O.L.F.A
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ANNO
VI NN. 27/28 LUGLIO-AGOSTO/SETTEMBRE-OTTOBRE 2002 FERRARA
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Fernando Sorrentino
- Buenos Aires (Argentina)
ABITUDINI DEL
CARCIOFO*
(Costumbres
del alcaucil)
Pochissimi conoscono il vicolo Ohm.
L'unico tratto su cui si snoda è circa compreso tra l'angolo di viale
Triunvirato e l'angolo di viale degli Incas. In un piccolo appartamento con
balcone che dà sul cortile interno vivo io.
Sono arrivato a quarantotto anni senza volermi - o potermi - sposare.
Vivo solo e me la cavo abbastanza bene. Non sono agricoltore né botanico, ma
professore di spagnolo, letteratura e latino: non so nulla di tali scienze
rurali e naturali, ma conosco qualcosa di linguistica e di etimologia. Il mio
approccio al carciofo ( in spagnolo, alcaucil)
prese le mosse da codesti ambiti.
Com'è noto, una buona percentuale del lessico spagnolo trae origine
dalla lingua degli invasori arabi del VIII secolo. Costoro crearono talora il
vocabolo ricorrendo al conferimento di forma araba ad un sostantivo latino (o
neolatino) in uso nella Spagna dell'epoca.
Tale è il caso della parola mozarabica caucil , proveniente dal latino capitiellum
che significa «testina». Di modo che alcaucil
(articolo + sostantivo) significa «la testina». Questo nome popolare possiede,
diciamo, maggiore «espressività» ed «utilità» del termine scientifico cynara scolymus.
Vediamo perché.
A Buenos Aires nessuno ha visto una pianta di carciofo. E' dai negozi di
prodotti ortofrutticoli che noi conosciamo, per precisione, queste testine
morte il cui cuore (meglio chiamato ricettacolo)
e la base delle relative foglie (meglio dette squame) sono, per certo, molto saporite. Orbene queste testine
contengono il germe del fiore e l'orticoltore le recide dalla pianta prima che
arrivi a svilupparsi poiché, così non facendo, poi induriscono e non sono più
commestibili.
Per tutta la mia vita ero stato assolutamente ignorante su quanto
concerne morfologia, vita e comportamento del carciofo. Ora posso invece dire,
senza pedanteria, d'aver acquisito sufficienti informazioni e di essermi
trasformato in una sorta di modesta autorità in materia. Ammetto però che, sul
carciofo, è più quello che mi resta da imparare di quello che già ho appreso.
Il carciofo può essere coltivato in un vaso di dimensioni piuttosto
ampie. Essendo una pianta ruvida e paziente, una specie di cardo, richiede cure
scarse; si sviluppa rapidamente; in altezza raggiunge un metro e,
orizzontalmente, un'ampiezza che risulta al momento impossibile determinare.
Quantunque le piante in genere non mi interessino né mi attraggano,
accettai con finta gratitudine il carciofo regalatomi da una vicina
soprannominata la Cice, una signora
d'una certa età, semplice e noiosa, che ha un figlio d'intelligenza piuttosto
scarsa chiamato Sebastián.
Il giovane Seba — così apocopato da sua madre e dai suoi
amici — finì il terzo anno con ardue
difficoltà. Non ricordo come accadde che io gli impartissi gratuitamente
lezioni private di spagnolo in modo che egli avrebbe tentato di essere promosso
a marzo in ciò che non era riuscito ad imparare negli undici o dodici mesi
precedenti.
Non mi costa nulla dire che sono un eccellente professore di spagnolo
con l'esperienza e la fatica di vent'anni di gesso e lavagna. Però Seba
—inappellabilmente tardo e claudicante di comprendonio — così come avevo previsto, risultò
giustamente bocciato dalla commissione esaminatrice.
La signora Cice — dedizione materna a parte — seppe comprendere che la deficienza non
stava in me ma in suo figlio e, per sdebitarsi in qualche modo nei miei
confronti, mi regalò la suddetta pianta di carciofo.
La signora Cice arrivò nel mio appartamento, si trattenne un
bel pezzo, sciorinò abbondanti errori ed imprecisioni, non prestò la minima
attenzione a nessuna delle mie parole, mi rese edotto della sua disincantata
visione del mondo e, finalmente!, si accomiatò lasciandomi la solita sgradevole
sensazione che mi producono le persone di scarsa intelligenza ed illimitata
ignoranza. E nel suo vaso rosso e bianco lasciò qui sul balcone, anche con un
certo malumore, la pianta di carciofo.
A poco a poco andò propagandosi in molteplici testine (carciofi) di
colore verde spento. Causa il loro peso, i carciofi arrivarono a piegare la
resistenza dei gambi ed iniziarono a strisciare al suolo sul balcone come se
fossero i molteplici artigli d'un animale amorfo difficilmente riconoscibile,
una specie di spinoso polipo terrestre con qualcosa della litica e verdastra
durezza degli animali preistorici.
Deve essere così trascorsa una settimana.
Per interi anni ho lottato senza esito contro le piccole formiche rosse,
quei minuscoli insetti invincibili ed onnivori disseminati in infiniti cunicoli
per tutto l'appartamento. Un pomeriggio me ne stavo seduto in balcone; leggevo
il giornale e sorseggiavo del mate 1).
Vidi a un tratto che quattro delle tante testine della pianta erano
dedite alla caccia di formiche rosse. La loro tecnica era molto semplice e, a
un tempo, molto efficace. Con le foglie verso il basso ed il gambo all'insù si
muovevano alla maniera dei ragni, avvicinavano con estrema precisione la formica
e, con rapidi movimenti di trazione e masticazione, la traslavano fino al
centro del carciofo donde veniva ingerita.
Osservando con attenzione si poteva notare, nei punti di ingrossamento
del gambo mobile o tentacolo, che i cadaveri delle formiche venivano trasferite
fino al gambo centrale ove immaginai trovarsi l'apparato digestivo del
carciofo. Avevo più d'una volta visto qualcosa di simile nei documentari.
Quando il serpente inghiotte un ratto o una rana si riesce ad intuire la forma
del corpo della vittima che scivola all'interno del corpo del predatore: i
carciofi mangiavano alla stessa maniera.
Mi rallegrai. Questo fatto mi parve vantaggioso. I carciofi erano
instancabili e terribilmente voraci. Pensai che sarebbero in breve riusciti a
trionfare ove io per anni avevo fallito, che avrebbero definitivamente
sterminato tutte le formiche rosse dell'appartamento, formiche che io, nella
mia impotenza, detestavo così tanto.
In effetti fu così. Arrivò il momento in cui non vidi più nessuna
formichina rossa. Il carciofo si mise allora a cercare altre cose da mangiare.
Alcuni carciofi strangolarono e divorarono le altre piante del balcone:
malve, gerani, una rosa perennemente stentata, delle felci antichissime, un
selvaggio cactus spinoso. Altri carciofi preferirono invece scavare la terra e
catturarono utili lombrichi ed animaletti nocivi. Un terzo gruppo si inerpicò
sulle pareti e penetrò in fondo ai buchi dei ragni.
Questi carciofi avevano davvero buon appetito, e crescevano. Crescevano
sempre. Non impiegarono molto tempo ad occupare tutto il balcone. Si protesero
per il pavimento, per la tettoia, per le pareti a mo' di rampicante in volute e
controvolute che ne fecero una selva inestricabile.
Devo confessare che a questo punto un po’ mi spaventai: temetti
stupidamente che il carciofo avrebbe continuato a crescere sino ad occupare
tutto l’appartamento.
— Benissimo — gli dissi —. Se è questa la tua intenzione ti condanno a
morire di fame.
Abbassai le tapparelle di legno grigio e chiusi ermeticamente i vetri
delle finestre della sala da pranzo e della camera da letto. Ero sicuro che,
privato di alimento, il carciofo avrebbe iniziato ad illanguidire, a
debilitarsi, a ritirarsi, ed avrebbe finito per ridursi in fili rinsecchiti
fino a morire.
Adottai quella misura precauzionale lunedì 11 aprile 1988. Per non so
che conflitto di lavoro nella mia scuola non si sarebbero tenute lezioni fino
alla fine della settimana. Approfittai allora per fare una capatina a Mar del
Plata con una specie di fidanzata — a proposito, già matura — che ho da
tantissimi anni, che è professoressa di matematica e si chiama Liliana
Tedeschi. Devoti ambedue del treno e refrattari al torpedone, partimmo da
Constitución mercoledì che era ancora
notte e trascorremmo quattro belle giornate in quella piacevole città
autunnale.
Domenica 17 aprile, verso le otto della mattina, feci ritorno nel mio
appartamento di via Ohm. Poiché temo i ladri ho la porta blindata e due
serrature di sicurezza. Modestamente orgoglioso d’essere tanto previdente aprii
la prima serratura, aprii la seconda, spinsi la porta. Notai che opponeva una
certa resistenza: non proprio decisa, è vero, ma comunque resistenza.
Entrai allora in una specie di boschetto di carciofi. Fui investito da
una forte corrente d’aria: quegli individui avevano in mia assenza prima
divorato le stecche della tapparella e poi mandato in frantumi i vetri delle
porte finestre. Ora, come ingenti meduse, si trovavano sparsi per tutto l’appartamento
e sistematicamente coprivano pavimenti, pareti e soffitti, strisciavano negli
angoli, si inerpicavano sui mobili investigando buchi e recessi…
Questo è quanto mi si presentò a prima vista. Cercai in seguito di farmi
un quadro più preciso della situazione. Benché tentassi di mantenermi calmo
quegli abusi non poterono fare a meno di indignarmi.
I carciofi avevano aperto il frigorifero, il congelatore e tutte le
credenze, ed avevano mangiato il formaggio, il burro, le carni congelate, le
patate, i pomodori, le pastine, il riso, la farina di grano, i biscotti… Sul
pavimento della cucina presi contro a dei barattoli, ora vuoti, di marmellata,
di olive, di sottaceti, di salse…
Avevano divorato tutto l’umanamente divorabile ed ora — davanti ai miei
occhi collerici — si dedicavano anche a quanto era carciofescamente divorabile,
il che, stando a quel che vedevo, era tutto materia organica — viva o morta —,
e stavano strappando, rosicchiando e masticando il cuoio e le imbottiture delle
poltrone ed il legno dei mobili. E stavano strappando, rosicchiando e
masticando i libri, oh Dio, i miei amati libri amorevolmente raccolti nel corso
di più di trent'anni, i miei libri sottolineati e commentati migliaia di volte
— mai a penna ma a matita — con la mia grafia prolissa e scrupolosa!
Non ho un coltello da macellaio, ma un trinciapolli si. Posi un tallo di
carciofo tra le due lame d'acciaio e con odio, con giubilante spietatezza,
troncai l'abominevole testina nemica.
Il carciofo decapitato rotolò per qualche centimetro. Nel medesimo
istante il tallo reciso si pluriforcò in non so quanti gambi minori e,
simultaneamente, nacquero quindici, venti, cinquanta testine le quali si
lanciarono furiose contro di me cercando di mordermi le scarpe, le gambe, le
mani.
Allora, e come potei, retrocedetti verso la zona del bagno e della
camera da letto ove la densità di carciofi per centimetro quadrato era molto
minore. Sono — credo — una persona abbastanza lucida e non ero disposto a
perdere la calma: volevo solo rasserenarmi e riflettere un po' giacché non
dubitavo — ho sempre molto confidato in me stesso — di trovare pronta soluzione
al problema dei carciofi.
Ragionai.
Cosa li aveva resi in mia assenza esasperati e persino pazzi?
Indubbiamente la mancanza di alimenti. In effetti, quando nel corso delle
precedenti settimane erano stati normalmente nutriti, i carciofi avevano
seguito una condotta degna e giudiziosa. Sarebbe dunque stato sufficiente
fornire loro il cibo necessario per farli tornare ad essere i calmi e mansueti
carciofi di prima.
Dal telefono della camera — non c'erano quasi più letto, comodini,
armadi, biancheria — chiamai il mercatino «Los dos Amigos ». Il primo amico,
vende carne; il secondo amico, frutta e verdura. Al primo ordinai otto chili di
bazzecole a basso costo: fegato, polmone, ossa. Al secondo, patate e zucche,
che costano pochissimo e rendono tanto. Li pregai di mandarmi tutto
immediatamente: avrei così momentaneamente placato la fame dei carciofi. Avrei
cercato, e trovato, la soluzione definitiva più avanti.
Mentre i carciofi ed io attendevamo i viveri, quelli continuavano a
rodere. Il rumore prodotto dal loro rosicchiare è simile a quello che si ha
scuotendo una scatola di zolfanelli con la differenza che nessuno sta sempre a
scuotere una scatola di fiammiferi ed i carciofi, invece, rosicchiavano,
rosicchiavano, rosicchiavano continuamente. Continuavano a rosicchiare i resti
dei mobili, trangugiavano il legno e scartavano lo smalto e gli elementi di
metallo o di plastica.
Pensai: «Finché avranno altro da mangiare sarò salvo». E poi: «Come
tardano «Los Dos Amigos»».
Squillò allora il campanello (non quello del portone elettrico ma
quello dell’appartamento): squillò con quel suono lungo ed impaziente che io
detesto. Prevenendo la mia mossa, un carciofo fece pressione verso il basso
sulla maniglia ed aprì pari pari la porta.
Nel vano, sullo sfondo scuro del corridoio, con grembiule e berrettino
bianco ed un enorme canestro di vinco tenuto con ambedue le mani, apparve il
ragazzo grasso e rozzo che avevo molte volte visto lavare il marciapiede del
mercatino «Los Dos Amigos».
Il ragazzo — cretino fuori del comune di vent’anni e cento chili di peso
— indugiò un istante fra il salutarmi e il venire avanti. Non poté fare altro:
fu avvolto in pochi secondi da una verde ragnatela duttile ed efficace di
quaranta o cinquanta carciofi. Non riuscì né a gridare né a muovere le braccia.
Con i carciofi negli occhi, nel collo e dentro la bocca, semistrangolato e non
so se vivo o già morto, fu trascinato come fosse una piuma al centro della sala
da pranzo e lì i carciofi, in aspro tumulto, si dettero a sforacchiare e
consumare il grasso ragazzo del mercatino come pure il suo canestro di vinco,
le patate e le zucche, il fegato, il polmone, le ossa.
Quell'immagine dei piccoli carciofi che percorrevano il gran corpo, mi
ricordò quella delle piccole formiche rosse quando sezionano uno scarafaggio
vivo oppure morto.
Mentre questi carciofi ingerivano il ragazzo, altri avevano chiuso a
chiave la porta dell’appartamento tenendo ora quella in loro potere, al di
fuori della mia portata.
Mi rinchiusi allora nel bagno, stanza ancora completamente sgombra di
carciofi. Misi il saliscendi metallico e, seduto sul bordo della vasca, cercai
di prefigurare un rapido piano per dirottare i carciofi. Con i nervi a fior di
pelle e poco tempo arrivai a malapena ad abbozzare l’idea di provocare un
incendio. Ma cosa incendiare? Ormai di
cose infiammabili non restava quasi più nulla, casa mia era solo uno scheletro
di materie inorganiche.
Queste e simili altre speculazioni erano alla fin fine oziose ed
improduttive. La cosa migliore — mi dissi — sarà non pensare a nulla. E
sperare. Seduto sul bordo della vasca da bagno, sperare. Contemplando con
stupida attenzione quegli oggetti familiari così privi d’interesse: il lavabo,
lo specchio, le piastrelle…
I carciofi hanno già cominciato a rosicchiare e perforare la porta della
stanza da bagno in venti punti diversi. Vi saranno presto venti fori e poi
venti testine d'un verde tenue che avanzeranno verso me.
Io attendo: né rassegnato, né passivo. Ho staccato la sbarra del
portasciugamano e la impugno a mo' di randello. Non mi arrenderò senza
resistenza; cercherò di infliggere loro il maggior danno possibile.
Ripeto quel che ho detto all'inizio: ho appreso abbastanza — ma molto
ignoro ancora — sulle abitudini del carciofo.
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(*)
Dal quotidiano La Nación, Buenos
Aires, 20 agosto 1995.
1) Tipica bevanda ottenuta da erbe che si
prepara similmente al tè.
(Traduzione © e note di Mario De Bartolomeis)