O.L.F.A

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ANNO VI/VII. NN. 29/30 NOVEMBRE-DICEMBRE/GENNAIO-FEBBRAIO 2002/2003 FERRARA

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GALLERIA LETTERARIA & CULTURALE UNGHERESE

LIRICA E PROSA MAGIARA

Lirica

Avviso: per la visione dei versi corretta,  in caso di bisogno, si prega di allargare il frame destro.

Ady Endre (1877-1919)

 

EGYEDÜL A TENGERREL

 

Tengerpart, alkony, kis hotel-szoba,
Elment, nem látom többé már soha,

Elment, nem látom többé már soha.

 

Egy virágot a pamlagon hagyott,

Megölelem az ócska pamlagot,
Megölelem az ócska pamlagot.

Parfümje szálldos csókosan körül,
Lent zúg a tenger, a tenger örül,
Lent zúg a tenger, a tenger örül.

Egy Fárosz lángol messze valahol,
Jöjj, édesem, lent a tenger dalol,
Jöjj, édesem, lent a tenger dalol.

A daloló, vad tengert hallgatom
És álmodom az ócska pamlagon,
És álmodom az ócska pamlagon.

Itt pihent, csókolt, az ölembe hullt,
Dalol a tenger és dalol a mult,
Dalol a tenger és dalol a mult.

 

 

SOLO COL MARE

 

Spiaggia, tramonto, stanzetta d'albergo,

Č andata via, ormai piů la riveggo,

Č andata via, ormai piů la riveggo.

 

Sopra il divano un fiore ha lasciato,

Me ne sto al vecchio divano abbracciato,

Me ne sto al vecchio divano abbracciato.

 

Qual bacio intorno il suo effluvio lambisce,

Giů il mare mugghia, il mare gioisce,

Giů il mare mugghia, il mare gioisce.

 

Lontano un faro in un posto lampeggia,

Vieni, mia cara, il mare giů inneggia,

Vieni, mia cara, il mare giů inneggia.

 

Il mare ascolto che canta selvaggio,

Ed io sul vecchio divano vagheggio,

Ed io sul vecchio divano vagheggio.

 

Qui l'ho stretta, ha dormito, baciato,

Il mare canta e canta il passato,

Il mare canta e canta il passato.

 

Traduzione © di  Mario De Bartolomeis

 

Ady Endre (1877-1919)

 

KIS KARÁCSONYI ÉNEK

 
Tegnap harangoztak
Holnap harangoznak,
Holnapután az angyalok
Gyémánt havat hoznak.
 
Szeretném az Istent
Nagyosan dícsérni,
De én még kisfiú vagyok,
Csak most kezdek élni.
 
Isten-dícséretre
Mégiscsak kiállok,
De boldogok a pásztorok
S a három királyok.
 
Én is mennék, mennék
Énekelni mennék,
Nagyok között kis Jézusért
Minden szépet tennék.
 
Új csizmám a sárban
Százszor bepiszkolnám,
Csak az Úrnak szerelmemet
Szépen igazolnám.

 

CANZONCINA DI NATALE

 

Ieri hanno suonato le campane,

Domani suoneranno le campane,

Gli angeli posdomani mattina

Neve porteranno adamantina.

   

Il Divino vorrei tanto lodare

Come solo un'adulto sa fare,

Ma fanciullo io sono ancora,

Comincio a vivere solo ora.  
 

Ad intessere lodi a Dio

Mi cimento comunque io,

Felici sono intanto i pastori

Ed i tre Magi signori.     
 
Anch'io andrei, io andrei,

Ad innalzare canti io andrei, 

Tra i grandi per Gesů infante

Di belle cose ne farei tante.

 

In stivali nuovi mota calcherei,

Lordi cento volte li ridurrei

Pur di poter dare al Signore

Segno tangibile del mio amore.

 

Dalla rubrica «TRADURRE-TRADIRE-INTERPRETARE-TRAMANDARE»

Traduzione di

© Melinda Tamás-Tarr e Mario De Bartolomeis

 

 

Petőfi Sándor (1823-1849)

 

JÁNOS VITÉZ

(Részletek)

 

Tüzesen süt le a nyári nap sugára

Az ég tetejéről a juhászbojtárra.

Fölösleges dolog sütnie oly nagyon,

A juhásznak úgy is nagy melege vagyon.

 

Szerelem tüze ég fiatal szívében,

Úgy legelteti a nyájt a faluvégen.

Faluvégen nyája míg szerte legelész,

Ő addig subáján a fűben heverész.

 

Tenger virág nyílik tarkán körülötte,

De ő a virágra szemét nem vetette;

Egy kőhajtásnyira folyt tőle a patak,

Bámuló szemei oda tapadtanak.

 

De nem ám a patak csillámló habjára,

Hanem a patakban egy szőke kis lyányra,

A szőke kis lyánynak karcsú termetére,

Szép hosszú hajára, gömbölyű keblére. […]

 

 

GIOVANNI IL PRODE

(Frammenti)

 

Rovente picchia del sole estivo il calore

Dal sommo del cielo sul giovane pastore.

Soverchio affare č lo scaldare cosě tanto,

Ne ha il pastore di calore giŕ tanto.

 

Vampa d'amore al giovane il cuore fa bruciare,

Mena cosě il gregge oltre il villaggio a pascolare.

Mentre la mandria sparsa qua e lŕ si protende,

Sulla sua giubba egli nell'erba si distende.

 

Di fiori variopinti da un mare č attorniato,

Non verso i fiori perň il suo sguardo č puntato;

A un tiro di sasso da lui scorre un ruscello,

ammirati gli occhi incollati egli ha a quello.

 

Del ruscello non di certo alle lucenti onde

Ma a fanciulla nel rivo dalle chiome bionde,

Della ragazza bionda allo snello aspetto

Ai lunghi bei capelli, al tondeggiante petto. […]

 

Traduzione Ó di Melinda Tamás-Tarr

 

 

Petőfi Sándor (1823-1849)

 

JÁNOS VITÉZ

(Részletek)

 

Tüzesen süt le a nyári nap sugára

Az ég tetejéről a juhászbojtárra.

Fölösleges dolog sütnie oly nagyon,

A juhásznak úgy is nagy melege vagyon.

 

Szerelem tüze ég fiatal szívében,

Úgy legelteti a nyájt a faluvégen.

Faluvégen nyája míg szerte legelész,

Ő addig subáján a fűben heverész.

 

Tenger virág nyílik tarkán körülötte,

De ő a virágra szemét nem vetette;

Egy kőhajtásnyira folyt tőle a patak,

Bámuló szemei oda tapadtanak.

 

De nem ám a patak csillámló habjára,

Hanem a patakban egy szőke kis lyányra,

A szőke kis lyánynak karcsú termetére,

Szép hosszú hajára, gömbölyű keblére. […]

 

 

GIOVANNI IL PRODE

(Frammenti)

 

Risplende in piena estate caldo e radioso il sole

del vertice del cielo su un giovane pastore.

Ma quel gran riscaldare č inutile del tutto

Perché il pastore brucia dentro sé soprattutto.

 

Č il fuoco dell'amore che dentro il cuore gli arde,

quand'egli, uscito fuori dal paese, il gregge pasce.

E mentre in fondo al paese il suo gregge si spande,

posta in terra la giubba*, sull'erba si distende.

 

Intorno, un mar di fiori dei piů vari colori

lo circonda, ma egli non guarda verso i fiori:

ad un tiro di pietra da lui scorre un ruscello,

i suoi occhi incantati sono fissi su quello.

 

Ma non vanno a posarsi sulle luccicanti onde,

bensě su una ragazza che ha le chiome bionde,

e di quella ragazza bionda guardan l'aspetto

grazioso, i lunghi e bei capelli, il tondo petto. […]

Dall'Edizione Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro), 1998

Traduzione Ó di Roberto Ruspanti

 

József Attila (1905-1937)

 

A BÁNAT
 
A bánat szürke, néma postás,
sovány az arca, szeme kék
keskeny válláról táska lóg le,
köntöse ócska meg setét.
 
Mellében olcsó tik-tak lüktet,
az uccáną félénken suhan,
odasimul a házfalakhoz
és eltünik˛ a kapuban.
 

Aztán kopogtat. Levelet hoz.

 

 

EL DULŮR
 
L'č el dulůr en pustě gris e möt,
cera scanada e öcc cilisti,
en vistět scür, vecc cotčcc,
dale spale base ghe spindula zó la bursa.
 
Ghe bat en sé en tik-tak de dň palanche,
el brüsca südisiůs dré ala viŕ,
el se reenta ai mür dele ca
e la sparěs en d'en purtů.
 
Pň el cioca: gh'č posta per te.

 

ą, ˛ Secondo l'odierna ortografia sarebbe:«utcán», «eltűnik».

 

Dalla rubrica «TRADURRE-TRADIRE-INTERPRETARE-TRAMANDARE»

Traduzione di © Fabrizio Galvagni

 

Dal vol. «Piö 'n lŕ» Rime, versi liberi e traduzioni in dialetto bresciano di Fabrizio Galvagni, Editrice La Rosa, Brescia, 1994, pp.156   

 

Nagy László (1925-1978)

 

KI VISZI ÁT A SZERELMET

 

Létem ha végleg lemerült 
ki imád tücsök-hegedűt? 
Lángot ki lehel deres ágra? 
Ki feszül föl a szivárványra? 
Lágy hantú mezővé a szikla- 
csípőket ki öleli sírva? 
Ki becéz falban megeredt 
hajakat, verőereket? 
S dúlt hiteknek kicsoda állít 
káromkodásból katedrálist? 
Létem ha végleg lemerült, 
ki rettenti a keselyűt! 
S ki viszi át fogában tartva 
a szerelmet a túlsó partra! 
 

 

CHI  PORTA L'AMORE

 

Se si spegne la mia esistenza,
il violino del grillo chi l'adora?
Sul ramo ghiacciato la fiamma chi la spira?
Sull'arcobaleno chi si adagia?
Chi rende morbido campo la roccia,
piangendo, mentre l'abbraccia?
Le crepe nella mura chi l'accarezza? 
E da bestemmie chi alza cattedrale 
per fedi sconvolte?
Se si spegne la mia esistenza,
l'avvoltoio chi lo scaccia via?
E sull'altra sponda del fiume
chi lo porta l'amore?

 

Dalla rubrica «TRADURRE-TRADIRE-INTERPRETARE-TRAMANDARE»

Traduzione di © Ágnes Preszler

 

 

 

Prosa

 

Kéri Katalin (Kate Carry)- Pécs (H)

UN UOMO SULLA SPIAGGIA

 

   Piove forte. Grigia e triste č la cittŕ, le case dai muri inumiditi si stringono infreddolite ed il cielo č minacciosamente scuro. L'acqua scorre per le strade, sono riuscita ad attraversare a malapena da un lato all'altro. Indosso un'impermeabile giallo perché vi sia almeno qualcosa che con questo tempo desolante richiami alla memoria i raggi del sole, la luce solare e l'estate. L'estate, quell'estate fattasi lontana da me irrimediabilmente. Essa s'allontana sempre piů giorno dopo giorno, se perň chiudo gli occhi riesco a rivivere di nuovo tutto. Vedo ancora lui ravviarsi i capelli neri all'indietro e scuotersi l'acqua di dosso. Vedo come di sottecchi egli guarda verso me ad occhi socchiusi, con una qualche insopprimibile tristezza nello sguardo.

   Avevo visto nei suoi occhi questo dolore sin dal primo istante, subito, la prima volta che era arrivato in spiaggia. Era un'estate meravigliosa, dal sapore di mare, profumata di fiori. La vita danzava gaia tra gli scogli, i raggi del sole guizzavano sulle pietre bagnate. L'uomo s'era seduto su un masso e guardava fisso in lontananza. Indossava una camicia a quadri, di quelle camicie a  piccoli scacchi bianchi e neri che rendono la gente tranquilla. Aveva suscitato nel mio cuore sensazioni calde e familiari ed avevo trovato stupenda pure la sua pelle abbronzata. Quando aveva guardato nella mia direzione la prima volta i nostri sguardi si erano letteralmente intrecciati. S'era pure girato leggermente col corpo verso me per vedermi meglio. Uno spruzzo d'acqua aveva all'improvviso raggiunto  le sue gambe e per questo un sorriso gli era affiorato sulle labbra. S'era alzato ed aveva passeggiato molto lentamente lungo la riva cosě che potessi vedere ogni particolare del suo corpo, che con lo sguardo ne sfiorassi ogni cellula. Aveva poi scagliato la camicia ed i pantaloni tra gli scogli e s'era tuffato in acqua. Il mare era trasparente e quasi immobile, solo le sue braccia fendevano un varco nel tranquillo specchio dell'acqua. S'era adagiato sul dorso e, sollevando il capo leggermente, mi guardava. S'allontanava da me lentamente senza perň staccarmi gli occhi di dosso. L'acqua intorno a lui era tornata liscia ed egli galleggiava come una pianta marina inverosimilmente lieve e leggiadra.

   Poi era uscito dall'acqua, aveva pettinato con le dita i suoi fitti capelli all'indietro ed aveva scosso il suo corpo, come se si fosse scrollato di dosso gocce d'oro a milioni. Egli sapeva che lo guardavo ed aveva teso i suoi muscoli un soffio piů di quanto fosse naturale. S'era quindi seduto da me a quasi un braccio teso, avevo creduto persino di percepirne il respiro.

   Il giorno seguente era giunto di nuovo e s'era limitato sempre a guardare, guardare con i suoi grandi occhi tristi. Aveva acceso una sigaretta dopo l'altra e, come aveva un attimo volto verso me la sua larga schiena, io ero stata capace solo di pensare quanto fosse indifeso. Nonostante il corpo alto e forte egli appariva vulnerabile, versare in costante pericolo. Sul suo viso dai lineamenti fini troneggiava sempre quell'indefinibile tristezza che genera nelle donne premura ed apprensione. Anche nelle ore meridiane piů calde era rimasto nei miei pressi. Era rimasto per giorni a guardarmi senza perň venirmi piů vicino d'un solo centimetro. Aveva qualche volta sorriso, ma anche allora era sembrato triste. Io trascorrevo l'intero giorno a lambiccarmi su chi mai fosse quell'uomo, a chi appartenesse, quale fosse l'origine della sua grande tristezza. Con l'immaginazione imbastivo su di lui storie sempre diverse. Lo vedevo una volta come un uomo che fuggiva dai suoi persecutori e che aveva trovato rifugio in questo piccolo golfo del Mediterraneo. Un'altra volta lo vedevo come un marito in lutto che aveva perduto la sua famiglia. Se perň lo guardavo ogni mia fantasia appariva inverosimile.

   Egli se ne stava tutto il santo giorno seduto, qualche volta nuotava, e mi fissava sempre. Nulla  era accaduto ad ogni modo oltre a ciň. Non aveva parlato, non aveva fatto cenni, non aveva chiamato e mai s'era fatto piů vicino. Solo i suoi occhi, i suoi enormi occhi tristi gridavano verso me implorando e manifestando la sua attrazione. Quando venne il giorno del mio ritorno a casa ormai non riuscivo piů ad immaginare la mia vita senza di lui. Egli faceva parte della spiaggia, del caldo, del fulgore, del profumo dei fiori e del  mio cuore. Dentro di me egli ingigantiva rispetto agli altri uomini conosciuti in precedenza che con milioni di parole m'avevano vezzeggiato, che giurando m'avevano ribadito il loro amore. Io ero divenuta sua cosě, senza m'avesse neppure  sfiorato, e sapevo bene che lo stesso era stato anche per lui. Altro e piů questo era che un semplice desiderio. Mentre ci guardavamo le nostre anime evadevano dai nostri corpi e s'incontravano nell'aria umida e fresca. Quando ogni sera muovevo adagio verso l'albergo, non avevo con me la stessa anima che tutte le mattine usciva frettolosa per la spiaggia. Portavo pure la sua con me, con l'umano e sensibile spirito infinitesimi iridescenti brandelli del suo triste intimo maschile, e lo sentivo che recava con sé anch'egli i miei frammenti.

   L'ultima sera avrei voluto accomiatarmi da lui, dirgli qualcosa, ma non ebbi il coraggio d'avvicinarlo. Egli se ne stava a guardarmi seduto sotto un albero, il suo sguardo era cosě insistente come se avesse saputo che non avrebbe piů potuto rivedermi, quasi volesse osservarmi una volta ancora per sé, per incidere a fuoco i miei tratti nel suo cuore…

 

  Non credo questa pioggia cessi mai. Pioveva pure quando avevo fatto ritorno a casa dal mare. Ero partita al mattino presto, ma avevo dovuto affrettarmi perché non sarei riuscita a capacitarmi d'incontrare lui. I tergicristalli della mia auto non ce la facevano a rimuovere l'acqua che si rovesciava dal cielo. Avevo un freddo terribile ed un'indicibile paura. Per ore avevo guidato quasi inconsciamente, spesso non sapendo neppure ove mi trovassi con esattezza. In qualche modo avevo proceduto per istinto sempre verso nord.

   Quando la pioggia aveva finalmente cominciato a placarsi era ormai pomeriggio. Ero giunta nella cittŕ in cui vivo ed osservavo l'andirivieni della gente. Era smisuratamente tanta ed io invece infinitamente sola. Com'ero scesa dall'auto avevo trovato sull'asfalto bagnato, davanti ai miei piedi, un sassolino piatto a forma di cuore. Pure senza di quello perň sapevo giŕ allora che egli era venuto con me e che con sé aveva recato pure me.

   Cammino da tempo immemorabile nel mio impermeabile giallo e mai ci sarŕ ormai un'estate o un inverno in cui con me non avrň il muto uomo dagli enormi occhi tristi.

 

Traduzione © di  Melinda Tamás-Tarr e Mario De Bartolomeis

 

 

FIABA DELLA SERA: DOV'ERA, DOVE NON ERA…

A BUDA SOLO UNA VOLTA C'ERA IL MERCATO DEI CANIą

 

 

Illustrazione  di © Melinda Tamás-Tarr

 

  Una volta il re Mátyás˛, mentre girava in un campo, vide un povero uomo arare la terra con l'aiuto di due magri cavalli malmessi. Poveretti, facevano fatica a tirare l'aratro!

 Mátyás salutň l'uomo:

 «Dio vi dia il buon giorno e buon lavoro! Riesce a tirarlo?

 Egli rispose cosě:

 «Dio vi dia il buon giorno! Io potrei pure tirarlo, ma queste due povere bestie sono tanto deboli, che non lo faranno a lungo! Ogni minuto aspetto la loro morte…»

 «Perché non gli date da mangiare?»

 «Ahi, biada, biada! Magari la mia famiglia avesse un po' di pane, ma né essa, né i cavalli hanno da mangiare!»

 Il vicino del povero uomo era molto ricco. Anch'egli si mise ad arare con quattro cavalli ben nutriti. Essi quasi volarono con l'aratro.

 Il re Mátyás disse al povero contadino:

 «Perché non chiamate il vicino ad aiutarvi?»

 «Eh, egli č un ricco contadino molto orgoglioso, non mi rivolge neanche la parola! Č geloso anche dell'aria che noi poveri respiriamo.»

 Allora il re gli suggerě una cosa:

 «Ascoltatemi! Vendete questi cavalli e comprate dei cani! Non importa di che razza, č importante che ne acquistiate tanti quanto potete  con la cifra ricevuta per queste due povere bestie. Poi nel giorno del mercato dei cani venite a Buda con essi, e fermatevi proprio davanti al palazzo del re Mátyás.»

 Il povero contadino obbedě allo sconosciuto. Comprň tanti cani quanto poteva, anzi alcuni glieli regalarono pur di liberarsi di essi. Con loro partě per Buda proprio il giorno del mercato dei cani.

 In quel giorno Mátyás indisse una riunione di tutti i nobili nel palazzo reale e li obbligň a comprare almeno un cane da quel povero contadino. Essi non potevano pagare per un cane meno di venti fiorini, ma se qualcuno avesse pagato per uno di essi duecento fiorini sarebbe stata un'azione nobile!

 Il primo cane fu comprato da Mátyás in persona e pagň una fortuna per quella bestia. I nobili fecero la stessa cosa facendo a gara per comprare e pagare di piů. Cosě quei cani furono venduti in un attimo. Il povero contadino poté ritornare a casa  felice con una borraccia piena di soldi!

 Questa notizia arrivň anche alle orecchie del ricco contadino. Perciň anch'egli vendette i suoi cavalli belli e ben nutriti,  ma non soltanto quelli, anche due meravigliosi puledri e comprň molto piů cani di quanti avesse acquistati il suo povero vicino. Assunse anche degli aguzzini e si presentň a Buda, davanti al re, con l'intenzione d'organizzare un mercato di cani.

 Ascoltandolo, il re Mátyás gli rispose:

 «Ahi, caro amico mio, a Buda c'č stato il mercato dei cani soltanto una volta e non ci sarŕ piů in futuro! Faccia quel che vuole con i suoi animali!»

 A seguito di questa risposta del re, per rabbia cacciň via tutti i cani, tornň a casa furioso e fino alla sua morte maledisse i mercati dei cani di Buda.

 

ą Leggenda popolare ungherese, versione riveduta, quella precedente giŕ pubblicata nel II. volume: «Da padre a figlio» di Melinda Tamás-Tarr Bonani, C.Q.L.N., Ferrara, 1997

 

˛ In italiano č «Mattia» Nella parola  «Mátyás» le consonanti -ty ed -s si pronunciano con t+j =tj (consonante prepalatale sorda: cfr. ingl, 'tube' fr. 'Etien')  e sc + i ('s' fricativa sibilante sorda alveopalatale cfr. it. 'sci', ingl. 'she', ted. 'schön').

 

Elaborazione in italiano © di Melinda Tamás-Tarr

 

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