L’ARTE DI ARRANGIARSI

Saper vivere la vita con le poche cose che essa ti mette a disposizione

 

Sono gli anni della seconda guerra mondiale. Nella cucina di una casa ortonese, affaccendata davanti al camino c’è una donna che, di tanto in tanto, fa ruotare un cilindro di metallo sospeso sulla brace. E’ un gesto lento e monotono, come gli interminabili mesi trascorsi tra i disagi e i timori imposti dalle circostanze, e paziente, come l’attesa fiduciosa di qualche notizia sui cari dal fronte o, magari, sulla fine imminente del conflitto. Tra questi pensieri e una supplica alla Madonna della Villa, nel contenitore sta tostando una miscela di ceci e orzo che, appena pronta, userà al posto dell’introvabile caffè. Nella dispensa manca anche lo zucchero, ma si può rimediare. Infatti, mette a lessare sul fuoco delle barbabietole, così potrà usare l’acqua che rimane per preparare il caffè. La bevanda non avrà certo un sapore delizioso, ma servirà a interrompere per un po’ l’angosciosa serie dei pensieri con una pausa ristoratrice per il corpo e la mente, un tocco di dolcezza in un momento amaro.

Questa scena di vita domestica è stata rievocata grazie a una testimonianza scaturita durante una piacevole conversazione di fronte ad un caffé.

Il confronto tra il caffé degli anni della guerra, che si poteva chiamare così più per abitudine che per corrispondenza con la realtà, e quello odierno, ricco di decine di varietà e servito con cura insieme a ogni tipo di prelibatezze, ha suggerito una riflessione su come l’”arte di arrangiarsi” ha accompagnato la storia degli ortonesi.

La necessità, come si dice, aguzza l’ingegno e, soprattutto, il sapersi adattare anche alle situazioni più difficili. Quelle che Ortona ha vissuto sono legate alla povertà, in particolare quella nata dai periodi di guerra insieme a tutte le altre tristi conseguenze, ai piccoli e grandi disagi legati alle necessità della vita quotidiana.

Nella cultura contadina, come si sa, del maiale non si butta niente, ma nei periodi in cui era necessario fare economia questo principio si è applicato anche ad altre situazioni.

Ad esempio, la cenere del camino non andava gettata, perché serviva per fare il bucato. Chi ricorda la fatica che richiedeva portare i panni al fiume, sottoporli alle varie fasi del lavaggio e infine riportarli asciutti, ne ricorda anche il bianco particolarmente splendente, proprio grazie a quei trucchi di chimica casalinga.

Un’altra cosa di cui non bisognava sbarazzarsi erano le pezze inutilizzate, perché con esse si confezionavano delle calzature, i’ pdél. Si cucivano saldamente insieme fitti strati di stoffa, in maniera da formare una suola resistente, per quanto possibile, all’usura e all’acqua. Era anche un passatempo per le donne riunirsi per fare quattro chiacchiere mentre si lavorava per rinforzare le suole con altri strati in vista dell’inverno.

A proposito di tessuti, per spezzare la monotonia di una tinta della lana sempre uguale si poteva sfruttare, nella filatura, il vello delle pecore nere.

Neppure i piatti rotti si buttavano via, visto che si poteva rimediare: c’era chi sapeva riunire i pezzi con una specie di punti metallici, senza intaccare, così, il patrimonio delle suppellettili domestiche.

Cercare di sopperire alla carenza di beni e di servizi comportava, soprattutto, una grande fatica fisica, come quella che sperimentava chi era costretto a fare a piedi il tragitto fino a Pescina o, addirittura, a Sulmona per procurarsi qualcosa che a Ortona era irreperibile.

Ancora fatica e spirito di adattamento era quello di chi partiva come lavoratore stagionale per le vigne dei Castelli romani e, per risparmiare sulle spese dell’alloggio, condivideva con numerosi paesani una sola stanza in cui dormire. Nei momenti dell’emigrazione, che tanti ortonesi ha portato lontano dai confini della patria, c’è stato chi si è sottoposto al non piccolo sacrificio di adattarsi a dormire, addirittura, nei loculi del cimitero, pur di far fruttare maggiormente i già grandi disagi e spedire un po’ di dollari in più a casa. Lì, nel frattempo, le donne avevano dovuto trovare le energie per svolgere, contemporaneamente, anche i compiti dei capifamiglia assenti. Inoltre, le difficoltà mettevano alla prova anche l’inventiva dei bambini, costringendoli ad utilizzare solo la fantasia e qualche semplice oggetto trovato in casa o per strada per poter giocare, in modo da sopperire all’impossibilità di avere giocattoli già pronti. Se non è questa arte di arrangiarsi...

Questi sono solo alcuni esempi degli innumerevoli che si potrebbero raccogliere attingendo ai racconti e alle testimonianze di chi ne ha memoria.

Se è vero che affrontare le difficoltà, alla lunga, tempra e fortifica, sembra proprio che lo spirito di adattamento che gli ortonesi hanno tanto praticato abbia impresso un segno nel loro patrimonio genetico, visto che oggi sono così longevi e tanti di loro rimangono tenacemente attaccati alla vita fino ad età che altrove sono eccezionali. E anche allora, quando la forza della memoria si è ormai affievolita, ad un cenno i ricordi di quei momenti riaffiorano con una freschezza straordinaria dalla nebbia che avvolge tutto il resto, come se i sacrifici e le privazioni patite li avessero impressi a fuoco nella mente.

E oggi si pratica ancora a Ortona l’arte di arrangiarsi? Sicuramente non come nel passato, ma forse in un altro senso, se vogliamo definire così il profondo legame degli ortonesi con il loro paese, al quale continua a unirli nonostante i servizi a disposizione che si vanno assottigliando, i figli che vivono troppo lontano dai genitori per poter essere d’aiuto, un altro paesano dei non molti rimasti che se ne va, la desolazione di fronte a un’altra casa che si chiude.

E in fondo è “arte dell’arrangiarsi” anche quella di chi, lontano da Ortona, cerca di sopperire alla distanza scorrendo le pagine di un sito internet!

 

Anna La Torre