IL FORNO DI UN TEMPO

Il pane, un alimento, un valore, rappresenta la nostalgia di un tempo perduto

 

Il pane è sicuramente l’alimento principale nei nostri pasti. E se lo è oggi, ancor di più lo è stato nel passato, quando il companatico era un lusso ed era già tanto che si potesse avere una pagnotta di pane da mangiare. I nostri nonni e nonne ortonesi lo sanno bene e non perdono occasione per ricordarcelo. E anche oggi il pane, prima di essere un alimento, è un valore; rappresenta la nostalgia di un tempo perduto che pur sopravvive nei piccoli paesi, come la nostra Ortona, e che i giovani, nati nelle città stanno pian piano riscoprendo e apprezzando perché alla fine è la “pagnotta” che trasmette certezze.

 

Ma il pane non nasce dal nulla. E’ il risultato di un lungo processo di lavorazione che richiede fatica, sacrifici, pazienza.

 

Un processo che nasce nella zolla perché é lì che il chicco di grano trova il proprio alveo naturale in cui attecchire, fare le radici, dar vita ad una, mille spighe, e dunque moltiplicarsi. Saranno poi tutti quei chicchi di grano, ottenuti attraverso un altro procedimento, la trebbiatura, che portati al mulino e macinati diventeranno farina, l’ingrediente basilare per poter preparare il pane.

 

Ad Ortona il grano riposto nei sacchi dopo la trebbiatura, veniva lavato nel vascone, poi messo su dei panni (coperte molto grandi) stesi proprio sul piazzale o dove stava prima l’asilo per farlo asciugare. Una volta asciutto lo si portava al mulino per farlo macinare e poi si conciava (si pettacciava) la farina. La crusca veniva passata una seconda volta al setaccio con maglie più grandi e con questa farina si facevano le sagne nere o una pagnotta scura (il banettino), che sarebbe il pane integrale di oggi, che nessuno voleva mangiare.

 

Per la preparazione e cottura del pane era in uso un “modus operandi” veramente singolare .

 

La sera le fornaie portavano ad ogni persona che doveva fare il pane, denominata “soccia”, un piatto di lievito che generalmente veniva riposto nel “cascione” (la madia). E da ogni persona prendevano la legna, una fascina, necessaria per alimentare il forno a legna, offerta secondo la disponibilità di ciascuno.

La sera quindi la farina già passata al setaccio veniva disposta a mo’ di nido e dentro ci si mettevano le patate squagliate e il lievito e poi si impastava il tutto e lo si metteva a lievitare. E come auspicio per la buona riuscita su questa pasta messa a lievitare si faceva, con il coltello, il segno della croce. Le patate per il pane lessate, spellate, talvolta venivano ridotte in poltiglia con la macchinetta che serviva anche per macinare la carne di maiale.

 

Il mattino successivo, verso le tre o le quattro, le fornaie bussavano di casa in casa per dire che era tempo di ammassare ossia di impastare il pane. Allora usando l’acqua calda e dell’altra farina si procedeva ad ammassare, poi l’impasto veniva ricoperto per farlo ricrescere per circa ¾ d’ora o un’ora intera. Poi le stesse fornaie portavano la tavola per consentire a ciascuna signora di spianare il pane ossia per dare all’impasto una forma, di pagnotta o di filoncino; trascorsa un’altra ora circa andavano a riprendersela e la portavano, appoggiandola sulla testa, al forno colma delle pagnotte di pane pronte per essere infornate. E quando il tragitto era lungo le fornaie si alternavano nel portare la tavola lunga all’incirca due metri.

Il forno veniva scaldato almeno due ore prima di infornare e le fornaie riconoscevano, dal colore dei mattoni, la temperatura giusta per la cottura.

 

Prima di infornare esse passavano sul piano del forno con un attrezzo con il quale spargevano la brace e poi la tiravano verso l’apertura; dopo, per pulire i mattoni sui quali poggiare le pagnotte, passavano “i mugn’”, un bastone con alla punta dei rami di erba grossa o uno straccio che veniva bagnato nell’acqua contenuta in un vaso di pietra. Prima di cuocere si faceva l’ardente ossia la fiamma per consentire di far colorare il pane. E dopo circa una o due ore, a seconda di quanto il forno fosse caldo, la fornaia sfornava il pane. Ogni “soccia” veniva individuata da appositi segni di riconoscimento: un bicchiere, un pizzico, un taglio di coltello.

Generalmente prima del pane si coceva la pizza bianca e d’inverno la pizza rossa fatta con la farina di granturco. Il pane restava nel forno per circa un paio di ore. Sfornato veniva riportato sulla tavola alla casa del proprietario. Sulla tavola c’erano circa 15 pagnotte che dovevano bastare per circa 15 giorni. Quando c’era la bufera, molto spesso, erano guai, spesso si portava la pasta da cuocere dentro la “coscina” coperta da panni di lana. Sulla tavola ci mettevano un panno bianco e una coperta a coprire.

 

Questo singolare sistema del bussare di casa in casa è stato usato all’incirca fino agli anni 1945-1950, poi sostituito dal suono della sveglia, che agli orari prestabiliti, interrompeva il sonno ristoratore per avvertire che ci si doveva alzare e dare inizio a tutte le attività di preparazione del pane.

 

Ad Ortona c’erano quattro forni: uno “dai Castejll” nel rione Sant’Onofrio gestito da Casilda e Feliciotta, uno “dai Curnone” gestito dalla Giardina e Lisetta, uno vicino casa di Timode’, gestito da Antonetta, Linuccia e dopo da Brescia e una vicino casa di Salass’ì gestito da Palomma e Chiaruccia. Il più grande era quello sito vicino casa di Timode’, detto il forno di Antonetta dal nome della fornaia principale. Esso conteneva circa 80 pagnotte, gli altri mediamente una cinquantina di pagnotte.

 

Palomma aveva anche la rivendita di pane che veniva pesato con la bilancia a mano.

 

L’utilizzo del forno da parte degli ortonesi non era legato esclusivamente all’appartenenza al rione nel quale si abitava. Spesso dipendeva dall’amicizia e dai rapporti di parentela con le fornaie; e infatti persone che stavano dai Castej’ll si recavano al forno di Antonetta anziché a quello rionale.

Il forno di Antonetta funzionava regolarmente tutti i giorni, e talvolta, se per una giornata non era stato utilizzato, alla sera vi si accendeva una fascina per mantenerlo caldo, poi il giorno successivo si recuperava con due infornate.

 

L’attività di fornaia non garantiva un guadagno buono e sicuro: non c’erano delle tariffe, perché ognuno pagava in base alle proprie possibilità: una, due lire, al massimo tre, oppure mezza pagnotta di pane, talvolta intera.

 

Le persone che facevano il pane e lo cocevano al forno di Antonetta, quando andavano in campagna, portavano una “pignata” riempita con fagioli, ceci, lenticchie per farli cuocere. A metà cottura si provvedeva ad “incresparli”, ossia si prendeva la “pignata” e la si alzava e abbassava a ripetizione per mescolare i fagioli al suo interno senza usare mestoli e poi si aggiungeva dell’acqua presa dalla fontana in piazza per terminare la cottura. La sera, le “pignate” venivano tolte e rimesse a posto e quando tornavano le legittime proprietarie ognuna si riprendeva la sua.

 

Questi forni hanno funzionato fino agli anni 60 quando è stato aperto il Vapoforno. Da allora è diventato questo il forno di riferimento e ognuno doveva portare la tavola all’orario stabilito e andare a riprendersi le pagnotte cotte. Prima di andar via il pane veniva pesato allo scopo di stabilire quanto si doveva al fornaio.

 

In seguito molte famiglie ortonesi hanno cominciato a dotarsi di forno per uso familiare.

 

Il forno naturalmente non era utilizzato solo per cuocere il pane. In concomitanza con le festività natalizie vi si cocevano amaretti e pizze sbattute e in prossimità di quelle pasquali ciambelletti, ciambellati, pizze sbattute e biscotti.

 

Il forno, per lo meno fino all’apertura del vapoforno, non era posto per uomini, era il dominio esclusivo delle donne perché il compito di badare alla casa e di accudire le faccende domestiche e dunque di preparare il pane spettava ad esse.

Dunque il forno costituiva un posto di ritrovo, un ambiente in cui socializzare: nell’attesa che il pane cocesse e venisse sfornato le nostre nonne e bisnonne chiacchieravano, raccontavano le proprie vicende e… quelle degli altri, si accapigliavano, ridevano, scherzavano … e vivevano con semplicità e serenità la loro vita.

 

Oggi per tutti noi è facile recarsi al negozio e comprare il pane: riusciamo a percepire la fatica e l’amore che le nostre ave hanno provato quando dovevano fare il pane?

 

Cerchiamo noi giovani di non perdere questa tradizione. Auguriamoci di continuare a preparare il pane. Certo, nella vita frenetica di oggi, questa può sembrare un’utopia, ma se qualche volta, rinunciando ad altre occasioni di divertimento, per diletto ci provassimo, quest’esperienza potrebbe arricchirci.

 

Tiziana Di Iacovo

 

Le foto riprendono il forno d'Antonetta aperto per Prima Pagina dopo cinquant'anni