Prefazione
Questa raccolta di leggende è nata così. L’inverno, nei paesi accoccolati fra le alte montagne della Marsica è molto dissimile dall’inverno in riviera. Non permette, nelle sere di neve e di tormenta, troppo facili o assidui rapporti col mondo; tende anzi a costringere ognuno a far della sua casa il mondo. Attorno al camino dalla fuligginosa cappa, dove ardon con lento e lungo crepitare i ceppi di quercia o di mandorlo, ognuno si stringe con un senso di godimento o di pace, ma rimane legato invisibilmente ad un suo sogno interiore che persegue pur se gli occhi sono intenti alle volute della fiamma o l’orecchio presta ascolto ai discorsi degli altri…Gli altri nel mio caso: il fratello che legge il giornale e commenta, di quando in quando, gli avvenimenti politici; il babbo che narra alle nipotine vecchie favole, racconti di un tempo lontano, quando gli orsi ed i lupi vagavano nell’abitato spinti dalla fame, e vivevano, nella credulità del popolino maghi e streghe; le nipotine che ascoltano.
Le vecchie storie fanno una presa tenace sull’animo dei fanciulli, ma ne fanno una più tenace ancora su quella degli adulti. I fanciulli, nulla sanno della vita e credono; gli adulti tutto sanno della vita e non sperano più. Hanno dentro il cuore il peso doloroso dell’esperienza, e l’esperienza non è che amarezza. Ma quando qualcuno riapre innanzi ad essi i viali dei sogni ecco che essi vi si cacciano con la furiosa gioia di un tempo, perché l’ultima cosa a morire nel cuore di un uomo, più che la speranza è il sogno.
Mio padre narrava a me nei lontanissimi giorni della fanciullezza, le stesse storie che oggi narra alle mie e sue nipoti. E le favole, come gli affetti, saldano prodigiosamente le generazioni fra di loro: quella dei capelli bianchi a quella dei capelli grigi ed quella dei ricci di seta.
Da tempo e tempo io pensavo di raccogliere in un volume le leggende della mia terra marsicana. Me ne avevan fatto nascere il desiderio i volumi del Wolff sulle Dolomiti, quello dello Zoppi sul Ticino e quello dell’Ugolini sulla Maremma. Ma per quanto io avessi chiesto e cercato nulla io avevo scoperto che potesse rassomigliare ad una leggenda. Non aveva saputo chiedere o non avevo saputo intendere, intuire, insistere?
Una sera che la neve cadeva giù col proposito di dare alle case, agli alberi ed ai monti una coltre spessa un buon metro in una sola notte, e che non era possibile neppure aprire l’uscio senza che subito l’atrio fosse coperto di fiocchi bianchi, m’avvenne di prestar più ascolto del solito alle storie che il babbo narrava a Nives, Anna ed Immacolata, che lo guardavano con due occhi attoniti e con anime vigili. Narrava il babbo la beffa che zio Antonio, spirito simpatico di burlone giuocò alla morte tenendola prigioniera per dieci anni su un fico ed a San Pietro per restare in Paradiso dopo essere stato in vita giocatore e bestemmiatore incontinente.
Così come la narrava il babbo, la storia mi parve notevole perché la versione era totalmente diversa da quella con cui la storia di Zi Antonio o Mostaccio, o zio Basilio si narra in Romagna, in Calabria, nel Veneto, in altre province dell’Abruzzo stesso: poteva essere dunque una leggenda marsicana.
Se però la leggenda dell’ameno e furbo Zi Antonio si era tramandata intatta nei tempi nell’elaborazione fatta dal popolo, per altre leggende occorreva tutto un lavoro di ricerca perché era evidente il loro attuale stato frammentario.
Ma spinto dal desiderio di tradurre in volume l’antico mio pensiero, non solo io venni notando quanto mio padre conosceva, ma venni interrogando vecchi pastori, vecchie popolane, di quelle che, malgrado i loro ottant’anni, trascorrono ancora le lunghe notti d’inverno nelle tiepide stalle in crocchi di amiche a filar la lana a lume delle fumose lucerne ad olio ed a raccontar storie di cavalieri, di briganti e vecchi cacciatori…
E di bocca in bocca le stesse storie acquistavano significati diversi, sviluppi più o meno interessanti. Se non avevo le leggende marsicane belle e pronte avevo ormai tanti elementi da poterne ricostruire una dozzina, originali tutte, perché diversissime da quant’altre hanno con esse in comune il fatto, e certo composte tutte con accenni ad avvenimenti ed a circostanze tipicamente locali.
La “Leggenda del lago sfondato” si narra oltre che in Abruzzo anche nel Ticino, e l’hanno raccolta Giovanni Panza e Gennaro Finamore nei loro dotti e densi volumi di folk-lore, ma è dissimile da quella che si riferisce alle origini di Ortona ed è stata da me ricostruita su pochissimi frammenti.
La “Leggenda del biancospino” non ha nulla a che vedere con quella che si narra in Calabria per la quale la Madonna avendo steso sui rovi i pannolini del suo divino figliuolo li avrebbe visti coprirsi di fiorellini.
Io potrei ripeter quello che ha scritto lo Zoppi nelle sue leggende del Ticino. “Sì, anche le leggende più sicuramente belle era necessario rifarle da cima a fondo. Nessuna di essa nella sua forma originale comprendeva più di venti o trenta righe: questa mancava del principio, quella della fine, erano insomma meno di uno scheletro. Bisognava farci rientrare la vita, riporle nel paesaggio ove eran nate, ricrearne i personaggi con qualche precisione di linea e giustezza di psicologia, e poi ritrovarne, per narrarne, un’anima semplice che non rifuggisse dal meraviglioso, né dall’anacronismo, né da quell’aura generale di candore che la leggenda richiede. Lavoro non sempre facilissimo, ma sempre appassionante, soprattutto perché conduce a collaborare con l’anima vergine del popolo, a sentire insieme con mille cuori, a sognare con mille fantasie.
Non altrimenti io credo nella profondità degli evi, i primi poeti della gente che diedero forma d’arte ai racconti che circolavano in folla sulle labbra degli uomini”.
L’aver vissuto con più intenso amore nel cuore della mia casa ad ascoltare vecchie storie – e poiché la voce che le narrava ad altri bimbi era la stessa che lo aveva narrate a me fanciullo ecco che tutta la mia fanciullezza mi ritornava incontro e con essa l’immagine della povera mamma che non è più l’angelo tutelare della casa e dei figli perché dorme sotto una bianca pietra ed a lei forse giunge l’accorata voce di tutti noi che restammo a rimpiangerla – mi ha dato un riaccostamento maggiore alla poesia della casa ed al conforto della famiglia, come l’aver vagato, l’aver vissuto tra i pastori ed i popolani, mi ha dato un senso maggiore di comprensione, di tenerezza direi delle mie montagne e della mia terra.
Sono lieto di questa esperienza che ha saputo nel mio spirito scoprire vie più profonde per giungere all’amore della bellezza che nasce delle cose umili, pure, eterne.
Mentre io ricercavo queste storie per ritesserle e portare, pur se esiguo, il mio contributo al fiume della letteratura folkloristica ho trascorso una notte nella capanna di alcuni pastori sulla montagna. Io non dimenticherò più quel senso di eterno che a me piovve dal cielo nell’alta notte.
Tutto era intorno silenzio.
Entro gli stazzi dormivan, muso a muso le pecore; nella capanna il mandriano più anziano ravvolto nel suo mantello di lana bianca, seduto al suolo con le gambe incrociate come usan gli arabi nelle moschee, aveva un che di sacerdotale.
Narrava di filtri e di magie, di santi e di paladini, di guerrieri e di streghe con una convinzione profonda che nasceva dalla purezza e dalla schiettezza del suo cuore.
Per lui non v’erano che due forze nel mondo: quella del bene e quella del male impersonate inequivocabilmente nell’angelo e nel diavolo.
Niente libero arbitrio: ma precisa “ananche” (necessità) a cui nessuno può sottrarsi. I pastori intorno a lui ascoltavano con una riverenza devota. In alto, nella notte di giugno, lucevano le stelle. S’udivano scrosciare intorno i rivi che recano nelle loro acque il sapore delle nevi.
E l’anima era dentro di noi tersa e lucente come un cristallo. Le passioni della vita, la febbre della vita s’erano dileguate dinanzi al silenzio in quella solitudine.
Tutti i desideri erano spenti, tutti gli istinti soffocati. Se quel mandriano che narrava con accento così profondo convincimento le storie miracolose di Gesù e degli Apostoli ci avesse fatto assistere ad un fenomeno di levitazione si sarebbe gridato al miracolo. Quando l’anima è così chiara tutto è possibile.
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A chi, più e meglio che a mio padre io avrei potuto dedicare queste leggende della mia terra?
Egli fu che me le narrò un giorno facendo un dono di luce e di poesia alla mia fanciullezza; riudendole da lui m’è venuto il desiderio di scriverle, di rielaborarle, ricostruendole. Son quindi prima che mie sue, e prima che sue son della nostra Marsica a cui siamo legati da un affetto ultra secolare che è rimasto fedele malgrado vicende non liete occorse alla mia casa, che fu due volte saccheggiata, ed alla mia famiglia. Ma alla terra, alla terra dei propri padri e dei propri morti si vuol sempre bene: un bene che non è soggetto al variare delle umane vicende: un bene fatto di amarezza e di dolcezza infinita, di poesia e di sogno: un bene che, se ci allontaniamo, ci spinge a ritornare anche se, quando siamo ritornati, siamo scontenti e insoddisfatti.
Ma il bene per la propria terra così è.
Ho escluso dal volume quelle leggende che son comuni a tutte le regioni d’Italia e che non presentano caratteri nettamente nostrani: quelle che offre in questa prima raccolta non figurano, che io sappia, in nessuna raccolta del genere; segno questo che nessuno ne intravide la bellezza e la gentilezza o segno che esse erano restate nascoste nel cuore dei nostri monti e del nostro popolo, come certe pissidi sbalzate, certi antifonari miniati che ancora empiono di una luce d’arte qualche erma chiesa, sfuggiti chi sa come, alle mani rapaci degli antiquari.
Ortona dei Marsi – Primavera del 1935