Due struggenti odissee

 

Di scena martedì a Mittelfest due significativi esempi della nuova scena teatrale italiana: una bella prova di scrittura drammaturgica  con Naufragi di Don Chisciotte, di Massimo Bavastro e Carnezzeria il primo nucleo del nuovo lavoro, tra teatro e performance, del gruppo palermitano Sub Costa Occidentale, una delle formazioni più interessanti del nostro giovane teatro di ricerca. Cominciando dal testo di Bavastro e dallo spettacolo che Lorenzo Loris ne ha ricavato per il tetaro out off di Milano e presentato al Ristori. Naufragi di Don Chisciotte racconta la drammatica, ma anche ironica deriva dei due drop out, due malati, due emarginati che il sistema ha cercato di recuperare a suon di psicofarmaci e ricoveri coatti. Scappano dal reclusorio che li accomuna e, come Don Chisciotte e Sancho Panza alla ricerca di mostri e draghi da combattere  (i mostri e draghi che alimentano i loro cervelli spappolati e impasticcati), si perdono in un vagabondaggio tra i meandri della città, che permette loro di raccontarsi, di svelarsi e aprirsi l’un l’altro in una complicità che ne esalta solitudine e dipsperazione. Dietro, evocato come sfondo alla loro malattia, il mondo dei sani, dei normali con le sue rigidità, le sue fobie: una madre troppo apprensiva, bigotta e baciapile per Don Chisciotte, un amore finito male, una donna che si rifiuta alla procreazione per Sancho Panza. Scandito in una decina di quadri, il viaggio di questi due eroi del nostro tempo si perde nel labirinto metropolitano, fatto di lavori in corso, discoteche, caos e traffico, di quell’immaginario contemporaneo che non ha posto e tempo per chi non ne condivide ritmi e riti. Cavalieri erranti che sbagliano sempre strada, i due cercano inutilmente un approccio al mondo e anche a Dio; approdano, infine, soli al mare e al mare affidano il loro seme, in un gesto che tradisce il loro maledetto bisogno di amore, il seme dal quale non genereranno eredi. Gigio Alberti e Mario Sala, rispettivamente Rancho e Don Chisciotte, interpretano questa sorta di odissea del nostro tempo con aderenza realistica al testo e al linguaggio, che sono crudi e violenti ma impastati anche di tenerezza e nostalgia, in una scena spoglia attraversata obliquamente da un praticabile sul quale consumare la fuga, sinistramente illuminata da due sacche di flebo che riconducono, invece, tutto e sempre alla stanza d’ospedale o centro sociale dal quale forse i due non se ne sono mai andati. E storia di una fuga, di un veloce abbandono è anche quella raccontata in Carnezzeria. Sulla scena spoglia della piccola abside di santa Maria in corte arrivano quattro fratelli: sicilianissimi, tre maschi con cappotto di pelo e coppola e una ragazza, vestita da sposa e incinta, fasciata in vita da una stola nera da funerale. L’hanno portata lì. Nina, i fratelli, perché lì la devono sposare. Ma non si tarda a capire che quel luogo diventerà per lei un luogo di detenzione, forse di pena, certamente il posto dove scontare la colpa di quel figlio bastardo, che tanto bastardo non è, dal momento che tra i quattro fratelli, orfani, si è sviluppata un’intimità ben oltre il lecito. Un back round di solitudine e di ignoranza, ma anche di panica felicità, che traspare dai pochi dialoghi e dai giochi che i quattro riescono ancora a imbastire, tra complicità e repulsione e che alla fine letteralmente inchioda la ragazza al suo destino. Una storia molto meridionale, dove tradizione e pregiudizio, vitalismo e solarità spesso virano in dolore e tragedia. Bravissimi i quattro interpreti, Gaetano Bruno, Sabino Civilleri, Enzo Di Michele e Manuela Sicco, che sotto la direzione di Emma Dante danno vita a una rappresentazione serratissima e piena di energia, allusiva e disperata, assai coinvolgente e contagiosa che ha letteralmente incantato il pubblico. Due spettacoli, due realtà del giovane teatro italiano, si diceva, entrambi, pur nella profonda diversità di linguaggio e cifra espressiva, accomunati nella rappresentazione di aspetti inquieti sotterranei e drammatici della nostra contemporaneità. Due modi di pensare e fare un teatro finalmente necessario e perciò vivo e attuale.

  Mario Brandolin, Messaggero veneto, 25 luglio 2002

 

 

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