vi racconto
Ci sono certe storie, così stufe di rimanersene impantanate nell’inchiostro di una penna, che necessariamente, prima o poi, vanno a finire sopra un foglio. Sono storie queste che sbuffano e premono fino a quando qualcuno, stanco forse del loro lamentarsi, non le libera dalla loro prigionia e le porta finalmente alla desiderata luce. Questa è una di quelle storie. Agli inizi degli anni sessanta era come se il futuro, bello e possibile, fosse lì in attesa di essere dolcemente vissuto. Era come se ogni traguardo potesse essere raggiunto e facilmente superato, la nave andava col vento in poppa e ogni cosa sembrava girare per il verso giusto. Disoccupazione, licenziamenti, disagio sociale, crisi, erano concetti che quasi non ci appartenevano, erano parole buone solo a riempire i vocabolari. Chi ha avuto la fortuna, o la sfortuna, di nascere in quegli anni, di quegli anni ha assorbito tutto quel senso di spensierato entusiasmo che li ha coccolati a lungo salvo poi svegliarli dal saporito torpore e metterli davanti ad una realtà ben diversa da quella che loro mai si sarebbero aspettati di dover affrontare. Alcuni appartenenti a questa categoria di persone, all’epoca giovani spensierati, a metà degli anni settanta erano soliti ritrovarsi a vivere la loro estate tra le viuzze di un paese che si trova nel cuore della Marsica, dolcemente sospeso tra favola e realtà a 1050 metri s.l.m. E’ inutile dire che a questi ragazzi, in quel periodo della loro esistenza, dei problemi di cui prima abbiamo velocemente parlato non importava un benemerito fico secco e non poteva essere altrimenti, impegnati come erano a fare di ogni loro giorno un indimenticabile giorno. Non che le loro ore trascorressero in modo radicalmente differente e più emozionante di quelle vissute da chi li aveva preceduti nel tempo o di quelle di chi li avrebbe poi sostituiti in futuro; ma quelle erano le loro ore, quelle erano le loro estati e sicuramente sarà per questo motivo che non le hanno mai dimenticate. Erano tanti quei ragazzi. Alcuni furono delle semplici comparse, non per l’importanza della loro persona ma per il fatto che vissero insieme solo alcune di quelle stagioni e di loro si ricordano a malapena i nomi che però non credo valga la pena qui di menzionare. Altri, invece, sono stati i veri protagonisti di questa storia. Sono personaggi che, come si usa dire, hanno avuto il loro determinante peso nella vicenda, ancora lo hanno e per sempre lo avranno. Di loro, per pudore, non dirò il vero nome ma il soprannome, seguendo così l’usanza ancora viva di quel paese. Eccoli dunque: Tex Willer, i cugini Porcaccio e Nerchia e per ultimo, posto che giustamente gli compete, quello scassazebedei che poi avrebbero chiamato Poeta. Di quello che poi avrebbero chiamato Poeta, oltre al fatto che era uno scassazebedei, c’è poco altro da dire o meglio ci sarebbe molto ma, in nome della datata amicizia che a lui mi lega, preferisco non infierire e lasciare ad altri il compito di servirgli quanto si merita. Tuttavia, solo per far meglio capire a chi legge quale anima contorta fosse quella di chi poi avrebbero chiamato Poeta, dirò soltanto che questi era sempre pronto con le sue presunte poesie in stucchevole rima baciata a mettere alla berlina il malcapitato di turno. E ci fu un periodo in cui fu quasi sempre il turno di un suo carissimo amico detto l’Infermiere, anima guida di tutto il gruppo, il quale tanto subì che alla fine, non ottenendo risultato alcuno attraverso le minacce verbali, decise di passare a ben più efficaci maniere convincendo così quello che poi avrebbero chiamato Poeta a porre fine a quella saga di rimucole delle quali ora più nulla viene ricordato, tanto che c’è il fondato sospetto che qualcuno ne abbia deliberatamente e definitivamente fatto sparire ogni minima traccia. Quegli scritti però, se la memoria non m’inganna, guarda che strano caso parlavano di un naso. Anche i cugini Porcaccio e Nerchia furoreggiavano in quel paese. Nerchia, dei due, era quello più anziano. A dire il vero non di molto poiché solo un paio di anni lo distanziavano dal più giovane, però questo gli era sufficiente per esercitare sul cugino, ad ogni minima occasione, una sorta di autorità stile pater familias che nessuno aveva mai praticamente sancito, ma che così era perché così doveva essere e tanto bastava a tutti. Assai bellino (ma da non confondersi con altro soprannome di quel paese), elegante nei modi e nell’aspetto, mai banale, con l’aria di chi sa sempre il fatto suo o, se preferite, l’aria di chi si trova sempre al posto giusto nel momento giusto, Nerchia era molto attratto dal genere femminile. Scoprì questa sua passione quasi subito e cioè quando lui e gli altri cominciarono a capire, sulle prime non senza qualche dubbio, che era meno faticoso correre dietro ad una gonnella che dietro ad un pallone, che ci si faceva meno male e soprattutto che era molto, ma molto più divertente. Porcaccio, il cugino giovane, era invece l’esatto opposto di Nerchia tanto che nessuno, che non fosse stato al corrente della loro parentela, mai e poi mai avrebbe detto che i due erano cugini. Differenti in tutto, sia fisicamente che nel modo di interagire con gli altri. Se Nerchia era lo stereotipo del tipo mediterraneo, non altissimo e scuro di carnagione, quasi un chicco di caffè, Porcaccio era invece la viva espressione della pura bellezza nordica, praticamente, novello Sigfrido, l’incarnazione del mito della razza ariana. Ma se così scrivo qualcuno di voi dovrà poi prendersi la briga di tentare di fargli capire quello che con ciò intendo dire e, vi assicuro, questa non sarà affatto impresa da poco. Era alto, slanciato, spalle larghe che sostenevano una maschia faccia squadrata incorniciata da folti e mossi capelli biondi! Sì, avete capito bene, i suoi erano capelli biondi. Però quelli di Porcaccio non erano biondi capelli come quelli di ogni altro normale essere umano, avevano una strabiliante peculiarità: diventavano prodigiosamente biondi esclusivamente d’estate. Per il resto dell’anno, invece, tornavano ad essere di un banalissimo colore castano che non era poi così male, ma gli faceva notevolmente diminuire quel suo indiscusso e carismatico fascino. Nessuno ha mai saputo spiegare a cosa fosse dovuto quello sbalorditivo fenomeno. C’è qualche fervido credente, per esempio, che ha parlato apertamente di miracolo aggiungendo, forse in preda ad una crisi mistica, che Porcaccio fosse, ma solo d’estate, il nostro novello Messia. C’è addirittura chi, ma io credo che in questo caso sia stata l’invidia a parlare, ha sostenuto la tesi che lui fosse giunto a un grado di narcisismo tale da indurlo a tingersi volutamente i capelli di biondo per essere così ancora più fico, anzi, il più fico: è incredibile constatare fino a quale bassezza può spingersi la maldicenza umana. Comunque sia una sola cosa è certa, a furia di cambiare colore, da castano a biondo e viceversa, ora di quei capelli non rimane che un vago ricordo lontano e non è raro trovare un immalinconito Porcaccio mentre, con una sua foto dell’epoca davanti, si strugge al ricordo di ciò che aveva ed ora non ha più. Dulcis in fundo, Tex Willer. Mettetevi ben comodi e state ad ascoltare. Cominciamo dicendo che di lui, quello che poi avrebbero chiamato Poeta, ha parlato con dovizia di particolari in numerosissimi scritti e chiunque, qualora fosse interessato, può consultare i testi facendone richiesta al Poeta di cui sopra. Tex Willer era un personaggio unico e qualche maligno, non certo io, potrebbe aggiungere “fortunatamente”. Era fisicamente massiccio, non grasso ma pensante…cioè volevo scrivere pesante, ovviamente. Così pesante che alla fine non lo reggeva proprio più nessuno. Tanto pachidermico nelle sue movenze quanto leggiadro nel suo modo di allietare la compagnia, infatti era indiscutibilmente lui il più simpatico di tutti. Sono da ricordare, per esempio, le sue imitazioni di vari personaggi televisivi, mitica quella di L. Buzzanca, oppure le parodie di alcuni nostri paesani (…ieva tanta bella, …scanza s’cassarlit ca snnò m’affog, ecc.) i quali non sanno che proprio grazie a lui sono così passati alla storia. Tex Willer, in quegli anni, non ha fatto di tutto, ma ha fatto di tutto e di più. Tanto che la RAI è proprio a lui che si è ispirata per quel suo famoso spot pubblicitario. Era lui che, quando l’età non permetteva ancora a tutti di guidare un’autovettura, solitamente si spostava da un paese all’altro viaggiando non dentro ma fuori della macchina e cioè, a mo’ di pacco, con i piedi sul paraurti posteriore e le braccia distese sul tettuccio. Era lui che rimaneva incastrato, metà corpo dentro e metà fuori, tra le chiudenti porte a soffietto di un treno già in movimento, con conseguente ritardo della partenza dello stesso e immancabile cazziatone da parte dell’incredulo capotreno. Era sempre lui che a Roma, entrando in una pizzeria di Via Appia Nuova, con tono e piglio autoritario ordinava “mille lire con la scamorza...!” intendendo, con il termine scamorza, riferirsi alla bianca mozzarella. Superfluo aggiungere che il gestore della pizzeria, sua moglie, la loro bella figliola, tutte le commesse di un supermercato che era di fianco, il fruttivendolo di fronte e quello che poi avrebbero chiamato Poeta, stanno ancora adesso ridendo e lontanissima è l’ora di smettere. Per la cronaca è doveroso anche dire che, oltre a quelli già nominati, fanno parte di questa elite anche altri due personaggi dei quali però, per motivi che non stiamo qui a discutere, non mi è concesso farvi arrivare notizia alcuna, essendo una loro categorica volontà il non voler rivelare al mondo quale bella faccia si nasconde dietro alle loro azioni del passato. Posso solo aggiungere che personalmente non condivido un tale riserbo, sia perché quanto di loro avrei da dire non è cosa di cui vergognarsi e sia perché direi di loro cose che, più o meno, già tutti sanno. Insomma, se potessi farlo, non renderei di dominio pubblico nessun dossier compromettente, ma mi limiterei solo a colorire un poco quello che è il segreto di Pulcinella. Peccato, loro perdono un’occasione per dimostrare di saper sorridere di se stessi ed io, che non parlerò di loro, non posso far altro che rispettare la loro decisione ed esternare il mio pensiero in merito: soltanto le persone importanti, e per me loro indubbiamente lo sono, diventano l'oggetto della caricatura e della satira. Tutti gli altri, gli impalpabili, gli insignificanti, i senza storia non avranno mai il privilegio di sostenere il peso della propria grandezza. La ristrettezza di vedute e la paura dell'altrui giudizio, come sempre, entrano in conflitto con la libertà e la cultura del saper mettersi in gioco. Ma torniamo a noi e alla nostra storia. I nostri quattro amici, chiuse le scuole ed iniziate le vacanze estive, si ritrovavano al loro paese e stavano insieme praticamente notte e giorno dagli inizi di Giugno alla metà di Settembre, precisamente fino al giorno otto quando una fantasmagorica festa, che è “la festa assoluta”, sanciva la fine dell’estate e li separava per un anno, costringendo chi a ripartire per la città chi a rimanere a vivere i quel paese, ma tutti da quel momento iniziavano a contare i giorni che li separavano dal loro successivo incontro. Va da sé che, vivendo quasi allo stato brado per così tanto tempo, già alla fine di Giugno il loro modo di agire ricordava solo vagamente quello normalmente in uso tra le persone civili e sembravano essere, se non proprio come animali tra altri animali, qualcosa che agli animali molto li avvicinava. E dicendo questo non esagero più di tanto. Le loro giornate trascorrevano serene tra il flipper del bar Melone, interminabili partite di ping-pong e clamorose sfide a briscola-tresette-briscola che solo alcune volte prendevano vita ai tavoli di Mastr’Alfonso e molto più spesso, invece, si svolgevano dietro alla vecchia scuola. Lontano da occhi indiscreti qui si ritrovavano per pianificare le loro scorribande, seduti sui larghi muri di cinta o sulle tettoie di eternit ondulato, chi più in basso e chi più in alto, come tanti gatti acciambellati al sole e, ciò che più a loro importava, al riparo da presenze sgradite. E’ da quello spazio appartato dietro la scuola, loro vero e proprio covo, che hanno preso il via la maggior parte delle loro avventure, alcune volte scaturite dalla voglia di dare una risposta forte alla noia che li infastidiva e molto più spesso, invece, nate dalla necessità di trovare una valvola di sfogo alla loro comune e incontenibile esuberanza giovanile. Ed è proprio questa iniziale fase progettuale che fa comprendere appieno tutta la forza esplosiva che c’era nel miscelare in un unico gruppo l’infinita fantasia di pensiero di alcuni e la meravigliosa immediatezza di azione di altri. Bastava che uno di loro, per indole solitamente Nerchia o quello che poi avrebbero chiamato Poeta, tirasse fuori una mezza idea sul da farsi che già Tex Willer e Porcaccio, nati per agire, si erano messi in moto dando materialmente il via ad una nuova avventura che coinvolgeva tutti. Avventure che saranno pure state poca cosa se confrontate con quanto gli adolescenti di oggi riempiono le cronache, ma che erano sicuramente degne di nota se le vediamo con gli occhi dei quindicenni di allora. Ecco, questi sono i personaggi della storia che sgomita nell’impazienza di farsi conoscere. E’ una storia molto speciale, dove i personaggi non sono delle semplici figure che si muovono all’interno di essa, ma sono i veri protagonisti. Quelli che c’erano quando insieme abbiamo vissuto i momenti importanti, spesso ridendo oppure condividendo un qualche dolore. Come pezzi unici di un tesoro inestimabile, questi ex-ragazzi sono quelli con i quali ho avuto la fortuna di camminare per un lungo tratto di strada, e loro stessi sono la mia storia vera. Per adesso, però, credo che quanto di loro ho raccontato possa bastare e quindi, non volendo annoiarvi più di quanto già fatto, vi rimando ad una probabile e futura puntata…
(Continua…forse!)
Vincenzo
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