuminare» un individuo è facile, ma «illuminare» un’epoca è impresa quasi
disperata.
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Le idee scettiche e i lumi di scalfari
A proposito di
un articolo in difesa dell’illuminismo
di SEBASTIANO MAFFETTONE
Eugenio Scalfari, in un lungo e meditato articolo
pubblicato da questo giornale il 3 dicembre scorso, ha preso spunto dal libro
Controcorrente (Adelphi) del prestigioso storico delle idee Isaiah Berlin, per
proporre un'appassionata difesa dell'Illuminismo. A dire di Scalfari, infatti,
«essere illuministi oggi è il vero modo di essere contro corrente rispetto al
pensiero e alla prassi dominante». Si potrebbe subito osservare con qualche
malizia che, a giudicare dalle pagine culturali, la sua influenza sulla visione
filosofica di Repubblica, che pare dominata da un perdurante antiilluminismo,
deve essere stata curiosamente modesta (che questa non sia una necessità
ineluttabile nel nostro paese si può vedere dalle pagine culturali di altri
giornali).
Ma le polemiche di bottega non mi interessano più di tanto. Perché vorrei invece
discutere delle ragioni che Scalfari pone a sostegno della sua tesi. Essere
contro corrente equivalea suo dire, e io sono d'accordo con luia essere
illuministi sostanzialmente perché è diffuso oggi il predominio di un
«volontarismo irrazionale», che diventa esistenzialismo e nichilismo, e si
congiunge a un deficit perdurante di razionalità.
Vorrei cercare di cogliere il senso dell'antiilluminismo implicito nel clima
culturale dominante nel nostro tempo. Per farlo, ricorrerò all'identikit
semplificato di quello che potrebbe essere un personaggio tipo, un personaggio
di fantasia, che io chiamo Torbido, e che voi potete immaginare come un
intellettuale alla moda o come un'espressione sofisticata del senso comune.
Anticipo da ora che, a mio parere, per dirla nel gergo dei filosofi, l'essenza
dell'antiilluminismo oggi popolare non equivale a una forma di sfiducia nella
ragione teoretica e scientifica, ma piuttosto a scetticismo nei confronti della
ragione pratica.
Ma andiamo con ordine, e torniamo al nostro amico Torbido. Torbido èe come
dubitarne?risolutamente postmoderno nella visione del mondo morale. Guarda con
un sorriso di malcelata superiorità ai princìpi morali, ed è convinto che non
esistano regole etiche al di fuori delle appartenenze e delle condivisioni. Si
può, a suo credere, avere una morale comune se e solo se si è membri dello
stesso clubetnico, politico, religioso o criminale poco importa. Ma ciò non può
avvenire nella società aperta, che è, per definizione, popolata da membri di
club differenti.
Questa arrière pensée postmoderna lo porta poi ad essere, e questo è forse uno
dei lati migliori di Torbido, piuttosto libertario per quanto riguarda le scelte
politiche. Dato che non ci sono scelte etiche oggettivamente migliori di altree
qui io non ho mai capito come egli faccia a condannare moralmente per esempio
chi commette un genocidiola politica della società aperta oscilla tra la
violenza e il consenso di tutti. Torbido non nasconde la sua ammirazione per la
forza come evento tra gli eventi nella storia, ma finisce poi di solito con
l'asserire che solo il permesso di tutti i cittadini adulti in grado di
intendere e volere giustifica, in mancanza di tesi morali sensate, le decisioni
politiche.
Torbido non è uno spirito religioso, anche se civetta con New Age e, quando è di
buon umore, sostiene che gli oroscopi e i miti hanno la stessa credibilità della
fisica teorica. Tuttavia, anche se può apparire strano a prima vista, il suo
scetticismo pratico piace ai religiosi doc. In fondo, le tesi di Torbido
riconoscono che nella società moderna e pluralista non ci sono opzioni etiche e
metafisiche dotate di senso, e queste ultime restano quindi appannaggio della
religione. Tutto ciò che è spiritualmente importante, in altre parole, resta
all'interno dei club, siano questi cattolici, buddisti o quant'altro vi piaccia.
E che cosa può volere di più del monopolio delle verità morali un religioso
spregiudicato e non fondamentalista? Ancora più stranamente, Torbido riesce ad
andare d'accordo, specie quando non parla di astrologia, con lo scientismo che
ancora prevale in molti ambienti scientifici. In fondo, come diciamo noi, spesso
e volentieri gli scienziati sono positivisti, e, per conseguenza, poco gli
importa dell'uso esterno della ragione nel mondo, purché questa prevalga per
così dire intra moenia, nei laboratori e nelle aule.
Torbido è il ritratto fedele dell'antiilluminista, o almeno così ritiene il suo
ideatore, per un motivo chiaro e preciso: non crede che si possa fare un uso
pubblico e pratico della ragione. Quest'ultima ha i suoi spazi nel mondo della
conoscenza scientifica e della produzione, e lì deve essere confinata. Ma non ci
riguarda per Torbido e tutti quelli come lui come esseri umani pienamente
intesi. Non c'è un modo di vita che possa pretendere di ispirarsi a criteri di
ragionevolezza e razionalità. Non c'è, per la verità, nella visione dominante di
Torbido, alcuna oggettività etica, estetica e politica che tenga. Le nostre
priorità morali, culturali e politiche altro non sono che gusti en travesti.
Tutto il resto è storia e biologia, dominio di tradizioni cieche e di violenze
occulte.
Torbido ha un pensiero che non impegna e, anche per ciò, è alla moda.
L'Illuminista, però, non ama Torbido, o meglio non ama le sue idee scettiche e
facili. Cerca di rispondergli, facendo propria la fiducia illuministica in un
uso pubblico e pratico della ragione. Sulla scorta di Kant, ma anche di Habermas
e Rawls tra i contemporanei, io ho chiamato «etica pubblica» questo modo di
rispondere filosoficamente e in coerenza con la tradizione illuministica al
clima culturale dominante. E' un modo che accetta il pluralismo dei valori e
rifiuta ogni credenza in verità morali assolute. Ma non concede a Torbido il
nucleo della sua tesi principale, sarebbe a dire che i dubbi e le difficoltà che
tutti condividiamo equivalgano all'impossibilità di dare senso alle cose nel
mondo della teoria come in quello della pratica. L'illuminista crede che la
critica di ogni argomento sia fondamentale, ma crede anche che da ciò non si
possa passare, come invece vuole Torbido, alla critica dell'argomentare in
quanto tale.
Ora avete davanti i due profili schematici dei detrattori e dei fautori
dell'Illuminismo. Scegliere quale ci piace di più dipende da ognuno di noi. Sono
convinto che ci siano buone ragioni per essere a favore della mia strategia e
contro quella di Torbido. Ma, si sa, su questioni del genere non vi sono
certezze, e uno psicoanalista può aiutare forse più di un filosofo. Io posso
solo dire quale ragione preteorica mi abbia portato per quel poco che riesco a
capire a orientarmi a favore della opzione illuministica.
Sono nato e cresciuto a Napoli, e credo di averne tratto una lezione indelebile.
L'affannarsi del popolino, lo scetticismo dei signori, la sfiducia nell'altro,
la resa al passato, l'impotenza nell'ottenere risultati, la depressione
collettiva mascherata dal riso, l'impossibilità della speranza, erano tutti i
segni di una mentalità in cui premoderno e postmoderno si congiungevano. Si
congiungevano nel negare spazio al progetto illuministico della modernità, che
pure tanto doveva al pensiero dei figli dell'antica «capitale di un regno senza
strade e senza città». Per schierarmi contro quello che c'era e non andava,
avevo così da essere antiantiilluminista.
Si può obiettare che deve cambiare prima il mondo e poi le idee che lo
attraversano, per cui la fioritura ideale dipende dallo sfondo materiale, e che
perciò la mia tesi pecca di un eccesso di idealismo. Può essere. Ma è sempre
difficile dire se venga prima l'uovo o la gallina. E poi ognuno comincia dal suo
orticello. E io ho cominciato dall'essere contro i vezzi e i successi filosofici
del malcapitato Torbido. E, come vuole Scalfari, a navigare contro corrente a
favore dell'Illuminismo.
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La forza del senso comune
LE IDEE
di UMBERTO ECO
MI HA naturalmente appassionato il dibattito
sull'illuminismo. Mi ha divertito l'osservazione di Maffettone (con il quale
concordo per tutto il resto) sul fatto che l'illuminista Scalfari abbia avuto
poca influenza sulle pagine culturali di Repubblica. Evvia, dopo un inizio
(venti anni fa) un poco troppo Nord-Sud (ma all'epoca anche Scalfari era
post-crociano), le pagine si sono divise equamente tra articoli su Nietzsche e
rievocazioni dei salotti del Settecento, e quindi un poco di Lumi vi hanno
circolato. Caso mai è più ispirata alla Tradizione la pagina culturale del
Corriere. Comunque, non è questo il punto. Vorrei piuttosto dire la mia su cosa
significhi essere illuministi oggi, visto che dai tempi dell'Encyclopedie molta
acqua è passata sotto i ponti e non credo valga ancora la pena di interessarsi
al lavoro degli stipettai, come in quei giorni faceva Diderot.
Naturalmente condizione indispensabile per un'etica intellettuale illuministica
è che si sia disposti a sottoporre a critica non solo ogni credenza ma persino
quelle che la scienza ci consegna come verità assolute.
MA, DETTO questo, credo si debbano individuare alcune condizioni irrinunciabili
affinché si possa dire che ci si ispira non al criterio di una Ragione Forte
(alla Hegel) ma di una umana ragionevolezza. Perché l'eredità fondamentale
dell'illuminismo sta tutta qui: c'è un modo ragionevole di ragionare e, se si
tengono i piedi per terra, tutti dovrebbero concordare su quello che diciamo,
perché anche in filosofia bisogna dare retta al buon senso.
Questo implica che vi sia un buon senso, o un senso comune, che non sarà così
invadente come la "retta ragione" ma, insomma, qualche cosa conta. Basta non
affidare responsabilità troppo metafisiche al calcolo e, come suggeriva Leibniz,
vale sempre la pena di mettersi introno a un tavolo e dire "calculemus".
Dunque, penso che un buon illuminista sia qualcuno che crede che le cose "vadano
in certo modo". Questo realismo minimalista è stato recentemente riaffermato da
Searle, che non le dice tutte giuste, ma ogni tanto ha delle idee limpide e
ragionevoli. Dire che la realtà va in un certo modo non significa dire che
possiamo conoscerlo o che un giorno lo conosceremo. Ma anche se non lo
conoscessimo mai, le cose andrebbero così e non altrimenti. Persino chi
coltivasse l'idea che le cose vanno oggi in un modo e domani nell'altro, e cioè
che il mondo è bizzarro, caotico, mutevole, e passa da una legge all'altra in
barba a metafisici e cosmologi, ammetterebbe che questa capricciosa mutevolezza
del mondo è proprio il modo in cui vanno le cose. E quindi vale la pena di
continuare a proporre delle descrizioni di queste maledettissime cose.
Una volta dicevo a Vattimo che ci sono forse delle leggi di natura, visto che se
incrociamo un cane con un cane ne nasce un cane ma se incrociamo un cane con un
gatto o non nasce niente o nasce qualcosa che non desidereremmo vederci girare
per casa. Vattimo mi rispondeva che oggi l'ingegneria genetica riesce persino ad
alterare le leggi che governano le specie. Appunto, gli rispondevo, se per
incrociare un cane con un gatto ci vuole una ingegneria (e cioè un'arte) questo
significa che esiste da qualche parte una natura su cui quest'arte
artificiosamente si esercita. Questo significa che io sono più illuminista di
Vattimo, ma non credo gli dispiaccia saperlo.
Il buon senso ci dice che ci sono casi in cui possiamo concordare tutti come
vadano le cose. Dire che il sole sorge a est e tramonta a ovest non è questione
di senso comune, perché si basa su convenzioni astronomiche. Peggio che peggio
dire che non è il sole ma la terra che gira. Chissà, forse l'intera cosmologia
galileiana è da rimettere in discussione. Ma dire che noi vediamo il sole
sorgere da una parte e tramontare dall'altra, questo è un dato di senso comune
ed è ragionevole ammetterlo.
Mentre scrivo ho da poco appreso della morte di Quine: se c'era un empirista era
lui, tanto che arrivava a dire che lo stesso significato di una parola, stringi
stringi, era legato alla nostra regolarità di risposta a uno stimolo: però se
c'era un pensatore convinto che ogni nostra verità non si presenta da sola,
bensì legata a un complesso di convenzioni culturali, era sempre lui. Come fare
stare insieme queste due posizioni apparentemente contraddittorie? Perché
sappiamo per esperienza che ci cadono gocce d'acqua sulla mano, e affermiamo per
convenzione culturale che probabilmente piove. Se, prima di discutere che cosa
significhi "pioggia", metereologicamente parlando, due persone ammettono di
comune accordo che gli cadono gocce d' acqua sulla mano, ecco due buoni
illuministi minimali.
Rimane celebre, di Quine, la storia di Gavagai, che rielaboro liberamente.
Dunque, un esploratore che non sa nulla della lingua indigena, mentre passa un
coniglio tra l'erba, lo addita al nativo e quello reagisce con "gavagai". Vuole
forse dire che per il nativo "gavagai" significa coniglio? Non è detto, potrebbe
significare animale, o coniglio che corre. Poco male, si rifà la prova mentre
passa un cane, o quando il coniglio sta fermo. Ma se il nativo avesse inteso con
"gavagai" che stava vedendo le erbe agitate dal movimento di un animale? O che
davanti ai suoi occhi si stava verificando un evento spaziotemporale? O che gli
piacciono i conigli? Morale: l'esploratore non può fare che delle ipotesi e
costruirsi un proprio manuale di traduzione, che forse non è migliore di un
altro (l'importante è che presenti una certa coerenza). Il buon illuminista
metterà quindi in questione ogni possibile manuale di traduzione. Ma non potrà
mai negare che l'indigeno ha detto "gavagai", e che non l'ha detto mentre
guardava il cielo, bensì proprio mentre puntava gli occhi su quello spazio in
cui all'esploratore era parso di vedere un coniglio.
Badate che questo atteggiamento basta anche per i dibattiti più trascendentali.
Che abbia ragione il Papa a sostenere che gli embrioni sono già esseri umani o
San Tommaso quando afferma che gli embrioni non parteciperanno alla resurrezione
della carne, è materia di cultura. Ma è materia di sano empirismo riconoscere di
comune accordo le differenze fisiche tra un embrione e un feto. E poi,
calculemus.
C'è un'etica non trascendente che ogni buon illuminista minimale dovrebbe
riconoscere? Penso di sì. In genere, un essere umano vorrebbe avere tutto ciò
che gli piace. Per fare questo dovrebbe sottrarlo a qualsiasi altro essere umano
a cui piaccia la stessa cosa. Per evitare che poi l'altro lo sottragga a lui, la
soluzione più comoda è uccidere l'altro. Homo homini lupus, e vinca il migliore.
Però questa legge non può essere generalizzata, perché se uccido tutti resto
solo, e l'uomo è animale sociale. Adamo ha bisogno almeno di Eva, non tanto per
soddisfare il desiderio sessuale (per questo sarebbe bastata una capra) ma per
procreare, e dunque moltiplicarsi. Se Adamo ammazza Eva, Caino e Abele, rimane
un animale solitario. Se poi Eva e figli uccidono lui, peggio ancora.
Pertanto l'uomo deve negoziare benevolenza e mutuo rispetto. Deve cioè
sottoscrivere un contratto sociale. Quando Gesù dice di amare il prossimo e
suggerisce di non fare agli altri quello che non si vuole che sia fatto a noi, è
un ottimo illuminista (lo è quasi sempre, tranne quando sostiene di essere
figlio di Dio - perché quella era un'evidenza empirica chiara caso mai a lui, ma
non agli altri, e quindi non si poteva essere basata sulla ragionevolezza bensì
sulla fede). L'illuminista pensa che si possa elaborare un'etica, anche molto
complessa, anche eroica (è giusto per esempio morire per salvare la vita ai
propri figli) basandosi sul principio di negoziazione necessaria.
Infine l'illuminista sa che l'uomo ha cinque bisogni fondamentali (sul momento
non riesco a trovarne di più): il nutrimento, il sonno, l'affetto (che comprende
il sesso, ma anche il bisogno di legarsi almeno a un animale domestico), il
giocare (ovvero fare qualcosa per il puro piacere di farla), e il chiedersi
perché. Li ho posti in serie di irrinunciabilità decrescente, ma è certo che
anche il bambino, una volta poppato, dormito, giocherellato e appreso a
identificare il babbo e la mamma, appena cresce domanda il perché di tutto. I
primi quattro bisogni sono comuni anche agli animali, il quinto è tipicamente
umano e richiede l'esercizio del linguaggio. Il perché fondamentale è perché le
cose ci sono. Il filosofo si chiede perché ci sia dell'essere piuttosto che il
nulla, ma non chiede nulla di più di quanto faccia l'uomo comune quando si
chiede chi abbia fatto il mondo e cosa ci fosse prima. Nel tentare di rispondere
a questa domanda l'uomo costruisce gli dei (o li scopre, non voglio affrontare
questioni teologiche).
Dunque l'illuminista, tra l'altro, sa che, quando l'uomo nomina gli dei, l' uomo
sta facendo qualcosa che non si può prendere sottogamba. Ancora una volta,
l'illuminista sa che la forma di un pantheon è fenomeno culturale, che si può
criticare, ma che la domanda che porta alla costruzione del pantheon è un dato
di natura, degno della massima considerazione e rispetto.
Ecco, sarei disposto a riconoscere un illuminista, oggi, a queste condizioni
irrinunciabili. Se va bene così, m'iscrivo
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la ragione sul rasoio
che cosa
significa essere oggi illuministi?
di SERGIO GIVONE
L’articolo di Sergio Givone, che qui pubblichiamo, prende
spunto da un intervento di Eugenio Scalfari uscito su queste pagine il 3
dicembre scorso con il titolo "I lumi del nostro secolo non sono più di moda".
Il fondatore di Repubblica si soffermava sul libro di Isaiah Berlin,
Controcorrente, criticando in quella raccolta di saggi l’assenza di un’adeguata
riflessione sull’illuminismo, sostituita da una lettura piuttosto caricaturale.
Sulle stesse questioni sono successivamente intervenuti Franco Volpi ("I lumi e
l’ombra lunga di Nietzsche", pubblicato l’8 dicembre) e Sebastiano Maffettone
("Le idee scettiche e i lumi di Scalfari", uscito il 30 scorso). L’altro ieri la
Repubblica ha ospitato un commento di Umberto Eco, dal titolo "La forza del
senso comune".
Nel suo intervento su Repubblica dello scorso 31 dicembre, Umberto Eco sosteneva
con ottimi argomenti che l’illuminismo in fondo è un modo ragionevole di
ragionare e che buon illuminista è chi crede che «le cose vadano in un certo
modo». Poiché ritengo che si possa affermare, senza tradire lo spirito
dell’illuminismo, che le cose vadano in un certo modo ma potrebbero andare anche
in un altro, vedo di spiegarmi partendo da lontano.
Una volta c’erano i «poeti teologi», sosteneva Giambattista Vico. Non sapevano
come stessero effettivamente le cose. Ma dovevano rispondere a domande piuttosto
impegnative del tipo: che ci facciamo noi qui? chi ci ha messo in questa buia
selva dove ciascuno è nello stesso tempo cacciatore e preda? e come uscirne,
posto che sia possibile? Mica facile rispondere. Ma loro ci provavano. Cercavano
segni ovunque. E li trovavano. Tutto gli appariva animato da forze misteriose,
tutto gli parlava. Ne ricavavano un sapere fasullo fin che si vuole, ma in grado
di portare alla luce significati nascosti e tutt’altro che insensati. Al punto
da poterci edificare sopra un sapere, e sopra questo sapere una vita più degna e
meno bestiale.
Poi sono arrivati i «famuli». Ossia i servi, i lavoratori. I quali avevano il
compito di soddisfare i bisogni materiali dei loro padroni. Per fare questo
ritenevano inutile (e come dargli torto?) contemplare le profondità dei cieli,
elevare altari, inventarsi simboli e geroglifici e poi decifrarli. Meglio
guardarsi intorno. Cercar di capire come funzionano le cose. E agire di
conseguenza. Se poi tutto ciò svuota il mondo del suo incanto e dei suoi
irrisolvibili enigmi, che importa? Non c’è chi non veda i vantaggi che se ne
ricavano. A cominciare dal fatto che l’esistenza su questa terra si fa meno
dura, meno dolorosa, soprattutto meno paurosa.
Lo schema di questo percorso indicato dal grande filosofo napoletano appare
ormai un luogo comune della modernità. Dal mito al logos. Da un’età in cui
dominano violenza e autorità a un’età in cui la ragione si fa strada, sia pure
faticosamente, e impone la sua legge. Non è questo il cammino dell’umanità,
magari segnato da ricadute e deviazioni, ma riconoscibile come un filo rosso
nella confusa trama dei secoli e come la sola vera speranza per l’uomo? Pazienza
se ciò comporta la rimozione del trascendente. Per di lì bisogna passare.
Ma il primo ad avere dei dubbi in proposito sarebbe lo stesso Vico. Per lui non
si tratta tanto del passaggio dall’età della superstizione all’età della ragione
quanto dell’opposizione di due diverse modalità linguistiche che si fronteggiano
e si contraddicono. Se in uno specchio d’acqua i poeti teologi vedono divinità
lacustri a custodire qualcosa come l’origine della vita e il suo senso
inafferrabile e meraviglioso, diciamo pure divino, certamente vedono qualcosa
che non c’è. Ma diremo che mentono? O non diremo piuttosto che il giorno in cui
delle loro visioni non ne fosse più nulla noi saremmo un po’ più ciechi?
Viceversa, se nello stesso specchio d’acqua i famuli riconoscono l’elemento
fondamentale di cui siamo fatti e procedono alla sua analisi, magari con lo
scopo di verificarne la potabilità, non li rimproveremo certo di scarsa
sensibilità religiosa. Anche se per fare quello che fanno devono dimenticarsi di
naiadi, silfidi e compagnia bella.
Insomma, quella vichiana non è una concezione progressiva, bensì drammatica
della storia, visto che oscilla fra saperi in conflitto e non mediabili.
All’uomo è data sempre e soltanto una parte della verità, mai la verità tutt’intera,
e la parte che gli è data, gli è data a prezzo dell’altra. O la verità
mitopoietica così simile alla menzogna, ma la sola in grado di dire qualcosa
sull’insondabile mistero che ci avvolge, oppure la verità della scienza e della
tecnica, così vera, ma così indifferente all’umano. Che poi Vico, pensatore
cristiano, prospetti per la fine dei tempi una conciliazione delle due
prospettive, quando l’uomo parlerà la lingua che Dio ha usato per creare il
mondo e quindi la verità gli sarà rivelata pienamente, ebbene, questo tratto del
suo pensiero (che pure avrebbe suscitato l’interesse di Walter Benjamin)
complica ulteriormente il quadro. Chi sarebbe disposto oggi a condividere tale
fede?
Qualcuno si sarà domandato a questo punto che cosa c’entra il discorso fin qui
svolto con il dibattito sull’illuminismo aperto da Scalfari. C’entra. Intanto
val la pena di ricordare che il progetto illuminista, qual è possibile ricavare
dall’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, il cui sottotitolo non a caso è
Dizionario delle scienze, delle arti e dei mestieri, risponde a una doppia
esigenza: diffondere un sapere tecnicoscientifico e contrastare un sapere
tradizionale giudicato retrivo, mitologico. Evidente il nesso tra questi due
aspetti. E come non ammettere che il modello di conoscenza privilegiato finisce
col diventare esclusivo di tutti gli altri e anzi si costituisce sulla base
della loro confutazione? Come non notare, qui, un nodo irrisolto?
Sia come sia, qualcosa non ha funzionato nel progetto illuminista. Difficile non
essere d’accordo con Scalfari quando osserva, sconfortato, che di illuminismo ce
n’è ben poco in giro. In compenso trionfano le credenze tribali, i fanatismi, le
più buie ossessioni di morte. Con l’inesauribile spinta distruttiva che
accompagna tutto ciò. A illuminare il mondo sembra non esserci altro che la
televisione, sappiamo con quali risultati. E’ il mondo a cadere dentro
l’apparato mediatico. E a restarne ostaggio. Aveva visto giusto Günther Anders.
«In principio era la televisione, il mondo è venuto dopo, per essere mandato in
onda». Se però Norberto Bobbio avverte che a essere minacciata è la democrazia,
quando media e potere coincidono nello stesso soggetto, può accadere che i
filosofi facciano spallucce.
E tuttavia... Resta da porre la questione più spinosa. Vale a dire: perché, dopo
aver imboccato la strada che avrebbe dovuto condurci nella terra della ragione
illuminata, siamo venuti a trovarci da tutta un’altra parte? S’è trattato
semplicemente d’un errore, d’uno sviamento, come di chi, essendosi fermato ad
ascoltare le sirene dell’irrazionale ne è stato sedotto e travolto? O è la
stessa mappa dell’illuminismo a condurre dove l’illuminismo mai e poi mai
avrebbe immaginato?
Non solo. Ma c’è la lezione di Horkheimer e Adorno. E se l’avessimo messa troppo
affrettatamente da parte? Siamo sicuri che i due francofortesi esagerassero
quando avvertivano che nella terra della ragione illuminata brilla un sole di
sventura? Dialettica dell’illuminismo. La stessa che qualcuno aveva creduto di
scorgere in atto nella rivoluzione francese, che dell’illuminismo è figlia. O
preferiamo credere che la rivoluzione finisce nel terrore non in base a una sua
precisa logica, anzi, dialettica, ma solo perché ai giacobini è scappata la
mano?
L’eredità dell’illuminismo è in queste domande. Guai prenderle a pretesto per
una sua liquidazione sommaria. L’illuminismo resta per noi qualcosa di
necessario e di irrinunciabile. Anche se, nel momento in cui lo riconosciamo,
non possiamo non prendere atto dei suoi limiti e delle sue contraddizioni.
Infatti anche ciò che l’illuminismo rimuove è per noi qualcosa di necessario e
irrinunciabile.
Perciò, se infine ci chiediamo che cosa significhi per noi essere illuministi,
risponderei parafrasando Croce: non è possibile non esserlo. Ma esserlo
comporta, da una parte, fare i conti con la nostra storia, magari
impietosamente. E dall’altra, come propone Isaiah Berlin, prendersi cura (che
sia questa la pietà del pensiero?) di ciò che è rimasto nascosto nelle pieghe di
una storia altra ma non meno nostra.
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i lumi
Soffusi e
deboli così li preferisco
di GIANI VATTIMO
L’intervento di Gianni Vattimo, che qui pubblichiamo,
prende spunto da un articolo di Eugenio Scalfari uscito su queste pagine il 3
dicembre scorso con il titolo "I lumi del nostro secolo non sono più di moda" e,
più in particolare, è una replica al commento successivo di Umberto Eco,
intitolato "la forza del senso comune" e pubblicato il 31 dicembre. Sulle stesse
questioni sono intervenuti Franco Volpi (l’8 dicembre), Sebastiano Maffettone
(il 30 dicembre) e Sergio Givone (il 2 gennaio).
Caro direttore, sarà poi vero che, come dice nel suo bell'articolo del 31
dicembre, Umberto Eco è più illuminista di me? Ha forse ragione nel dire che non
ci tengo a tutti i costi ad essere riconosciuto come (più) illuminista (di lui).
Ma quando leggo che lui si sente illuminista perché è interessato a come in
generale vanno le cose, e dunque a un certo concetto, sia pur relativamente,
stabile di realtà, mi vien voglia di obiettargli almeno due cose che, insieme
alla nozione kantiana di illuminismo (la ragione che diventa maggiorenne, ma
proprio perché riconosce finalmente i propri limiti) dovrebbero aiutarci a
discutere più "empiricamente", realisticamente o come si vuol dire, la
questione. Primo: se vogliamo tener conto davvero di come vanno le cose, non
possiamo ignorare che, del loro "andare", fa parte anche il nostro parlarne e
tenerne conto. Come dire che noi guardiamo al corso delle cose non dall'esterno,
from nowhere come ha detto un filosofo americano, o dal punto di vista di Dio
(forse solo Emanuele Severino crede ancora di poterlo fare). Noi guardiamo al
corso delle cose, distinguiamo il loro andare "generalmente" così piuttosto che
altrimenti, ma siamo dentro al processo e non possiamo mettere tra parentesi
questo "fatto". La differenza tra Kant e Hegel, o tra Eco e me (ma sì, bisogna
pure scegliersi un termine di confronto, come diceva Woody Allen), è che
nonostante tutto Kant crede ancora di poter parlare dal punto di vista di un
Soggetto, sia pur finito ma stabile e non sottomesso, lui, al divenire storico.
Dunque la ragione (la Ragione) ha una sua purezza, le sue categorie che si
applicano sempre e dovunque ci sia un essere razionale finito eccetera. Hegel -
buono questo, dirà Eco; e per molti versi concordo - pensa ancora in termini di
Assoluto, certo; ma almeno comincia ad accorgersi che, se si dà un punto di
vista vero, divino, definitivo, per l'uomo va conquistato. Per questo Marx era
più hegeliano che kantiano, pensava anche lui che la visione limpida della
verità fosse qualcosa da conquistarsi nella storia. Poi, come si sa, la storia
ha smentito proprio questa aspettativa di Marx e di Hegel: il comunismo reale
non era affatto razionale, e ai più è parso che questo fallimento non dipendesse
solo dalla malvagità degli uomini o dal destino cinico e baro, ma dal difetto
stesso del progetto. Risultato: torniamo a Kant? In parte sì, ma riconoscendo
che la finitezza della ragione umana non consiste solo nel fatto che le
categorie si debbono SEMPRE applicare a un materiale che ci viene dalla
sensazione; anche quel "sempre" è un po' eccessivo. Finitezza vuol dire che
anche il nostro guardare il mondo fa parte dei fatti del mondo, e non possiamo
mai, nemmeno per scherzo, intenderlo come un guardare "puro", che ci direbbe
come davvero e sempre vanno le cose. Illuminismo sarebbe qui dunque la
consapevolezza della storicità della ragione, che giustamente chiameremo
piuttosto ragionevolezza: per esempio, nell'etica, mischiando la fede nei nostri
valori con il senso di responsabilità, che tiene conto delle conseguenze (non:
fiat iustitia pereat mundus, per esempio), e tra queste, anche della storica
"vivibilità" di un mondo che si ispiri a quei valori: dunque tenendo conto delle
idee, dei valori, delle aspettative degli altri, e non solo dei propri ideali.
Saremmo così meno convinti dei diritti umani fondamentali? E' questo che gli
"illuministi" rimproverano sempre agli storicisti. Ma se ci mettessimo d'accordo
che il diritto umano fondamentale è quello di essere interpellati sul proprio
destino, o, appunto, quello di "mettersi d'accordo"? Non ci troveremmo così di
fronte né ad autorità assolute che in nome della legge "naturale" ci vietano la
fecondazione eterologa o le unioni civili omosessuali; e nemmeno di fronte a
illuministi "ragionevoli" che, magari con argomenti meno dogmatici, finiscono
spesso per arrivare alle stesse conclusioni (per esempio: le adozioni da parte
di coppie omosessuali vanno vietate perché il bambino può trovarsi a disagio nei
confronti dei compagni che hanno genitori "normali". Come dire che è meglio non
essere ebreo in una società dove tutti celebrano il Natale e l'Epifania..). Qui
viene il secondo punto delle mie osservazioni. Che anche il nostro sguardo sul
mondo faccia parte del corso delle cose significa anzitutto che è un fatto, cioè
un prodotto storico "motivato". Nessuno scienziato guarda il mondo
"oggettivamente" per amore della verità o per corrispondere a un dovere eterno.
Lo fa per vincere il Nobel, o per produrre una medicina utile anche a se stesso,
o per realizzare un mondo più giusto eccetera. I "valori" per i quali si muove
non sono scritti in qualche ordine naturale, sono scelti liberamente. Che non
vuol dire a capocchia ed arbitrariamente: ma appunto in relazione alla loro
"presentabilità" agli altri, alla loro capacità di resistere a ogni obiezione
umanamente immaginabile nella situazione concreta. Non posso dire che vanno
sterminati gli ebrei o gli zingari pensando che tutti saranno d'accordo. Devo
pensare che il diritto di ebrei e zingari a non essere sterminati sia legato al
valore eterno e naturale della vita? Qualcuno dirà che così l'imperativo sarebbe
più forte e più garantito il suo rispetto. Ma è poi proprio in nome di questo
diritto eterno della vita che papi e vescovi o autorità civili varie mi
vieteranno di bere alcoolici, di fumare spinelli, al limite anche di lasciarmi
morire se la vita non ha più senso per me. Dunque, anche dal punto di vista
"politico", molto meglio pensare in termini di consenso; motivato da
argomentazioni, certo, che però si rifanno sempre solo alla nostra possibilmente
condivisa esperienza storica - del tipo: ma se hai letto questo e questo, e se
ricordi questo e questo, come fai ancora a dire che…? Se c'è una natura vera
delle cose, c'è anche sempre una autorità - il papa, il comitato centrale, lo
scienziato oggettivo, ecc. - che la conosce meglio di me e che può impormela
anche contro la mia volontà. A che altro serve insistere sulla oggettività e la
"datità" del vero, se non a garantire qualche autorità a qualcuno? Quando
pensiamo che le leggi debbano essere fondate solo sul consenso consapevole,
l'idea di poter ricorrere invece a una natura data (e anche di per sé buona,
fonte di norme; ma perché?) appare migliore solo a chi ha una radicata sfiducia
nella possibilità di incontrare ragionevolezza nel mondo umano. Se penso che i
miei concittadini potrebbero dare la maggioranza a Berlusconi, Previti, Bossi e
via straparlando e delinquendo, anch'io sono tentato di pensare che la legge non
può fondarsi sul consenso ma deve avere basi più forti e "oggettive". Proprio
questo svela però il senso profondamente autoritario dell'appello alla natura,
alla verità, alle leggi eterne delle cose. Se voglio vivere in un mondo che
garantisca la mia libertà devo per forza espormi al rischio di vivere in una
società democratica, dove, per l'appunto, le leggi sono fatte con il consenso
argomentato di tutti. Posso solo ridurre il rischio di lasciar trionfare i pazzi
contribuendo allo sviluppo della cultura collettiva, con investimenti sulla
scuola, partecipando attivamente alla discussione pubblica, e anche evitando
politicamente che qualcuno possa imporre a tutti le proprie idee senza
contraddittorio eccetera. Anche, e soprattutto, sforzandomi di garantire,
specialmente quando sono maggioranza e posso farlo, il diritto delle minoranze,
fino all'obiezione di coscienza, quando non violi diritti riconosciuti a tutti
(non lascerò che l'unico farmacista della regione mi rifiuti il profilattico o
la pillola del giorno dopo..). Questo modo di vedere il rapporto tra etica -
valori professati individualmente purché non a scapito della pari libertà
altrui; valori condivisi in base ad argomentazioni storico-culturali, etica
della responsabilità - e politica non ha bisogno di fondamenti assoluti. Si
obietta: ma anche il rispetto della libertà altrui deve essere fondato su una
scelta di valore. Si tratta però di una scelta che faccio in nome di una
preferenza vitale: preferisco un mondo in cui ci si confronta discutendo a un
mondo in cui ci si ammazza; e lo preferisco anche se sono dalla parte dei forti
e dei privilegiati, perché non mi piace stare in un mondo blindato, se una sera
voglio andare a divertirmi in un locale del Bronx uscendo dalle strade protette
di Manhattan voglio poterlo fare. Inoltre: la fede nella libertà è una credenza
vitale anche in un altro e più radicale senso: non posso predicarla agli altri,
o addirittura imporla con la forza (se non fate elezioni libere sospendiamo gli
aiuti). La posso rivendicare per me, e aiutare coloro fra gli altri che la
rivendicano (sostegno ai movimenti di liberazione, diritto di asilo, ecc.); ma
non la posso né voglio garantire a chi non ne sente il bisogno… Ma che sia
passato davanti a me il coniglio gavagai, o un qualunque vivente che corre via
comunque io lo chiami, non è un fatto naturale, una datità oggettiva con cui
devo fare i conti? Vero: ma: a) nello stesso tempo sono passati davanti a me una
quantità di altri enti (particelle di vari elementi, vibrazioni di luce, forse
uno spirito invisibile...) e non li ho annoverati tra i fatti; stavo guardando
solo una certa zona del mondo, e facevo attenzione solo a esseri capaci di
correre nell'erba ecc. E' ciò che, credo, si chiama questione della rilevanza:
anche che abbia visto un "fatto" è già risultato di una interazione tra me e il
mondo; se mi si chiede di dire che cosa c'è davanti a me dirò che c'è una
tastiera di computer, la mia libreria ecc: ma non tot di ossigeno, tot di azoto,
tot di anidride carbonica. Come farei se dovessi rispondere a un questionario
chimico. Siccome neanche quando in laboratorio si fa un esperimento "a parità di
condizioni" si controllano tutte le condizioni, ma solo quelle che si presuppone
possano influire sull'andamento dell'esperimento, dirò che non conosco mai LA
realtà; ma che chiamo reale ciò che non dipende da me e su cui, sempre,
intervengo; reale è così una voce che ascolto, certo, ma che non si dà se non mi
metto ad ascoltarla, che "c'è" solo se e nella misura in cui le rispondo. Non mi
sembra che queste tesi che prendo da Heidegger siano poi tanto diverse da quelle
di Quine... In ogni caso, che ci sia il coniglio fuori di me comunque lo si
chiami non mi sogno di negarlo. Ma anche solo rivendicare questa realtà "in sé",
come fa Eco, risponde già a un piano, a un programma (qui, quello di stabilire
se si è o no illuministi). E il programma non può essere legittimato descrivendo
la realtà stessa; solo se dovessimo dire che la realtà è sempre in sé buona,
perché creata da un Dio buono (ma anche poco preoccupato della nostra libertà)
potremmo trarre da essa norme per giudicare il bene e il male. Invece, come
sembra pensare anche Eco, noi cerchiamo di capire come stanno le cose solo
perché ci interessa intervenire su di esse con le nostre arti e tecniche;
appunto, guardiamo alle cose come stanno solo dal punto di vista di questo
interesse, che è storico, culturale, scelto responsabilmente in dialogo con gli
altri, di oggi e di ieri. Chi dice tutto questo? Non credo che sia l'essere che
parla in me; sono io, pensatore debole collocato nel mio secolo. Propongo cioè
questa teoria dal punto di vista di una lettura della mia (nostra) cultura; non
perché so come stanno le cose in sé, ma perché, dall'interno di una situazione
storica, mi sforzo di capire (che vuol dire: interpretare) il suo "senso" -
anche come direzione verso cui essa indica, provenendo da dove proviene. Ebbene,
parlare di pensiero debole significa ritenere che il senso della nostra
provenienza "occidentale", giudaico-cristiana e anche illuministica, sia
l'indebolimento delle pretese strutture forti dell'essere: dallo stato
autoritario a quello democratico, dalla credenza nell'evidenza di coscienza alla
consapevolezza freudiana dei moventi inconsci, dalla certezza dell'oggettività
al sospetto marxiano e nietzschiano nei confronti delle ideologie, delle bugie
inconsapevoli dovute alla nostra condizionatezza storica… Persino gli enti di
cui parla la fisica di oggi sono tutto tranne che "reali" nel senso del coniglio
gavagai… Se c'è un'altra interpretazione della nostra situazione, sarò lieto di
discuterla, come un'altra possibile interpretazione, e in base ad argomenti
storici (autori, testi, esperienze vissute, ecc.). Naturalmente, se qualcuno
viene e pretende che quel che dice è la verità "oggettiva", allora mi ricordo,
parafrasandolo, di Goebbels, metto mano alla pistola.
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la nera schiena della ragione
che cosa
significa essere oggi illuministi
di ROBERTO ESPOSITO
L’intervento di Roberto Esposito che qui pubblichiamo,
prende spunto da un articolo di Eugenio Scalfari uscito su queste pagine il 3
dicembre scorso con il titolo "I lumi del nostro secolo non sono più di moda".
Più in generale si fa riferimento al dibattito che si è stabilito su queste
pagine al riguardo, e che si è sempre presentato sotto la testatina "Che cosa
significa essere illuministi oggi".
Allo scambio di idee su questo tema hanno partecipato anche Franco Volpi (l’8
dicembre) e Sebastiano Maffettone (il 30 dicembre). Un commento di Umberto Eco
intitolato "La forza del senso comune" è stato pubblicato il 31 dicembre. Sergio
Givone è intervenuto il 2 gennaio 2001 e Gianni Vattimo il 4 gennaio.
Prima ancora di entrare nel merito delle questioni aperte dall'articolo di
Scalfari e da quelli che gli sono seguiti sul nostro rapporto con l'illuminismo,
credo che valga la pena di porci una domanda preliminare. Perché parlare di noi
attraverso l'illuminismo? Perché questo ritorno sul problema dell'illuminismo a
qualche anno di distanza da un dibattito per molti versi simile, a sua volta
preceduto da altre discussioni sullo stesso argomento? Certo, si può rispondere,
ciò accade anche per altre stagioni della nostra tradizioneper l'umanesimo, il
barocco, il romanticismo, il positivismo. Ma, appunto, né con la stessa
frequenza, né con la stessa intensità. Nell'illuminismo c'è qualcosa che ci
tocca e ci preme assai più da vicinoun rapporto privilegiato con la nostra vita
presente. E' come se parlare di illuminismo non voglia semplicemente dire
istituire il raffronto con una matrice, certo cruciale, della nostra cultura, ma
parlare direttamente di noinon solo suoi figli riconoscenti oppure, come
sostiene Scalfari, ingrati, ma suoi contemporanei nonostante e attraverso il
tempo che ci separa da esso.
La risposta più convincente a questa domandasull'illuminismo, su di noi: è
appunto la stessa cosace la fornisce Michel Foucault in un saggio di poco
precedente la sua morte, intitolato precisamente Che cos'è l'illuminismo . In
esso il filosofo, analizzando i testi kantiani in argomento, sostiene che Kant
non intende l'illuminismo semplicemente come un'età del mondo, come un evento di
cui si percepiscono i segni e neanche come l'aurora di qualcosa che sta per
compiersi, ma piuttosto e soprattutto come il punto a partire da cui la
filosofia s'interroga sul proprio presente. Mentre fino alloraspiega ancora
Foucaultla cultura moderna si era sempre definita nei modi di un rapporto
"longitudinale" nei confronti del proprio passato, attraverso una comparazione
con gli Antichi, Kant interroga l'illuminismo secondo una relazione "sagittale"
con la propria attualità: «Qual è la mia attualità? Qual è il senso di questa
attualità? E che cosa faccio quando parlo di attualità?». Da questo punto di
vista l'illuminismo non è soltanto una delle tante facce, ma la forma stessa
della filosofia moderna.
E' per questo, evidentemente, che non possiamo non dirci illuministi, anche a
prescindere dalla nostra valutazione sul suo significato e sulla sua eredità.
Quella eredità emerge come parte di noi non appena ci interroghiamo sulla nostra
vita, sui nostri progetti, sui nostri valorianche se essi risultano diversi e
addirittura opposti tra di loro. Se c'è, anzi, un contenuto veramente universale
nell'illuminismo è esattamente l'accettazione di tale diversità. E ciò non tanto
nei termini dell'ormai abusato relativismo culturale, quanto piuttosto in quelli
del carattere ambivalente, doppio, di ogni espressione della realtà.
E' questoper tornare direttamente al nostro dibattitoil motivo per cui non solo
è sbagliato, ma non è possibile adottare né un atteggiamento di condanna
preconcetta, come quello di Horkheimer e Adorno, né un atteggiamento di adesione
integrale: dal momento che il tratto specifico dell'illuminismo sta precisamente
nella sua differenza interna, nella sua forza di autodecostruzione. Come
altrimenti potrebbero starvi insieme i nomi di Voltaire e di Rousseau, di David
e di Füssli, di Kant e di Sade, di Mozart e di Blake?
Non solo. Ma come potrebbero convivere all'interno di ciascuno di essi la
rivendicazione orgogliosa della ragione dispiegata e la coscienza dei limiti che
la trattengono in un'orbita definita, la speranza nel progresso civile, etico,
politico rappresentato dalla grande rivoluzione ed il timore per i mostri che
essa stessa ha generato dal suo seno? E ancora i segni contraddittori
dell'estendersi della pace e del ritorno della guerra, della forza delle
istituzioni moderne e degli abusi che continuamente ne derivano, degli slanci e
dei regressi, delle conquiste e dei fallimenti, degli impulsi e delle ferite che
rovesciano il mondo su se stesso prima di imprimergli una nuova spinta in
avanti?
In uno dei più bei libri di questi anni sull'illuminismo1789 I sogni e gli
incubi della ragioneJean Starobinski racconta che Goethe, tornato dal suo
viaggio in Italia, elabora la teoria secondo la quale il colore risulta dalla
polarità della luce e dell'oscurità. Questo stesso principio che lega luce e
tenebre in un nodo irresolubile nell'ambito della visione vale per l'intero
universo intellettuale, politico, morale: «io non sono che una parte delle
tenebredice Mefistofeleche ebbe per figlia la luce; quella stessa luce, che alla
Madre Notte ora contende spazio e rango antico». Ecco, l'illuminismo cui
dobbiamo guardare perché ci restituisce il senso della nostra contemporaneità è
quello che ha la forza di cogliere il proprio fondo cavo, di avvertire la notte
che non sta solo nel suo passato, ma che insidia il suo presente e il suo
futuro.
Da questo punto di vista concordo con Givone quando vede in Vico il primo
illuminista e contemporaneamente colui che avvia una riflessione critica
sull'età rischiarata e con Volpi quando scrive che il simbolo, il mito,
l'immaginazione sono risorse troppo preziose per essere lasciate agli
irrazionalisticome una certa tradizione analitica invita a fare in omaggio ad
una cultura angloamericana (che nel frattempo si è in larga parte convertita a
Heidegger e Derrida). Insomma l'illuminismo è di gran lunga preferibile all'antiilluminismo,
se, e solo se, è in grado di comprenderne e in qualche modo assumerne le
ragionidi rivolgere su se stesso il fascio di luce critica con cui intende
illuminare la realtà esterna. Per esempio incrociando il motivo irrinunciabile
dell'universalismo non con la logica dell'identità, ma con quella della
differenza, con tutta la difficoltà che tale operazione certamente comporta.
In questo senso non direi davverocome vuole Maffettoneche le pagine culturali di
Repubblica si siano allontanate dalla sensibilità di Scalfari. Al contrario. E
ciò non soltanto per l'alternanza tra interventi su Nietzsche e articoli sui
salotti francesi, ricordata scherzosamente da Eco, ma anche perché solo la
conoscenza della grande cultura della prima metà del secoloMann, Musil, Schmitt,
Heidegger, Jüngercon tutti i suoi splendori ed errori può aprirci gli occhi nei
confronti di qualsiasi integralismo, cattolico e laico, comunitario e liberale,
continentale ed analitico che contraddice l'illuminismo nel momento stesso in
cui se ne dichiara unico erede.
E del resto non è stato proprio Scalfari in un libro che ho avuto l'opportunità
di presentare a NapoliAlla ricerca della morale perdutaa ricordare come soltanto
sullo sfondo in ombra di Pascal, dei problemi che egli pone pur senza riuscire a
risolverli, è possibile riconoscerci nella luce di Voltaire? Con la conseguente
conclusione, tirata anche da Vattimo nell’ultimo intervento, che è vano ogni
tentativo di fondare la morale su presupposti esclusivamente razionali, e dunque
oggettivi, dal momento checome direbbe il più grande degli
antiilluministineanche il principio di ragione può reggersi in bilico su se
stesso.
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quanti lumi nella storia
che cosa vuol
dire essere oggi illuministi
di SERGIO MORAVIA
L’intervento di Sergio Moravia, che qui pubblichiamo,
prende spunto da un articolo di Eugenio Scalfari uscito su queste pagine il 3
dicembre scorso con il titolo "I lumi del nostro secolo non sono più di moda".
Più in generale si fa riferimento al dibattito che ne è seguito, e presentato
sempre sotto la testatina "Che cosa significa essere illuministi oggi".
Allo scambio di idee su questo tema hanno partecipato anche Franco Volpi (l’8
dicembre) e Sebastiano Maffettone (il 30 dicembre). Un commento di Umberto Eco
intitolato "La forza del senso comune" è stato pubblicato il 31 dicembre. Sergio
Givone è intervenuto il 2 gennaio, Gianni Vattimo il 4 e Roberto Esposito il 6
di questo stesso mese.
Ho la sensazione che nell’articolo di Scalfari e negli interventi che lo hanno
seguito si siano intrecciati tre temi in parte diversi tra loro: un giudizio su
Isaiah Berlin, un ripensamento dell’Illuminismo nei suoi più significativi
contenuti storicointellettuali, una presa di posizione sul rilievo dell’eredità
illuministica per noi oggi (accompagnata talvolta da accenni a posizioni
filosofiche di carattere generale degli studiosi intervenuti).
Per quanto riguarda il primo tema, il mio giudizio è assai simile a quello
espresso da Scalfari. Berlin è stato certo un saggista affascinante, che ho
sempre letto con grande partecipazione. Alla storia delle idee ha però donato
più spesso intuizioni diversamente valide che non analisi fondate e rigorose dei
temi affrontati.
Il «Controilluminismo» di vari suoi scritti si collega a una reazione
storiografica ed eticopolitica contro i presunti universalismi astorici e altri
"difetti" e "pericoli" di molti principi illuministici, che è stata
particolarmente viva nella Germania e nell’Italia della prima metà del Novecento
(si pensi, tanto per fare un nome, a Benedetto Croce). Ma è una reazione che nei
nostri annidiciamolo con franchezzaappare assolutamente inattuale.
Il discorso sull’Illuminismo è ovviamente assai più impegnativo, e non lo si può
sviluppare nell’ambito di un articolo. Come tutti gli "ismi", esso è
essenzialmente un costrutto interpretativo che enfatizza, di determinati
processi storici e concezioni teoriche, ora certi aspetti ora altri in stretto
rapporto con gli interessi dell’interprete e della sua cultura (e congiuntura)
di appartenenza. In ogni caso, è un fatto che ben pochi studiosi odierni
riducono il pensiero dei Lumi a un insieme di idee astratte e di improponibili
utopie. L’elenco dei suoi valori più peculiari e positivi stilato da Scalfari è
impeccabile. Impeccabile, e anche impressionante. In esso troviamo infatti
alcuni dei principi più validi della Modernità, a cominciare dalla libertà, dal
libero esame, dalla laicità delle istituzioni politiche.
Naturalmente l’Illuminismo non è stato solo questo. Qualcuno (penso al grande
storico americano Lester G. Crocker, ben noto anche da noi per un paio di volumi
assai significativi) ne ha sottolineato la tendenza a semplificare/liquidare
credenze assai complesse, a liberarsi sbrigativamente di istanze ed esigenze non
facilmente accantonabili. L’Illuminismo, insomma, visto come un’età soprattutto
di "crisi" (per impiegare un concetto assai caro a Crocker): di crisi senza
redenzioni e senza, tanto meno, paradisi futuri. Un’età caratterizzata anzi da
un duplice, perverso approdo: il Terrore rivoluzionario e le idee del marchese
de Sade. Sono tesi difficilmente accettabili, ma non prive di motivi che fanno
riflettere.
Ancor più stimolanti le considerazioni sull’Aufklärung di Adorno e Horkheimer.
La loro celebre Dialettica dell’Illuminismo è un’opera acuta, provocatoria,
capace di creare un salutare disagio anche nel lettore più agguerrito. Senza
dubbio è anche un libro assai discutibileper l’unilateralità della diagnosi che
esprime su tendenze psicoantropologiche e sociali estremamente negative
promosse, secondo i due autori, proprio dallo spirito illuministico (il
crescente squilibrio tra il potere dell’individuo e quello della società,
l’interpretazione sempre più funzionalstrumentalistica della scienza e della
stessa istruzione, il progressivo smarrimento del senso dei Limiti e di una
mentalità realmente autocritica). D’altra parte, se abbiamo a lungo accettato
un’immagine tutta in positivo dell’età dei Lumi, sarà pur lecito prendere
coscienza almeno per una volta, con i due francofortesi, del lato oscuro che ha
accompagnato silenziosamente la crescita della Raison: dell’oneroso pedaggio
pagato dalla civiltà che così spesso ha dichiarato di ispirarvisi per far valere
determinati ideali e valori teoricopratici.
In realtà l’articolo di Scalfari è stato letto (forse, in parte, oltre i suoi
stessi auspici) in chiave prevalentemente "contemporaneistica". Che peso ha, nel
nostro tempo, la Raison dei Lumi? Qual è l’attualità del suo messaggio? Dobbiamo
forse cercare altrove i punti di riferimento più efficaci per costruire e vivere
una vita più degna e giusta? La serietà di tali domande richiede il più
possibile risposte chiare e distinte.
1. Se la Raison viene proposta così, al singolare e con la lettera maiuscola,
allora la prima replica deve essere negativa. In effetti una parte cospicua del
sapere moderno si è congedata da quella Ragione, elaborando uno strumentario
cognitivo infinitamente più articolatoanche se, di necessità, spesso assai meno
certo e rassicurante.
2. Se l’Illuminismo vale come un quasisinonimo di Progresso de claritate in
claritatem, allora ben pochi sentiranno di potersi definire illuministi (non
certo io, che pure ho dedicato allo studio dei Lumi una parte della mia vita).
Il punto è che questa quasi sinonimia è per molti versi fuorviante. Semmai il
più profondo messaggio illuministico è consegnato all’esortazione kantiana
espressa nella ben nota, ma sempre stupenda, formula Sapere aude. Ciò che
l’Illuminismo ci propone è non già una certezza ma una ricerca. Oggigiorno la
sola anima legittimata a dirsi illuministica è, per me, quella pronta a
viaggiare verso l’insidia delle Colonne d’Ercole (e, se del caso, a superarle).
A osservare cose sconosciute, a comparare tutti i dati naturali e, ancor più,
tutti gli usi e costumi umanianche per pensarne di nuovi e di migliori. Forse il
fatto che tante sciences de l’homme siano nate nel Settecento non è un caso: è
un’implicita proposta di proseguire lungo la strada delle conoscenze anche più
perturbanti e rischiose. Perché proprio questo sembra essere il destinoo meglio
la vocazionedell’uomo moderno.
3. Noi faremo vivere ancor oggi l’eredità illuministica se proseguiremo questa
ricerca senza fineallargandola anche (il punto è cruciale) a quegli universi
dell’interiorità, della trascendenza, dell’esistere au jour le jour che i Lumi
hanno in parte trascurato. Faremo vivere tale eredità se realizzeremo questa
ricerca non solo col calcolo della ragione ma anche coll’entusiasmo del cuore.
Ciò che io, vecchio settecentista, invidio di più alla stagione illuministica è
la Passione. È la «volontà di sapere», nel convincimento (in verità, coll’impegno)
che tale Sapere si compirà anche nell’attuazione di una Pratica di vita in più
sensi migliore. Tolleranza, felicità, pace perpetua, rigenerazione e poi,
naturalmente, Liberté, Égalité, Fraternité. Questi sono i termini chiave
dell’età dei Lumi che ancora possiamo e dobbiamo amare.
I loro creatori e seguaci (ivi compresi quelli odierni) sono stati spesso
accusati di ingenuità e di retorica. Beh, un momento. Anch’io so bene che non
tuttoanzi troppo pocoè stato realizzato in rapporto ai fini indicati da quei
termini. Neppure ignoro che ogni Luce produce, nella notte, insondabili coni
d’ombra. E poco fa ho pure accennato che ogni conquista éclairée è costata
spesso prezzi assai alti. Ma ciò non significa che i concetti/valori di cui
sopra siano vanie che se ne possa o se ne debba fare a meno. Significa piuttosto
che dobbiamo, capire, vigilare, approfondire. Ed eventualmente cambiare.
Cerchiamo dunquequesto sìanche in altre direzioni, e sulla base di nuovi
presupposti o di diverse finalità. Ma non liquidiamo, con sospetta
superficialità, le ideeforza che i Lumi ci hanno consegnato. Devono in
particolare, coesisteresenza gerarchie precostituiteun tempo della Prosecuzione
e un tempo della Trasformazione. In un famoso saggio Franco Venturi ha
contrapposto, nel secolo XVIII, le Riforme alle Utopie. Non credo d’essere
completamente d’accordo. Ma se continuo ad amare un certo spirito dell’utopia,
non per questo respingo a priori l’opera dei (buoni) riformatori. Perché l’aut
aut anziché l’et et?
Alcuni anni orsono Habermas ha scritto che la Modernità (per lui strettamente
connessa all’Illuminismo) è un «progetto incompiuto». È probabileanzi è certo.
Ma non mi pare un buon motivo per abbandonare tout court quel progettosaltando
maga
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la notte di Isaiah berlin
dibattito
sull’illuminismo
di GIANCARLO BOSETTI
Che cosa significa oggi essere illuministi? L’intervento di
Giancarlo Bosetti che qui pubblichiamo prende spunto da un articolo di Eugenio
Scalfari uscito su queste pagine il 3 dicembre scorso con il titolo "I lumi del
secolo non sono più di moda".
Più in generale l’articolo di Bosetti segue il dibattito che è scaturito
dall’intervento di Scalfari. Allo scambio di idee su questo tema hanno
partecipato anche Franco Volpi (l’8 dicembre) e Sebastiano Maffettone (il 30
dicembre). Un commento di Umberto Eco intitolato "La forza del senso comune" è
stato pubblicato il 31 dicembre. Sergio Givone è intervenuto il 2 gennaio,
Gianni Vattimo il 4, Roberto Esposito il 6 e Sergio Moravia il 10 di questo
stesso mese.
La discussione aperta da Eugenio Scalfari sull'Illuminismo contiene già diverse
possibili diramazioni: se oggi assumere le difese della cultura dei Lumi non sia
"controcorrente" più che schierarsi con i suoi vari nemici; se quella medesima
contrapposizione abbia ancora senso; se le accuse di utopismo, astrattezza
universalistica, determinismo rivolte all'Illuminismo siano anche solo in parte
meritate. E infine perché lo stesso Isaiah Berlin fosse così attratto dallo
studio dei nemici della "ragione" al punto da suscitare il sospetto che il suo
cuore stesse con loro, con i romantici, con gli Herder, i Kierkegaard, gli
Hamann più che con i philosophes. Io parto da quest'ultima domanda, che ha il
vantaggio di essere più circoscritta e precisa: "da che parte stava" il cuore di
Sir Isaiah, perché confido che se riusciamo rispondere bene a questa - che ha in
effetti, almeno in apparenza, il carattere di un thriller filosofico - troviamo
almeno una parte delle risposte alle altre. E questa domanda - aggiungo - mi
piace molto per una ragione egoistica: me la sono posta varie volte anch'io, non
unico, negli anni, quando Berlin era ancora vivo, l'ho posta a lui, e con
l'aiuto dei suoi scritti, delle sue conversazioni e di alcuni altri studiosi,
penso qualche volta di intravedere una risposta. Anche se mi rovino un po' il
colpo di scena finale, per chiarezza di svolgimento vi anticipo la conclusione:
Isaiah Berlin fece uso a piene mani degli autori del versante romantico e
irrazionalistico, "oscuro" o "notturno" della storia del pensiero, amava anche
sinceramente alcuni di loro per avere "praticato" la loro mente, ma "non stava
dalla loro parte" in alcun modo. Essi erano parte del problema anche se del
problema a volte sapevano offrire una meravigliosa visione, proprio come un
grande nevrotico, che si presenta come un problema, può dare un bellissimo
contributo alla storia dell'analisi psichica perché talvolta è quello che ci fa
vedere la soluzione. Che gli heideggeriani, i nichilisti e i debolisti di ogni
genere (cito uno per tutti: Vattimo, il più bravo e - Habermas direbbe - il più
urbanisiert) non si allarmino perché non sto cercando di "psichiatrizzarli" alla
maniera degli stalinisti, sto dicendo che Berlin cerca e raccoglie le confidenze
di alcuni di loro per descrivere le loro ossessioni (il caso più evidente è
quello di Johann Georg Hamann, che Berlin considera un "fanatico", "un po'
pazzo") per ricavarne una migliore conoscenza dell'animo umano, ma anche dei
limiti, dei pericoli, dei vizi gravi e molto nocivi che affliggono "gli altri",
i razionalisti, i presunti "normali", con i loro eccessi, e le loro patologie.
E' come aiutarsi con Hitler per capire Stalin, con le perversioni del
nazionalismo per capire le perversioni del costruttivismo comunista e
dell'ingegneria sociale applicata alle masse, sterminio di kulaki compreso.
Isaiah Berlin sapeva benissimo di maneggiare una materia altamente esplosiva,
assai dolente e totalmente mescolata ai guai e ai massacri del secolo trascorso,
guai che negli anni Novanta si sono riaffacciati con le pulizie etniche nei
Balcani. Berlin aveva già personalmente riproposto i suoi vecchi studi su Hamann
(con Il Mago del Nord) proprio per questa ragione. Era il suo modo di "parlare"
dei violenti nazionalismi post-comunisti. Prima ancora di pubblicare il libro,
nel '93 mi aveva affidato durante le vacanze a Paraggi, per i primi numeri di
Reset che esordiva di lì a poco, un vecchio dattiloscritto su Hamann. Perché?
Perché, mi spiegò, "cercavo l'uomo che per primo gettò la bomba contro
l'Illuminismo e l'ho trovato in questo contemporaneo e concittadino di Kant -
era di Koenigsberg anche lui - e ne siamo ancora tutti vittime". Che cosa voleva
dire? Che la tradizione di pensiero antirazionalistica, anticartesiana, o
antiplatonica, quella che possiamo chiamare variamente e un po' arbitrariamente
storicistica, romantica, esistenzialistica, soggettivistica, quella di Vico,
Herder, Goethe (e nella quale Hamann è pienamente inscritto) ha avuto il merito
di rompere con la "philosophia perennis", con quello che è stato per
duemilacinquecento anni il cuore della vita filosofica dell'umanità, il
principio che la verità sia una sola. Con il Romanticismo questa unità, questo
monismo della verità si rompe. Comincia Vico: la verità dipende dal centro di
gravità di una cultura, dipende dall'epoca. Prosegue Herder: dipende dal luogo,
dal clima, dalla varietà dei costumi. Questa scoperta apre la strada a una
novità sconvolgente: il pluralismo. Hamann rappresenta una posizione rilevante
su questo medesimo percorso, ma lui lancia una sfida "dinamitarda"; invece di
ricavare dal pluralismo la lezione della tolleranza (come Herder) esagera con
una violenza distruttiva verso la diversità degli "altri" e mette le basi del
nazionalismo, inaugura una fonte inquinata che non ha ancora finito di
distribuire i suoi veleni. Se era comprensibile e necessaria una reazione alle
eccessive pretese di uniformità dell'universalismo e del costruttivismo
razionalistico, la reazione eccessiva di segno opposto edifica anche l'altra ala
di quella specie di arsenale da cui sono uscite tutte le disgrazie della storia
contemporanea. Soffriamo - ancora parole di Berlin - di un male duplice:
"eccesso di uniformità sul versante illuministico ed estremismo della reazione
romantica". L'unica reazione terapeutica davvero salutare sta nel concepire la
convivenza di valori che si presentano come diversi, e spesso confliggenti,
eppure ugualmente umani ed ugualmente aspiranti a veder riconosciuta la loro
validità. Non basta accettare l'esistenza del pluralismo, che già certo è una
buona cosa. Salvatore Veca, al quale si deve la pubblicazione in Italia di un
libro molto importante e forse il più noto di Berlin, Quattro saggi sul concetto
di libertà, ha sintetizzato così il pluralismo, più esigente, del nostro autore:
"Molti e differenti sono i valori ultimi, i fini cui gli esseri umani possono
aspirare restando pienamente umani, e mantenendo la capacità di riconoscersi e
mutuamente comprendersi". Gli ideali buoni, in numero non infinito, sono tanti,
diversi. E confliggono. E se confliggono bisogna scegliere. Ma la scelta non
deve finire in massacro. Quindi, moderazione. Ancora Berlin: "Ripeto le parole
dell'oracolo di Delfi: "non andate troppo lontano". Voglio dire, non spingetevi
troppo in là. Di nulla troppo". E' la massima di una filosofia liberale
dell'antieccesso, non semplicemente di un illuminista ma di un "anti-antiilluminista"
(Veca). Questo del thriller potrebbe sembrare il finale. Invece non è così: c'è
un controfinale. Viene infatti da chiedersi, a questo punto: se la conclusione
di Berlin è, di fronte ai pericoli, da una parte e dall'altra, troppa ragione e
troppo poca, quella di dire "non esagerate", allora Berlin rappresenta una via
di mezzo tra Illuminismo e non? Ed è una idea sensata quella di collocarlo
"fuori" del progetto dei Lumi causa delle sue intense frequentazioni romantiche?
La risposta è decisamente: no. Per molte ragioni, di cui qui posso dirne
soltanto una. La lezione di Berlin, di tutta la sua traiettoria intellettuale e
politica è forse il più aguzzo sviluppo di uno dei "pacchetti" centrali delle
idee illuministiche. Si tratta del "pacchetto" kantiano che va sotto il nome di
legno storto. "Da un legno storto, come quello di cui l'uomo è fatto, non può
uscire nulla di interamente diritto". Kant impiegava questa immagine per dire
dei limiti entro i quali è possibile perseguire un progetto politico razionale:
tradurre in realtà degli ideali è possibile a condizione che non si aspiri a
realizzare in terra uno "stato perfetto", soprattutto se si confida in
"governanti perfetti". Vi si oppone la natura umana, carica di difetti
irriducibili. Berlin ha intitolato così la raccolta dei suoi scritti degli
ultimi anni (Il legno storto dell'umanità). Ed il saggio più importante, che è
il discorso pronunciato a Torino per l'accettazione del premio Senatore Agnelli
nel 1988, contiene la più compiuta formulazione del pluralismo degli ideali e
della necessità di perseguirli nei limiti di una visione realistica della natura
umana, ed ammaestrati dalla lezione di Machiavelli, Vico, Herder. E soprattutto
di Kant, il cui pensiero contiene la principale sintesi filosofica
dell'Illuminismo. Ma non si tratta solo di un legame filologico con il più
importante pensatore di Koenigsberg; la stessa idea della mutua intellegibilità
degli ideali umani, pur diversi e confliggenti, è alle radici di quella "etica
del discorso" che coglie nel linguaggio le premesse per una comunicazione
razionale tra gli appartenenti alla nostra specie. Quel "calcolemus" che Umberto
Eco individua, con Leibniz, come modo per cercare soluzioni ragionevoli e
pragmatiche ai conflitti, presuppone molte più cose di quelle che di solito le
filosofie postmoderniste hanno voglia di riconoscere, dal momento che qualunque
"fondamento" o "premessa" razionale mette in crisi il loro rifiuto di ogni
genere di entità "sottostante". Ma senza scomodare adesso nessuna metafisica, e
senza confondere Berlin con Habermas, così diverso per tantissime ragioni, si
può ben riconoscere la collocazione illuministica del pensiero di Berlin. E
rispondere alla domanda su "da che parte sta", se non l'intero suo cuore, almeno
l'intera sua testa. Certo ha ragione Scalfari quando rivendica una visione più
adeguata del bagaglio dell'Illuminismo francese, che Berlin non ha approfondito
con la stessa passione che ha dedicato ai suoi amati autori baltici e russi.
Spesso la rappresentazione "cimiteriale", dogmatica e astratta dei philosophes
precettori della Ragione trascura che essi erano consapevoli del "pacchetto" del
"legno storto" sicuramente molto più di Robespierre, con il quale non vanno
confusi. In particolare Diderot. E non solo per la molteplice "concretezza"
delle loro attività scientifiche, tecniche, imprenditoriali (l'Encyclopédie), ma
anche per chiarezza teorica. Sono tipici tratti degli illuministi francesi la
rivendicazione del diritto all'errore e al dubbio. "Si deve esigere da me che io
cerchi la verità, non già che la trovi", scriveva Diderot nelle Pensées
philosophiques, la difesa dello scetticismo: "Ciò che non è mai stato posto in
questione non è affatto provato". E anche nella sfera politica Diderot sapeva
bene che il perseguimento di un ideale di progresso non dava esiti univoci: la
visione della avanzata delle umane sorti, anche in epoca di Lumi, era temperata
dalla convinzione che la perdita di una condizione naturale di innocenza
comportava anche una decadenza morale e che, per di più, nella civilizzazione si
annidava il rischio della tirannide. "Diffidate di colui che vuol mettere
ordine", diceva Diderot. "Di nulla, troppo", direbbe Berlin, il legno è storto.
La filosofia dell'antieccesso, come vedete, non lo allontanava dai fondatori del
mondo moderno.
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bobbio
Le illusioni
del comunismo e la mia battaglia per i Lumi
di GIANCARLO BOSETTI
Caro Bobbio, in qualche enciclopedia ho letto: Norberto Bobbio, "esponente del pensiero neoilluminista". Per competenza formalmente riconosciuta devo darle la parola nella discussione aperta sulla Repubblica da un articolo di Eugenio Scalfari che solleva vari quesiti, ma soprattutto questo: Isaiah Berlin ha intitolato una sua raccolta di saggi su autori antiilluministi Controcorrente, ma oggi che cosa è più "controcorrente", stare con gli illuministi o con i loro avversari? "A giudicare dalle filosofie dominanti oggi, e soprattutto dai due grandi punti di riferimento dei filosofi contemporanei, che sono Nietzsche e Heidegger, dovrei dire che ha ragione Scalfari, che è controcorrente l'Illuminismo". Ma cominciamo da Berlin: Scalfari sospetta che il suo cuore stia dall'altra parte. Anche lei ha avuto dei sospetti del genere, in un articolo del 1980 per la Rivista storica italiana, dedicato allo stesso libro, che era appena uscito in Inghilterra. "Non c'è dubbio che leggendo i libri di Berlin e soprattutto gli autori a cui va la sua simpatia, sembrerebbe di sì che lui stia dalla parte dei filosofi antiilluministi, sia i pre-illuministi, come Vico, Herder e un assoluto reazionario come Hamann, sia i post-illuministi come un altro dei suoi preferiti, Sorel". Vico è fondamentale nella storia del pensiero secondo Berlin. "Certamente, ed è un tipico rappresentante dell'antiilluminismo; non per nulla Giambattista Vico è stato una quasi-scoperta di Benedetto Croce che ha svolto una delle sue grandi battaglie filosofiche contro l'Illuminismo considerandolo una manifestazione di quello che si usava chiamare "razionalismo astratto", l'espressione di una ragione che non sa riconoscere la pluralità delle situazioni storiche. Per lui la ragione illuministica era una ragione eminentemente antistorica". Ma la partita non si chiude qui, con questa contrapposizione crociana. "L'Illuminismo può essere considerato da due lati diversi, secondo che cosa gli si contrappone. Se gli si contrappone lo storicismo, che fa valere la ricchezza e la complessità del discorso degli storici, può sembrare una filosofia del passato, però se lo si considera nel suo significato autentico di philosophie des Lumières, di Aufklärung nel senso kantiano, e in questo caso gli si contrappone non lo storicismo ma l'oscurantismo, le filosofie tradizionali di ispirazione religiosa, il dogmatismo, in generale la cultura dei secoli che gli Illuministi chiamavano il "regno delle tenebre", allora non è altro che la filosofia del progresso contrapposta alla filosofia reazionaria". Questa versione suscita indubbiamente più simpatie. "La scelta della contrapposizione dipende dalla maggiore o minore avversione che si ha per l'Illuminismo. Certamente quelli come me che, dopo la guerra, si sono considerati "neoilluministi", facevano riferimento al fil de la lumière, a un ideale di rischiaramento, in una situazione che vedeva prevalere da un lato la filosofia romantica, idealistica, di Croce e Gentile, e dall'altro filosofie di ispirazione religiosa come il neotomismo dell'Università cattolica del Sacro Cuore. Le consideravamo entrambe filosofie regressive anche perché avevano in qualche modo accompagnato il fascismo, o lo avevano giustificato e sostenuto (basta pensare a Gentile). Contro queste noi sostenevamo una filosofia della ragione autonoma, che giudica la storia, non si dà il compito di giustificarla secondo il principio hegeliano che tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale". Sono cose che si imparavano nei licei degli anni Sessanta e Settanta, ma adesso si vanno forse un po' allontanando. "Noi vedevamo la storia dal punto di vista di una idea di progresso fondato sul principio della libertà, intesa come liberazione progressiva e non mai del tutto esaurita, da tutti i pregiudizi, dai miti, dalle filosofie metafisiche, che in sostanza erano fideistiche. Noi neoilluministi rivendicavamo le ragioni della ragione. E nel contrasto tra ragione e fede, tenevamo per la ragione. Pensate un po'". E su Vico c'erano molte polemiche. "Perché era l'autore di Croce, il rappresentante di una filosofia fortemente antiilluministica, in quanto storicistica. Nicola Abbagnano, con la pretesa di essere originale, sosteva che Vico fosse in realtà un illuminista, il primo illuminista italiano. Ma per la maggior parte di noi, che pure eravamo suoi amici, questa interpretazione era inaccettabile. In sostanza il concetto di Illuminismo, come tutti gli "ismi" si presta alle più diverse interpretazioni: se lo guardi con simpatia è filosofia dei Lumi contro le tenebre, se lo guardi con antipatia è intellettualismo contro storicismo". Insomma il concetto è un po' vago. "Ed era piuttosto vago anche in Gobetti. Pensando a questa discussione, in questi giorni ho riletto un suo articolo che si intitola Illuminismo. Era l'editoriale di presentazione della sua terza rivista, nata nel dicembre del '24, che si chiamava il Baretti, dal nome dello scrittore del 700 elevato a rappresentare l'Illuminismo italiano. Eppure Gobetti, che era crociano, veniva da una educazione di tipo storicistico. Si capisce che il concetto, nella sua mente affollata di idee che urgono e spingono dalle parti più diverse, viene preso per il suo significato positivo anche se generico: è una bandiera di battaglia contro il fascismo, contro Gentile e il suo idealismo, contro le conversioni alla Papini, contro il neoclassicismo della Ronda, contro il futurismo e le "cento religioni", contro il provincialismo e il nazionalismo". Ma se sia Croce che Berlin, entrambi liberali, hanno questa grande simpatia per Vico e per autori storicisti e atiilluministi, viene da chiedersi: tra liberalismo e Illuminismo ci sono dei conti in sospeso? "L'antiilluminismo negli scritti di Berlin mi ha fatto sorgere la domanda se il suo sia veramente un pensiero liberale. Lui è indubbiamente considerato un grande pensatore liberale, ma gli autori, tutti quelli che propone, rivaluta, mette in onore, appartengono alla tradizione opposta, tranne uno: John Stuart Mill. Ora, nella tradizione liberale sono fondamentali, oltre a Kant, John Locke e Benjamin Constant. Quest'ultimo è l'autore de La libertà degli antichi contrapposta alla libertà dei moderni (un libro che fissa per sempre che cosa si dovrebbe intendere per liberalismo, non la libertà degli antichi ma quella dei moderni, che è libertà da, freedom from, libertà dallo Stato, emancipazione degli individui dalla soggezione alla collettività, mentre la libertà degli antichi è quella che si identifica con l'autonomia, cioè con l'obbedienza alla legge che ciascuno dà a se stesso (Rousseau). La libertà liberale dei moderni è uno scioglimento che si vorrebbe definitivo da ogni forma di organicismo. Ora se si prende questa libertà alla Constant e la si va a cercare negli autori di Berlin non la si trova proprio, nonostante lo stesso Berlin sia, come si sa, l'autore dei Quattro saggi sul concetto di libertà ed abbia legato il suo nome proprio alla distinzione tra "libertà negativa" e "libertà positiva"". Ma in Berlin c'è la libertà di Kant che è anche emancipazione dell'individuo. E il romantico Hamann lui lo studia a fondo ma lo descrive come un fanatico, come l'iniziatore della velenosa e violenta tradizione del nazionalismo. "Sì, ma anche la intervista che diede a Reset nel 1994 non è del tutto convincente. Tornava a insistere sui meriti di Vico e di Herder e sul pluralismo, confermando che il grande obbiettivo di Berlin era l'attacco al monismo, in tutti i suoi aspetti, quello ontologico (la realtà è regolata da un unico principio), quello metodologico (la realtà tutta, umana e naturale, è conoscibile attraverso una unica ragione, quella della scienza), quello teleologico (tutto converge armonicamente verso una unica meta) e quello etico (c'è un valore ultimo, un unico bene uguale per tutti). Il monismo è sempre il grande bersaglio di Berlin, l'eterno nemico da battere, per fare trionfare il pluralismo. Rimane il fatto che gli autori che Berlin coltiva sono i nemici dell'Illuminismo. Questa contraddizione rimane. Una volta ho fatto l'ipotesi che essi rappresentassero per lui i campioni della "libertà positiva", ma non sono mai riuscito a darne una convincente spiegazione". La libertà positiva (la libertà "di", la capacità di diventare padroni di se stessi, di fare, di eliminare gli ostacoli), alla quale Berlin preferiva quella negativa (la libertà "da"), più genuinamente liberale, mentre la prima è imparentata con il socialismo e il comunismo, ci porta qui a misurare i rapporti tra Illuminismo e marxismo. Per Berlin il marxismo rappresentava la "esagerazione" dalla parte opposta a quella del nazionalismo, il comunismo era un eccesso di universalismo e di razionalismo, altrettanto pericoloso. "Ma anche in questo Berlin non mi convince, perché rispetto alla libertà della democrazia liberale e borghese, nazismo e comunismo sono due fratelli: hanno lo stesso nemico. Ho molto apprezzato il libro appena uscito, di Paolo Bellinazzi - L'utopia reazionaria (Name editore) - che analizza gli argomenti che nazismo e comunismo propongono a difesa delle proprie tesi e dimostra che, contrariamente alla opinione comune secondo cui nazismo e comunismo sono ideologie opposte, essi hanno matrici comuni: tutti e due combattono il libero mondo borghese del mercato e degli stati parlamentari, tutti e due sposano la Gemeinschaft contro la Gesellschaft, la comunità arcaica (quella in cui l'individuo è soltanto parte di un organismo) contro la moderna società degli individui singoli (e in quanto tali in libero rapporto tra di loro), tutt'e due avversano l'individualismo e sono fautori dell'organicismo sociale". Lei sta dicendo che comunismo e nazismo vengono presentati entrambi come nemici della modernità. "Sì, e il Bellinazzi argomenta molto bene questa tesi. Quando per esempio scava nei rapporti tra i due antagonisti Carl Schmitt e György Lukacs scopre che sostengono su per giù le stesse idee perchè hanno lo stesso nemico, la borghesia e le filosofie del mercato; in un certo senso avversano entrambi la stessa produzione della ricchezza, sono tutti e due reazionari. Il principe di questi reazionari sarebbe Rousseau, che rappresenta l'archetipo della filosofia retriva e antimoderna, una filosofia che conviene agli uni come agli altri proprio perché reazionaria". Che cosa non va in Rousseau, dal punto di vista della modernità? "Che stronca il razionalismo e l'ottimismo degli illuministi e raccomanda ai suoi contemporanei di ritirarsi nella propia interiorità in un secolo come il Settecento che era invece destinato ad emancipare l'individuo dal ritorno all'interiorità agostiniana: in te redi, in interiore homine habitat veritas. E Rousseau in pieno Illuminismo propone questa marcia a ritroso nei secoli. Ma è interessante anche la critica che l'autore svolge, dal punto di vista della modernità, della scuola di Francoforte di Adorno e Horkheimer, di cui è indicativo proprio l'attacco all'Illuminismo. Cito dal libro: "Comunismo e nazifascismo sono dei movimenti retrogradi che cercarono di tornare indietro, dando di bel nuovo il potere in mano a ristrette e aristocratiche oligarchie"". Ma lei è d'accordo con le tesi di Bellinazzi? "Il libro è molto ben documentato dal punto di vista storico e filosofico e mi ha colpito anche per una certa assonanza di idee. Ho sempre sostenuto che la storia del Novecento è caratterizzata da tre protagonisti, fascismo, comunismo e democrazia (e non solo dai primi due). Ho anche sempre sostenuto che la vittoria sarebbe toccata ai due dei tre che si sarebbero alleati. La seconda guerra mondiale è stata vinta dalla alleanza tra democrazia e comunismo, che è stata fatale per il nazismo. Questo è indubbio, però è anche vero che questa alleanza era una alleanza di guerra, che si è saldata nel momento in cui stava scoppiando la guerra mondiale.E infatti appena il nazismo è stato sconfitto è cominciata la guerra fredda tra i due vincitori, per cinquant'anni, una guerra che questa volta è finita senza bisogno di sparare, perchè con Gorbaciov i comunisti hanno gettato la spugna". Quindi quella alleanza non aveva radici in una maggiore affinità, o almeno in una minore distanza, tra comunismo e democrazia? Perché, vede, ci siamo in un certo senso abituati a pensare al marxismo - in questo d'accordo anche Berlin - come una "esagerazione" ma dalla parte opposta a quella del nazismo, come un eccesso del "razionalismo astratto", invece che come un eccesso dell'"irrazionalismo concreto". Insomma, errore sì, ma dalla parte degli Illuministi e al di là di loro. "Questa è una delle idee che i comunisti hanno coltivato per autogiustificarsi, è stato un tentativo di autolegittimazione del comunismo". Eppure il nazismo si dichiara nemico dei Lumi, mentre il comunismo si propugna continuatore e "superatore". "Questa valutazione è destinata a cambiare. Noi che abbiamo combattuto il nazismo alleati dei comunisti (e per fortuna c'è stata questa alleanza, che ha determinato la vittoria della democrazia) abbiamo sempre cercato di legittimare e giustificare in qualche modo i comunisti. Era comprensibile che cercassimo di rappresentarlo come un fenomeno progressivo e non regressivo. Eravamo alleati in una guerra mortale, capite? Ci sforzavamo di vederne gli aspetti positivi, che dopo la caduta del comunismo, non vediamo più. Dopo la sua sconfitta definitiva siamo stati costretti a rivedere le idee che ci eravamo fatti sul comunismo". Quante volte hanno attaccato lei, Bobbio e tutti gli azionisti per "condiscendenza" verso i comunisti. "E' vero: tutte le accuse di filocomunismo che ho ricevuto dipendono da quella ragione. Ma vogliamo renderci conto che noi della nostra generazione siamo stati alleati del comunismo per combattere il nazismo? Non è una giustificazione ma una spiegazione. E' evidente che abbiamo sempre mantenuto una certa differenza nel giudizio critico su nazismo e comunismo e che non abbiamo mai pensato di identificarli. Ma una volta caduto il Muro di Berlino, i fatti ci hanno costretto a cambiare idea". I fatti e i libri. Tre anni fa è arrivato il momento del Libro nero sul comunismo di Courtois. "E me l'ha fatta lei per l'Unità quella intervista, nel 1998, in cui dicevo che bisognava prendere atto che "non c'è paese in cui sia stato instaurato un regime comunista, ove non si sia imposto un sistema di terrore, dall'Unione Sovietica alla Cina, dall'Albania di Hoxa alla Romania di Ceaucescu, dalla Corea di Kim Il Sung alla Cambogia di Pol Pot". Insomma, di fronte alla prova di fatto che il comunismo era intrinsecamente antidemocratico e totalitario, bisogna ammettere che la tesi del Bellinazzi è giusta: non c'è dubbio che c'è stata una parentela tra nazismo e comunismo. L'uno e l'altro hanno avuto come bersaglio il mondo borghese, non hanno riconosciuto la positività storica del mondo mercantile, vi hanno visto solo egoismo e cinismo, hanno considerato la corsa alla ricchezza borghese come un elemento negativo da combattere per creare una società che abolisse tutto questo. Comunisti e nazisti credevano che la loro utopia indicasse la via del progresso, invece erano ugualmente reazionari. In termini filosofici erano reazionari tanto Marx quanto Nietzsche. Il valore del mondo libero borghese sfugge all'uno e all'altro, ed è combattuto tanto dal nazismo quanto dallo stalinismo". Obbiezione: ma si può coinvolgere in questa equazione tutto il marxismo? Dal movimento operaio nasce anche il riformismo socialdemocratico, la cittadinanza sociale, un sistema di civiltà che è il nostro. "E le rispondo che la fonte principale della socialdemocrazia non è Marx, perché questa nasce in Inghilterra. La vera antitesi entro il movimento operaio, quella che dà vita alla tradizione riformista, scaturisce da un mondo non marxista. Ha contato di più in questo John Stuart Mill che Marx". Altra obbiezione. Marx era in guardia contro l'accusa di non volere il progresso e attaccava l'"anticapitalismo romantico". Il Manifesto comunista contiene un enfatico apprezzamento per la rivoluzione borghese. Il momento del proletariato doveva venire "dopo". "Questa era la linea di difesa di Marx, ma le repliche della storia hanno dimostrato che sbagliava. La sua ideologia ha prodotto il comunismo e il comunismo è stato l'opposto di quello che immaginava. Quando parlava del passaggio dal regno della necessità a quello della libertà, esprimeva una sua illusione, e si è rivelato un terribile errore di visione storica". Nell'89 lei parlava in un celebre articolo sulla Stampa di "utopia capovolta", adesso questa è diventata una "utopia retrograda". "Accetto l'espressione del titolo del libro di Bellinazzi, utopia reazionaria. E' insita in questo disegno utopico di trasformazione radicale della società una idea antiliberale, perché il liberalismo crede che la storia della libertà sia una storia di continui passaggi dal bene al male dal male al bene, di tentativi riusciti e tentativi falliti. Non c'è una fine obbligata nella società perfetta. Liberalismo è uguale ad antiperfezionismo, mentre il marxismo come il nazismo erano utopie perfezionistiche". Contro il perfezionismo allora lei è d'accordo con Isaiah Berlin? "Di nulla troppo". "E in questo Berlin, il Berlin del "legno storto", quello del discorso di Torino del 1988, della ricerca della compatibilità tra ideali diversi, e ugualmente validi, aveva completamente ragione".
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il cuore di Berlin batteva per i lumi
di RALF Dahrendorf
La lettura di alcuni saggi di Isaiah Berlin ha indotto
Eugenio Scalfari ad aprire, sulle colonne de La Repubblica, un dibattito
affascinante, ovvia¬mente destinato a rimanere aper¬to: il problema è se vi sia
oggi un eccesso, o al contrario un deficit di Illuminismo. Scalfari non ha
dubbi: abbiamo bisogno di accre¬scere, non certo di diminuire i lu¬mi della
ragione. Ed io sono lieto di associarmi a lui su questo pun¬to di carattere
generale. Tuttavia il suo articolo, così come i com¬menti di altri eminenti
autori, mi inducono a formulare tre postille.
La prima riguarda la questione di quanto il controilluminismo «stia a cuore» a
Isaiah Berlin. Che a Scalfari sia sfuggito il pe¬nultimo paragrafo del suo sag¬gio?
«Queste cupe dottrine di¬vennero fonte di ispirazione dei monarchici in Francia,
e accanto alla nozione di eroismo romanti¬co, così come alla drastica con¬trapposizione
tra nazioni e indi¬vidui creativi e non creativi, sto¬rici e antistorici,
ispirarono il na¬zionalismo, l’imperialismo e in¬fine, nella loro forma più
violen¬ta e patologica, le dottrine fasciste e totalitarie del ventesi¬mo
secolo».
Il testo in questione era stato scritto per Il Dizionario di storia delle idee,
un’occasione che non si prestava certo all’esposizione appassionata di
convincimenti personali. (E c’era oltre tutto una rigida limitazione dello
spazio; in un’altra opera di Berlin, Il le¬gno storto del’umanità, Scalfari
potrà trovare ampi brani dedicati a Nietzsche). Il cuore di Isaiah Berlin è
sempre stato dalla parte dell’Illuminismo.
A lui si deve inoltre una chiara esposizione delle diverse impli¬cazioni
dell’Illuminismo. La for¬mula di un «pluralismo senza re¬lativismo» esprime nel
modo più semplice i suoi convincimenti. Gli individui hanno opinioni di¬verse e
profondamente radicate; e spesso non c’è modo di decide¬re in favore dell’una o
dell’altra. Con ciò non si vuol dire che le opinioni si equivalgano, tutt’al¬tro!
Ma dobbiamo trovare un mo¬do per convivere con la pluralità. La difesa della
libertà in quanto concetto fondamentalmente «negativo» di tolleranza, di di¬sponibilità
al dibattito e di oppor¬tunità, che valsero a Berlin pe¬santi attacchi, è al
centro della sua visione dell’Illuminismo.
L’espressione «versione dell’Il¬luminismo» mi porta alla seconda delle mie note:
che cos’è l’Illumi¬nismo? Lo chiese Immanuel Kant nel suo celebre articolo del
1784; e rispose al quesito postulando l’uso pubblico della ragione. «Vi¬viamo in
un’era illuminata? No, ma viviamo in un’era illumini¬sta». Come dire che non si
può pensare a un’età dei Lumi come a qualcosa di compiuto. L’illumini¬smo è un
metodo, non uno stato delle cose: un metodo aperto agli umani dal momento in cui
abbia¬no abbandonato le forme di di¬pendenza auto inflitte, e cessato di essere
sudditi per divenire cit¬tadini.
Karl Popper è chiaramente un diretto discendente di Kant. La sua nozione della
società aperta descrive la condizione che Kant aveva in mente (e che Isaiah Ber¬lin
ha sviluppato nel suo Saggio sulla Libertà). Storicamente, sul significato
dell’Illuminismo esi¬stono almeno due concezioni al¬ternative: quella di
Rousseau e quella di Hegel.
Quando Kant parla dell’uso pubblico della ragione, non parte dal presupposto che
il dibattito debba portare a un solo ed unico ri¬sultato. I punti di vista
saranno di¬versi, e noi dobbiamo pensare a un meccanismo istituzionale in gra¬do
di conciliarli. E’ a questo che dovrebbe servire, in termini mo¬derni, la
garanzia costituzionale della libertà. Diverso il mondo di Rousseau. La volonté
générale che invoca non riconosce ecce¬zioni, e neppure minoranze. Qui il
presupposto è che quando gli es¬seri umani avranno visto la luce, sarà la stessa
luce per tutti. Ed è su questo punto che in Origins of To¬talitarian Democracy
(Origini della democrazia totalitaria) J. L. Talmon attacca per la prima volta
Rousseau, accusandolo di essere uno dei progenitori intellettuali della tirannia
moderna.
Hegel è andato ovviamente un passo più in là. In un celebre para¬grafo (il
numero 258) della sua Fi¬losofia del Diritto, ridicolizza Kant per aver preso in
considera¬zione soltanto i punti di vista indi¬viduali, e concede a Rousseau,
sia pure controvoglia, almeno il me¬rito di aver riconosciuto una vo¬lontà
comune o generale. Ma in questo caso si tratta soltanto di un puro e semplice
contratto – il con¬tratto sociale , mentre ciò che ve¬ramente conta è la
«volontà obiet¬tiva», «di per sé ragionevole in quanto concetto». E di che mai
si tratta? Dello Stato come compen¬dio dell’ideale morale, della Prus¬sia, e più
tardi di altri usurpatori.
Perciò dobbiamo chiederci co¬sa intendiamo esattamente per Il¬luminismo. Per
quanto mi riguar¬da (contrariamente a Umberto Eco), vorrei tracciare una linea
chiara, escludendo dalla defini¬zione non soltanto Hegel, ma lo stesso Rousseau
(contrariamente a Eugenio Scalfari).
Arriviamo così alla terza delle mie note, che verte sullo stesso problema, e
riguarda soprattutto la parola ragione. Chi si colloca nella tradizione della
rivoluzione francese e dei suoi ideologi prefe¬risce scrivere «Ragione» con la
maiuscola: mentre chi è più in¬fluenzato dalla rivoluzione ame¬ricana (se di
rivoluzione si può parlare in questo caso), ritiene che per la «ragione»
l’iniziale minu¬scola sia senz’altro sufficiente. In ogni caso, la ragione non è
una dea ma uno strumento. E ragionare è più importante che adorare la Ra¬gione.
Questa la differenza tra la no¬zione di illuminismo francese e quella
anglosassone. La prima so¬stiene che i concetti vadano pen¬sati fino in fondo,
per giungere a una conclusione in maniera siste¬matica e con cartesiana
chiarezza. Mentre per la seconda, le questio¬ni umane vanno affrontate
speri¬mentalmente, e ogni conclusione è temporanea e potenzialmente erronea.
Nella Ragione francese c’è qualcosa di definitivo, mentre quella anglosassone
rimane pe¬rennemente incompiuta. La prima si incarna nella linearità della co¬stituzione
dell’Unione europea (quanto meno nella sua prima ver¬sione, quella del Trattato
di Ro¬ma), mentre l’altra si realizza nel¬la meravigliosa adattabilità della
costituzione degli Stati Uniti d’A¬merica, e più ancora in quella non scritta
del Regno Unito.
Le differenze dunque sono im¬portanti, anzi importantissime; e se non escludono
un fronte comu¬ne di difesa dal contro illumini¬smo, forniscono una risposta su
dove e come tracciare la linea di demarcazione tra la società aperta e i suoi
nemici.
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Quello che resta
del secolo dei Lumi
Le verità
che corteggiamo
di EUGENIO SCALFARI
"CHE faccia bello o cattivo tempo è mia abitudine andare a
passeggiare ogni pomeriggio verso le 5 nei giardini del Palais-Royal.
Intrattengo me stesso con la politica, l'amore, il gusto, la filosofia e
abbandono la mente al suo libertinaggio lasciandola padrona di seguire ogni
pensiero che le si presenti, saggio o folle che sia. E la mente si comporta come
quei giovani dissoluti che corrono dietro alle ragazze con l'aria sventata, il
volto sorridente, l'occhio vivace e il nasino all'insù, corteggiandole tutte
senza attaccarsi a nessuna di loro. Ecco: i miei pensieri sono le mie puttane".
Così comincia uno dei più bei dialoghi filosofici di Denis Diderot, "Le neveu de
Rameau" con un tocco di leggerezza elegante che rileva fin dalle prime battute
lo stile del grande scrittore e contiene in poche righe apparentemente svagate
il tema di fondo d'ogni filosofo e d'ogni filosofia: la natura del pensiero,
anzi il pensiero che pensa se stesso.
La mente di Diderot è libertina, insegue un pensiero e presto l'abbandona per
corteggiarne un altro come fanno i giovanotti a caccia di ragazze allegre sotto
i portici del Palais-Royal. "I pensieri sono le mie puttane": è una battuta di
quelle che non s'erano mai incontrate prima né mai si incontreranno più sulla
bocca d'un filosofo e può ben essere considerata l'"incipit" della filosofia dei
lumi.
Quelle quattro parole sono la sintesi di una folla di domande (e di risposte) e
cioè: che cos'è la mente, che cos'è il pensiero, chi è l'io che dispone della
mente e corteggia i pensieri man mano che essi appaiono, che cos'è la volontà
che decide di abbandonare un pensiero per seguirne un altro, chi è che immagina
una scena del genere pensando il proprio pensiero e la propria mente.
Quattro parole che definiscono un'intera e compiuta ontologia intrisa di
scetticismo, sperimentalismo, irriverenza, rottura col passato, rifiuto
dell'autorità e della sacralità, indicando gli ascendenti di quello che verrà
chiamato l'Illuminismo: Montaigne, Spinoza, Descartes, Leibniz, Galileo, Newton;
e i compagni di viaggio: Locke, Hume, Voltaire e una folla d'altri maggiori e
minori. Poco dopo ma quasi coevo toccherà a Kant ricevere il lascito illuminista
e ritrasmetterlo sotto la forma del pensiero critico. Rousseau fa parte a sé:
nel bel mezzo della civiltà dei lumi è lui che spalanca la porta al romanticismo
e contemporaneamente alla dialettica tra la ragione e l'emozione ponendo le basi
intellettuali dell'utopia rovesciata del giacobinismo robespierrista.
Nell'azione politica e ideologica dei Robespierre e dei Saint-Just non c'è
l'ispirazione di Diderot e di Voltaire, tanto meno quella di Montesquieu.
Condorcet, l'ultimo degli illuministi, cadrà vittima del Tribunale
rivoluzionario dopo il fosco processo contro i capi girondini. Ma si può
attribuire a Rousseau la paternità ideologica del Terrore? E dei seguiti del
giacobinismo nel Novecento europeo? Si possono tener responsabili i filosofi, i
profeti, i religiosi, degli errori delle colpe dei delitti commessi dall'azione
dei politici? Si può giudicare la Storia come un immenso e sempre reiterato
reato d'opinione? Chi si incammina su quella strada si impiglia in
un'inestricabile rete che sarebbe stata infaticabilmente tessuta da centinaia di
mandanti in assassinio a cominciare da Abramo passando per Platone fino ad
arrivare a Lutero a Loyola e infine a Nietzsche. Ma questa non è la storia delle
idee bensì quella del mattatoio che è altra cosa. [* * * ] Aprendo questo
dibattito sull'Illuminismo mi ero chiesto se esso fosse ancora un lievito attivo
nella società contemporanea o un lascito ormai esaurito e pietrificato. In
polemica con i suoi numerosi critici mi domandavo se oggi ci fosse un eccesso o
non piuttosto un deficit di razionalità. Infine mi ponevo il problema di
demistificare la caricatura tante volte disegnata che raffigura la filosofia dei
lumi come una sorta di impero della ragione astratta contro la concretezza della
vita, delle emozioni, dei sentimenti. Queste domande e altre ancora che vi erano
connesse portavano a discutere che cosa fosse stato l'Illuminismo come sistema
di pensiero e come movimento culturale e politico storicamente determinato. Il
dibattito ha avuto un'ampiezza e una partecipazione che francamente non mi
aspettavo, con interventi di grande spessore che meriterebbero d'esser raccolti
e conservati. Non pretendo certo di concludere un confronto su un tema che anche
in questa occasione ha dimostrato la sua attualità e vitalità né mi propongono
di rispondere ai vari interlocutori, che ringrazio per i contributi dati alla
migliore conoscenza di una corrente di pensiero che segna l'ingresso della
cultura europea nella modernità. Mi proverò invece ad esporre alcuni punti che
mi paiono acquisiti e alcune questioni che restano invece aperte e meritevoli di
riflessioni ulteriori. E comincio dal nucleo centrale della filosofia dei lumi
che riguarda la relativizzazione dell'Assoluto in tutte le sue forme
filosofiche, religiose, politiche. Ho accennato agli antenati dell'Illuminismo
facendo per primo il nome di Montaigne, ma in realtà si potrebbe risalire molto
più indietro, al IV secolo avanti Cristo, allo scetticismo di Pirrone e di
Timone. C'è infatti un fondo scettico nel pensiero dei "philosophes" che
preserva i più consapevoli tra loro perfino dall'asserire come indiscutibile
verità il relativismo che impregna la loro filosofia la quale era vista da loro
stessi come un procedere in mezzo alle tenebre con una piccola lucerna che
rischiarava il cammino, sempre a rischio di spegnersi non soltanto a causa
dell'intolleranza degli avversari e dell'arbitrio del potere religioso e
politico, ma anche dell'oscurantismo dell'opinione pubblica, dei tabù
consolidati nel tempo e infine dallo stesso loro metodo di conoscenza
sperimentale affidato ai sensi e alla ragione che i più consapevoli tra di loro
ritenevano essere una sorta di sesto senso, un'efflorescenza cerebrale che
subiva i mutamenti dell'organo che la emanava ed era quindi ben lontana
dall'essere quello strumento perfetto capace di scoprire a colpo sicuro le
regole auree che governano l'universo, la natura e l'azione dei viventi. Chi
dipinge i "philosophes" come i portatori di un'arrogante miscredenza che
appiattisce il mondo su un naturalismo materialista e meccanico ed una nuova
religione guidata dalla dea Ragione che tutto spiega cancellando ogni ombra e
ogni mistero, ha capito ben poco di questa corrente di pensiero che non a caso
non dette mai vita ad un sistema filosofico ma molto più suggestivamente ad un
viaggio conoscitivo dove l'aspetto più importante era quello di viaggiare alla
ricerca del nuovo più che il nuovo in se stesso. Con le sole eccezioni, in
realtà piuttosto rozze e secondarie, di La Mettrie e d'Holbach, i rappresentanti
maggiori dei lumi redassero con l'Enciclopedia e con i loro scritti filosofici,
artistici, politici, non già un sistema chiuso ma un'opera volutamente rimasta
aperta a successivi contributi ed evoluzioni. E non parlarono mai con voce
univoca, anzi ciascuno di loro fece parte a sé, spesso contraddicendo i compagni
di viaggio e talvolta contraddicendo anche se stessi nel dubbioso procedere
dell'opera loro. [* * * ] Mi dispiace osservare che su questo punto perfino un
pensatore della levatura di Ralf Dahrendorf, nel suo intervento di ieri, indulga
alla versione semplicistica che fa degli illuministi francesi gli adoratori
della dea Ragione in contrapposizione con la cultura empirica dei liberali
anglosassoni e americani. Questa contrapposizione scolastica fa parte di una
"vulgata" che non ha nessuna base storica; il pensiero di Locke si mosse vorrei
dire in tandem con quello di Voltaire, Hume fu un punto di riferimento costante
per i collaboratori dell'Enciclopedia, i padri fondatori della democrazia
americana si formarono sul pensiero dei "philosophes". Un mese prima che
Voltaire morisse, Benjamin Franklin arriva a Parigi per incontrarlo ed ecco la
cronaca fatta dallo stesso Voltaire: "Franklin aveva portato con sé un suo
nipotino che chiese la mia benedizione. Gliel'ho data ponendogli le mani sul
capo e pronunciando le parole "God and Liberty". Poi le ripetei in francese "Dieu
e Liberté". C'erano con noi una ventina di persone e piangevano tutte". Il
giorno dopo tutta Parigi sa di quell'incontro straordinario e l'entusiasmo
raddoppia. Ricordo questi fatti per riconfermare anche su base documentale che
una contrapposizione tra illuministi francesi e anglosassoni è inesistente e che
la società aperta è stata l'obiettivo degli uni e degli altri. Del resto per chi
batté in breccia l'assolutismo in tutte le sue forme non avrebbe potuto essere
diversamente. Ma torniamo all'essenza filosofica di quel pensiero. La
derivazione metodologica da Descartes è palese ma la correzione che Diderot
opera sul pensiero cartesiano ha un'importanza fondamentale. Descartes aveva
fondato l'intera sua ontologia dell'esistente sulla distinzione tra la "res
cogitans" e la "res extensa" o per dirla in modo più piano tra l'anima pensante
e il corpo; aveva dato alla "res cogitans" un'esistenza indipendente dai corpi e
in quel dualismo aveva recuperato quella metafisica che il "cogito, ergo sum"
sembrava aver superato per sempre. Ma Diderot contesta alla radice il dualismo
cartesiano e trasforma la "res cogitans" in una funzione della "res extensa". Da
un lato si rifà allo Spinoza della "natura naturans", la natura che genera se
stessa all'infinito e in forme sempre diverse; dall'altro precorre Nietzsche e
la rivalutazione del corpo fatta dal cantore di Zarathustra. Il rapporto
Diderot-Nietzsche è stato assai poco esplorato fin qui ed è una lacuna non
secondaria negli studi nietzschiani; lo stesso filo che corre tra Spinoza e
Nietzsche non mi pare approfondito a sufficienza forse perché si è impigliato
nell'ostacolo del panteismo che viceversa è estraneo tanto all'uno quanto
all'alto. Non è questa la sede per affrontare problemi di tale dimensione; mi
premeva segnalare quale sia stata e tuttora sia l'attualità filosofica del
movimento dei lumi e in particolare del suo principale rappresentante. Da questo
punto di vista mi permetto di suggerire, non certo agli specialisti ma al
pubblico colto, la lettura del dialogo diderottiano Le rêve de d'Alembert che
contiene forse la versione più compiuta del pensiero filosofico dell'autore e
che, per una serie di circostanze editoriali, è invece uno dei testi meno
conosciuti non solo in Italia ma nella stessa Francia. [* * *] Ma c'è un altro
aspetto dell'Illuminismo che costituisce elemento fondante della modernità ed è
il tema della rappresentazione, della verità e della volontà nelle loro
reciproche inferenze. La modernità si può definire in molti modi e con
molteplici attribuzioni ma chi volesse arrivare al nocciolo di questa
definizione credo che l'identificherebbe in quel rapporto circolare che
coinvolge al tempo stesso l'attività conoscitiva, quella estetica, la prassi e
la morale. Dopo i "philosophes" quella ricerca diventa centrale in Kant, in
Schelling, in Feuerbach, in Schopenhauer e in Giacomo Leopardi. E naturalmente
in Nietzsche. Sia detto qui di passata: la grandezza filosofica di Leopardi,
come ha ben visto Severino, continua ad essere ignorata e subordinata alla
sublimità della sua poetica. È un errore. Leopardi è stato grandissimo pensatore
oltreché e forse prima che poeta. I passi dello Zibaldone dove si parla del
rapporto tra la verità, l'illusione, l'azione, la morte, il nulla, configurano
un pensiero di altissima profondità. Non so se Schopenhauer lo conoscesse quando
scrisse il suo Mondo come volontà e rappresentazione pochi anni dopo, né se lo
conoscesse Nietzsche quando scrisse la Genealogia della morale, lo Zarathustra e
più ancora Gaia Scienza e i Pensieri postumi coevi all'Aurora; ma è certo che il
nucleo filosofico leopardiano costituisce uno dei cardini del pensiero moderno
ed ha una derivazione illuministica di tutta evidenza. Richiamo da questo punto
di vista il poema volterriano sul terremoto di Lisbona e la constatazione del
male assoluto come problema inesplicabile che abbatte ogni metafisica
provvidenziale privilegiando la casualità della vita e dei suoi svolgimenti
senza più traccia di mitologie progressiste, pur indispensabili per dare un
senso che al tempo stesso è puramente immaginario ma necessario alla vivibilità
dell'esistenza, esattamente come l'illusione necessaria descritta da Leopardi.
[* * *] Si dovrebbe ancora parlare della filosofia dei lumi nel suo aspetto di
movimento culturale e politico, che è stato presentissimo nell'intervista di
Bobbio e in molti altri interventi. Del resto su questo punto i fatti parlano da
soli e non mi riferisco soltanto all'azione dirompente che l'Illuminismo ebbe
nel segnare il passaggio storico dall'Ancien Régime al costituzionalismo, alla
divisione dei poteri, al sistema rappresentativo, ai diritti dell'uomo,
all'eguaglianza giuridica e ai diritti di cittadinanza. Mi riferisco alla spinta
potente con cui quella corrente di pensiero continuò ad alimentare tutte le
lotte che seguirono fino ai tempi nostri contro la tirannide totalitaria,
l'assolutismo, le tentazioni neotemporalistiche e i tanti e spesso tragici
ritorni all'"utopia reazionaria" di cui parla Bobbio nel suo intervento. Da
questo punto di vista, come bene hanno visto Esposito, Givone e Sergio Moravia,
la tesi di Horkheimer e Adorno che ritiene l'Illuminismo responsabile non solo
del Terrore robespierrista ma anche dei lager comunisti e perfino dell'Olocausto
hitleriano è talmente fuori da ogni validità intellettuale da non meritar neppur
una confutazione. Ne abbiamo già parlato all'inizio, ma viene acconcio di
richiamare qui il pensiero di Heinrich e di Thomas Mann, quest'ultimo convinto
di errore quando furono i fatti a dimostrargli d'aver sbagliato nelle sue
Considerazioni d'un impolitico e a stimolarlo ad una pubblica e radicale
rettifica del suo pensiero. Politicamente il lascito illuminista fa ancora tutt'uno
con la politica riformatrice e col pieno recupero della triade "Libertà
eguaglianza fraternità" tanto tradita e calpestata durante le drammatiche crisi
e massacri del Novecento. Filosoficamente il lascito è quello di procedere con
sentimento morale e razionalità intellettuale traendo dal buio alcune
provvisorie certezze che galleggiano sull'oceano del caos. Così la nostra specie
ha fatto e continuerà a fare perché questa è la nostra condizione esistenziale:
di cercare la verità perfino quando sappiamo che non la troveremo neppure oltre
le colonne d'Ercole dove la nostra audacia e la nostra necessità ci porta.
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I LUMI LA RAGIONE I DITTATORI
un dialogo tra Umberto Galimberti ed Eugenio
Scalfari su "Illuminismo e totalitarismo"
Scalfari: Il pensiero cristiano si
biforca fin dall´inizio: da un lato la salvezza delle anime, dall´altro
l´avvento del Regno sulla terra, la salvezza dei corpi e la resurrezione
Galimberti: Quando dico che la ragione è un insieme di
regole bisogna tener presente che tutte le cose sono ambivalenti, disponibili
per significati anche opposti
Scalfari:"Anche sul versante comunista abbiamo sentito
dire che l´illuminismo andava criticato per la sua astrattezza: per non parlare
di quanto afferma la Scuola di Francofort
EUGENIO SCALFARI: «Si ha spesso l´impressione che il tema
dell´illuminismo sia stato volutamente consegnato all´oblio, forse perché -
paradossalmente - è stato oggetto di critica da sponde diverse e anche opposte:
oggi, si dice, un papa come Wojtyla attacca l´illuminismo per la fiducia dei
Lumi nella ragione, per la pretesa di rendere autonomi gli individui. Ma anche
sul versante comunista abbiamo sempre sentito dire che l´illuminismo andava
criticato per la sua «astrattezza». Per non parlare della Scuola di Francoforte,
che addirittura identifica l´esito «dialettico» dell´illuminismo nei
totalitarismi contemporanei, invece che leggervi un tradimento dei Lumi.
«Questa rimozione dell´illuminismo costituisce comunque una latenza, perché
ogniqualvolta si arriva ai nodi cruciali della cultura contemporanea, ecco che
l´illuminismo ritorna puntualmente: come principale nemico. Come spiegarsi
questa vitalità latente dell´illuminismo negli stessi critici che lo ritengono
superato? Perché, insomma, viene individuato come il nemico? Tra le tante
risposte possibili, vediamo innanzitutto quelle che si possono desumere dalle
critiche che gli vengono mosse.
«È il nemico per i cattolici, e non soltanto per l´attuale papa. Papa Wojtyla ha
solo radicalizzato un´ostilità che ha dietro di sé una lunga tradizione. Per
trovarne l´origine, occorre risalire almeno a Pio IX, e anche più indietro: a
quando l´illuminismo si è rivelato come uno spartiacque culturale e politico tra
l´ancien régime e la modernità. Questo suo ruolo di spartiacque tra due epoche -
che ai miei occhi ne costituisce un pregio - è innegabile: sotto i colpi del
nuovo pensiero dei Lumi cade l´ancien régime come struttura gerarchica,
politica, ideologica; e cade il sacrum del Re, il corpo del Re.
«E tuttavia, lo ribadisco, l´illuminismo è un nemico anche per coloro che non si
riconoscono nell´ancien régime e che, anzi, in modi diversi, lo combattono. E
questo è un paradosso.
«L´attacco di papa Wojtyla - e nomino lui perché è il testimone tuttora in campo
- è un attacco singolare, in quanto viene da qualcuno che contemporaneamente
predica l´ecumenismo nei confronti degli ebrei, dei musulmani e perfino dei
buddisti. Questo è senz´altro un atteggiamento nuovo, originale e apprezzabile.
Quel che è più notevole, però, è l´attenzione dei cattolici per il rapporto con
i non credenti, che costituiscono un vasto settore dell´opinione pubblica
moderna. Nell´ambito di questo ecumenismo, i cattolici si preoccupano ora di
mantenere con i non credenti un contatto, e di approfondirlo, se non altro sui
temi della morale e del bene comune.
«Tuttavia, a differenza di ciò che avviene nei rapporti con i credenti di
religioni diverse, l´atteggiamento ecumenico allargato ai non credenti incontra
un ostacolo, che è costituito proprio dalla presenza inassimilabile di un nucleo
di pensiero che proviene dall´illuminismo. Oltre ad aver segnato lo spartiacque
tra l´ancien régime e la modernità, l´illuminismo ha infatti messo in questione
l´esistenza dell´assoluto: non soltanto come trascendenza, ma anche come verità.
Quindi, per chi si basa sul presupposto di una trascendenza, che è depositaria
della verità assoluta, l´illuminismo è il vero nemico. Le altre critiche vengono
di solito da chi ha sostituito il paradiso in terra al paradiso in cielo, e cioè
dalle ideologie totalitarie e totalizzanti, che riscoprono una forma di assoluto
nella verità di cui ritengono di essere depositarie.
«Si spiega, dunque, il paradosso da cui eravamo partiti, ossia il convergere,
sull´illuminismo, di critiche provenienti da sponde diverse e perfino opposte:
per un verso, da un certo cattolicesimo - ma potrei dire dal cattolicesimo in
genere - e dalla destra hegeliana, che sfocia in fenomeni diversi, perfino nel
nazismo; e, per altro verso, dalla sinistra hegeliana.
«Detto molto approssimativamente: i regimi totalitari - nel Novecento, il
nazismo e il comunismo - trovano sulla loro strada l´ostacolo di chi ha messo in
discussione gli assoluti. Non c´è, dunque, una vera contraddizione nel fatto che
l´illuminismo venga attaccato tanto da destra che da sinistra».
UMBERTO GALIMBERTI: «Prima di riprendere i punti stabiliti da Scalfari, vorrei
aggiungerne uno preliminare: l´illuminismo è l´età della ragione. A questo punto
dobbiamo accordarci sul significato di "ragione". Come Aristotele - che chiama
il suo libro di logica Organon, cioè "strumento" - dobbiamo riferirci anche noi
al suo senso più umile, strumentale: la ragione è un insieme di regole per poter
convivere. Ed è questo il modo in cui anche l´illuminismo considera la ragione.
Kant, infatti, intraprende una critica della ragione, non la sua apologia; va
alla ricerca dei suoi limiti, non della sua espansione universale.
«Quando dico che la ragione è un insieme di regole, bisogna tener presente che
tutte le cose sono ambivalenti: per esempio, questo registratore, ora, svolge
una sua funzione, ma io posso prenderlo e usarlo come un´arma impropria. Se non
presupponessi regole d´uso e di linguaggio, dicendo "registratore" potrei
riferirmi a questo apparecchio o a un´arma impropria. Tutte le cose, insomma,
sono disponibili per tutti i significati.
«La ragione procede per definizioni, che delimitano il significato di una cosa;
mediante il principio di non contraddizione, che non consente di far oscillare
la cosa tra una pluralità di significati. La si è inventata, insomma, mediante
grandi regole, grazie a cui gli uomini possono comunicare e, dal punto di vista
psicologico, ridurre l´angoscia. Altrimenti, se tutte le cose restassero
indeterminate, nell´uso e nel commercio delle cose ci troveremmo sempre in uno
stato ansiogeno. Pensiamo al "primitivo" che, fintanto che non codifica, rimane
sempre in uno stato di allerta.
«La ragione è un grande strumento che non dice la verità, ma dice le regole di
convivenza. E arrivare a queste regole è un risultato importantissimo. Io non
solleverei il concetto di ragione oltre questa misura, che è già sufficiente ad
escludere i miti, le religioni, quell´eccesso di significato di cui si
circondano tutti gli apparati simbolici, e a creare un regime di discorsività e
di convivenza corretto che è la condizione per la fondazione della città.
«Per Platone, la fondazione della polis presuppone, infatti, un´intesa
linguistica. È questo il motivo per cui è necessario escludere dalla città i
retori, che muovono la gente tramite gli affetti; i sacerdoti, che parlano ex
autoritate; i poeti, che mentono troppo e lasciano oscillare i significati. Sono
ammessi invece i filosofi, che parlano dopo aver definito le cose e si attengono
alle regole.
«L´illuminismo costituisce una ripresa di questo scenario greco. Il più grande
illuminista, Kant, scrivendo una critica della ragion pura, è come se
dichiarasse: non esageriamo con la ragione, vediamo che cosa può dire, con
correttezza ed esattezza, e che cosa invece non può dire. Può trattare questioni
matematiche e fisiche, ma non problemi metafisici, perché questi sorpassano i
limiti dell´esperienza.
«I custodi della ragione sono custodi che limitano l´apparato razionale: sanno
che l´apparato razionale è forte solo se conosce i suoi limiti, se è consapevole
della sua valenza strumentale e non, invece, totalizzante.
«Sotto questo profilo, quindi, la ragione è l´antitotalitarismo per eccellenza,
perché conosce il suo limite. Ed è lo stesso limite che vige nella pratica
scientifica. Gli scienziati sono assolutamente
persuasi di non dire cose vere, ma di dire semplicemente cose esatte:
ex-actus, cioè "ottenuto dalle premesse di partenza". È questo, mi pare, il modo
corretto di condurre la ragione.
«Arriviamo ora ai punti toccati da Scalfari, che mi paiono decisivi. Il primo è
che l´illuminismo mette fine alla gerarchia dell´ancien régime e inaugura la
dimensione della libertà individuale; sottrae la sovranità all´ordine gerarchico
precedente e la diffonde tra gli individui. Qui, però, bisogna fare attenzione:
la ragione non si emancipa senza residui, ma gronda sempre di dimensioni
antirazionali: penso, per esempio, a un Galileo che fa l´oroscopo per le figlie,
o a un Newton che scrive un libro di demonologia. Anche il concetto di individuo
è molto equivoco e, a mio parere, viene chiarito solo con l´illuminismo. Il
concetto di individuo non esiste in Grecia, perché è una nozione
fondamentalmente cristiana: mentre i greci antepongono la comunità al singolo, i
cristiani colgono innanzitutto l´individuo grazie alla nozione di "anima". Per
Platone, il singolo è giusto se è "aggiustato" addirittura con l´ordine cosmico.
Per i cristiani, l´individuo ha come scopo innanzitutto la salvezza individuale,
la salvezza dell´anima, appunto, che è affidata alla pratica religiosa e quindi
alla Chiesa. La convivenza e il buon vivere civile passano in secondo piano.
«Che cosa spetta alla comunità, dal punto di vista dei cristiani? Null´altro che
la limitazione o l´eliminazione degli ostacoli che impediscono la salvezza dell´anima.
Lo Stato ha solo il compito di togliere gli impedimenti che si frappongono tra
gli individui e la pratica salvifica. La salvezza è individuale, non è
comunitaria. L´individuo deve vedersela direttamente con Dio, che abita l´anima:
in interiore animae habitat Deus, dice Agostino. E Rousseau, giustamente, ne
conclude che "il cristiano non può essere un buon cittadino". Potrà magari
esserlo di fatto, ma non di diritto, perché il suo scopo non è la buona
convivenza, ma, come ho detto, la salvezza della sua anima.
«L´illuminismo desume la nozione di individuo dal cristianesimo, ma la libera
dalla categoria della salvezza e ne sposta l´obiettivo: un individuo è tale in
quanto è in relazione di fratellanza e di uguaglianza con gli altri, in quanto è
parte di una città, e non in quanto si salva l´anima. Questo spostamento ha
un´importanza straordinaria: la società civile, infatti, nasce solo quando
l´individuo viene pensato in vista dell´altro individuo, e non in vista della
salvezza dell´anima.
«Il secondo punto indicato da Scalfari è l´ecumenismo. L´ecumenismo, però, non è
la tolleranza illuminista, è semplicemente un proposito di buona educazione:
mentre un tempo avremmo fatto la guerra con chi la pensava diversamente da noi,
oggi gli stringiamo la mano. Ma ciascuno resta del proprio parere. L´ecumenismo,
dunque, è un atto pratico di buona educazione. La tolleranza illuminista, invece
- almeno quale traspare dalle Lettere sulla tolleranza di Locke - ha una valenza
teorica: io, nel mio pensiero, devo tollerare che forse tu, che sei il mio
avversario, sei nella verità ad un gradiente maggiore del mio. Questa è
l´autentica tolleranza. L´ecumenismo, quindi, non ha nulla a che fare con la
tolleranza illuminista.
«Se l´ecumenismo può esercitarsi nei confronti delle altre religioni, la
miscredenza resta comunque il nemico. Oggi la Chiesa non ha più quella forza,
che aveva nel Rinascimento, per poter impiccare i miscredenti. Oggi si limita a
segnalarli o a emarginarli, o magari a dialogare con loro, come faceva Martini.
Ma se avesse la forza necessaria li impiccherebbe tutti. La violenza è parte
essenziale del sacro: chi presume di essere il depositario della verità è cieco
e violento. La ragione, invece, è tale se conosce i suoi limiti, dunque non può
mai essere assoluta: procede passo dopo passo, per prove ed errori, e non
presume mai di disporre della verità unica.
«Infine, c´è una differenza antropologica tra gli illuministi e gli uomini di
religione - ai quali io accosterei, sotto questo profilo, anche i fascisti e i
comunisti: gli uomini di religione, e i totalitaristi, vivono un tempo
escatologico, mentre l´illuminismo vive un tempo progettuale. Il primo è pervaso
da speranze di palingenesi e di salvezza; il secondo è molto più modesto, è un
tempo volto esclusivamente al miglioramento della condizione attuale.
«Il tempo escatologico è un tempo inscritto in un disegno, per cui la storia è
sempre storia sacra, storia della salvezza. Questa concezione giudaico-cristiana
del tempo prevede che alla fine della storia si realizzi quello che era stato
annunciato all´inizio.
«Anche il comunismo, d´altra parte, vive un tempo escatologico: nel passato c´è
il male, nel presente la redenzione, nel futuro la salvezza. Marx usa le stesse
espressioni che troviamo nella Bibbia a proposito del popolo ebraico: "La classe
operaia ha fame e sete di giustizia". Poiché i totalitarismi, comunismo e
fascismo, vivono un´escatologia, li considero alla stregua di forme religiose.
L´illuminismo, invece, non vive un´escatologia, vive il progresso metodico della
ragione».
EUGENIO SCALFARI: «Secondo un´analisi attenta, dunque, l´ispirazione dei
movimenti totalitaristici, più che esser fatta risalire all´illuminismo, deve
essere ricondotta a certe forme del pensiero cristiano ed operaio. Vorrei
aggiungere, però, che il pensiero cristiano si biforca fin dall´inizio: da un
lato, la salvezza delle anime; dall´altro, l´avvento del Regno sulla terra, la
salvezza dei corpi e la resurrezione dei morti. È il pensiero apocalittico -
parte fondante del pensiero cristiano - che comincia con Giovanni, e che
caratterizza anche tutto il messianesimo ebraico: la felicità, il Regno di Dio,
si realizzano alla fine dei tempi sulla terra.
«Le radici dell´escatologia totalitaria affondano insomma nel pensiero
apocalittico cristiano e nel pensiero messianico ebraico. Quest´ultimo, non a
caso, è molto poco interessato a immaginare il paradiso o l´inferno, e alcune
sue correnti negano perfino l´immortalità.
«Il popolo eletto, così come la classe operaia per Marx, combatte e vive nel
proprio tempo, ma è tuttavia un popolo che resta sempre in attesa. Abbiamo
comunque a che fare con un pensiero escatologico mondano: alla fine dei tempi,
con l´avvento del Regno e della felicità, comincerà un tempo immobile, la storia
sarà finita; così come accadrà quando la razza superiore avrà prevalso su tutte
le altre, o quando la classe operaia avrà abolito lo Stato e il comunismo sarà
realizzato su tutta la terra.
«Se cerchiamo il vero incunabolo di queste spinte totalitarie, troviamo le
religioni monoteiste».