i ragazzi di clelia

La botte di Mario

 

Quando quella mattina del 07/07/1977, un giovedì, si ritrovarono in piazza il sole era al suo posto già da un pezzo. C’erano tutti tranne Porcaccio, ovviamente.

Adesso, dire che Porcaccio fosse allora persona molto sensibile alle lusinghe di Morfeo potrebbe sembrare l’affermazione di chi vuole con questo metterlo in cattiva luce agli occhi dei lettori, e tutto potrebbe rientrare nella logica delle cose se non fosse noto il particolare che Porcaccio, per dirla col dialetto di quel nostro paese: “cuscì era i cuscì c’ne jit” ; il che tradotto significa che le abitudini del nostro amico, da allora, non sono cambiate nemmeno di una virgola.

Ma per meglio comprendere quanto sto per dirvi, forse è opportuno che io vi metta al corrente di quanto era accaduto la sera, e soprattutto la notte, precedente…

 

Affermare che sani e baldi ragazzotti di quindici/sedici anni hanno sempre un buon appetito è estremamente riduttivo: questi hanno sempre addosso la fame vera, soprattutto quando le ore che li separano dal loro ultimo pasto cominciano ad essere parecchie. Figuratevi, quindi, quale sorta di stretta allo stomaco potevano sentire i personaggi della nostra storia che, oltre ad avere quell’età, non stavano fermi un secondo e respiravano a pieni polmoni l’aria purissima e stimolante di quel bel paesetto di montagna. Così succedeva spessissimo che per placare il loro famelico bisogno primario si ritrovassero, a notte molto inoltrata, davanti a un piatto di spaghetti “aglio, olio e molto peperoncino”, cucinati alla meglio e dove capitava (vi è mai capitato di ritrovarvi riuniti al parchetto per mangiare spaghetti senza forchette? Provare per credere…); oppure in qualche cantina con tanto vino a disposizione, con formaggio e prosciutto se andava di lusso, o con pane sale e olio nel caso in cui la questua non avesse prodotto un migliore risultato. Anche quella notte, quindi, le cose non andarono in maniera diversa dal solito.

Tutti reduci da una serata più o meno movimentata, si ritrovarono in piazza intorno alle ventitre, ora fatidica oltre la quale alle ragazze di allora non era assolutamente consentito andare. C’erano tutti e non solo i nostri eroi, per cui e come al solito cominciarono a prendere vita, invisibili agli indesiderati, tutta una serie di  fulminei e segretissimi cenni d’intesa che avevano lo scopo di depistare la massa degli intrusi. Parole in codice, frasi criptate, ammiccamenti, occhiate… e non serve certo qui spiegarvi che quello che poi avrebbero chiamato Poeta, in questa ultima speciale forma di comunicazione, era alquanto avvantaggiato essendo stato dotato dalla natura di organi visivi tali da renderlo particolarmente abile a parlare con gli occhi che, nel suo caso, sono due grandi e meravigliosi occhi. Ora sul fatto che gli occhi del poeta siano meravigliosi qualcuno potrebbe anche avere delle remore, ma sulla loro inconfutabile grandezza è garantito che nessuno potrà mai affermare il contrario.

Tex Willer, pacchianamente stravaccato sulla panchina centrale della piazza, con sguardo assente fissava la nostra Clelia già da svariati minuti. Assorto e miracolosamente silenzioso, sembrava quasi che si fosse accorto soltanto in quel momento della presenza in piazza di quella fontana sormontata dalla statua con l’espressione enigmatica. Poi d’improvviso ruppe quel suo preoccupante silenzio:

- Guajiù, m’tè fam! M’maggness n’urs c’tutta l’ogna!!!

Questa frase, pronunciata in dialetto stretto e con teatrale solennità, era il segnale che quella serata avrebbe poi avuto un saporito seguito e già il fatto che Tex Willer si fosse espresso in dialetto e non in italiano, era il primo livello di selezione cui venivano sottoposti i presenti. Infatti è notorio, e assolutamente giustificabile, che non tutti riuscissero a comprendere i pensieri a voce alta di Tex Willer quando questi pensieri venivano espressi in simil-italiano, figurarsi poi se venivano espressi in ortonese. Purtroppo anche Porcaccio, in barba alle sue origini e ai tanti anni vissuti a stretto contatto con gli ortonesi, per quanto si sforzasse e per quanto tutti si sforzassero di farglielo entrare in testa, proprio non riusciva a comprendere il nostro dialetto e immancabilmente ogni volta rimaneva inebetito come inebetito può rimanere un bambino al quale si dica di sfogliare un trattato di fisica quantistica. Così fu pure quella volta e, preso da un senso di smarrimento totale, Porcaccio non poté fare a meno di dire:

- Certo che tu quando parli è già tanto se riesci a capirti da solo. Che hai detto adesso??

Il tutto, ovviamente, espresso nel purissimo slang di Pietralata e condito da epiteti che qui non possiamo certo scrivere.

La contro risposta di Tex Willer non si fece attendere e si abbatté sul povero Porcaccio come allora  il martello della fucina di Bruno picchiava sull’incudine:

- Cert ca tu si propria tont, n’si rcapit nent manc mò!!

A onor del vero, mi preme qui specificare che al posto della parola “nent” quella sera fu certamente usato un altro vocabolo, più immediato ed esplicativo, più consono alla masnada dei soggetti in questione. Io non lo scrivo e non serve nemmeno che ve ne spieghi la ragione, potete da soli ben capire il perché.

Per fortuna di tutti intervenne il saggio Nerchia che, marpione come sempre, stava già pregustando il seguito della serata. Nerchia si alzò dalla panchina retrostante a quella dove era seduto Tex Willer,  si avvicinò al cugino e,  posandogli indulgentemente un braccio sulle spalle, con una stretta esplicativa e al contempo nascosta ai più, aggiunse  in tono conciliatorio:

- Tranquillo cugì, tutto a posto! Non ti preoccupare di niente, tu pensa solo a starmi vicino e vedrai che tutto andrà bene.

 

L’orologio del campanile li avvertì che, tra una battuta e l’altra, erano già arrivati all’una e molti degli indesiderati avevano già abbandonato il campo sfiniti, più che dal sonno, dalle schermaglie in codice dei nostri amici e, soprattutto, dalla nenia asfissiante che Tony Sgammo, altro degno compare, da subito aveva iniziato ad intonare con l’intento di stancare quelli che erano di troppo e indurli a togliere il disturbo, cosa che immancabilmente poi  si verificava:

“E se te ne vuoi andare a casa vattene a casa. E se te ne vuoi andare a casa vattene a casa.  E se te ne vuoi andare a casa vattene a casa…”

E continuamente così, spostandosi da un punto all’altro della piazza in modo tale che proprio nessuno potesse sfuggire a quel suo martellare ostinato. Tony Sgammo diventava una vera ossessione per tutti e non soltanto per chi avrebbe dovuto andarsene a casa. Cantilenando ciclicamente quelle parole ti stressava al punto che, se non eri bene a conoscenza di ciò che si doveva fare dopo, arrivavi a desiderare di strozzarlo oppure, per quieto vivere, andartene a letto per non sentire più quella sorda tavella.  Quest’arma psicologica funzionava sempre, ma non quella sera. Un paio di irriducibili, infatti, rimanevano ostinatamente in piazza tenacemente intenzionati a proseguire la notte in loro compagnia. E fu per questo motivo che in quell’occasione, per riuscire nel loro intento e come extrema ratio, fecero ricorso al subdolo e definitivo espediente denominato: “E adesso tutti a letto”!

Quello che poi avrebbero chiamato Poeta non si fece certo pregare, smanioso di poter finalmente mangiare fu il primo a rompere gli indugi e attaccò a muso duro:

- Beh, lo sai che c’è? Oltre che fame mi è venuto pure sonno e perciò vi saluto e me ne vado a casa. Buonanotte!

- Allora andiamo a letto pure noi! 

Si affrettarono a dire Porcaccio e Nerchia che, rivolgendosi al Poeta, aggiunsero poi un disinteressatissimo e, conoscendo i soggetti, a dire poco strano:

- Non ti preoccupare, questa sera ti accompagniamo noi a casa.

E’ a questo punto doveroso spiegare una cosa che forse non tutti sanno. Quello che poi avrebbero chiamato Poeta, quando nottetempo se ne tornava a casa, all’epoca dei fatti amava ancora farsi accompagnare da qualche amico per avere così l’opportunità di scambiare un’ultima battuta e/o impressione sulla giornata appena trascorsa e aver poi la possibilità di trovare lo spunto o l’ispirazione per le sue opere future. Questa spiegazione, che è l’unica e la vera, è però osteggiata da più di qualche malalingua che sostiene invece come il Poeta fosse allora un tantinello fifone e, suggestionato dalle tante e tante storie di cui era a conoscenza (…Zampa-Zampa…La bantasma…La casa d’i cont…), avesse allora qualche problemino a rincasare da solo, ma io che lo conosco molto bene ribadisco invece che si tratta soltanto di bassissime insinuazioni. Detto questo, si capisce bene come non avesse destato il benché minimo sospetto il fatto che allora i due cuginetti si fossero offerti, con purissimo slancio di assoluta  amicizia, di fare compagnia al Poeta nonostante che la casa di quest’ultimo si trovi in fondo a Via Piano mentre la loro sia in Via Roma e quindi, se si parte dalla piazza, ciò equivale ad affermare che neanche per sbaglio ti potrà mai capitare di dire che: “Tanto siamo di strada”. Ma la comune meta segreta doveva essere raggiunta ad ogni costo, ed è per questo stesso identico motivo che Tex Willer, pure di Via Roma, si allontanò in direzione della vecchia farmacia, ossia dalla parte diametralmente opposta a casa sua, seguendo Tony Sgammo con la scusa di dover andare da lui per prendere quel libro di cui aveva tanto sentito parlare e che doveva assolutamente leggere a partire improrogabilmente da quella notte stessa; ed è giusto farvi sapere che Tex Willer, senza prima aver letto un buon libro, proprio non riusciva a prendere sonno.

In conclusione, dopo un ampio sciorinare di buonanotte, ognuno si incamminò verso casa facendo inequivocabilmente capire in questo modo che la serata doveva considerarsi conclusa; con buona pace di quegli irriducibili intrusi che avevano captato che in pentola, ed è proprio il caso di dirlo, ci fosse in realtà ben altro.

Adesso farei un’offesa all’intelligenza di chi legge questa storia se mi soffermassi a spiegare che il trio di Via Roma in realtà si affrettò ad infilarsi nelle vie che portano al cuore del paese, tutte tra loro collegate come in un formicaio, per poter poi facilmente raggiungere, attraverso un percorso alternativo fatto appunto di ruve e di ruvelle, la loro meta di quella notte che era la cantina di Sbattilana II il quale li aveva preceduti e li stava aspettando già da un pezzo.

Il nostro amico Sbattilana II era il secondo di tre fratelli e sicuramente dei tre quello con tutte le carte assolutamente in regola per far parte di quel ristretto gruppo. Scapestrato al punto giusto, era con loro e spesso più di loro pronto a fare e a strafare. Insomma non aveva nulla a che vedere con Sbattilana III che era il minore  dei tre, e soprattutto con suo fratello maggiore, Sbattilana I che era proprio un sant’uomo e che, come già detto, era stato soprannominato l’Infermiere anche per quella sua particolarissima capacità di tenere a bada quella banda di giovani scalmanati.

La cantina degli Sbattilana, accogliente, fresca e soprattutto molto ben fornita, spessissimo aveva placato la loro fame (…e la loro sete!) e se non possiamo certo affermare che venisse visitata tutte le sere, senza sbagliare possiamo certamente dire che lì si riunivano con rigida cadenza bisettimanale. Rifornita ogni venerdì sera dal legittimo proprietario, il buon Mario Sbattilana senior, in questa cantina trovavano letteralmente pane, e soprattutto companatico, per i loro denti. Provenienti dalla generosa tenuta di Pozzogiallo, venivano messi a loro disposizione sia i freschi frutti della terra, pesche, albicocche, uva, meloni, angurie, che i profumati salumi e i saporiti formaggi prodotti grazie agli animali allevati in quella fertile contrada. Ovunque si posasse, il loro sguardo incontrava tante e tali bontà che erano pura libidine per i loro sensi: dalla vista all’olfatto per chiudere poi in gloria col gusto. Ogni cosa era degna delle loro affettose attenzioni…cioè, volevo scrivere “affettuose” attenzioni. Ma su tutto e tutti, posizionata sul suo trono incastonato in una capiente nicchia scavata nella  pura roccia, regnava incontrastata Lei: la botte in rovere da 100 litri, piena  di buon vino sincero e fresco. Nel corso di quelle loro riunioni, Lei copiosamente elargiva il suo nettare pregiato ogniqualvolta ne sentissero il bisogno e l’unica fatica che dovevano fare era quella di avvicinarsi a Lei e, inchinandosi con ossequioso rispetto, aprire delicatamente il generoso rubinetto, “la caula” per gli intenditori, e goderne. Ovviamente non serve specificare che né Sbattilna I alias l’Infermiere, il quale solitamente andava a letto dopo aver recitato le orazioni vespertine e a quell’ora quindi dormiva  il sonno del giusto dovendo l’indomani dedicarsi anima e cuore alle sue sudate carte (…ah, se tutti avessimo seguito il suo santo esempio!), né tantomeno l’ignaro Mario Sbattilana senior potevano minimamente immaginare cosa succedesse nottetempo nella loro cantina. Tanto è vero che il buon Mario, quando nel settembre successivo andò con l’intenzione di infiascare il suo vino munito di cinquanta fiaschi da due litri cadauno, rimase, diciamo così, molto sorpreso nel constatare che Lei, la sua amatissima botte in rovere da 100 litri, riuscì ad essere a malapena sufficiente per la metà dei fiaschi che lui aveva preparato nell’assoluta certezza di poter riempire. In particolare, poi, quella famosa sera a godere abbondantemente del nettare “di-vino” fu l’amico Nerchia il quale, come già ho specificato in altre pagine, oltre alle sottane non disdegnava affatto nemmeno gli amorosi incontri con Lei che, sebbene donna non fosse, alla stessa stregua di una donna veniva da lui trattata, con carezze e baci, ammiccamenti e languidi sguardi, sospiri e furtivi cenni. Amoreggiò così tanto quella notte con Lei che quando all’alba del giorno nascente fu necessariamente riaccompagnato a casa per sua manifesta incapacità di intendere e di volere (pensate un po’, era convinto che casa sua fosse su alla Torre!), continuò, lungo tutto il tragitto, a sbiascicare queste parole:

- Amo la botte! Amo la botte!

E suo cugino Porcaccio che per un braccio lo sosteneva, un po’ a causa di quello sbiascicare e un po’ mettendoci del suo, continuava a non capire e gli ribatteva convinto:

- Si, Nerchiè,  diamo le botte!

E poi, rivolgendosi a Tex Willer che era l’altro portatore, con sguardo smarrito e con meno convinzione aggiungeva:

- Ahò, ma tu hai capito a chi le dovemo dà ‘ste botte??

E si, proprio così stavano combinati!

Stranamente, ma per fortuna, Tex Willer quella specifica notte si era mantenuto abbastanza lucido e perciò, nonostante l’ardua prova cui venne sottoposto dalla premiata ditta Porcaccio&Nerchia, riuscì nell’impresa di riportarli a casa sani e salvi. Nel fare questo, però, non gli si può certo rimproverare di aver loro indirizzato, in ruvido dialetto ortonese, una frase di commiato pronunciata nel momento in cui richiuse il portone della loro casa e che fu più o meno questa:

- Camina- camì! Jetv a colca…i vaff(!) a sorda!!!”

 

Con i nostri amici a fare ognuno la pace con il rispettivo letto, si concluse così anche quella gagliarda notte. E mentre l’operosità degli ortonesi già rumoreggiava tra le antiche ruve e la luce del nuovo giorno da qualche ora ormai solleticava Ortona, in piazza la nostra amatissima Clelia attendeva impassibile e paziente come sempre, con la certezza di assistere ad una nuova e memorabile giornata.

 

(continua…forse!)

                                                                                                                                                       Vincenzo Buccella